• “In Iraq, la principale guerra della nostra epoca ha prodotto tra il 2003 e il 2006 2.978 vittime tra i soldati americani. Sul suolo italiano, dove le armi non crepitano, le vittime del lavoro che uccide sono state nello stesso periodo 5.252” (“Morti bianche e infortuni sul lavoro nella rappresentazione dei media”- Rapporto Argo 2007);
• L’inversione semantica delle parole della politica: “riformismo” non sta più a significare politiche di pieno impiego, salari tendenzialmente in crescita e tutelati dall’inflazione, certezza di trattamenti pensionistici dignitosi, sistema sanitario universale, fiscalità progressiva fortemente connotata in senso redistributivo. Oggi “le riforme in Europa non stanno più ad indicare qualcosa in più per i lavoratori dipendenti ma qualcosa di meno; si dice riforma previdenziale o riforma sanitaria ma si declinano in realtà ricette riduttive. Così la riforma dei rapporti di lavoro neppure ipotizza il pieno impiego ma, al massimo, una regolazione migliorativa del precariato e della flessibilità” (Mario Pirani- “La Repubblica” 23 luglio 2007);
• “Riforma del Welfare” non sta ad indicare estensione di diritti e garanzie bensì privatizzazione di pensioni, sanità, istruzione e persino dell’acqua, fino all’eliminazione dell’idea stessa del “Welfare” a causa delle sue profonde pulsioni redistributive ed egualitarie;.
• La “fine delle ideologie” sta, in realtà, ad indicare il trionfo del “liberismo egemonico”, della teoria dello “Stato criminogeno” (Margaret Tatcher: “l’individuo è un atomo; non esistono responsabilità collettive perché non esiste la società”), del “governo minimale” sul piano planetario, la derubricazione della lotta alla fame e alla povertà nel mondo a episodio di “conservatorismo compassionevole”. La ricetta economico-sociale che ne discende è brutale: per avere più crescita occorre più disuguaglianza perché solo una maggiore disuguaglianza è in grado di imprimere il necessario dinamismo alla società (sorvolando sul fatto che la povertà è la forma più estrema di disuguaglianza).
Il risultato di tali politiche è nelle stime della “Banca Mondiale” le quali dicono che ad oggi la distanza tra i redditi dei 20 Paesi più ricchi e quelli dei 20 Paesi più poveri del mondo è raddoppiata negli ultimi 40 anni.
Ma cosa tiene insieme le considerazioni che precedono. Qual è il “filo rosso” che le attraversa rendendone possibile una lettura coerente ed omogenea?. La risposta è contenuta nel “Trattato di economia applicata-Analisi critica della mondializzazione capitalistica”, ultima fatica del prof. Luciano Vasapollo, nella quale opera l’Autore analizza con sicura padronanza degli strumenti analitici marxiani categorie e dinamiche del sistema capitalistico con particolare attenzione alla comprensione profonda dell’attuale fase di espansione a livello planetario del “Modo di Produzione Capitalistico” (MPC). Stiamo assistendo, in questo periodo, un po’ dappertutto nel mondo, ed in particolare in Italia, ad un ritorno di interesse degli studiosi, anche di diverso orientamento, per il pensiero marxiano. All’interno di questo movimento l’opera di Vasapollo arriva con caratteri di originalità perché colma un vuoto. Per la prima volta, infatti, i concetti fondamentali della critica marxista dell’economia politica, in particolare il concetto di “tempo di lavoro umano” come presupposto del “valore d’uso” e misura del “valore di scambio”, vengono utilizzati, con rigore metodologico, per comporre il quadro dello sviluppo economico e delle sue molteplici implicazioni, a livello nazionale, regionale e mondiale. Questa portata del “Trattato” è efficacemente richiamata nel sottotitolo dell’opera “ Analisi critica della mondializzazione capitalistica” di cui l’Autore ci offre una guida attraverso le sue molteplici implicazioni che spaziano dall’ambiente di lavoro al conflitto “capitale-Stato di diritto”, passando per la contraddizione “capitale- ambiente”, relazioni internazionali, contesto famiglia e rapporti personali nonché, infine, per l’analisi delle determinanti del conflitto sociale fondato sul conflitto capitale-lavoro. Nel “Trattato”, Vasapollo restituisce queste categorie e, più in generale, i fatti economici, alla loro dimensione sociale, meglio alla loro natura di antagonismo sociale, liberando l’economia da quella carica esogena di “necessarietà” che la vorrebbe assimilata alle scienze naturali e sottraendola a quella mistificazione concettuale che l’Autore chiama la “naturalizzazione dell’economia”. Nel contempo, e questo mi sembra un pregio che merita di essere evidenziato, Vasapollo afferma nella “Prefazione” alla sua opera: “In questo “Trattato” non si pretende di svelare alcun segreto, né di presentare le chiavi di interpretazione definitiva di un sistema tanto complesso come quello capitalista. Si tenta piuttosto di riflettere su alcuni dei principali elementi teorici dello studio del capitalismo, la cui comprensione è basilare per poter sviluppare proposte di azione nella realtà in cui gli individui si trovano concretamente a vivere: l’ambiente di lavoro, lo spazio di consumo, le relazioni internazionali, il contesto della famiglia e dei rapporti personali, sociali e culturali, le determinanti del conflitto sociale con al centro il conflitto capitale-lavoro ormai affiancato dalle altre contraddizioni capitale-ambiente, capitale-Stato di diritto” C’è in queste parole, la dichiarazione esplicita che l’opera e il suo Autore sono programmaticamente aperti alla fecondità del confronto. Non si tratta di aderire acriticamente o rifiutare pregiudizialmente bensì, preso atto del rigore scientifico dell’opera, sottoporre alle verifica della propria visione del mondo e della propria lettura delle dinamiche economico-sociali, il percorso analitico che Vasapollo propone. Comunque la si pensi, un’opera di questa portata rappresenta una elaborazione intellettuale destinata a lasciare il segno e con la quale bisogna quindi “fare i conti”. L’Autore ci costringe, in un certo senso, ad uscire dal chiuso di schematismi intellettuali e ideologici centrati sull’uso di categorie di cui si assume acriticamente l’”indiscutibilità scientifica” come: • lo sviluppo economico misurato in termini di crescita del Prodotto Interno Lordo senza riguardo alla sue ricadute sociali, con particolare riguardo alla sua effettiva distribuzione, nonché all’impatto ambientale; • la finanziarizzazione dell’economia di cui non si valutano appieno gli effetti sociali devastanti nonché, in alcuni casi, gli effetti di vera e propria limitazione della sovranità degli stati nazionali (es. il fenomeno degli “hedge funds”); • il “progresso tecnologico” che, piegato alla logica del profitto di impresa, ha portato il rapporto tra economia ed ambiente ad un punto di massima tensione e, in assenza di una rapida inversione di tendenza, ad una prospettiva di imminente rottura dell’ecosistema.
Allarme, quello riferito alla compatibilità tra “modo di produzione capitalistico” e sostenibilità ambientale, recentemente lanciato dai “Verdi” con la proposta di un vero e proprio “Patto per il clima” con il quale si afferma, tra l’altro, “ la necessità di modificare l’attuale modello di sviluppo economico e produttivo, responsabile dei cambiamenti climatici in atto, basato sull’uso del petrolio e più in generale delle fonti fossili, su un consumo senza limiti delle risorse naturali che hanno generato nel pianeta povertà, squilibri, precarietà del lavoro, conflitti sociali e guerre” .
La critica dell’economia “produttivistica” e degli effetti devastanti che tale impostazione economica sta producendo sugli equilibri ambientali, contenuta nel passaggio del “Patto” sopra richiamato, attraversa gran parte dell’opera del prof. Vasapollo e ne rappresenta una delle sezioni di maggiore interesse e di contributo concreto alla definizione di iniziative e programmi di intervento.
Alcuni accenni fugaci infine ad altrettanti temi che mi stanno particolarmente a cuore e che ricevono nel “Trattato” una trattazione particolarmente stimolante: 1. il rapporto fondativo tra elemento coloniale e genesi storica dell’MPC che oggi appare, alla luce delle guerre imperialiste in corso, nonché delle condizioni di povertà estrema in cui versano i 4/5 della popolazione mondiale, di particolare attualità; 2. le crisi di sovrapproduzione che sempre più spesso convivono con larghi strati di povertà diffusa anche nei Paesi a capitalismo avanzato che ci interrogano tutti, a prescindere dagli orientamenti e dalle scelte politiche di ognuno, sulla sostenibilità sociale di un modo di produzione che non è finalizzato ad aumentare la massa di beni e servizi a disposizione della società in quanto tale bensì, unicamente, alla valorizzazione del capitale investito; 3. la disoccupazione e la precarizzazione del lavoro indotti da una teoria economica dominante che diffonde modelli di efficienza produttiva e di accumulazione flessibile basati essenzialmente sulla riduzione dei costi da conseguire attraverso licenziamenti che finiscono per determinare una quota di popolazione strutturalmente eccedentaria rispetto alle esigenze dei processi produttivi ai quali vengono applicati, sempre più, dosi massicce di informatizzazione ed elettronica.
Tornando al “Trattato”, mi piace evidenziarne, oltre al valore didattico, la natura di opera proiettata sul mondo e quindi di invito alla sprovincializzazione del dibattito politico-culturale. Anche da questo punto di vista l’opera si segnala come contributo importante alla lotta di resistenza al tentativo in atto di egemonia culturale del “Pensiero Unico” (“totalitarismo culturale”, nelle parole dell’Autore) che dopo la “caduta del muro” si sta pericolosamente installando nelle coscienze individuali. Un richiamo, per concludere, ancora una volta, alle parole dell’Autore laddove dice: “la possibile instaurazione di un’autentica democrazia partecipativa è l’idea di fondo che percorre tutte queste cose”. Ecco, a me non fa velo il mio ruolo di governo al punto da impedirmi di cogliere alcuni tratti di illiberalità dell’economia di mercato soprattutto quando assume la maschera aggressiva del neoliberismo, nonché la portata del “gap”, che senza una rapida inversione di tendenza rischia di produrre effetti devastanti, tra rappresentanza e partecipazione, scarto che alcuni già chiamano “privatizzazione della politica”. Ben vengano quindi le disponibilità ad un percorso comune lungo il quale avanzare con onestà intellettuale e senza pregiudizi o calcoli di parte. La meta che ci sta davanti, ovverosia la liberazione, in via definitiva, di alcuni caratteri di “preistoria sociale” che ancora oggi caratterizzano le nostre società, segnatamente la guerra, la povertà, l’aggressione all’ambiente, le pandemie, la precarietà esistenziale determinata dalla mancanza e dalla precarietà del lavoro, meritano l’impegno.
Parlamentare dei Verdi, Sottosegretario all’Economia