Cassa Depositi e Prestiti: nuova IRI o testa di ponte nella competizione?

MAURO LUONGO

1. Capitalismo nostrano e finanza

Nel composito scenario di fusioni e acquisizioni che investe il sistema bancario e finanziario nazionale alla ricerca di nuovi equilibri idonei a fronteggiare la competizione

nei globalizzati mercati di riferimento, trova fondamento

la generale ridefinizione del ruolo dello stato e del suo apparato nelle funzioni di regolarizzazione e supporto alle dinamiche di accumulazione.

Esaurita in larga parte la fase di privatizzazione delle

grandi aziende pubbliche ed in via di definizione l’altra branca di privatizzazioni relativa ai servizi pubblici locali, sembra porsi, alla luce di evidenti squilibri e debolezze strutturali del capitalismo nostrano, la necessità di governo dell’intero sistema. Anzi, le vicende imprenditoriali seguite

proprio alle privatizzazioni delle grandi aziende pubbliche

 per tutte la vicenda Telecom - definiscono in modo inderogabile questa necessità, mettendone in evidenza i connotati fortemente speculativi inidonei a costituire una solida

base nella competizione internazionale. Dietro la richiesta

insistente di tutelare la italianità delle grandi aziende di servizio a rete per il loro carattere strategico, richiesta apparentemente priva di logica in uno scenario che si vuole di

mercati liberalizzati, sembra cogliersi l’esigenza di una condizione di maggiore stabilità e forza nelle trame della competizione. Insomma, se l’attuale fase del processo di accumulazione capitalistica si caratterizzata sul versante finanziario in termini di vera e propria competizione globale e sul versante produttivo in termini di produzione snella e flessibile, esiste una zona, tutt’altro che marginale, in larga parte coincidente proprio con l’apparato infrastrutturale in cui il ruolo del pubblico a sostegno della capacità competitiva appare decisivo.

Un ruolo e una funzione pubblica che sembrano determinarsi in pressoché integrale osmosi, se non in palese subalternità, alla dominante sfera finanziaria. In questo contesto, cercare di cogliere le modificazioni intervenute negli apparati pubblici in relazione alle modificate condizioni della competizione equivale a misurarsi con un tratto essenziale delle trasformazioni in corso.

2. Vecchia e nuova Cassa Depositi e Prestiti

Che una vecchia istituzione, addirittura pre-risorgimentale, possa assumere rilievo nel convulso scenario economico odierno, è certamente singolare. Eppure, proprio

intorno alla Cassa depositi e prestiti (Cdp) sembrano concentrasi aspetti importanti della ridefinizione del ruolo pubblico nell’economia nonché di opzione rispetto al modello

di capitalismo nazionale, convenzionalmente esemplificati nelle forme del capitalismo renano e di quello di stampo anglosassone.

La Cdp attraversa circa 160 anni di storia nazionale, tralasciando le varie fasi della sua costituzione ed evoluzione,

con la funzione precipua dal secondo dopoguerra di strumento di raccolta del risparmio finalizzato al finanziamento delle opere pubbliche. Operazione di drenaggio del risparmio realizzata attraverso gli sportelli postali, canale esclusivo di collocazione dei prodotti della Cdp. Un sodalizio questo tra Cdp e poste ancora cogente, ma che a partire dagli anni ’90 con la progressiva uscita dal novero pubblico delle due strutture si riqualifica in una dimensione radicalmente

nuova. Per la Cdp la trasformazione in Spa avvenuta nel 2003

si accompagna ad una nuova articolazione interna delle sue

attività: una prima, denominata “gestione separata” gestisce

il finanziamento degli investimenti statali ed ad altri enti

pubblici approvvigionandosi con il risparmio postale; una

seconda, di “gestione ordinaria” si occupa del finanziamento di opere, di impianti e di reti per il cui finanziamento provvede attraverso l’emissione di titoli obbligazionari, fuori dalla garanzia dello Stato. Si modifica inoltre la struttura di

controllo il 70% del capitale è detenuto dal Ministero dell’economia e delle finanze il rimanente 30% di pertinenza delle Fondazioni bancarie (Cariplo,San Paolo, MPS, ecc.) con

azioni del tipo privilegiato ed il controllo nella direzione strategica. Il portafoglio azionario della Cdp Spa, al momento

della costituzione, è di 11 miliardi di euro pari al 10,35% dell’Enel, il 10% dell’Eni e il 35% di poste italiane, l’esborso da

parte delle Fondazioni per l’acquisizione del proprio 30% è

di appena 1,05 miliardi di euro. Alle fondazioni viene garantito un rendimento fisso annuo del 3% al netto dell’inflazione. Protagonista politico della trasformazione della Cdp

in SpA, mirabile esempio di finanza creativa, fu il ministro

dell’economia del passato governo Tremonti, che saccheggiando 11 miliardi di riserve patrimoniali frutto della raccolta postale della Cdp dirottandoli al fondo di ammortamento del debito pubblico riuscì ad acquietare le pressanti

richieste comunitarie di contenimento del debito.

Al di là degli aspetti congiunturali, il dato che appare

centrale è la strutturazione della Cdp Spa intorno ad un

nucleo di aziende strategiche quotate in borsa sotto il formale controllo pubblico, la ripartizione delle attività in una

branca pubblica, legata agli enti locali, ed una privata che

si foraggia sul mercato, la sua presentazione in veste di intermediario finanziario, sottratto quindi al controllo della

Banca d’Italia e senza i vincoli alle partecipazioni industriali, impossibilitato a finanziarsi direttamente sul pubblico ma costretto a rivolgersi ad investitori istituzionali,

anche le stesse fondazioni bancarie in un ruolo autoreferenziale.

Se l’obiettivo del progetto tremontiano fosse limitato all’utilizzo della Cdp per privatizzare nella forma le aziende strategiche senza perderne del tutto il controllo appare

del tutto irrilevante rispetto alla successiva evoluzione della Cdp sia sul piano patrimoniale che sotto il profilo organizzativo. Infatti, le ulteriori acquisizioni di pacchetti azionari, tra cui Terna 30% e Snam 30%, l’incorporazione della società Infrastrutture SpA, dedicata tra l’altro al finanziamento dei servizi pubblici locali, la costituzioni di fondi aperti al capitale estero (vedi F2i) definiscono ormai la

Cdp come una vera e propria holding finanziaria, lontana

anni luce dalla Cdp ante-privatizzazione.

Il rilievo assunto dalla Cdp, nonostante la scarsa attenzione ufficiale interna, non poteva passare inosservata in

ambito comunitario. La Banca Centrale Europea, nel novembre scorso, ha decretato che la Cdp SpA è, a tutti gli effetti, un ente creditizio, ossia una banca assegnando un limite temporale all’assolvimento delle procedure previste

per le banche. Il ministro Padoa-Schioppa, che guarda caso proviene proprio dalla BCE, in un intervento al senato

ha definito il nuovo orizzonte della Cdp: fine della unifor mità delle condizioni di accesso per i finanziamenti agli enti locali, ovvero il rischio va remunerato con interessi maggiori; rafforzamento del rap- porto tra Cdp e bancoposta, magari at- traverso la costituzione di una banca. Ipotesi questa che produrrebbe l’effetto di scorporare il settore finanziario di poste dalle attività propriamente postali e la necessità di compensazioni importanti alle fondazioni bancarie. Su cui, peraltro, a questo punto potrebbero essere utili alcuni ragguagli. 3. Il paradosso delle fondazioni bancarie Per risalire all’origine delle fondazioni bancarie dovremmo ripercorrere il tortuoso percorso della privatizzazione del sistema bancario. Un processo avviato agli inizi degli anni ’90 dall’allora governatore della Banca d’Italia Ciampi separando le funzioni pubbliciste, più della metà degli enti creditizi era di diritto pubblico, dall’attività bancaria, in altri termini le banche avrebbero dovuto diventare SpA, sotto il controllo di fondazioni, le quali avrebbero alienato le proprie azioni sul mercato. Un punto di partenza così controverso, controllori-proprietari che avrebbero dovuto gestire la perdita del controllo e della proprietà, forse non poteva dare luogo ad esiti meno contraddittori. Infatti, gli interventi normativi successivi hanno definito il carattere privato delle fondazioni bancarie collocandoli tuttavia nel cosiddetto terzo settore, il no-profit, cioè associazioni non lucrative senza connotazione imprenditoriale e, per completare il quadro, l’ultima finanziaria ha previsto la possibilità per le fondazioni bancarie di acquisire quote superiori al 30% della banca conferitaria. Insomma, associazioni che macinano centinaia e centinaia di miliardi di euro di utili di varia natura per il perseguimento di obiettivi di carattere sociale umanitario e culturale (?). Limitarsi a sottolineare l’ipocrisia istituzionale di fronte a questi fenomeni potrebbe apparire sterile moralismo, mentre i fatti oggettivi ci parlano di soggetti economici con ingenti e crescenti dotazioni patrimoniali e finanziarie che nei processi di privatizzazione dei sistema infrastrutturale nazionale individuano l’area di intervento privilegiata del proprio business con una evidente capacità di interlocuzione e condizionamento delle strategie industriali. 4. Il triangolo d’oro: cassa - reti - fondazioni Cerchiamo ora di ricomporre il quadro. Uno sguardo al bilancio della Cdp del 2006 ne rende immediatamente perspicua la dimensione economica e le potenzialità. I dividenti delle partecipate e il risparmio postale nel 2006 hanno garantito utili per oltre 2 miliardi di euro con un incremento del 25% rispetto al 2005; il patrimonio netto è salito di oltre il 20%; la liquidità complessiva si attesta a circa 82 miliardi di euro; la raccolta netta del risparmio postale ne ha determinato un aumento dello stock complessivo del 18,3% pari a 144,5 miliardi. La gestione della crescita di questo aggregato economico e lo sviluppo delle sue potenzialità, in uno scenario non dimentichiamolo di competizione internazionale, muove la richiesta da parte delle fondazioni bancarie di una rimodulazione degli assetti interni alla Cdp. I cui passaggi in parte già delineati partono dalla riconversione delle azioni privilegiate delle fondazioni bancarie in azioni ordinarie a fronte di un riequilibrio paritario con il Ministero dell’Economia nella valutazione dei progetti e delle strategie, la migliore distinzione tra area business e contratti di finanziamento agli enti locali - da definirsi sulla base delle valutazioni del rischio ed “in concorrenza” con le banche -, ed infine, ma tutt’altro che trascurabile, la questione Poste per cui va individuata una soluzione accettabile per le banche. Gli effetti di una simile riorganizzazione chiudono definitivamente la stagione della Cdp quale istituto finanziatore, proponendolo in veste di soggetto economico con un propria strategia, neanche tanto recondita, di presenza sul mercato. Come già evidente cuore economico della Cdp è la sua presenza nei pacchetti azionari di strategiche aziende nazionali, coincidenti con le reti infrastrutturali, e il consolidamento e la crescita della Cdp in questo ambito è senza ombra di dubbio l’obiettivo primario. La partita intorno al controllo Telecom, recentemente conclusasi a detta degli esperti in modo interlocutorio e pertanto foriero di ulteriori sviluppi, ha riproposto in modo evidente la questione della proprietà della rete. Al riguardo le mire delle fondazioni per il passaggio della rete sotto il controllo della Cdp, nonostante il misero fallimento del cosiddetto piano Rovati, restano pressoché intatte dietro le quinte. Infatti, il ruolo di investitore istituzionale della Cdp capace di garantire stabilità azionaria e con attese di rendimento protratte nel lungo periodo costituiscono un importante requisito per la gestione della rete telefonica, come di altre reti, con un significato che va ben oltre la strumentale difesa della italianità: la concentrazione e il controllo di parti importanti delle infrastrutture a rete assurge a valenza di carattere strategico nell’intricato risiko della competizione internazionale. 5. Alcune considerazioni La semplice osservazione di quanto esposto pone oggettivamente in evidenza la tendenza a definire un aggregato di controllo sul settore delle aziende a rete. Attore indiscusso di questo processo è il sistema bancario e finanziario di cui le fondazioni, ragionando oltre i formalismi, sono parte integrata. In generale, il senso di un presidio così marcato e in prospettiva addirittura crescente in una componente strategica del mercato, e non solo, concorre a definire il peso specifico degli interessi sul piano interno e la dominanza della sfera finanziaria, determinando, altresì, una condizione di maggiore forza nello scenario della competizione globale. Naturalmente, il piano generale si innerva con la imprescindibile esigenza del capitale di valorizzarsi e le cosiddette pubblics utilities costituiscono, dati alla mano, una delle maggiori fonti di profitto. Aziende il cui prodotto e/o servizio entra direttamente nelle necessità collettive prescindendo, per la loro indispensabilità, dalla propensione al consumo. Insomma, ciò che sembra affermarsi è una relazione diretta tra processi di privatizzazione delle infrastrutture, e non solo quelli a scala nazionale, è crescita dell’influenza del capitale bancario e finanziario nella determinazione degli assetti economici e sociali. In conclusione, tornando al quesito iniziale sul ruolo della Cdp possiamo rispondere con le dichiarazioni del vicepresidente di Luigi Roth, mandatario delle fondazioni bancarie, a proposito del ruolo della Cdp “ la Cdp è una bella macchina da guerra e deve rendere al massimo. Deve possedere e presidiare le reti... lavorando con le fondazioni referenti sul territorio per un intervento a tappeto sulle reti”

* Fed. RdB/CUB