Gramsci e la religiosità popolare. Dall’istinto alla coscienza di classe

Alessandra Ciattini

Premessa Presento questo intervento per due ragioni fondamentali, apparentemente inconciliabili, ma che in questa sede cercherò di mediare dialetticamente. Da un lato, l’esigenza antropologica di attribuire un giusto valore alle manifestazioni culturali e religiose proprie dei settori popolari subalterni, comprendendole nel loro contesto e cogliendone il significato latente. Dall’altro, superare - per usare le parole ancora attuali di A.M. Cirese (1976: VIII) - le <>, che negando la possibilità di un’adeguata valutazione delle concezioni del mondo e del loro contenuto di verità, occultano anche il loro essere talvolta espressione di forme di sfruttamento e di marginalità. A mio parere è necessario mediare dialetticamente questi due aspetti della questione “Funzione e valore delle concezioni popolari del mondo” per combattere <> (Ibidem), cui i su menzionati relativismi e attivismi hanno aperto la strada, favorendo l’insorgere di forme sempre più nette di atomismo e di separatezza sostenute dalle più variegate manifestazioni di individualismo assoluto. In particolare, nella sua versione estrema il relativismo sostiene che gli esseri umani vivono in “mondi diversi” e che quindi l’antropologo non avrebbe a che fare con epistemologie o concezioni del mondo diverse, ma addirittura con ontologie differenti (Withehead, 2007). Viene negata così la stessa possibilità di interrelazione tra le società e le culture e misconosciuta l’opera millenaria di trasformazione della natura dispiegatasi secondo alcuni parametri comuni; processi che hanno prodotto la storia umana come scenario nel quale si sono incontrate e scontrate le forze sociali nelle varie fasi storiche. 1. Folclore e senso comune Come ha già mostrato Cirese, la riflessione di Gramsci sul folclore, sulla religione, intesa come <> (MS, 5), sul senso comune, sul buon senso, sulla scienza e la filosofia offre elementi interessanti per affrontare in maniera non riduttiva il problema qui posto. Come è noto, per Gramsci il folclore è <>, implicita in grande misura e propria di determinati strati sociali, che sta <>. A suo parere si tratta di una concezione del mondo non elaborata e asistematica, perché il popolo, la cui composizione è eterogenea, ha una visione non organizzata e non centralizzata, stratificata, che raccoglie documenti appartenenti ai vari momenti storici. Esso costituisce il riflesso delle condizioni della vita culturale del popolo e può persistere anche quando tali condizioni sono mutate (LVN, 215-216). La differenza tra le concezioni popolari e quelle “ufficiali” sta nel fatto che le seconde sono rielaborate e sistematizzate da individui addetti a questo tipo di lavoro (gli intellettuali). In questo senso esse sono esplicite, organizzate, non spontanee e più potenti. Mentre il folclore è implicito, spontaneo, non rielaborato, in ciò assai simile al pensiero allo stato selvaggio di Lévi-Strauss, che a suo parere si distingue da quello che è educato o coltivato allo scopo di perseguire risultati precisi e documentabili (1964: 240-241). Se ci soffermiamo sulla religiosità popolare, come viene definita dagli studiosi cubani, vedremo che essa è costituita da un insieme di tradizioni diverse, appartenenti a una diversa fase storica e a forme sociali differenti, come il cattolicesimo transculturato dalle masse popolari, le religioni di origine africana, lo spiritismo di origine europea e statunitense. Essa costituisce una sintesi culturale (sincretismo) sviluppata per associazioni, somiglianze, trasposizioni; per questo ha elementi ripetitivi, sovrabbondanti, contraddittori. Alcuni studiosi incontrano nella religiosità popolare cubana tracce della religione degli aborigeni, spazzati via dalla colonizzazione spagnola; su di questa si stratificarono le varie religioni importate con gli schiavi africani, già sincretizzatesi nell’Africa sconvolta dalle guerre intestine e dalla tratta negriera, il cattolicesimo spagnolo introdotto dai conquistatori, fortemente permeato da credenze magiche, che si mescolò con le prime dando vita a forme religiose come la Santeria e che influenzò insieme allo spiritismo, anch’esso ripensato e rielaborato, pure le altre religioni di origine africana. La stessa evangelizzazione imposta dagli Stati missionari, costituitisi in America Latina, dette impulso al sincretismo, cercando nella tradizione non cristiana strumenti e simboli per agevolare la penetrazione del Vangelo. Altro componente importante della religiosità cubana è dato dal protestantesimo, che costituì anche uno dei pilastri della Repubblica neocoloniale, posta sotto la tutela statunitense, e che successivamente ha influenzato un cristianesimo assai vicino agli ideali della Rivoluzione cubana. Mi riferisco in particolare alla Teologia in Rivoluzione di Sergio Arce. Nell’attuale situazione prodotta dalla cosiddetta globalizzazione neoliberale la forma religiosa di origine protestante, che più si sta diffondendo in America Latina e nei Caraibi tra le masse popolari, è il neopentecostalismo, presente anche a Cuba. Esso è vicino alla religiosità popolare per la sua liturgia vivace, cantata e danzata, che mediante la discesa invocata dello Spirito Santo provoca anche la trance dei fedeli, i quali sono attirati dalla promessa di essere “salvati qui e ora”. Per questa ragione, insieme alle altre manifestazioni religiose su menzionate, esso è un’espressione delle “religioni dell’immediato”, ossia di quelle religioni che sono prive della dimensione escatologica. La riflessione di Gramsci, che contestualizza le differenti manifestazioni religiose, collegandole ai diversi strati sociali, permettendone così l’interpretazione sulla base delle condizioni sociali, in cui si trovano, delle loro aspirazioni ed aspettative, è uno strumento assai utile per scandagliare il fantasmagorico mondo religioso cubano. Egli scrive. <> (MS, 120). L’altro aspetto della riflessione gramsciana rilevante per lo studio delle concezioni del mondo non solo popolari sta nell’individuazione della relazione tra religione e senso comune. Afferma infatti poco prima del passo citato: <> (Ibidem). Analizzando il senso comune Gramsci non commette l’errore di considerarlo una concezione del mondo e della vita, legata alla vita quotidiana dei vari strati sociali, come qualcosa di eterno, astorico, sempre simile in tutti i contesti. A suo parere è più corretto parlare di sensi comuni, in quanto si tratta di forme spontanee del pensiero non rielaborate e acritiche, che possono appartenere sia al mondo popolare, sia agli strati più colti della società (MS, 9). In questo caso, l’acriticità del senso comune colto, che deve essere criticato dalla filosofia della prassi, deve essere attribuita al suo essere funzionale ad una certa strutturazione di classe e alla posizione del gruppo egemone. 2. Resistenza e fatalismo Vi sono altri elementi nel pensiero di Gramsci che ci aiutano a comprendere a fondo la religiosità popolare cubana, la sua persistenza e la sua funzione sociale. Gli studiosi cubani hanno sottolineato che la Santeria, in quanto culto di divinità africane sincretizzate con i santi cattolici, è stato lo strumento, creato dagli schiavi neri e successivamente recepito da settori popolari più ampi, per difendere le proprie credenze e pratiche ancestrali, ricoprendole con un velo di cattolicesimo. Cattolicesimo che attribuisce un ruolo assai significativo a queste figure miracolose centrali nella religiosità popolare europea, per questo in sintonia con le religioni africane che venerano forze della natura personificate negli orisha. Tale camuffamento degli orisha può essere interpretato come una forma di resistenza occulta contro l’imposizione di un ordine del tutto estraneo e sconosciuto, che riduceva gli uomini a puri mezzi e strappava loro dignità e identità. Tale atteggiamento resistente può essere riscontrato in tutte le manifestazioni religiose cubane, che si caratterizzano per il riadattamento o la transculturazione di simboli, pratiche, credenze di origine cattolica, che proprio per questo perdono molti tratti originari. Ad esempio, il battesimo non è inteso come la cancellazione del peccato originale, ma come un rito di purificazione che avvicina l’iniziato alla sfera sacra. La figura del resistente è descritta da Gramsci ed individuata nei subalterni, che sono stati soggiogati da una volontà politica estranea, contro cui auspicano <> (MS, 14). La loro filosofia sarebbe la filosofia della prassi però in una versione deterministica e meccanicistica, la quale <> (MS, 13). Tale concezione si nutre del fatalismo, secondo il quale la sconfitta subita è momentanea e <> (MS, 13-14). Anche nella religiosità popolare cubana si incontra un certo fatalismo, il quale si basa sulla credenza che gli esseri umani hanno ricevuto dalla divinità suprema (Olofi nella Santeria) un destino, che può essere conosciuto con la divinazione, per adeguarsi ad esso e per ottenere mediante i rituali il sostegno del sovrannaturale allo scopo di superare con minori danni le crisi più gravi. Questa forma di fatalismo, che attribuisce alla religione il ruolo di rendere meno doloroso possibile il percorso dalla culla alla tomba, fiorisce dalla condizione schiavile e dalla consapevolezza di non avere a disposizione mezzi e strumenti per modificarla radicalmente. Nella religiosità popolare si condensano dunque tutto l’odio e la protesta disperata contro i dominatori; atteggiamenti che trovano la loro giustificazione e fondamento nella fede in un potere sovrannaturale che sta al di sopra dei bianchi e di cui questi ultimi di fatto temevano e rispettavano le manifestazioni, ad esempio ricorrendo in caso di bisogno alle pratiche magiche africane. Su questi temi Gramsci cita un interessante brano tratto da Civiltà Cattolica (1932), che a suo parere, riferendosi al cristianesimo, mette in luce il contenuto meccanicistico della religione dei subalterni, la quale si affida ad una forza superiore esterna all’uomo per combattere il male e da ciò trae tutto il suo vigore. Tuttavia, Gramsci precisa che questo è il cristianesimo ingenuo (popolare se vogliamo), non quello gesuitizzato <> (MS, 14-15). Bisogna aggiungere che se il folclore oppone resistenza, che abbiamo visto essere <>, tuttavia, si trova a combattere contro il carattere aggressivo delle concezioni ufficiali, che sono consapevolmente dirette (Cirese, 1976: 77). Infatti, Gramsci descrive la guerra fatta dal cattolicesimo sistematizzato dagli intellettuali e dalla gerarchia ecclesiastica per impedire la strutturazione de folclore. A ciò si deve aggiungere l’opera pedagogica svolta dallo Stato, che mira ad imporre la sua concezione della vita e della società e quindi a scalzare le concezioni ad esso ostili o non funzionali (LVN, 216-217). 3. Materialismo Gramsci osserva che <> (MS, 120). La dimensione materialistica rappresenta un aspetto importante della vita magico-religiosa, che - come ha mostrato Lévi-Strauss - cerca di stabilire connessioni tra le varie parti ed aspetti dell’universo sulla base delle proprietà sensibili delle cose. Ad esempio, nella Santeria Santa Barbara, martire cristiana, imprigionata dal padre in una torre, santa delle battaglie difficili, protegge coloro che usano la polvere da sparo e difende gli uomini dai fulmini. È sincretizzata con Chango. Questi è il dio yoruba del tuono e della guerra, signore dei tamburi e della polvere da sparo, dalla cui bocca esce fuoco e dai piedi fumo, sotto i cui passi la terra diventa ardente. Si veste di bianco e rosso (colori propri anche di Santa Barbara) ed è legato all’amore, alla passione, alla tempesta (Gonzalez, 1992: 101). Come si vede i collegamenti istituiti tra le due figure tramite i loro tratti distintivi consentono di costruire un complesso (non un concetto secondo Lev Semenovich Vygotsky), nel quale fenomeni naturali (fuoco, fulmini, tuoni) e fenomeni umani (passione, coraggio contro le avversità) sono intrecciati in modo tale che i primi sfumano nei secondi. Lévi-Strauss (ma anche Cassirer) ha mostrato come tali associazioni siano il frutto dell’attività intellettuale, in base alla quale l’uomo struttura la stessa rappresentazione sensibile del reale, collegando elementi distintivi esteriori in un complesso, in cui questi ultimi diventano significativi nella relazione reciproca. In questo senso la forza distruttiva e travolgente del fuoco rimanda alla violenza pervadente e traboccante della passione amorosa, ma anche all’irruenza dell’audacia e del coraggio, in una relazione in cui il primo termine significa il secondo e viceversa. Da questo punto di vista, dunque, la percezione sensoriale non si genera solo all’interno di una precedente forma di organizzazione conoscitiva del reale, dalla quale scaturisce anche il linguaggio. Ciò è condiviso da Gramsci per il quale ogni attività umana è storicamente e socialmente orientata e per questo ordinata dal punto di vista culturale e intellettuale. In questa prospettiva per lo studioso italiano la materia in sé non esiste, ma è <> (MS, 160) e in quanto tale è il prodotto, storicamente variabile, dei rapporti sociali. Tuttavia, nella frase citata in precedenza, lo studioso italiano parla di elementi materialistici e acritici. È abbastanza facile comprendere che per acriticità egli intende anche il risultato del processo di alienazione, mediante il quale, ad esempio, gli uomini creano in determinate condizioni sociali la nozione di potere sovrannaturale e le attribuiscono una vita autonoma e indipendente. Tenendo presenti le precedenti considerazioni nel caso della religiosità popolare il materialismo costituisce una visione del mondo nella quale si scelgono gli aspetti sensibili per collegare oggetti, che hanno gli stessi tratti sensoriali e per pensare cose di un certo dominio, per certi versi somiglianti, nei termini di un altro dominio. Nel caso della religiosità popolare cubana il potere sovrannaturale costituisce la trasposizione religiosa del potere coloniale che si impone agli uomini con la sua forza assoluta dall’esterno, a cui non possono che inchinarsi per supplicare, giacché la loro condizione di vita è precaria (dal lat. precor, prex precis) ed esposta ai colpi di una volontà superiore. Essi non si rappresentano il potere con una definizione concettuale, ma lo colgono e lo descrivono con una metafora spaziale, un’immagine spontanea e semplice secondo la quale tra gli uomini e il potere c’è la stessa relazione che oppone il sotto e il sopra, ossia quanto è terreno e quanto è celeste. Immagine che può anche corrispondere alla relazione tra fuori e dentro, ossia tra ciò che sta in un mondo estraneo e superiore agli uomini (gli schiavi) e ciò che sta nella comunità umana. In una condizione, in cui gli schiavi non hanno strumenti per combattere il dominio spagnolo (le rivolte di neri e degli indios, che pure ci sono state, si sono sempre risolte in massacri), i dominati finiscono col divinizzare il potere coloniale e non possono costruire una sua immagine funzionale al suo rovesciamento. In questo senso non possono divenire critici, umanizzando e storicizzando tale potere. Per questa ragione non riescono ad uscire dalla positività in senso hegeliano e gli oggetti, ricettacoli del potere sovrannaturale venerati e usati nei rituali, richiamano costantemente alla loro mente la “materialità”, la “cosità” del potere, che in quanto tale non può essere dissolta con un mero atto di volontà e neppure con un ardente desiderio. 4. Spirito di scissione e istinto di classe Cirese analizza in maniera dettagliata nel testo gramsciano i caratteri che oppongono il folclore alla concezione ufficiale del mondo propria della classe egemone. Pur avendo il folclore la dignità di concezione del mondo, esso si distingue dalle concezioni ufficiali per la sua semplicità, disorganicità, frammentarietà, per essere implicito, degradato, passivo. Ovviamente a queste ultime vengono attribuiti i caratteri opposti. Gramsci individua inoltre caratteri progressivi e reazionari nelle concezioni e nel senso comune popolari, in cui - come si è visto - grande spazio occupa la religione (Cirese, 1976: 68-83). Per portare avanti il discorso qui sviluppato ci interessa comprendere cosa intende Gramsci per carattere progressivo, che insieme a quello reazionario egli riscontra anche nelle concezioni ufficiali. Secondo Cirese, che esamina il testo gramsciano nelle sue ambiguità e oscillazioni, quando Gramsci si muove sul piano della contrapposizione tra le concezioni ufficiali della borghesia e il folclore, quale espressione della vita culturale delle masse popolari, sarebbe evidente <>. Da ciò scaturirebbe il <>; ossia di quegli elementi di origine culta (<>) selezionati e rielaborati dalle concezioni folcloriche del mondo. Sempre a parere di Cirese (1976: 88) <> e non <>). Riproponendo il tema gramsciano della riduzione reciproca tra sentimenti popolari e marxismo e richiamandosi a Lenin, che considera l’elemento spontaneo <> (97 e 115), Cirese oscilla tra modi diversi di definire l’atteggiamento contestatore spontaneo delle masse, usando espressioni come <> o <> (1976: 114). Queste oscillazioni di Cirese riflettono il dilemma, cui non mi pare venga data una chiara risposta per le diverse implicazioni politiche delle soluzioni adottate, sulla continuità o discontinuità tra concezioni spontanee, nel senso di visioni che sorgono dalla immediata rappresentazione delle condizioni di vita acriticamente recepita, e filosofia della prassi1. Di ciò parleremo brevemente più avanti. Quanto ai concetti di <> e di <>, essi ci sembrano utili per comprendere la funzione sociale della religiosità popolare cubana, la cui persistenza ha impedito la totale assimilazione e subordinazione delle masse popolari, salvaguardando le loro peculiarità culturali e mantenendo vivo il sentimento della differenza, che è sfociato in forme diverse di protesta e di opposizione variamente strutturate ed organizzate. D’altro lato, però tale connotazione culturale indica nello stesso tempo l’appartenenza a settori sociali subalterni, legati alle condizioni di vita sociali generate dalla dipendenza dal capitalismo statunitense e per questo esclusi anche da quei benefici riconosciuti a parte delle masse popolari occidentali. Simbolo emblematico e contraddittorio di questa duplicità della religiosità popolare cubana è rappresentato sicuramente dalla figura di S. Lazzaro, identificato con il povero lebbroso del Vangelo di Luca e contrapposto al ricco epulone. È sincretizzato con Obabalouayé, divinità africana del vaiolo e delle malattie contagiose, che punisce i malfattori e gli insolenti facendoli ammalare, e il cui nome non può esser pronunciato (Verger, 1982: 210). S. Lazzaro sintetizza questi elementi. Da un lato, rappresenta sicuramente il popolo sofferente, oppresso, afflitto contrapposto al ricco, dall’altro mantiene il suo ruolo di castigatore. Infatti, conserva il carattere collerico, irascibile, che lo spinge a punire duramente i fedeli che non rispettano le promesse a lui fatte. Questo aspetto sta ad indicare tutta la carica di aggressività, di protesta, di rancore che anima coloro che il sistema sociale emargina e prevarica. Insomma, in S. Lazzaro si condensa la specificità delle condizioni di vita delle masse popolari - quindi anche la loro marginalità e subordinazione - e la protesta vigorosa contro di esse. 5. Spontaneità e direzione consapevole Come si è visto, per Gramsci non tutto il folclore ha una carica progressiva; nella misura in cui è costituito da strati fossilizzati e conservatori, in quanto riflesso di condizioni di vita passate, cui tenacemente le masse popolari restano attaccate, è reazionario (Cirese, 1976: 115, LVN, 217, 2-7). Tale contenuto reazionario si può vedere, ad esempio, in quei riti propri della religiosità popolare come la processione del venerdì santo, che in taluni contesti spingendo i fedeli ad identificarsi col Cristo morto e carico dei peccati, innescando per questa via il sentimento di colpa e di inferiorità, spengono lo spirito di riscatto e favoriscono l’accettazione di quell’ordine sociale, alla cui base la distinzione tra peccatori e dispensatori della grazia e del perdono di Dio. Tale contenuto reazionario è evidenziato anche dalla comparazione con la filosofia della prassi. Come scrive Cirese <> (1976: 88-89). A mio parere è proprio da questa triangolazione, che dobbiamo partire per valutare politicamente il folclore o le concezioni popolari del mondo. Come è evidente, il raffronto tra folclore e filosofia della prassi apre una serie di problemi centrali della filosofia marxista, su cui si è molto dibattuto e su cui oggi si dibatte ancora forse un po’ stancamente: il problema dell’elaborazione di un senso comune e di valori, derivati dall’analisi critica dell’assetto sociale attuale, che metta a disposizione delle masse popolari gli strumenti intellettuali per modificarlo radicalmente, proponendo al contempo una concezione del mondo alternativa, che prefiguri una nuova forma di vita sociale; il problema del ruolo degli intellettuali e della loro relazione con le masse popolari; il problema del passaggio dalla protesta spontanea a quella organizzata dotata di una struttura democratica dirigente volta alla realizzazione di determinati obiettivi (dalla spontaneità alla direzione consapevole). Occupandomi della cultura quotidiana, a me sta particolarmente a cuore la questione della creazione di un nuovo senso comune, che può essere costruito combattendo quello vigente, rappresentato nella società capitalista da un rozzo individualismo mirante a soddisfazioni immediate, che trova sbocco - là dove è possibile - nel consumo esasperato; come ho già detto, deve essere elaborato anche prefigurando il nuovo cui forse si potrà dar vita. 6. Dall’istinto alla coscienza Come è ovvio i problemi su menzionati solo indissolubilmente legati alla questione della trasformazione di quello che, seguendo Cirese, abbiamo chiamato istinto nella coscienza di classe. Prima di affrontare brevemente questo tema, facendo sempre riferimento alla religiosità popolare cubana, dobbiamo sgombrare il campo dagli equivoci creati dai su menzionati relativismi, etnicismi, attivismi partecipanti. In primo luogo, nella misura in cui le diverse concezioni del mondo forniscono rappresentazioni della società e della natura, che funzionano in maniera diversa nel guidare le nostre valutazioni e il nostro comportamento producendo risultati diversi, non possono esser messe sullo stesso piano. Ciò non significa non apprezzare la carica di esperienza e di saggezza, che incontriamo nella religiosità popolare cubana, ma significa riconoscere che essa è legata ad un momento storico, in cui era possibile solo quella forma di consapevolezza, che oggi non ci aiuta a comprendere la complessa dinamica delle relazioni internazionali, le quali in maniera invisibile agiscono su tutti gli aspetti della nostra esistenza, anche i più intimi; forma da cui non è facile distaccarsi e che potrà essere superata solo cambiando le condizioni di vita sociale delle masse popolari (processo ovviamente avviato dalla Rivoluzione del 1959). Come scrive Manuel Cofiño il processo rivoluzionario ha di per sé segnato una rottura sia nella struttura sociale che nella sua rappresentazione, mostrando che gli uomini sono riusciti a fare quello che non hanno potuto realizzare gli dei. Se le concezioni del mondo, benché appartenenti alla stessa categoria concettuale, non possono essere messe sullo stesso piano, ciò significa anche che, proprio perché profondamente diverse, non affrontano gli stessi problemi. La religiosità popolare cubana affronta con intelligenza il problema della felicità terrena in un mondo in cui indispensabile è l’aiuto sovrannaturale; la filosofia della prassi si pone il problema della creazione di una società in cui non ci sia sfruttamento, in cui l’uomo non sia mezzo, in cui non ci sia un potere distaccato dalle relazioni tra gli uomini che lo hanno istituito. Si potrebbe dire che in entrambe le concezioni del mondo c’è indignazione per la sofferenza umana, ma la risposta a tale sentimento è completamente diversa. Se dunque la filosofia della prassi e il folclore, pur avendo elementi in comune, affrontano problemi diversi e da prospettive diverse - umanizzazione e divinizzazione della storia - non è possibile trasformare il contenuto contestatore e di protesta del secondo nell’analisi marxista della società e nella prospettiva di azione da essa prefigurata. Insomma, dal mio punto di vista non c’è continuità tra senso comune e filosofia, tra protesta spontanea ed organizzazione, ma per passare da un termine all’altro occorre fare un salto, o meglio cambiare prospettiva, ossia vedere le cose da un punto di vista che va al di là dell’immediatezza empirica e sensibile e che coglie legami e relazioni, la cui esistenza è mostrata solo dalle loro conseguenze. La prospettiva discontinuista qui adottata accetta in parte il relativismo, ma ne rifiuta le conseguenze che - come si è detto - producono il disarmo ideologico. Folclore e filosofia della prassi sono concezioni del mondo non riconducibili l’uno all’altra, perché non coincidono né le loro prospettive né le loro problematiche. Inoltre, come sostengono i relativisti, sono legate al loro contesto storico-sociale e per questa ragione, pur potendo sopravvivere in condizioni sociali differenti, solo nel primo riescono a svolgere un funzione positiva e progressiva. In questo senso, nell’attuale società capitalistica avanzata, nonostante la crisi in cui versa - a mio parere per ragioni soggettive più che oggettive - la filosofia della prassi appare ancora come un potente strumento interpretativo e trasformatore. Lo stesso non può dirsi del folclore e di tutte le manifestazioni religiose popolari, che rischiano di essere segni distintivi di gruppi sociali ormai radicalmente trasformati. Inoltre, la filosofia della prassi è in grado di dar conto del folclore e delle varie concezioni del mondo popolari o colte, individuando la struttura - gli schemi costitutivi - di queste ultime e stabilendo collegamenti interpretativi con i restanti aspetti della vita sociale. Insomma, costituisce uno strumento conoscitivo più efficace e più potente e per questo più idoneo per coloro che si pongono nella prospettiva di volere trasformare l’assetto sociale esistente. Dunque, secondo il mio punto di vista il passaggio dall’istinto alla coscienza di classe implica un salto da una prospettiva conoscitiva, etico-politica ad un’altra, anche se tale trasformazione può avvenire solo attraverso un complesso processo di acquisizione di una nuova consapevolezza, favorito dalla partecipazione alla battaglia per far emergere il nuovo. Ciò non significa negare dignità, pienezza, profondità alle concezioni folcloriche, che però sono segnate dalla loro appartenenza a un contesto in via di dissoluzione e che rischiano di essere espressione della condizione marginale, in cui quest’ultimo viene a trovarsi in seguito alle trasformazioni sociali e culturali. Ciò significa anche apprezzare dal punto di vista antropologico tali concezioni, senza tuttavia occultarne i limiti derivanti dalla loro stessa struttura interna secondo la prospettiva dialettica. Se ho ragione, applicata a tali questioni, la frase di Marti (<

Riferimenti bibliografici

Cassirer E., Filosofia delle forme simboliche, Il pensiero mitico, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1964. Cirese A. M., Intellettuali, folklore, istinto di classe, Einaudi, Torino 1976. Gonzalez Herrero I., Panteon yoruba. Conversacion con un santero, Ediciones Holguin, 1992. Gramsci A, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1952 (LVN). Gramsci, A. Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1952 (MS). Gramsci A., Passato e presente, Editori riuniti, Roma 1973 (PP). Lévi-Strauss C., Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano 1964. Verger P., Orisha. Les dieux yorouba en Afrique et au Nouveau Monde, Editions A. M. Métailié, Parigi 1982. Whitehead A., Pagans and Performance: Testing the role of materiality, V Encuentro Internacional de Estudios Sociorreligiosos “Los movimientos religiosos ante los conflictos y los desafios de un mundo en crisis”, L’Avana 9-12 luglio 2007.

Facoltà di Scienze Umanistiche - La Sapienza

In Gramsci troviamo la concezione continuista della relazione tra marxismo e sentimenti spontanei delle masse, fondata sul principio che tutti gli uomini sono filosofi e che quindi i filosofi non differiscono qualitativamente dagli altri uomini (cfr. Cirese, 1976: 96-100). Tuttavia, egli polemizza con De Man, il quale <<”studia” i sentimenti popolari, ma non consente con essi per guidarli e condurli a una catarsi di civiltà moderna. La sua posizione è quella dello studioso di folclore che continuamente paura che la modernità gli distrugga l’oggetto della sua scienza>> (Gramsci, MS, 115 e cfr. P, 84-91).