Il lavoro ”cognitivo” nella fase dell’accumulazione flessibile: uno schema interpretativo del “fenomeno“ dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”

Gianni Cirino

1. Premessa

 

“Il lavoro è il fuoco che dà vita e forma;
le cose sono transitorie e temporali,
giacchè subiscono l’attività formatrice
del tempo vivente”.
(K. Marx dai “Gundrisse”)

 

Si sta svolgendo nei paesi industrializzati a sviluppo capitalistico avanzato un processo di trasformazione del lavoro, in cui sembra che siano protagonisti persone che svolgono lavori ad alta qualificazione, che nei gerghi aziendali sono chiamati nei modi più vari e “variopinti” (tecnici, professionals, “knowlodge workers”, etc.); esse operano in tutti i campi dell’attività delle imprese e “tenderebbero” ad influenzare i “modelli comportamentali”, richiesti dalle aziende pubbliche e private a tutte le tipologie dei lavoratori.

Naturalmente poi sui contenuti dei “diritti” contrattuali per quel che concerne le protezioni e le “garanzie”, è noto che le aziende vorrebbero anche, che il principio della “flessibilità”, che caratterizza i rapporti di lavoro dei suddetti lavoratori, venisse generalizzato a tutta la società ed a tutti i lavoratori.

L’impiego massiccio della “conoscenza” in tutti i processi produttivi, l’inserimento di professionisti nelle organizzazioni aziendali complesse, il “passaggio” (spesso “forzato”) di un gran numero di manager aziendali da ruoli di struttura a ruoli di “servizio”, lo sviluppo di processi di servizio che richiedono una concezione, gestione, erogazione, che sembra essere “materia di lavoro professionale” organizzato, non solo modifica il “mix” di personale, richiesto dalle organizzazioni - più lavoratori “qualificati” e meno lavoratori a “ bassa qualificazione”, più “professionals” e meno impiegati (“white-collars”) - ma starebbe spingendo verso una radicale trasformazione dell’intera struttura dei sistemi di lavoro.

Già P. Drucker (1989) [1] individuava l’emergere di una nuova figura di “operatore della conoscenza”, che tenderà a rimpiazzare operai, impiegati, tecnici e professionisti “tradizionali”; secondo la ben nota “immagine” di Drucker, l’impresa del futuro tenderà sempre di più ad assomigliare ad un’orchestra, ad un ospedale o ad un “università”, dove le persone- gli “operatori della conoscenza”- saranno l’’“unità produttiva fondamentale” delle organizzazioni aziendali. Come detentori del principale mezzo di produzione del futuro, essi tenderanno ad operare come veri professionisti, anche se, a differenza dei liberi professionisti, avranno bisogno di operare in ambito di una organizzazione aziendale.

Questa profezia si sta avverando?

Le organizzazioni aziendali private, ma anche nelle Pubbliche Amministrazioni (si considerino i vari “decreti Bassanini” anche in Italia, che è notoriamente “arretrata” in ambito europeo per quel che riguarda l’efficienza della Pubblica Amministrazione) stanno cambiando ed a determinare una vera e propria esplosione di un’ampia crisi strutturale dei modelli organizzativi tradizionali, sono stati e sono i caratteri tipici dello sviluppo economico degli anni 90 ovvero:

• l’impatto della rivoluzione provocata dall’introduzione nei luoghi di produzione industriale, così come nei servizi, delle tecnologie informatiche e telematiche;

• la maggiore pressione competitiva collegata dalla “globalizzazione” dell’economia;

• la segmentazione dei “mercati” dei prodotti, intrecciata con i processi di terziarizzazione dei paesi più sviluppati, che comporta un processo di personalizzazione e di aumento dei servizi nei prodotti;

• la flessibilizzazione dei rapporti dei lavoro sia per il lavoro dipendente sia per quello “autonomo”, specie quello chiamato “eterodiretto di seconda generazione”.

Ma queste caratteristiche dello sviluppo recente del sistema capitalistico, hanno veramente cambiato il modo di produzione capitalistico? Siamo veramente in una società in cui non esistono più classi sociali in contrapposizione e sono stati superati i vecchi modelli di produzione industriale manifatturiera e poi taylorista e fordista?

Il “movimento antagonista dei lavoratori”, la “sinistra sociale e politica” non può più ignorare queste domande. Chi scrive, ritiene già da molto tempo che è urgente che ci si doti di modelli teorici e di analisi, adatti all’interpretazione della realtà economica e sociale in cui viviamo, e che sia necessario che anche il sindacato, specie quello che fa riferimento alle realtà sociali di base, affronti il problema della “ridefinizione del sistema di protezione contrattuale”, per includere tutte le figure del lavoro caratterizzate da flessibilità ed estrema mobilità nei rapporti di lavoro. E’ necessario favorire processi di ricomposizione sociale tra le diverse figure di lavoratori, al di là delle specifiche condizioni di lavoro; è necessario che maturino condizioni per cui si organizzino lotte che facciano di nuovo crescere il potere contrattuale dei singoli lavoratori e del complesso dei lavoratori dipendenti nei servizi nell’industria, dei lavoratori “eterodiretti” di seconda generazione, dei precari, dei disoccupati.

Chi scrive, si prefigge di presentare in questo articolo uno schema d’interpretazione, che sia coerente con l’analisi marxiana ovvero la “critica della politica economica” dell’economia capitalista, ma che, contemporaneamente, permetta di inquadrare in modo corretto, le caratteristiche e le specificità dei lavori e dei lavoratori cosiddetti “atipici”, caratterizzati cioè da forti contenuti di tipo cognitivo ed informativo.

Tenendo presente poi i risultati “fondamentali” di questo schema teorico, si analizzerà in maniera più dettagliata quello che, chi scrive, chiama una fenomenologia dei “nuovi lavori atipici” ed in particolare quella dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”, presentando i risultati di una ricerca internazionale, condotta nel 1995, riguardante questi lavoratori in Francia, Germania, USA.

Purtroppo non sono disponibili analoghi dati di ricerca per la situazione in Italia, se non alcune specifiche ricerche a carattere campionario e comunque ristretto; chi scrive, ritiene che questa “lacuna” debba essere al più presto superata, avviando anche in Italia, a cura soprattutto del sindacato di base, una ricerca più significativa e seria.

L’obiettivo primario di questo contributo di analisi consiste soprattutto nel tentativo di motivare e stimolare questa ricerca, analisi-inchiesta, in linea con la tradizione dell’analisi-inchiesta del movimento operaio dei “Quaderni Rossi” di Panzieri, e, chi scrive, ritiene che ciò costituirebbe un risultato ed uno strumento di conoscenza di importanza rilevante per il movimento “antagonista” dei lavoratori.

 

 

2. “Globalizzazione”, esternalizzazioni, lavoro autonomo ed “economia della conoscenza”

 

Le grandi imprese capitaliste hanno vissuto la crisi economica iniziata nei primi anni settanta sotto forma di una intensificazione della competizione internazionale e di una caduta dei profitti. Come sottolineava nel 1984 il presidente del Fondo Monetario Internazionale Jacques de Larosiere, si era di fronte ad un chiaro modello di “forte declino di lungo periodo dei tassi di resa del capitale”; le grandi imprese cominciarono a considerare sempre di più i sistemi nazionali di regolazione dell’economia ed il compromesso di classe, realizzato con le politiche economiche “keynesiane” di Welfare State, come ostacoli alla crescita dei profitti ed a considerare il taglio del costo del lavoro e di altre spese come soluzione del problema.

Come sottolineava, sempre “delicatamente”, de Larosiere, “per recuperare degli incentivi all’investimento adeguati” era necessaria “una graduale riduzione del tasso di crescita dei salari nel medio periodo”; di fronte ad una crescente competizione internazionale le imprese hanno iniziato a sperimentare strategie volte ad aumentare i profitti mediante il taglio dei salari e di altri costi; tale strategie comprendevano lo spostamento delle attività verso luoghi con costi più bassi, la trasformazione delle strutture organizzative delle imprese e dei processi di produzione e di erogazione dei servizi (Computer Integrated Manifacturing (CIM), toyotismo, “Qualità Totale” prima e poi “Business Process Reenginering” (BPR) e Knowlodge Management” più recentemente [2]), per adeguarle ad un sistema economico globale fortemente competitivo, provvedendo parallelamente alla creazione di strutture internazionali per il sistema di governo mondiale (FMI, NAFTA, GATT, ecc), che assecondasse le loro scelte strategiche.

La situazione attuale viene descritta ed interpretata attraverso il termine di “globalizzazione”, in cui risulta decisiva la presenza delle nuove forme e tecnologie dell’informazione e della comunicazione ed il loro svolgersi in tempo reale; diversi teorici hanno insistito sulle “novità” dei fenomeni in atto, sul loro carattere “epocale” che cambia il quadro geo-politico del mondo, per cui la globalizzazione sembra configurare un nuovo ordine mondiale, che investe i rapporti tra spazio e produzione, tra capitale e spazio.

L’OCSE, l’Organizzazione per l’economia e lo sviluppo, ha definito la globalizzazione un “processo attraverso cui i mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più dipendenti fra di loro, a causa della dinamica di scambio di beni e sevizi e attraverso i movimenti di capitali e tecnologie [3]”.

Tale definizione mette in evidenza la trasformazione del sistema di economie a base nazionale in una economia globale, resa possibile dalle nuove tecnologie dell’informazione, della comunicazione e dei trasporti.

D’altra parte la “globalizzazione finanziaria” permette il distacco del mercato dei capitali dagli Stati-Nazione e crea la dipendenza sempre stretta dei sistemi produttivi dal mercato mondiale. Il capitale si emancipa totalmente dai vincoli dello spazio, in quanto le imprese non fanno più riferimento, nelle loro strategie, ad uno spazio territoriale definito, ma piuttosto alla posizione, per lo più mutevole, da occupare rispetto ad una o più reti produttive. Ma che cosa sta succedendo ai lavoratori “dipendenti” (operai, impiegati) ed ai lavoratori “autonomi” nei paesi capitalisticamente avanzati?

Certamente la classe operaia industriale, gli operai-massa della fase “fordista”, si è ridotta numericamente, anche se continua ad avere un livello di specializzazione medio-alto e livelli di reddito bassi per gli standard industriali dei paesi occidentali, ma livelli salariali ancora alti rispetto ai lavoratori delle aree semi-periferiche ed altissimi per quelli della nuova periferia produttiva dove vigono nuove forme di schiavitù industriale (India, Cina, Est-Europa ‘ex-socialista’, Asia del Sud-Est.).

Anche in Italia si va estendendo la nuova organizzazione del lavoro- la lean production o ‘produzione snella’- che assegna alla fase finale di una catena del valore, distribuita ormai a livello internazionale (le ‘filiere mondiali di produzione’), una particolare enfasi.

E’ qui che avviene l’assemblaggio, la presentazione e commercializzazione di manufatti o semilavorati prodotti in Romania, in Albania, in Marocco, in Cina, etc.-----

Questo spiega in parte la diminuzione quantitativa degli operai industriali nelle grande industria e l’aumento di figure lavorative come tecnici informatici, gli artigiani conto-terzisti, gli operai superspecializzati, gli agenti commerciali. Ma la classe operaia non è scomparsa ma è stata ricollocata in queste aree semiperiferiche, che sono divenute l’Europa dell’Est e il bacino del Mediterraneo a ridosso dei paesi ad alto sviluppo capitalista dell’Unione Europea ed è sempre più integrata con essi.

E’ un cambiamento in atto che sta sgretolando i “ceti medi”, sviluppatisi nell’epoca del ‘welfare state’, includendovi ampie quote di lavoratori dei servizi e del pubblico impiego, che acutizza comunque sempre più un fenomeno di polarizzazione di classe nella società.

Se l’operaio di linea (l’operaio-massa) è stato al centro del conflitto di classe nell’epoca del ‘fordismo’, l’epoca ‘dell’accumulazione flessibile’ mette in luce nuove figure della produzione e dei servizi strategici: una sorta di lavoratore ‘unico’ estremamente “flessibile”, estremamente scolarizzato, in grado di cambiare mansioni e svolgere funzioni assai diverse tra loro, privo di qualsiasi “conoscenza reale” del processo in cui viene coinvolto, ma privo anche di garanzie salariali, sindacali, previdenziali.

La nuova ‘Bibbia del Capitale’ - il rapporto della McKinsey sul lavoro del Duemila [4]- è piuttosto esplicita sulla inesorabilità di bassi salari e massima flessibilità come unico lavoro possibile nella prossima fase storica e così lo sono le prospettive indicate da tutti gli Istituti Internazionali del capitale finanziario (dall’OCSE, al FMI, dal G7-G8 alla Commissione Europea).

Finché è esistito il “Welfare State”, cioè il compromesso sociale tra il capitale nella fase tayloristica-fordiana e le classi dominate, queste ultime hanno almeno avuto delle briciole, ma oggi è cambiato il vento.

Il “neo-liberismo” prende il posto del keynesismo e si tratta di cambiamento strutturale - sia chiaro, solo attinente ai modi della distribuzione, non al modo sociale di produrre con i suoi meccanismi fondamentali di riproduzione dell’assetto socio-economico capitalistico, che è sempre esistito nel frattempo - cioè attinente ad una fase storica di non breve momento, non meramente congiunturale.

Tutte le forze politiche e sindacali sono entrate- ed è logico che sia così, ove si accettino ormai pienamente le compatibilità del capitalismo nella sua fase attuale di rifinanziarizzazione- nell’ordine di idee di “ridurre lo Stato Sociale” e di favorire la redistribuzione del reddito verso i settori dell’impresa privata; tutte propugnano l’aperta privatizzazione delle attività pubbliche produttive e di servizio, tutte accettano la necessità in questa fase della “flessibilizzazione” e “precarizzazione” del lavoro, necessarie alla redistribuzione del reddito ed alla lotta contro la disoccupazione ‘strutturale’.

Tuttavia ammettiamo pure che vi sia ‘qualche diversità’ tra le forze ‘socialdemocratiche-progressiste’ e le forze ‘liberali’ quanto a minore o, rispettivamente, maggiore riduzione dei servizi sociali (e naturalmente del sistema pensionistico), o quanto meno nelle modalità ‘più o meno’ ‘concertative’ e ‘consensuali’ per il raggiungimento dei suddetti obbiettivi.

Anche chi volesse ridurre meno le spese sociali, dovrebbe attuare un corrispondente aumento delle entrate statali, fondato essenzialmente sull’imposizione indiretta e sull’aumento delle tariffe dei servizi pubblici ed in via sussidiaria, proprio se non se ne può fare a meno, sull’aumento della imposizione diretta del reddito dichiarato (aumento della pressione fiscale).

In questo modo, si verifica- dal lato delle maggiori entrate invece che delle minori spese per i servizi sociali- la solita redistribuzione del reddito dai meno ai più abbienti, dal lavoro dipendente a quello autonomo; e questo per due vie, entrambe efficaci in tale direzione: innanzitutto aumenti eguali per tutti (come quelli dell’imposizione indiretta e delle tariffe pubbliche) sono aumenti proporzionalmente più alti per i redditi più bassi, inoltre tali aumenti di entrata per lo Stato si traducono in accrescimento di costi per l’impresa privata, che riesce generalmente a scaricarli sui prezzi, aumentando il processo inflattivo e riducendo il reddito’fisso’ del lavoro dipendente in termini reali.

In ogni caso, chi paga la maggiore o invece la minore riduzione dei servizi sociali, in condizioni di parità e di costanza del monte salari ‘sociale’ (ovvero retribuzioni lorde + costi delle imprese e dei lavoratori per i servizi sociali, compresi quelli differiti, quali pensioni e tfr), è il lavoro dipendente a reddito più basso.

Quest’ultimo, con le politiche messe in opera da tutte le forze politiche, deve in ogni caso pagarsi, in misura proporzionalmente superiore, i servizi sociali rimasti.

Questa è l’epoca post-keneysiana (con accentuati caratteri pre-keneysiani) in cui stiamo vivendo e ragionare, come se fossimo nell’epoca precedente, non ci salverà in nessun caso dall’oggettività dell’attuale fase di ‘rifinanziarizzazione del capitalismo policentrico‘, aspramente competitivo.

Bisogna poi avere il coraggio di dire che, ove si accetti l’oggettività dell’attuale fase capitalista, la politica economica di ‘destra’, ‘monetarista’ è più efficiente e coerente dell’altra.

Nell’epoca keynesiana, monocentrica, di relativo coordinamento o comunque di minore disorganicità tra i vari capitalismi, in cui l’aspetto della competitività è meno intenso, quando le politiche legate alla spesa pubblica hanno comportato un tasso inflattivo più alto, questo è stato, almeno entro limiti abbastanza ampi, ben tollerato. Intanto un certo livello di inflazione serviva a contrastare gli aumenti salariali nominali, con minore accrescimento dei costi da lavoro in termini reali per le imprese, pur senza comportare riduzione del potere d’acquisto delle masse lavoratrici. Inoltre i differenziali dei tassi di inflazione nei vari paesi del campo capitalistico avevano effetti non particolarmente gravi, dato che tale campo era coordinato da un centro e meno accentuata era la competitività al suo interno.

Nell’epoca policentrica attuale, invece, i tassi di inflazione, anche assai minori di prima, rendono più difficili i calcoli economici delle varie imprese in reciproco conflitto; piuttosto che ridurre i redditi fissi reali tramite inflazione, è meglio ottenere lo stesso effetto con misure più dirette: riduzione dei salari nominali, redistribuzione degli stessi tra occupati e disoccupati (cioè all’interno del medesimo settore sociale), diminuzione dei servizi sociali e delle pensioni, etc. Inoltre, a parità di ogni altra condizione, i differenziali (anche minimi) di inflazione tra i vari paesi possono influire sulla capacità concorrrenziale delle varie imprese e settori capitalistici. Si può lasciare svalutare la moneta per favorire la competitività del proprio capitalismo, ma questo può poi tradursi in aumento dei costi delle importazioni, con eventuale ulteriore inflazione ed accentuazione del circolo vizioso in oggetto; senza poi considerare che, se ad un certo punto, ogni paese o settore o impresa capitalistica, senza più un minimo di concertazione generale, si mettesse a promuovere politiche atte a migliorare la posizione nel mercato mondiale a detrimento degli altri, ne potrebbe derivare uno stato di instabilità del sistema globale con danno per tutti.

Da qualche tempo per tali motivi siamo entrati nei paesi ad economia capitalista ad alto sviluppo, come l’Italia, in una nuova epoca di decentramento produttivo delle grandi imprese, di espansione della piccola impresa (ma soprattutto di quella del cosiddetto indotto), di “flessibilizzazione” della produzione, connessa alla diversificazione dei prodotti, e della produzione per piccoli lotti, che oggi, grazie anche alle nuove tecnologie, specie quelle connesse alla micro-elettronica, all’informatica, alle comunicazioni ed alle bio-tecnologie, può spesso essere effettuata in accordo con le economie di scala.

In questa situazione, persino le imprese di maggiori dimensioni hanno trovato convenienza procedere ad esternalizzare una serie di produzioni e di servizi, che prima venivano svolti al loro interno. Su questa base si è verificata la grande espansione delle piccole imprese dell’indotto e l’altrettanto considerevole accrescimento di aziende o di non grandi studi professionali e di consulenza direzionale, che forniscono vari servizi, di tipo legale, commerciale, di progettazione industriale, di informatizzazione, di costruzione di reti di comunicazione, di formazione del management, ecc. Gli stessi avvocati o ingegneri, ecc. non sono più semplicemente l’”avvocato di provincia” (quello che va soprattutto in Pretura), l’ingegnere che disegna progetti per case di singoli committenti, oppure il commercialista, che da gestore di “contabilità e paghe”, si sta “riconvertendo” a revisore di bilanci aziendali e/o consulente fiscale.

Ci sono oggi una miriade incredibile di nuove professioni, in particolare per servizi alle imprese che hanno deciso di affidarli all’esterno, perché ciò - quand’anche siano grandi imprese - è diventato conveniente. Questi caratteri dell’epoca non vanno considerati come eterni; può benissimo essere che, in un futuro nemmeno troppo lontano, le imprese dei paesi capitalisti ad alto sviluppo trovino nuove convenienze a riprendersi “in casa” certe produzioni di beni e servizi. Per adesso però sembra ancora prevalente l’esternalizzazione di certe produzioni e di certi servizi. Questa non è una caratteristica solo italiana, ma dell’attuale fase capitalistica nei paesi più industrializzati nell’epoca della “globalizzazione”.

Scrive a questo proposito Sergio Bologna in ‘Orari di lavoro e postfordismo (da “ Il giusto lavoro per un mondo giusto - Dalle 35 ore alla qualità del tempo di vita- Atti del convegno internazionale Milano 8-9 Luglio 1995”):

“Proviamo ad analizzare una grande impresa, sia essa manifatturiera o di servizi, e proviamo a seguire lo schema organizzativo proprio del toyotismo. Esso si articola su un concetto di “sistema a rete” o, per meglio mettere in risalto la centralità che ancora riveste nel toyotismo “l’impresa-madre”, su sistemi a cerchi concentrici il cui centro (core) è costituito dall’impresa-madre ed i vari cerchi attorno ad esso corrispondono ai gruppi di fornitori e sub contractors ai quali è affidata, secondo rapporti di partnership molto impegnativi, l’esecuzione di determinate lavorazioni, la fabbricazione di determinati componenti del prodotto finale, la fornitura di determinati servizi ecc.. Man mano che dal centro ci si allontana e si giunge ai cerchi per così dire più “esterni”, il grado di regolamentazione dei rapporti di lavoro diventa sempre più debole ed in genere gli orari di lavoro giornalieri tendono ad aumentare. Quando vogliamo ragionare sul tempo di lavoro della fabbrica toyotista non dobbiamo prendere in considerazione soltanto la giornata dei lavoratori del centro, del cosiddetto “core-manpower”, ma dobbiamo tenere conto dell’insieme delle giornate lavorative di quegli operatori che dall’estrema periferia al centro concorrono alla formazione del prodotto finale. La giornata lavorativa sociale è dunque rappresentata dalla somma dei regimi di orario vigenti in tutto il sistema e non solo nel “nocciolo”, cioè nell’impresa-madre. Se nella fabbrica integrata fordista - pensiamo ad una fabbrica di automobili - la forza-lavoro aveva un regime di orario unico, nel sistema decentrato toyotista abbiamo tanti regimi di orario quanto sono i nodi della rete o, se si vuole, i cerchi concentrici.

Ora, se si pensa che nel 2000/2010 il 70% del prodotto finito nell’industria dell’automobile sarà fabbricato ed in parte pre-montato all’esterno della “impresa-madre”, noi possiamo ipotizzare un sistema nel quale il nocciolo, il core, diventa sempre più piccolo e la serie di cerchi concentrici sempre più grande. Il sindacato riesce in genere a regolamentare (a ridurre) l’orario di lavoro soltanto nel’ “impresa-madre” e nel cerchio concentrico più vicino al nocciolo, diciamo nella prima fascia dei fornitori; sempre meno riesce a regolamentare il lavoro nelle fasce più esterne e quindi in genere ad una riduzione di orario del core manpower corrisponde un aumento di funzioni nei cerchi concentrici attorno ad esso, con una dislocazione di funzioni nelle fasce dove gli orari di lavoro sono più lunghi... E veniamo al’ aspetto del post-fordismo, quello a mio avviso più caratteristico, la miniaturizzazione dell’impresa ovvero l’espansione del lavoro autonomo. Come voi sapete è questo un fenomeno che interessa particolarmente l’Italia dove, al 31 dicembre 1993, secondo i dati CERVED, erano attive 2.378.000 imprese individuali. Secondo i dati Aspo della Camera di commercio di Milano - che rappresenta oggi il più aggiornato archivio italiano delle imprese e dell’occupazione - alla fine del 1992 erano attive in Lombardia 367.500 imprese individuali, che occupavano 729.500 addetti, stando a significare così che ogni ditta individuale comprende almeno un collaboratore. Si tratta di dati, come ho sottolineato nelle mie ricerche sul lavoro autonomo in Italia pubblicate sulla rivista “Altre ragioni”, che si riferiscono solo alle imprese registrate presso le Camere di commercio. Se a queste cifre sommiamo quelle delle attività di lavoro autonomo con semplice partita IVA, senza obbligo di registrazione presso le Camere di commercio, più quelle di lavoro autonomo associato, di tipo cooperativistico e non, possiamo stimare in circa dieci milioni il numero di persone che gravita attorno alla galassia del lavoro autonomo in Italia......C’è chi sostiene, come il prof. Martini, docente di statistica alla Statale di Milano, che questo fenomeno, verificatosi in particolare nel settore classificato come “servizi alle imprese”, non sia che il riflesso di una esternalizzazione di mansioni da parte della grande e media impresa; il che spiegherebbe anche come il lavoro autonomo sia “esploso” nelle regioni “forti”, dove la presenza nel tessuto economico di imprese di maggiori dimensioni è stata storicamente più significativa. Io concordo con questa tesi e in tale contesto mi sembra importante sottolineare che il lavoro autonomo propriamente post-fordista si distingue da quello tradizionale, concentrato soprattutto nel commercio al dettaglio e nei servizi di ristorazione e alberghieri, per l’alta dose di professionalità, da esso richiesta. Le imprese cioè avrebbero esternalizzato quelle funzioni che richiedono maggiori investimenti in “capitale umano”, scaricando sul singolo individuo i costi, molto elevati, dell’aggiornamento professionale (e tecnologico)...”.

Ancora S. Bologna nel libro “ Il lavoro autonomo di seconda generazione” (1998) scrive: “ Ho individuato dieci parametri (contenuto, percezione dello spazio, percezione del tempo, identità professionale, forma della retribuzione, risorse necessarie al mantenimento, mercato, organizzazione e rappresentanza degli interessi, cittadinanza) sui quali costruire le basi di uno statuto del lavoro autonomo. Esse possono considerarsi anche come dieci variabili fondamentali per costruire l’economia politica del lavoro autonomo....”

Chi scrive ritiene ed in questo articolo lo argomenterà ampiamente, che la posizione, precedentemente citata, pur sottolineando correttamente le caratteristiche e le differenze del lavoro “autonomo” rispetto al lavoro dipendente tradizionale, in un contesto di economia capitalista post-fordista, [5] dia troppa enfasi alle problematiche ed alla condizione “specifica” del lavoratore “autonomo” ed ai lavori cosiddetti “atipici”.

In tal modo si rischia di trascurare o comunque mettere in secondo ordine il fatto fondamentale strutturale che comunque si tratta di lavori e soprattutto di lavoratori che sono soggetti (sempre di più anche se con modalità spesso differenti da quelle dell’operaio-massa o comunque del lavoratore dipendente “tradizionale” dei servizi) ai rapporti capitale-lavoro e spesso di informazione-lavoro, dove l’informazione diventa capitale “cognitivo” ed esso stesso strumento di produzione e di gerarchia e dominio sociale ed economico.

Chi scrive pensa che questa visione, così come altre visioni non altrettanto “progressiste” di altri autori (es. Naisbit, Toefler, Fredkin, Negroponte, Porter, De Masi, ecc) [6], che considerano il post-moderno ed il post-fordismo come la conclusione della modernità e come passaggio ad una società postindustriale, detta anche “Società dell’Informazione”, in cui si “ritiene” in maniera definitiva ormai verificata la fine delle classi sociali, la fine del lavoro manuale a favore del lavoro intellettuale, non siano assolutamente condivisibili, se si analizzano i reali mutamenti del modo di produzione capitalista nell’era dell’accumulazione flessibile.

A questo proposito è interessante invece presentare un diverso paradigma di analisi dei processi economico-sociali,, che si stanno verificando nelle società a sviluppo capitalistico avanzato, che viene sinteticamente espresso con il termine “fabbrica sociale generalizzata”; scrivono [i] R.Martufi e L.Vasapollo nel recentissimo loro volumeProfit State, redistribuzione dell’accumulazione e reddito sociale minimo pag. 48 (1999): “E’ possibile identificare le informazioni necessarie a pilotare le risorse verso obiettivi dell’azienda, facendo riferimento ai processi e non alle strutture, perché è dall’integrazione delle risorse, attraverso i processi aziendali connessi, che si determina il funzionamento complessivo del sistema azienda, e, nell’ottica della fabbrica sociale generalizzata, del sistema sociale complessivo. Di conseguenza la struttura organizzativa si modifica accorpando funzioni omogenee in relazione agli obiettivi da raggiungere che sono e rimangono quelli ormai prioritari del capitalismo globalizzato. Si creano così dei sottosistemi aziendali a carattere autonomo con propri specifici obiettivi che confluiscono unitariamente nelle finalità complessive aziendali proiettati al sociale attraverso le scelte derivanti dai modelli decisionali adottati. La fabbrica sociale generalizzata, per poter meglio coordinare e controllare i suoi sottoinsiemi, investe l’intera realtà sociale di modelli decisionali derivanti da processi elaborativi interni che devono tenere conto dei vincoli ambientali. L’insieme delle proprietà che caratterizzano i diversi flussi informativi hanno lo scopo di individuare i rapporti comunicazionali che i vari settori operativi aziendali intrattengono con i molteplici attori interagenti con il sistema azienda. Si viene così a costituire un vero e proprio sistema informativo, come sviluppo di processi decisionali d’azienda scaturiti dalla risorsa informazione, che individua globalmente il territorio. E’ così che l’impresa post-fordista divenuta impresa diffusa socialmente nel territorio, una fabbrica sociale generalizzata, che scompone le mansioni, crea nuovi lavori atipici, rompendo l’unità di classe dei lavoratori e basando i suoi processi di accumulazione flessibile sull’informazione, sulla comunicazione, sull’immagine, sulle risorse del capitale intangibile, irrompendo nel sociale attraverso il ruolo assunto dal Profit State”.

Nel mondo della competizione globale vincono i più forti. I più forti sono tali soprattutto in virtù della “risorsa conoscenza” e della capacità di organizzarla in base alle competenze necessarie e comunque sempre necessariamente rinnovabili e flessibili.

I “lavoratori della conoscenza potrebbero essere la maggioranza dei lavoratori occupati (almeno è quello che vorrebbero gli apologeti del “nuovo ordine capitalista”), nei paesi a più alto sviluppo capitalistico, in tempi certamente non brevi, ma neppure epocali; la conoscenza infatti costituisce il fattore di successo per la competitività delle imprese e dei Sistemi-Paese. L’aumento delle componenti immateriali è ormai in grado di spiegare la maggiore parte dell’incremento del PIL in tutti i paesi industrializzati.

La creazione di valore economico, in sostanza, avviene attraverso la produzione, l’elaborazione, la trasmissione, la vendita di prodotti intellettuali che restano fondati su un alto tasso di impiego di conoscenza anche quando assumono una dimensione fisica.

Ora se è vero che l’aspetto “cognitivo” diviene sempre più importante nei processi economici, chi scrive, ritiene che una “critica dell’economia politica”, che si ispiri ed utilizzi i paradigmi di analisi marxiana, debba “imboccare” un approccio che la porti a definire una teoria “cognitiva” del capitalismo.

Questo approccio dovrebbe permettere di costruire un corpo teorico che, nel rispetto dell’eredità dell’analisi marxiana, contenente comunque il suo nucleo teorico centrale, riesca ad incorporare nell’analisi economica gli aspetti caratteristici della fase attuale dell’organizzazione capitalista, caratterizzata dalla “accumulazione flessibile”.

E’ necessario comprendere le caratteristiche dei rapporti sociali di produzione, connaturati con questa fase della forma capitalistica di produzione ove, tramite la produzione di merci informatizzata ed ai modelli di organizzazione del lavoro, il controllo del lavoro è realizzato sotto forma di manipolazione simbolica ed informativa ed in cui si fa strada la necessità del capitale, per competere in un contesto globale, di una partecipazione “creativa” della forza-lavoro, orientata globalmente agli obiettivi delle imprese, da cui promanano mutamenti radicali della fenomenologia delle forme del potere manageriale e capitalistico sul lavoro.

Nel prossimo paragrafo di quest’articolo verrà presentato “un approccio teorico di analisi”, che, per chi scrive, costituisce una proposta per un paradigma di analisi teorica, atto a fare comprendere “in nuce”, in continuità con l’eredità del nucleo teorico e metodologico della “critica dell’economia-politica marxiana”, le attuali specifiche caratteristiche del lavoro e dell’organizzazione capitalistica nell’era dell’informatizzazione e della telematica.

 

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3. Il “Capitalismo Cognitivo”: un “approccio” all’analisi economica della forma di produzione del capitalismo nell’attuale fase di “accumulazione flessibile”

 

La rivoluzione informatica, la trasformazione dell’organizzazione del lavoro (sia della produzione di merci in fabbrica, sia delle attività intellettuali, informative nel settore del “terziario”), la centralità del sapere (non solo come fattore tecnico-scientifico della produzione, ma dal punto di vista dei processi di produzione in cui esso stesso viene prodotto), le rivoluzioni epistemologiche nel dominio delle scienze sociali, costringono a ripensare gli strumenti di analisi teorica della società capitalista e delle sue forme organizzative.

Per produrre capitalisticamente le merci in un regime altamente concorrenziale, quale quello determinatosi con la finanziarizzazione a livello internazionale dei capitali, all’internazionalizzazione della produzione e dei mercati, ed in cui la forma della tecnica produttiva concerne la struttura delle comunicazioni e comporta il trattamento automatico dell’informazione, si determina per il funzionamento dell’impresa e per la costituzione del sistema economico nel suo complesso la necessità che ad essere prodotte, come merci, siano “le menti dei soggetti”. Si tratta di una complessa sintesi evolutiva - anche filosofica - tra la produzione capitalista di merci e la forma-merce (del lavoro) con cui la produzione capitalista opera.

La fabbrica sta divenendo una “gigantesca fabbrica delle menti”, non solo nel senso che la produzione manufatturiera si costituisce come supporto della “produzione di conoscenza”, ma anche nel suo reciproco, in quanto il processo di produzione “della conoscenza” sta assumendo la conformazione di una enorme fabbrica sociale, è la “produzione dell’individuo”, della sua “struttura cognitiva e mentale”.

Sta mutando la fisionomia del luogo di produzione che ha caratterizzato la storia del capitalismo dalle sue origini: la fabbrica diviene un reticolo di produzioni informative ed il reticolo delle produzioni di conoscenza diventa una fabbrica, della quale assume la disposizione ad essere organizzato secondo modelli industriali e finalizzato alla valorizzazione capitalistica tramite incrementi della produttività del lavoro.

Il processo lavorativo viene caratterizzato da una profonda trasformazione: esso è sempre più caratterizzato da ciò che sinteticamente viene chiamato riflessività e creatività “coatta” del lavoro.

Il compito prevalente del lavoro salariato nella sua congenita subordinazione al comando del capitale si era costituito, nel corso di secoli, prima nella manifattura, poi nell’industria, intorno ad una funzione prevalentemente esecutiva delle direttive che il capitalista ed i suoi agenti (i capi-intermedi, i managers) impartivano. Il lavoro salariato (manuale, operaio) si contrapponeva storicamente al comando capitalistico nella misura dell’espropriazione delle prerogative ideative e decisionali cui veniva sottoposto in merito alle modalità del suo estrinsecarsi; in altri termini la direzione dei processi di lavoro, la loro finalità, loro modalità, e soprattutto la loro trasformazione per conseguire incrementi di produttività erano prerogative sottratte al lavoro operaio, e poste al suo esterno. Il lavoro operaio salariato era per definizione “esecutivo” e, grazie alla sua capacità “esecutiva”, veniva utilizzato nel sistema dei rapporti capitalistici per valorizzare il capitale, per produrre il profitto.

La “rivoluzione”, che le tecnologie della conoscenza e della comunicazione hanno reso possibile, è quella di tramutare in “ necessità ideative” le prerogative delle funzioni esecutive; operare come “appendici” delle macchine e delle conoscenze formalizzate, basate sui processi informativi, presuppone, presto o tardi, un’emancipazione delle pure funzioni esecutive e di controllo; questo fatto costituisce il lato progressivo dello sviluppo delle “forme cognitive “ del capitalismo, cui corrisponde uno “nuovo e diverso” sviluppo a livelli più elevati e complessi delle forme di subordinazione del lavoro, anche nelle sue “nuove forme”, al dominio del capitale.

Il lavoro operaio, così come quello “impiegatizio” e quello dei “quadri aziendali, deve sempre più occuparsi della propria organizzazione procedurale; da puro esecutore di funzioni, esso deve “riflettere” sui metodi organizzativi della sua “estrensicazione” e deve trasformare continuamente le procedure, per cui il mutamento innovativo dell’organizzazione della produzione cessa di essere esterno alle attitudini del lavoro subordinato, mutando la forma stessa di subordinazione del lavoro

Per “lavoro cognitivo” [7] si deve intendere il lavoro che viene investito della riflessività: esso trasforma la struttura organizzativa e procedurale con cui si esplica e ciò facendo genera nuova conoscenza.  [8]

La “creatività” diventa prerogativa indispensabile per l’esecuzione del compito, e, nel momento in cui si esprime, sottoposta com’è alla valorizzazione del capitale, diventa la forma stessa della costrizione ovvero è una “creatività coatta”, condizionata e vincolata da fini esterni alla struttura dei bisogni dei soggetti che la esprimono.

Scrive R.Finelli nel saggio introduttivo del volume di L.Cillario, R.Finelli: “ Capitalismo e conoscenza -l’astrazione del lavoro nell’era telematica- “ 1998 a pag. 17: “Il postmoderno nasce quando oggetto del dominio del capitale sulla forza-lavoro cessa di essere il “corpo” e comincia ad essere la “mente”. Quando cioè funzione fondamentale del processo produttivo per quanto concerne la forza-lavoro è la subordinazione e l’omologazione della coscienza. Sia che si tratti infatti di erogazione di energia alla macchina informatica sia che si tratti di partecipazione alle procedure della cosiddetta “qualità totale”, ciò che è in gioco nella sussunzione reale della forza -lavoro al capitale non è più la materia ma lo spirito del lavoratore. L’intelligenza di questi, la sua capacità di scelta, la sua intera complessità emozionale-intenzionale è ciò che serve ora al capitale da quando l’automazione unita all’informatica espelle forza-lavoro manuale e richiede forza-lavoro mentale e da quando la filosofia dell’azienda tende a richiedere un lavoro riflessivo, capace di assumere il proprio costante e continuo miglioramento [9] come oggetto di se-stesso. In particolare la macchina informatica richiede una forza-lavoro mentale particolarmente subalterna ed omogenea, essendo la sua caratteristica fondamentale quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello umano e di dar luogo così ad una mente artificiale di cui quella umana diventa solo funzione e appendice. Il paradosso del nuovo lavoro- del lavoro cosiddetto post-fordista - consiste nel fatto che ciò che ora viene normalizzato e colonizzato, nel nuovo sistema forza-lavoro mentale- macchina informatica, è non più il corpo ma la mente stessa del lavoratore. E’ cioè la sua “coscienza”, sia come attitudine alla comprensione globale ed intuitiva sia come capacità logico-discorsiva (insomma ciò che fin’ora veniva definito come la caratteristica più personale e non normalizzabile del soggetto umano...”.

La combinazione dei lavori cognitivi espressi negli ambiti dell’attività produttiva nei diversi settori dell’industria, del terziario, della produzione delle merci culturali, etc, dà luogo ad una progressiva astrazione del sapere prodotto. Dal processo di astrazione del sapere dipende la sua accumulazione e la possibilità dello scambio delle conoscenze in forma di merci, nonchè la possibilità della misurazione, del calcolo e della razionalizzazione e della ottimizzazione del lavoro che le produce.

Produrre automobili, scarpe, pratiche di ufficio nelle banche o nella Pubblica Amministrazione, qualsiasi merce o servizio, è segnato dalla differenza fenomenica del prodotto/servizio, ovvero soggiace alla naturale legge della diversità delle forme, dei materiali, dei corpi fisici e delle realtà simboliche degli oggetti; ma produrre metodi per la produzione di automobili, scarpe, di questa o quella merce o servizio, configura un processo di omogeneizzazione dei prodotti/servizi, per cui gli oggetti prodotti sono i metodi; ciò ci fa entrare in una dimensione “meta-lavorativa”, ove le conoscenze relative si rendono omogenee, i linguaggi si uniformano, i frutti del sapere si interconnettono, si scambiano, si sovrappongono.

Tale dimensione meta-lavorativa del processo di produzione si avvita su se stessa, perchè la produzione di metodi a sua volta richiede metodi, per cui la complessità dei processi aumenta, ma si è “costretti a realizzare” contemporaneamente un processo di unificazione dei criteri guida di progettazione dei metodi di produzione.

Insomma la complessità della società “solo apparentemente vive di diversificazione”, mentre nelle sua struttura profonda obbedisce ad una legge sempre più ferrea ed omogenea, che si può far risalire al nodo cruciale della valorizzazione del capitale attraverso incrementi della produttività e dell’efficacia del lavoro, in particolare espressi nella sua forma “riflessiva” e “cognitiva”.

L’“astrazione riflessiva” è pertanto la forma capitalistica dell’ ”astrazione del lavoro” che sembra essere adeguata alla fase della informatizzazione della società; che rende praticabile la valorizzazione del capitale nelle nuove forme ed alle nuove condizioni storiche della produzione di merci.

In quello che è stato chiamato in questo approccio schematico di analisi “capitalismo cognitivo” il valore economico viene generato dall’uso della conoscenza come forza produttiva, il capitale cognitivo si presenta come una componente del capitale economico-finanziario che si riferisce alla ricchezza generata dalle prestazioni riflessive del lavoro.

Esso si riferisce a quella quota di ricchezza, esprimibile in denaro, che è associata al lavoro espletato per incrementare la forza produttiva del lavoro in termini di efficacia ed efficienza ovvero il valore prodotto dal lavoro nel momento in cui innova ed ottimizza i propri metodi di produzione.

E’ evidente che il “capitale cognitivo”, definito in maniera scientifica, [10] stabilisce rapporti con le altre forme del capitale, in una reciproca indipendenza ontologica, nel senso che la preminenza di una determinata forma del capitale (in questo caso cognitiva) su altre forme, storicamente precedenti quali il capitale commerciale, il capitale industriale, il capitale finanziario, genera nuovi rapporti sociali, che possono spiegare le fondamentali specificità della forma di produzione capitalistica nella fase di accumulazione flessibile, ma non portano necessariamente all’eliminazione delle precedenti forme di capitale, che anzi convivono con esso nel “sistema capitalistico complessivo” della fase della “globalizzazione”.

In nessun modo insomma, il capitale cognitivo può essere considerato sostituirsi alle altre manifestazioni del capitale (in questo errore ad esempio incorre P. Barcellona nel volume “ Il capitale come puro spirito”); in realtà esso non ha titoli per arrogarsi tale prerogativa, costituendo solo uno stadio che il capitale attraversa in determinate fasi del ciclo della sua produzione complessiva. Altro è il capitale industriale, altro il capitale finanziario,... e altro ancora il capitale, che racchiude in sè, unitariamente, le sue diverse forme di manifestazione ed i diversi modi di strutturazione dei processi lavorativi che vi presiedono.

Come alle altre forme, al capitale cognitivo, va attribuito carattere storico e determinato entro i rapporti sociali capitalistici determinati in una specifica epoca.

Infatti in sintesi scrive molto efficacemente Finelli (vedi saggio introduttivo dal volume “Capitalismo e conoscenza”, opera citata pag.11)  [11]. La tesi che si sostiene in questo saggio invece è che il postmoderno sia il compimento del moderno nel senso della sua piena realizzazione: e specificamente che la caratteristica essenziale e più evidente di tale realizzazione consista in un processo che si può definire come la diffusione nell’intera realtà sociale ed individuale di un soggetto astratto: ovvero come lo svuotamento del concreto da parte dell’astratto.Tale soggetto astratto e impersonale è il capitale, come è stato teorizzato da Marx, quale ricchezza non antropomorfa (ossia solo quantitativa), che ha come proprio fine costitutivo l’espansione inesauribile e non limitabile della sua quantità: cioè come ricchezza che piega alla sua accumulazione l’intero mondo qualitativo dei valori d’uso e dei bisogni umani. Il capitale nella teorizzazione che ne ha fatto Marx è infatti quantità pura, al cui essere è indifferente qualsiasi determinazione concreta qualitativa e quantitativa. Può assumere la forma (qualità) di qualsiasi produzione che identifica la sua natura e che è appunto di quantità in divenire. Esteriore e indifferente al mondo delle qualità, il capitale è quantità in generale e tale sua natura lo destina a un progresso quantitativo infinito.

Ma affermare questo significa porre come soggetto della storia contemporanea una mera quantità: una quantità cioè talmente astratta dal mondo delle qualità che le uniche differenze qualitative che albergano in essa sono quelle appunto quantitative, della sua crescita o della sua diminuzione. E significa distinguere il capitale dal capitalista [/b]: giacchè una cosa è il capitale come soggetto tendenzialmente infinito (in quanto pura quantità in rapporto di continua accumulazione con se stessa) e un’altra cosa sono i capitalisti, quali soggetti finiti nel tempo e nello spazio che di quel primo soggetto si fanno rappresentanti interpreti nella concretezza del mondo differenziato e qualitativo dei processi di produzione e vendita dei valori d’uso. Così il capitale, nel suo essere quantità pura, destinata ad un accumulazione infinita, istituisce un piano di realtà astratta e sovrasensibile che va ontologicamente distinto - ma non opposto- all’agire psicologico del capitalista, in quanto soggetto umano contestualizzato nello spazio e nel tempo”.

L’ipotesi di una interpretazione del “marxismo dell’astrazione reale” di Finelli centra la sua attenzione sul processo di lavoro e costituisce, a fondamento della sua analisi teorica e sociologica, l’analisi dell’uso della forza-lavoro, il modo cioè in cui, nel sistema uomo-macchina, la classe o l’insieme delle classi, portatrici di energia-lavoro in tutte le sue forme, viene utilizzata per i processi produttivi.

In questa visione la teoria marxiana della “critica dell’economia politica” supera la visione “positivistica e neutrale”, tramandata dall’interpretazione engelsiana e kautskiana (tipica della tradizione socialdemocratica), dello sviluppo progressivo e meccanicistico delle forze-produttive ed in particolare dello sviluppo delle macchine e della tecnologia, presentando la produzione nel sistema economico capitalista in relazione al suo strutturarsi secondo “lo sviluppo dei processi d’interazione uomini- macchine”.

I sistemi organizzativi del lavoro ed i processi non devono essere solamente indagati secondo la categoria antropomorfa della divisione del lavoro, come lo stesso Marx ha fatto in alcuni luoghi della sua opera, suggerendo una concezione della tecnologia, esclusivamente come progressivo svuotamento ed appropriazione, da parte del sistema tecnologia-macchine, delle capacità e delle funzioni del soggetto umano, favorendo esclusivamente una visione puramente meccanicistica dell’appropriazione, da parte del “sistema delle macchine e della tecnologia”, del “sapere operaio” (General Intellect) e la sua incorporazione nelle procedure automatizzate ed informatizzate dei processi di produzione.

Essi devono essere indagati analizzando anche gli impatti che l’utilizzo “capitalista” della scienza e delle tecnologie provoca sui cambiamenti della struttura e dell’organizzazione del processo di lavoro; il capitale infatti, obbligato dall’obiettivo primario di “valorizzazione continua di se stesso”, provvede, attraverso l’utilizzazione del progresso scientifico ed il variare dei suoi paradigmi, ad un miglioramento “ più efficiente ed efficace” del processo di normalizzazione e controllo dell’uso della “forza-lavoro”.

Il filo conduttore per comprendere i processi innovativi, quali quelli derivanti dall’introduzione delle tecnologie informatiche e delle comunicazioni nei processi di produzione e di distribuzione nell’attuale fase del sistema capitalista nei paesi più avanzati, consiste, in una prospettiva macro-economica, non tanto principalmente nell’espellere forza-lavoro, quanto soprattutto di subordinare, regolarizzare e controllare la forza-lavoro, ancora attiva, attraverso un sistema sempre più esteso ed efficiente d’informazioni-comandi, che costituiscono la dimensione “meta-lavorativa” (espressa nelle forme “riflessive” e “cognitive” del lavoro), il cui fine è quello di disporre di lavoro sempre più conforme alle esigenze di valorizzazione del capitale.

Perciò le visioni teoriche e sociologiche, quali quelle citate nel precedente paragrafo, che analizzano e teorizzano lo sviluppo dei processi lavorativi del sistema capitalista, come un susseguirsi (taylorismo, fordismo, post-fordismo) di fasi di riorganizzazione e trasformazione in termini di processi organizzativi, rischiano di non cogliere i nessi essenziali che caratterizzano l’attuale fase d’accumulazione flessibile.

Secondo tali concezioni i processi organizzativi innovativi agiscono inizialmente solo sul polo della forza-lavoro, attraverso una divisione ed una parcellizzazione sempre più minuziosa delle mansioni della forza-lavoro e successivamente (o contemporaneamente) tramite fasi di trasformazioni produttive che agiscono fondamentalmente sulla dimensione tecnologica delle macchine, incorporando e formalizzando i processi lavorativi, precedentemente analizzati e semplificati, in procedimenti automatico-meccanici o meglio automatico-informatici. -----

Infatti gli approcci organizzativi utilizzati negli ultimi decenni sono stati caratterizzati dalle seguenti logiche:

• orientamento prevalente all’efficienza (pianificazione ed “ottimizzazione” delle risorse per svolgere un’attività, specie di tipo produttivo nel cosiddetto “capacity planning” o MRP II (Manifacturing Resource Planning) [12];

• focus sui “processi fisici”, cioè logistico-produttivi (automazione dei magazzini, delle fasi di produzione tramite utilizzo dei robot nel CIM);

• interventi di “reset” sugli organici aziendali, ovvero riduzioni più o meno a parità di output;

• forte leva sulla revisione ed il potenziamento dei processi informativi, a cui adattare poi l’organizzazione.

Gli anni Ottanta hanno perciò visto l’adozione del Total Quality Management (TQM) e del Just In Time (JIT)  [13], come principi fondamentali di ogni revisione dei processi produttivi; essi sono stati solo un punto di partenza ed attualmente, negli anni 90, ci si è resi conto che:

• gli approcci riorganizzativi devono riuscire a garantire nel contempo massima efficacia ed efficienza, ma in relazione ai fattori-chiave ovvero all’analisi del “ core business” dell’azienda e comunque in parallelo alle evoluzioni delle strategie del business;

• i processi con maggiori margini di miglioramento non sono quelli fisici, ma quelli gestionali/impiegatizi;

• gli interventi di “reset” degli organici dovrebbero essere effettuati sulla base di una chiara preliminare individuazione di come garantire il mantenimento o l’aumento dell’efficacia dei processi chiave o primari per l’azienda.

Tutto ciò ha portato alla messa a punto del cosiddetto “Business Process Reenginering”, ovvero ad un approccio organizzativo di ridefinizione dei processi aziendali, delle strutture organizzative, dell’uso delle tecnologie informatiche e delle comunicazioni, con l’obiettivo di ottenere dei salti di qualità nella competitività globale dell’azienda capitalista nella realtà del mercato internazionale. [14]

Se dalle teorie e pratiche organizzative dell’attuale paradigma “manageriale”, predicato dai “guru” e dalle società di consulenza direzionale, si passa alle teorie poi, che apparentemente sembrano le più “progessiste”, poiché “teorizzano” processi di “liberazione” ed “autonomizzazione” dei lavoratori tramite l’uso delle tecnologie informatiche e telematiche, si arriva al seguente “paradossale” risultato:

• il principale mezzo di produzione (l’abilita cognitiva) non e’ più incorporabile nelle macchine; queste sono un supporto alla comunicazione ma paradossalmente la grande sofisticazione delle macchine le “ha svuotate” di valore autonomo e ricollocate come un medium, un ambiente per la competenza comunicativa umana. Il mezzo di produzione principale e cosi’ strutturalmente spostato dalla macchina industriale alla mente, all’intelligenza collettiva ed individuale dei lavoratori.

La “devastazione” teorica e culturale dell’analisi marxiana da parte di certa “autonomia”, che si ispira anche alle recenti teorie negriane  [15], in particolare delle teorie del “General Intellect” di Marx, arriva ad identificare “la possibilità di un processo liberatorio”, incarnato nella cosiddetta “ intellettualità di massa”, capace di sganciarsi dalla potenza pervasiva del legame sociale capitalista nelle sue “nuove forme “ (informatiche e telematiche) di produzione, identificando l’innovazione tecnica come immediata possibilità di vita liberata, prometeismo del soggetto collettivo e giungendo a “rimuovere” la necessità di un superamento del sistema capitalistico ed alla accettazione “conservatrice” dello stesso come l’unico modo di produzione economica possibile ed eterno nella storia.

E’ la idea dello svilupparsi autonomo di un capitale di “capacità” “intelligenze”, che porta allo abbandono di ogni critica globale del sistema capitalista e delle sue “forme “ di produzione, in nome di una “ variopinta” molteplicità di linguaggi, impulsi e suggestioni indipendenti, magari vaganti nella rete del “cyberspazio”. [16]

Al contrario, come si è visto, chi scrive ha cercato di presentare, anche se necessariamente in modo sintetico ed incompleto, un paradigma di analisi, che, generalizzando opportunamente i principali risultati del nucleo teorico marxiano, consente di utilizzare una metodologia, valida anche per interpretare i fenomeni, “apparentemente nuovi” della attuale fase di sviluppo del capitalismo.

A tal fine si è presentato il paradigma rappresentato dal concetto di “capitalismo cognitivo”, per cui il valore economico viene generato dall’ “uso della conoscenza” come forza produttiva, ovvero dall’uso delle informazioni, intendendo con questo termine sia le conoscenze soggettive (tacite od esplicite), sia le relazioni utili che sono oggettivamente contenute in un contesto organizzativo od in un codice (procedura codificata).

In sintesi il “capitalismo cognitivo” consiste in questo:

nel fatto che la “conoscenza” (o più in generale, l’informazione ed il processo di scambio della stessa) si frappone come fattore intermedio tra il lavoro ed il risultato finale della produzione (l’utilità del bene/merce o del servizio ottenuto).

Rispetto alla idea tradizionale di capitalismo (pre-cognitivo), cambia cioè l’oggetto su cui si esercita il lavoro, nel senso che la “forma cognitiva” del capitalismo non fornisce più direttamente il prodotto od il servizio utile, ma produce “conoscenza”; è poi la “conoscenza” che, anche attraverso le procedure automatiche ed informatizzate, a sua volta attiva il processo produttivo.

Niente di nuovo, si dirà, anche perché le macchine o le materie prime - così come tutto il capitale, che per Marx cumulava il valore del “lavoro morto” - costituiscono fattori intermedi, ovvero fattori, che per così dire, “stoccano il valore del lavoro “vivo” (usato nella produzione) e lo trasmettono al prodotto finale.

La “conoscenza”, che pervade il “capitalismo cognitivo”, potrebbe essere considerata nient’altro che l’ultima incarnazione di un capitale che, grazie alla sua natura astratta, ha potuto e può assumere molte sembianze e forme storicamente determinate.

Era “capitale-lavoro” nella fabbrica artigianale della prima manifattura, priva di macchine; diventa poi “capitale-macchine” nelle acciaierie e nelle ferrovie di fine secolo; si trasforma in “capitale-organizzazione”, durante il fordismo ed alla fine, diventa “capitale-conoscenza” nell’economia di oggi, nelle fase della accumulazione flessibile; in tutti questi passaggi, il capitale si trasforma esteriormente, ma si può pensare che non cambi la sua funzione di “valore astratto”, che, rimanendo impiegato nelle produzione, è in grado di circolare, di passare, cambiando forma, da un luogo all’altro, cercando comunque di “realizzare l’obiettivo primario della “valorizzazione” di se stesso come quantità astratta.”.

Si profilano tempi duri, di selvaggia sottomissione di popoli ed individui ad una egemonia capitalista, mai finora così incontrastata, benchè preda di gravi crisi e contraddizioni. In prima approssimazione e, forse in modo troppo sintetico, si può caratterizzare l’attuale fase dello sviluppo capitalistico come la fase in cui si sta compiendo la “sussunzione reale della società nel suo complesso all’egemonia ed al dominio del capitale”.

Comunque, chi scrive, spera di essere riuscito a far comprendere in questa sintetica trattazione i seguenti fondamentali messaggi:

• l’aumento della complessità economico-sociale non significa il venire meno di meccanismi ed automatismi di strutturazione generale dell’essere-sociale, che possono essere identificati nella chiarezza della loro logica di funzionamento;

• il rifiuto di una lettura “tecnicistica” e post-moderna della società contemporanea va di pari passo con il riconoscimento del permanere, sia pure in forme inedite e spesso irriconoscibili, del capitalismo come totalità in grado, ieri come oggi, di autoriprodursi, attraverso continui cicli di espansione e di crisi, strutturando e piegando ai suoi fini segmenti sempre nuovi del mondo vitale e lavorativo;

• chi si prefigge la comprensione e la trasformazione della realtà contemporanea, deve fare primo oggetto di interpretazione, di studio, di ricerca e inchiesta, proprio il modo di produzione capitalistico, in un intento di continuità e discontinuità, non tanto con il “marxismo” o meglio i “marxismi”, quanto ancora una volta, e direttamente con l’opera di Marx, i suoi metodi di analisi ed ancora più con l’oggetto specifico delle sue analisi.

 

 

4. Il fenomeno dei “lavoratori della conoscenza”: analisi dei risultati di una ricerca internazionale

 

J. Rifkin, divenuto famoso anche in Italia per il suo saggio divulgativo “La fine del lavoro” (1995), prospetta uno scenario “pessimistico”, caratterizzato da nuove polarizzazioni e discriminazioni nella forza lavoro: da una parte una vasta schiera di lavoratori contingenti, sottoccupati, part-time o a bassa qualificazione, dall’altra un gruppo ristretto di lavoratori ad alta specializzazione e reddito crescente; Rifkin stima che i “knowlodge workers” (termine coniato già da P. Druker) rappresentino attualmente già il 20% della popolazione lavorativa dei paesi capitalistici più sviluppati. Solo il 4% costituisce l’èlite dei nuovi professional, che possiede un’enorme parte della ricchezza e che gestisce, beneficiandone nel contempo, la nuova economia delle alte tecnologie. Per Rifkin, i “knowledge workers” sono una forza cosmopolita, che vende i propri servizi e le proprie competnze in tutto il mondo, e che entro il 2020 rappresenterà più del 60% del reddito, costituendo una nuova classe limitata ed elitaria di lavoratori.

Ora, pur non essendo in quest’articolo interessati a discutere queste “visioni profetiche”, non si può negare che, mentre nelle società industriali del diciannovesimo e del ventesimo secolo, la localizzazione delle attività produttive nei diversi paesi dipendeva dalla disponibilità di risorse naturali e di fattori quale il capitale ed il lavoro, ciò non è più vero nell’economia ad accumulazione flessibile dei prodotti e dei servizi ad alta intensità di “conoscenza”.

Le industrie a più alta crescita negli ultimi anni 90 microelettronica, bio-tecnologie, telecomunicazioni, robot, computer, produzione di software per computer, sono industrie “brainpower”, che non dipendono dalla disponibilità delle risorse naturali e che possono essere localizzate in qualsiasi parte del pianeta, in quanto la fonte nuova ed il fattore di successo chiave per il vantaggio competitivo per la produzione industriale consiste già oggi e consisterà sempre di più nella creazione e nella capacità di applicazione delle conoscenze “scientifiche” e soprattutto dei processi economici.

Le trasformazioni che stanno attraversando le imprese nei primi anni 90 - l’abbattimento delle rigide divisioni funzionali, la delega delle responsabilità, la diminuzione dei livelli gerarchici- richiedono che la forza lavoro sia più istruita e competente, anche ai livelli più bassi dell’organizzazione aziendale, in quanto si vorrebbe che vengano “comprese” le strategie delle aziende e che si riesca a tradurle in decisioni appropriate; questa esigenza, che soprattutto è ovviamente una esigenza delle aziende, è dimostrata da alcuni studi recenti, che evidenziano come gli investimenti in conoscenze abbiano generato tassi di ritorno degli investimenti doppi rispetto a quelli relativi agli investimenti in stabilimenti ed attrezzature per la produzione di merci: si pensi al fenomeno di sviluppo della industria del software per Personal Computer che è stato ed è tuttora la Microsoft [17].

Ma le competenze da sole non garantiscono il successo, in quanto devono essere generate, attratte ed organizzate in modo appropriato. Secondo L.Thurow [18], si prospetta un futuro in cui l’èlite dei “knowlodge workers” sarà costituita da figure in grado di integrare reti mondiali di conoscenze, ovvero sembrerebbe, che, piuttosto che ad una polarizzazione, si potrà assistere ad una diffusione generalizzata delle conoscenze, anche se gerarchizzate a diversi livelli.-----

Questa prospettiva è poi quella, che viene propagandata dai responsabili politici dei paesi industrializzati (ad esempio tramite i programmi della Unione Europea di sostegno alla ricerca tecnologica per una Società dell’Informazione, per non parlare dei programmi USA), per cui il futuro delineato deve essere costruito e dipenderà dalla capacità dei paesi occidentali di investire nei servizi hi-tech, progettare organizzazioni in grado di gestire e di integrare le conoscenze lungo la “filiera del business”, creando una struttura solida di sviluppo delle conoscenze.

Al di là della veridicità o meno di queste profezie o di queste strategie, l’idea che, chi scrive, si sente di sostenere e cercare di “approfondire”, consiste nel fatto, che l’emergere di nuovi sistemi di lavoro, non è riconducibile ad un semplice incremento delle competenze, richiesto ai tradizionali lavoratori che operano nelle imprese private, come anche e sempre di più nelle pubbliche amministrazioni, ma costituisce una nuova forma di produzione, coerente con il modo di produzione capitalista, che sta soppiantando progressivamente il precedente modello taylor-fordista.

In particolare il nuovo sistema di produzione, centrato sulla “conoscenza”, sta portando sulla scena nuovi soggetti- “i lavoratori della conoscenza”, che, analogamente a quanto è già successo nel sistema di produzione capitalistico del novecento, con la figura dell’operaio-massa, sono costretti ad operare in un contesto di radicale mutamento della struttura del lavoro, sia sul fronte dell’organizzazione, che sul fronte delle cosiddette “relazioni industriali” tra lavoratori e management aziendale, ovvero tra lavoro e capitale.

D’altra parte, come si è illustrato nel precedente paragrafo del presente articolo, sono proprio gli aspetti di “lavoro cognitivo” e “creatività coatta” che sembrano essere proprio quelli che individuano le peculiarità dei “lavoratori della conoscenza” e, come si è visto, tali aspetti influenzano fondamentalmente la dimensione “meta-lavorativa” e quindi dei metodi organizzativi dei processi di produzione.

Pertanto nel seguito si illustreranno i risultati qualitativi e quantitativi della ricerca internazionale condotta in Francia, Germania ed USA dall’IRSO (Istituto RSO) nel 1995, che ha messo in luce, come la popolazione dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”, stia divenendo la “categoria centrale” della forza-lavoro nelle imprese di grandi e medie dimensioni dei paesi più sviluppati dal punto di vista dell’economia capitalista. [19]

In particolare si cercherà di documentare che:

1. le occupazioni ad alta qualificazione crescono in modo continuo e significativo sia nel settore manifatturiero, sia in generale e quindi anche nella Pubblica Amministrazione; questo trend interessa tanto il lavoro manageriale, quanto il lavoro professionale e tecnico, anche se per il futuro i trend di crescita dovrebbero vedere far prevalere le figure a base professionale e tecnica, piuttosto che quelle manageriali ed amministrative;

2. le occupazioni a media qualificazione - inclusi gli operai qualificati - restano percentualmente stabili nel tempo, pur a fronte di una progressiva riduzione complessiva del segmento di popolazione operaia ed impiegatizia; ciò significa che in rapporto al totale degli operai ed impiegati, le figure di media qualificazione sono in realtà in crescita;

3. le occupazioni a bassa qualificazione decrescono rapidamente e marcatamente in tutti i settori produttivi e dei servizi del terziario;

4. le grandi classi occupazionali tradizionali (blue collar/white collar, professional/manager), basate sulla funzione, sull’ambiente in cui lavorano, sulla classificazione sociale hanno confini meno netti e le distinzioni tra essi tendono ad essere meno nette, se non a scomparire;

5. le forze - lavoro tendono a distinguersi piuttosto in base al livello di qualificazione, competenze, scolarità;

6. lo sviluppo quantitativo e qualitativo dei lavoratori della conoscenza:

• è correlato all’evoluzione tecnologica, automazione dei processi industriali e soprattutto più recentemente alla diffusione delle tecnologie dell’informazione ed della comunicazione, così come al crescente impiego di conoscenze scientifiche nei processi economici e produttivi;

• è associato a strategie competitive, centrate sull’innovazione di processo e di prodotto e sullo sviluppo di servizi a valore aggiunto.

Sia ben chiaro che la popolazione, di cui si vuole parlare - i “lavoratori della conoscenza”- non risulta definita in modo preciso, anzi viene di solito classificata secondo diverse prospettive ed in vari metodi:

rispetto al livello di formazione include diplomati, laureati, master, titolari di dottorati;

rispetto al contenuto del lavoro include manager (dirigenti e quadri), professional, tecnici, figure commerciali e di marketing, group-project leader, conduttori e gestori di sistemi, addetti al customer-care, responsabili di una unità di business o di un cliente od un’insieme di clienti-chiave, che hanno molte sovrapposizioni sfuggenti;

rispetto alla posizione occupazionale ed contrattuale include dipendenti garantiti (“core”), dipendenti flessibili (“supplemental”), dipendenti di imprese outsourcer (lavoratori interinali, ecc), lavoratori “autonomi” eterodiretti di seconda generazione, ecc: figure professionali uguali si trovano spesso in posizioni occupazionali diverse (es: gli informatici, i consulenti direzionali).

Risulta aperta la questione della nuova strutturazione interna di questa categoria di lavoratori, anche perchè le attuali differenziazioni prima o dopo daranno luogo a nuove differenziazioni e così via. [20]

In particolare i sistemi di classificazione, utilizzati dagli enti statistici di Francia, Germania e Stati Uniti, differiscono spesso in modo significativo, per cui nella ricerca suddetta dell’IRSO, al fine di rendere confrontabile i fenomeni, le tendenze, i dati forniti dagli enti statistici ufficiali per le diverse classi occupazionali, sono stati analizzati e riaggregati in categoria per lo più omogenee; le logiche utilizzate seguite per l’aggregazione dei dati verranno indicate volta per volta a commento delle tavole e dei grafici presentati.

 

4.1. Principali trend evolutivi nella composizione degli occupati nei tre paesi

 

Nel seguito del suddetto paragrafo verranno presentati i principali trend evolutivi, ricavati nella ricerca dell’ IRSO, della struttura occupazionale dei tre paesi analizzati, con particolare riferimento all’evoluzione avvenuta negli ultimi vent’anni; per quel che riguarda la Francia i dati forniti si riferiscono ad un periodo piu’ breve, a causa del fatto che, a partire dal 1982, e’ stato adottato un nuovo sistema di classificazione, che ha reso piu’ difficile il confronto tra i dati.

 

STATI UNITI. I dati relativi agli USA segnalano una crescita costante e marcata delle fasce di popolazione piu’ qualificate a discapito delle fasce di lavoro “unskilled”; i dati forniti dal Bureau of Census mostrano che dal 1900 al 1994 la categoria dei white-collar workers passa dal 17,6% al 57,8% ed in particolare nell’ambito di questa categoria i “professionals and technicals” costituiscono l’aggregato che mostra i tassi di crescita piu’ marcati, passando dal 4,3% al 17,4% dell’intera popolazione attiva. Nello stesso tempo i “farm workers” passano dal 37,5% al 2,9% ed i “manual workers” dal 35,8% al 25,5%.

Gittleman e Howell (1995) hanno classificato tutti gli occupati nelle imprese private in base al livello di qualificazione del lavoro svolto, giungendo a determinare quattro raggruppamenti [21]; come si può notare dalla fig. 1, l’aggregato “alta qualificazione” e’ passato, tra il 1973 ed il 1990, dal 15,6% al 21,8%, mentre nello steso periodo la “bassa qualificazione” e’ scesa dal 23,7% al 20,7%.

La ricerca IRSO conferma e rafforza questa tendenza: a partire dalle statistiche ufficiali dello US Bureau of Census, sono stati classificati tutti gli occupati in tre ampie classi ovvero “alte”, “medie” e “basse” qualificazioni, ma differentemente dalla ricerca di Gittleman e Howell, si e’ scelto di non limitare l’indagine alle imprese private, ma di estenderla a tutti gli occupati; ciò anche al fine di verificare la fondatezza delle tesi piu’ pessimistiche, che ritengono che la crescita dell’economia americana abbia generato soprattutto lavori dequalificati e marginali (servizi di pulizia, servizi alle persone,ecc). Sono stati esclusi (raggruppamento qualificazioni “non determinabili “) quei gruppi professionali di difficile collocazione nelle tre categorie (come ad esempio i “sales workers”) a causa della loro elevata eterogeneità nella composizione.

Come si può osservare nella fig. 2 [22] le alte qualificazioni sono cresciute significativamente, passando dal 25,8% degli occupati nel 1977 al 31,4 nel 1995. Questo andamento mostra come nel tempo la generazione di lavori ad alta qualificazione abbia favorito un migrazione di parte delle medie qualificazioni verso l’alto e non, come sostenuto da alcuni, verso posti di lavoro dequalificati e sottopagati.

La leadership conseguita dagli USA nel corso degli anni 90 nei settori hi-tech ed a piu’ alta concentrazione di “brainpower”, come la microelettronica, l’informatica, le telecomunicazioni, le bio-tecnologie, risulta in sintonia con gli andamenti sopra illustrati; parallelamente questa significativa trasformazione del lavoro e’ stata accompagnata da un innalzamento del livello di scolarità, come si può osservare dai dati della fig. 3.

 

FRANCIA. Al fine di rendere confrontabili le tendenze in atto, anche nel caso della Francia, le diverse categorie socioprofessionali riportate dall’INSEE (Istitut National de la Statistique et des Etudes Economique) sono stati dall’IRSO riaggregati in tre grandi classi: alta, media e bassa qualificazione. Pur se riparametrati ad un periodo piu’ breve, i dati indicano, come si può osservare nella fig. 4, la medesima tendenza riscontrata per gli USA.-----

 

GERMANIA. M.Helfert (1991) ha raggruppato gli occupati nell’industria in Germania sulla base del livello di qualificazione del lavoro svolto; i quattro livelli, a cui e’ pervenuto [23], sono il risultato di una “cluster analysis” che ha preso in considerazione diverse dimensioni del lavoro. I risultati, riportati in fig. 5 mostrano come anche in Germania gli occupati ad alta qualificazione presentino i tassi di crescita piu’ significativi.

L’IRSO ha inoltre verificato ed aggiornato questi dati, estendendo l’analisi a tutta la forza lavoro e non solo a quella industriale; come è noto la riunificazione delle due Germanie ha comportato la chiusura o la radicale ristrutturazione di molte imprese dell’Est, per cui questo evento avrebbe potuto comportare una redistribuzione del lavoro verso attività dequalificate di servizio e marginali (un eventuale fenomeno di tale tipo non sarebbe stato evidenziato da una ricerca limitata al solo settore industriale)

Nella fig. 6 [24] vengono riportati i dati ottenuti dalla ricerca IRSO, classificando, come nelle precedenti analisi, le qualificazioni in alte, medie, basse e non determinabili: il trend viene puntualmente confermato significativamente per la crescita delle alte qualificazioni e per la diminuzione delle basse qualificazioni, mentre quelle medie rimangono stabili.

La riunificazione dunque, se da una parte, ha determinato un’incremento drammatico del tasso di disoccupazione, dall’altra non sembra aver modificato un trend, comune a tutti i paesi più industrializzati, che vede una crescita delle qualificazioni piu’ alte ed una caduta di quelle piu’ basse.  [25]

 

LE PREVISIONI PER IL FUTURO. Per il periodo esaminato dalla ricerca IRSO, il trend appare piuttosto chiaro ed omogeneo, ma che cosa ci si può aspettare negli anni a cavallo tra i due secoli?

Nelle fig. 7, 8, 9 sono rappresentate le proiezioni elaborate da diverse fonti ufficiali per i tre paesi presi in considerazione.

Tali dati confermano anche in questo caso i trend, già riscontrati nelle serie storiche dei vent’anni precedenti, anche se le aggregazioni prese in considerazione per gli USA e la Francia sono diverse come classificazioni da quelle più semplici, utilizzate per la Germania..

 

4.2. Evoluzione del settore manufatturiero

 

Sembra molto significativo il risultato, ottenuto dalla ricerca IRSO, dell’analisi dell’andamento dell’occupazione e della struttura del lavoro nei settori metalmeccanico e manifatturiero, settori che non comprendono le numerose professioni sociali e/o liberali (insegnanti, medici, giudici, avvocati, infermieri professionali), che rappresentano una quota rilevante di lavoratori della “conoscenza”.

In tutti e tre i paesi considerati, si riportano in fig. 10 e 11 solo i dati relativi agli USA ed alla Germania, perché più significativi, il trend, che emerge dalle statistiche, ha il medesimo segno di quello relativo alla occupazione in generale e sembra ancora più marcato, ad esempio in USA, in un contesto di generale ridimensionamento o diminuzione del settore manufatturiero

Tale fenomeno viene spiegato come effetto dei processi di automazione industriale, che in tempi parzialmente diversi, hanno comportato l’espulsione o la riqualificazione di una quota rilevante di lavoro “semi-skilled” e “unskilled”.

4.3. Come cambiano le tradizionali classi occupazionali?

 

Oltre ai fenomeni quantitativi già commentati, le statistiche esaminate sono interessanti, perché mettono in evidenza un fenomeno, che accompagna l’aumento tendenziale del lavoro qualificato: la progressiva perdita di significato delle tradizionali distinzioni fra le grandi categorie occupazionali (white collar/blue collar, professional/middle manager), che hanno costituito la struttura delle classi sociali nell’era fordista.

A queste classi basate prevalentemente sul ruolo sociale e sulla collocazione nel sistema di stratificazione sociale tendono a subentrare distinzioni basate sulle conoscenze/competenze/valore professionale; i dati indicano lo spostamento verso una divisione del lavoro più orizzontale, basata su ampi aggregati occupazionali in cui la chiave di disatinzione è lo sviluppo del lavoro professionale e tecnico.

Ciò è sostenuto nell’indagine, valida per gli USA, effettuata nella ricerca di Cappelli&Rogovsky (1994), che ha interessato 56.000 operai ed impiegati, confrontando il valore di diversi jobs, in termini di punteggi di Hay [26], attribuiti tra il 1978 ed il 1986, i cui risultati sono riportati in fig. 12.

I dati dimostrano che numerose occupazioni operaie già dal 78 presentavano punteggi largamente superiori a quelli di altre occupazioni impiegatizie; un secondo fenomeno, evidenziato dalla ricerca, consiste nel fatto che l’incremento di punteggi tra il 1978 ed il 1986 prevale nell’area operaia, mentre per alcuni jobs dell’area operaia avviene il contrario. Questo fenomeno è fortemente correlato alla riduzione di attività produttive manuali, a fronte di un incremento di compiti associati al controllo di processi informativi (ad esempio nel campo del “material handling”, del “quality control”) od alla alta specializzazione richiesta nelle operazioni di manutenzione di macchine ed impianti basati su tecnologie avanzate.

La crescente importanza del trattamento di informazioni nei contenuti dei jobs di produzione è stata rilevata anche da ricerche, come quelle di Castells e Aoyama (1994), in cui si è analizzato l’evoluzione del contenuto del lavoro nel periodo tra 1l 1920 ed il 1991, distinguendo le attività lavorative in due grandi categorie: attività di “information handling” ed attività di “material handling. Secondo gli autori (si vedano le fig. 13, 14 relative agli USA), l’incremento del lavoro qualificato è associato principalmente alla crescita di attività “information handling” e non delle attività di servizio in genere, che anzi includono quote rilevanti di attività lavorative a basso contenuto professionale. Le attività relative alla “gestione dell’informazione” crescono in misura più che proporzionale rispetto alla crescita delle attività di servizio, indicando che, anche nel settore di produzione dei beni, i contenuti del lavoro si vanno rapidamente trasformando per effetto dell’introduzione diffusa di tecnologie dell’automazione industriale e dell’informazione.

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5. Conclusioni

 

I risultati della ricerca IRSO permettono di trarre le seguenti provvisorie conclusioni:

• pur in assenza di una precisa definizione concettuale ed operativa, i lavoratori della “conoscenza” (knowlodge workers) sono in forte crescita nei paesi industrializzati considerati e si apprestano a divenire la categoria centrale di lavoratori in questi paesi;

• si è in presenza ad una riduzione generalizzata delle fasce a minor contenuto professionale, confermata anche dalle proiezioni;

• l’ipotesi di una polarizzazione marcata di un ristretto gruppo sociale di detentori delle conoscenze ed un ampio gruppo di lavoratori a bassa qualificazione non sembra evidente, almeno sotto il profilo della distribuzione degli occupati in base alla qualificazione.

Chi scrive, spera di aver sufficientemente “sensibilizzato” il lettore sulla necessità di effettuare ricerche ed inchieste per approfondire il cosiddetto fenomeno dei lavoratori della “conoscenza”, anche in riferimento alla realtà sociale dell’Italia, ma e’ consapevole che sia soprattutto necessaria un’analisi, corroborata da dati sperimentali, delle caratteristiche specifiche del lavoro “cognitivo”, proprio per verificare le ipotesi dello schema interpretativo teorico, che è stato presentato, relativo al capitalismo “cognitivo” nella fase economica dell’accumulazione flessibile.

Un dibattito che si intreccia con il tema della definizione e della articolazione del concetto di “conoscenza” e con il problema dei diversi modi organizzativi con cui, in questo modo di produzione capitalistico, le conoscenze vengono sviluppate, incorporate ed utilizzate.

Due aspetti, in particolare, sono al centro dell’attenzione della analisi teorica ed andrebbero puntualmente verificati tramite una ricerca statistica e l’analisi-inchiesta:

1. la “conoscenza”, che risulta sempre più all’origine del successo competitivo della aziende del capitalismo ad accumulazione flessibile, non è solo e forse neanche prevalentemente conoscenza di tipo razionale e tecnico-scientifica, ma deve comprendere termini come la creatività “coatta”, il problem solving, la sensibilità per la comprensione del contesto culturale entro cui si opera, l’interpretazione dei simboli che si producono nell’interazione uomo - macchine - sistema informatico, la comunicazione, la gestione flessibile delle ambiguità, ecc;

2. nell’impresa attuale privata, ma anche pubblica, non si assiste affatto allo sviluppo di una conoscenza, che è appannaggio esclusivo di professioni, elite della conoscenza scientifica, ma si genera tramite lunghi processi istituzionalizzati di formazione e training aziendale.

 

Queste ed altre tematiche, che nel presente articolo non sono state discusse, potrebbero costituire una “griglia”, ovvero un’insieme di caratteristiche del lavoro cognitivo da verificare ed integrare attraverso un indagine specifica sulla realtà sociale italiana, anche perché, soltanto conoscendo più in profondità il lavoro ed i lavoratori della conoscenza, il movimento antagonista potrà organizzare una adeguata rappresentanza sindacale degli stessi.

 

 

 

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BibliografiA

 

Kenichi Ohmae “La fine dello Stato-Nazione - L’emergere delle economie regionali” 1996 Baldini&Castoldi Milano

“Il giusto lavoro per un mondo giusto - Dalle 35 ore alla qualità del tempo di vita- Atti del convegno internazionale Milano 8-9 Luglio 1995” Edizioni Punto Rosso 1995.

F. Butera, E. Donati, R. Cesaria “ I lavoratori della conoscenza” 1997 Franco Angeli

S.Bologna, A.Fumagalli “Il lavoro autonomo di seconda generazione” 1997 Feltrinelli

L.Cillario, R.Finelli “Capitalismo e conoscenza- L’astrazione del lavoro nell’era telematica” 1998 Manifestolibri

R.Martufi e L.Vasapollo Profit State, redistribuzione dell’accumulazione e reddito sociale minimo” 1999 La città del Sole Napoli

Alcuni testi di teorici e “guru” del post-fordismo:

P. Drucker “ Economia, Politica e Management “ 1989 Etas Libri Milano

P. Drucker “Aspettando l’avvento della nuova organizzazione” Harvard Business Review (ed. italiana), mag-giu 1994

J. Rifkin “La fine del lavoro” 1995 Baldini&Castoldi

D. De Masi “Sviluppo senza lavoro” 1994 Edizioni Lavoro Roma

Alcuni testi sul capitalismo “cognitivo”:

L.Cillario “L’uomo di vetro nel lavoro organizzato” 1990 Editoriale Mongolfiera

“Il capitalismo cognitivo. Sapere, sfruttamento ed accumulazione dopo la rivoluzione informatica, in Aa.Vv “ Trasformazione e persistenza - Saggi sulla storicità del capitalismo - “ 1990. Franco Angeli

L. Cillario “L’economia degli spettri. Forme del capitalismo contemporaneo” 1996 Manifestolibri

Alcuni testi sulle teorie moderne manageriali ed organizzative (Qualità totale, CIM, BPR, ecc):

A. Galgano “La Qualità Totale” 1990 24 ORE Libri

C. Abera, R.Manara, F.Pagliano, F.Testi “ La fabbrica intelligente” 1994 Franco Angeli

L. Bertone, G.Ricottilli “Gestione operativa della produzione” 1995 Franco Angeli

D.Morris “Ripensare il Business “ 1995 Sperling&Kupfer Editori

H. J. Johansson, P.McHugh, et al. “ BPR riprogettazione dei processi aziendali” 1994 24 Ore Libri

Alcuni testi sull’utilizzo delle nuove tecnologie:

Si ricordano qui solo i principali testi: in Francia, tra i molti, si vedano, oltre agli articoli su Futur Anterieur, gli ultimi testi di A.Gorz, Misere du present, richesse du possible, Galilee, 1997 e di R. Castel, Les Métamorphoses de la question sociale, Fayard, Paris, 1996; in Italia, gli scritti sul General Intellect (fra i tanti, M.Lazzarato, Lavoro immateriale, OmbreCorte, Verona, 1997 e M.Hardt-T.Negri, Il lavoro di Dioniso, Manifestolibri, Roma, 1996), sulle mutazioni sociali e finanziarie (C.Marazzi, Il posto dei Calzini, Casagrande, Bellinzona, 1994 e Il denaro va, Bollati Boringhieri, Torino, 1998). Occorre infine ricordare le riviste che maggiormente trattano di questi argomenti nell’area dell’antagonismo sociale, (Altreragioni, Derive&Approdi, Futuro Anteriore, Intermarx, ecc.)

F.Carlini “Internet, Pinocchio ed il gendarme” 1996 Manifestolibri

S.Rodotà “Tecnopolitica - La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione- 1997 Sagittari Laterza

T.Maldonado “ Critica della ragion informatica” 1997 Feltrinelli

 

 

 

 

glossario

 

Business Process Reengineering: è un approccio metodologico ed organizzativo, basato su interventi occasionali sui processi aziendali al fine di aumentarne drasticamente l’efficacia e l’efficienza; esso è mirato a realizzare il processo giusto nel modo giusto con impatto notevole sulla struttura organizzativa; il BPR è teso a creare valore per i Clienti, in termini di riduzione dei costi del servizio, incrementi della qualità del servizio, riduzione dei tempi di attesa, ecc. Ciò si traduce nello sforzo di determinare la missione attuale e futura dell’azienda, di individuare gli obiettivi e le strategie da perseguire ed infine definire un piano di attività tecniche ed organizzative sui processi, sulle informazioni e sulle strutture per ottenere i miglioramenti desiderati.

CIM, Computer Integrated Manifacturing - Produzione integrata con il calcolatore: la produzione in cui tutte le attività sono integrate in una pianificazione, gestione e controllo, basati su calcolatore; il CIM comprende le tecnologie di CAD, CAM, CAP, CAQ, nonché lo scambio di informazioni tra loro.

JIT, Just In Time- Al momento giusto: tecnica di programmazione e controllo della produzione, il cui obiettivo consiste nel fare arrivare le parti richieste, nelle giuste quantità, al momento giusto per l’assemblaggio o per la spedizione, tendendo ad mantenere il “limite ottimale” di scorte “a zero” nei magazzini

KM, Knowlodge Management: costituisce un’evoluzione del BPR tesa a valorizzare la comprensione delle informazioni e dei processi in unione con le competenze umane; il “sapere all’interno dell’organizzazione” viene riconosciuto come fattore critico di successo, pertanto si tende a costruire un contesto operativo nel quale i processi sono visti come operazioni di interscambio del sapere, prevedendo le fasi di creazione, divulgazione, rinnovamento ed utilizzo delle conoscenze acquisite (learning organization). Il KM si basa su una combinazione di tecnologie dell’informazione e comunicazione, organizzazione aziendale ed organizzazione del sapere, dove però la tecnologia non è finalizzata solo all’aumento del livello di efficienza dell’automazione, come nel caso del BPR, ma è piuttosoto orientata a favorire l’organizzazione e la diffusione del Know-how.

MRP II, Manifacturing Resource Planning - Pianificazione delle risorse di produzione: procedure di pianificazione di tutte le risorse di una fabbrica in termini di forze e costi, con capacità di simulazione, con la possibilità di produrre un piano finanziario e commerciale integrato e completo.

TQM, Total Quality Management: è un approccio orientato al miglioramento incrementale e continuo (“kaizen” in giapponese) dei processi aziendali mediante una azione continua di controllo e di miglioramento, ottenute con progetti di realizzazione di breve durata, che non mette in discussione la struttura organizzativa interna all’azienda; scopo dichiarato del TQM consiste nel cercare di svolgere il processo nel modo più giusto, indipendentemente dalle finalità dello stesso.


[1] P.Drucker “Economia, Politica e Management” 1989.

[2] Si veda il glossario e la bibliografia allegata relativamente alle varie teorie organizzative citate.

[3] Si veda la raccolta di articoli in “Indice Internazionale” n. 2, 1996.

[4] Vedi anche il volume del “guru “ giapponese della globalizzazione Kenichi Ohmae “La fine dello Stato-Nazione - L’emergere delle economie regionali”, 1995.

[5] Si preferisce invece parlare di fase della economia capitalista, caratterizzata da una “accumulazione flessibile”.

[6] Vedi i riferimenti bibliografici.

[i] Essi sono poi gli autori di tanti pregevoli articoli ed analisi-inchiesta in questa rivista.

[7] Il lavoro “cognitivo” è altro dal lavoro “intellettuale” ed in parte anche dal lavoro “ideativo”, non si contrappone al lavoro “operaio” o “manuale; esso è “cognitivo” se e solo se “riflette”, modifica ed ottimizza le sue procedure organizzative, le sue modalità di svolgimento.

[8] Si vedano, a questo proposito per un maggior approfondimento teorico, i saggi di L.Cillario nel volume “L’uomo di vetro nel lavoro organizzato” 1990 oppure nel volume “ Il capitalismo cognitivo. Sapere, sfruttamento ed accumulazione dopo la rivoluzione informatica, in Aa.Vv Trasformazione e persistenza - Saggi sulla storicità del capitalismo - “, 1990.

[9] “kaizen” direbbero i teorici giapponesi della “qualità totale”.

[10] Si faccia riferimento, per una trattazione più completa e dettagliata della presente, ai testi citati di Cillario e Finelli, riportati nella bibliografia.

[11] Per questa interpretazione del Capitale di Marx, nell’ambito di una riflessione complessiva della sua opera giovanile e della maturità, si rimanda per un approfondimento al testo di R. Finelli “Dal paradigma del lavoro al paradigma della forza-lavoro. Sulla trasformazione dei concetti di storia e dialettica nel Marx della maturità” in Aa.Vv “Trasformazione e persistenza” Franco Angeli, 1990.

[/b] o dai suoi “funzionari esecutivi” (imprenditori, top management aziendale nell’attuale contesto organizzativo delle imprese multinazionali o transnazionali).

[12] Si veda il glossario per una migliore comprensione di queste tecniche e procedure organizzative.

[13] Si veda il glossario.

[14] Si veda la bibliografia specifica ed il glossario per quel che riguarda le “nuove mode” nelle teorie organizzative.

[15] M.Hardt-T.Negri, “Il lavoro di Dioniso”, Manifestolibri, Roma, 1996.

[16] Si vedano i riferimenti bibliografici in allegato, per comprendere in modo più dettagliato questi approcci teorici, che sono comunque “interessanti contributi “, su come si potrebbero utilizzare le tecnologie dell’informazione e quelle telematiche (associate alle tecnologie della rete Internet) in modo “alternativo” a quello attuale del capitalismo.

[17] Si veda il recentissimo volume, tradotto dalla Mondadori di B .GatesBusiness alla velocità della luce” (vedi articolo di B.Vecchi su il manifesto del 14/6/99 “Il Rentier della conoscenza”) ove il fondatore e capo della Microsoft spiega come “l’uso capitalistico della tecnologia informatica permette la realizzazione del business, in quanto la produttività individuale deve continuamente crescere e nessuna distrazione è ammessa, se non quella che costringa a pensare al miglioramento dell’organizzazione della produzione“.

[18] Si veda il suo ultimo lavoro del 1996 “The future of Capitalism”.

[19] La ricerca citata è stata recentemente aggiornata, rielaborata e pubblicata nel volume di F.Butera,E. Donati, R.Cesaria, dal titolo “ I lavoratori della conoscenza”, Franco Angeli 1997; da questo volume si trarranno i dati della ricerca, che verranno illustrati in questo paragrafo.

[20] Chi scrive vuole sottolineare come una analisi-inchiesta, effettuata da parte del sindacato di base, potrebbe essere utile ad “chiarire” questo punto, oltre che soprattutto ad essere un punto di partenza ed uno strumento per impostare delle “lotte unitarie” con gli altri tipi di lavoratori

[21] I quattro raggruppamenti sono stati ottenuti aggregando le seguenti categorie:

alte qualificazioni (skilled workers): include professionals, managerial e technical jobs, caratterizzati da skill acquisiti attraverso percorsi di studio formali e da flessibilità ed autonomia operativa; sono esclusi i dipendenti pubblici;

medie qualificazioni white collar (semi-skilled workers): include semi-skilled white-collars, caratterizzati da compiti regolati da procedure con limitata discrezionalità;

medie qualificazioni blue collar (semi-skilled workers): include semi-skilled blue collar, caratterizzati da compiti relativamente ripetitivi, governati da specifiche regole di lavoro e coordinati da supervisori;

basse qualificazioni (low o unskilled workers): include lavoratori addetti alla produzione di industrie manifatturiere ed imprese di costruzione caratterizzate da bassi salari e vari lavoratori manuali nel settore dei servizi.

[22] Si legga “nostra elaborazione” come “elaborazione IRSO”

[23] I quattro livelli riportati sono i seguenti:

• livello II: figure con particolari esperienze in attività di responsabilità;

• livello III: figure con esperienza professionale pluriennale o conoscenze specifiche di parziale responsabilità;

• livello IV: figure che svolgono attività semplici senza alcuna discrezionalità;

• livello V: figure che svolgono attività schematiche senza alcuna formazione specifica.

[24] Si legga “nostra elaborazione” come “elaborazione IRSO”

[25] La ricerca di Barley (1996) conferma una simile evoluzione quantitativa anche in Canada ed in UK.

[26] Il punteggio di Hay è un indicatore che misura la diversa complessità ed abilità di una attività lavorativa