Riflettendo sulla privatizzazione: dall’immaterialità delle idee alla materialità del malessere sociale

Oscar O. Chávez Rodríguez

1. Il sogno neoliberista: privatizzare tutto Non ho pensato di avere il diritto, o l’ho considerato improprio, di addurre citazioni nella scrittura di queste pagine, in quanto non costituiscono un lavoro di ricerca come la nostra epoca richiede. Si tratta, dopo tutto, di plasmare le inquietudini di un pensiero la cui spontaneità è prodotta dall’angoscia di fronte ai tempi attuali e alle dichiarazioni dei nostri governanti. È solo, in fin dei conti, la scrittura di un uomo sensibile davanti al futuro di questo paese. La nozione di luogo comune sembra essere una caratteristica di cui molto si scrive attualmente; ci spostiamo da qualche tempo sulle stesse distanze e spazi e sembrerebbe anche con lo stesso ritmo. Non solo nella scrittura, ma anche nelle costruzioni riflessive e nelle critiche... Forse è vero, come scrisse Paz quasi 50 anni fa, che “el siglo se ha cansado”, grave affermazione nella misura in cui quello che anima la vitalità di tutto un secolo sono la diastole e la sistole dell’essere umano, la sue azioni. Il secolo passato, quello delle grandi idee e invenzioni, ci ha condotto per sentieri insospettati, ogni disciplina ha contribuito al perfezionamento di quella “grande scacchiera delle identità chiare e distinte ” che ci ha permesso di stabilire “sobre el fondo revuelto, indefinido, sin rostro... las identidades” necessarie per comprendere la realtà. Tuttavia, molto del nostro andare non ha una direzione precisa, si trova nelle tenebre e per lo stesso motivo non poche volte cadiamo negli stessi errori, riproduciamo le stesse perversioni e incoerenze. L’umanità è la grande amnesia, con una coscienza storica a corta scadenza, o forse bisognerà dire che chi ha preso in mano le redini dell’entità metafisica ha dimenticato per convenienza, o per non inquietare i giudici senza poterli annoiare, stancare e portare all’inazione degli spettatori, che sono la grande maggioranza.. Qual’è stato il risultato di tutto questo? Un conformismo generalizzato che ci ha trasformato, in grande misura, da soggetti a oggetti. Oggetti situati in luoghi comuni, negli spazi delle accettazioni, senza aggiungere altro. Qual’è l’intenzione di scrivere tutto questo? Avvicinarsi ad una riflessione non riguardo a una natura umana desiderata per i tempi attuali, bensì osservare da una condizione conformista un tema che ci riguarda da vicino: la nostra possibilità di conseguire un livello migliore di vita, svegliarsi o almeno intuire che c’è qualcosa al di là dei sogni dogmatici. Svegliarsi nella realtà attuale rispetto alla relazione Stato-mercato, svegliarsi dal sogno neoliberalista che ci ha convertito in richiedenti e ci ripete un’altra volta che la forma, l’unica forma di raggiungere il benessere sociale è attraverso il mercato e il suo corrispettivo: la privatizzazione di tutto. Un luogo comune che si continua a ripetere da vari lustri. Privatizzare è la panacea e il placebo per le nostre disgrazie. Vale la pena sprecare tempo in confutare questa idea che è stata messa in dubbio, e giudicata erronea dalla stessa storia? Certamente, ad esempio, più di 40 milioni di messicani immersi nella povertà confermerebbero la necessità di negare quella supposta verità. Inoltre ci troviamo attualmente in epoca di politiche di nazionalizzazione, con governi latinoamericani che cercano alternative e che per questo sono stati duramente criticati dal pensiero unico. Conosciamo già gli epiteti che si utilizzano per screditarli: populisti, retrogradi e arriva anche il sospetto che li si consideri terroristi. Nel caso del Messico, è ancora pertinente la domanda che l’attuale amministrazione si pone riportando la “necessità” delle riforme strutturali, altro luogo comune, di allontanarsi da schemi di nazionalizzazione che solo “spaventano” gli investimenti necessari per alzare il livello di vita. E’ impossibile ritardare, dal suo punto di vista, che “l’efficienza e l’efficacia” private prendano le redini della economia per cosi poter crescere e svilupparci come nazione, è impossibile ritardare l’abbandono di schemi statali perche lo stato è il grande colpevole della nostra situazione. Qualcosa che non solo si è ripetuto dal crollo del socialismo reale, bensì si è applicato a oltranza. Se c’è un paese che ha sperimentato una riforma economica ad ampio raggio, quello è stato il Messico, paese nel quale l’estremismo ha fatto sì che le stesse politiche economiche e gli strumenti macroeconomici svolti a tale fine compromettessero il raggiungimento stesso delle riforme. Il risultato, conosciuto da tutti, è stata la maggiore concentrazione della ricchezza nelle mani di alcuni. Ci spostiamo in questo modo da una economia ad alti livelli di protezionismo verso un’altra economia la cui proposta è stata il ritiro, l’assenza dello Stato nel funzionamento economico.

2. Neoliberismo e ruolo dello Stato Aggiustamento strutturale, come pomposamente si denomina, che si è prodotto basilarmente durante la decade degli anni ‘80 e ‘90, il cui fine è stato aprire le porte al nuovo mercato. Il neoliberismo, e tutto quello implica, si è convertito così in politica di Stato. E sarebbe necessario segnalare l’influenza della globalizazione in questa situazione la quale è consistita nell’indebolimento della capacità di investimento e gestione statale, inoltre nel fatto che la concorrenza internazionale unita a schemi di liberalizzazione dello spazio economico mondiali, abbia contribuito a riportare l’intervento dello Stato verso il sociale, allontanandolo dallo spazio economico. In questo modo, ci troviamo con una forte critica allo Stato per la sua inefficacia e incapacità negli affari economici, lo si è considerato il colpevole, in grande misura, dei nostri ritardi e denominato come un male necessario, che dovrebbe essere allontanato degli affari economici; se cosi non fosse si provocherebbero distorsioni e mancanze nell’armonia naturale dell’ambiente economico. L’ imperialismo economico (nell’aspetto del mercato e della globalizzazione) si manifestava come un tutto armonico, che funzionava a suo modo, conferendo benefici, assegnando risorse. Un tutto che non aveva bisogno, senza aggiungere altro, dell’intervento statale. Idea presente nella teoria classica, da Smith fino ad Alfred Marshall, che parla di un mondo perfetto, uno nel quale l’economia tende a un equilibrio naturale guidato da una mano invisibile. In questo stesso solco di perfezione ed equilibrio noi troviamo l’idea che un’efficiente allocazione delle risorse, così come una massimizzazione dei benefici collettivi è possibile in un modo naturale. I disequilibri si possono avere, però, si dice, sono transitori; nel lungo periodo si avrà un equilibrio costante, le forze del mercato permetteranno che tanto l’offerta come la domanda orientino l’economia verso l’equilibrio. Di fronte a questo scenario idilliaco l’intervento dello Stato è inutile, anzi i mercati funzionano meglio in uno schema libero senza interventi, i quali provocherebbero solo errori e distorsioni. Pertanto bisogna impedirli, ridurre lo Stato al minimo possibile in modo che non possa intervenire in economia. Nel dibattito di idee, i liberali divideranno con i conservatori l’idea sul ruolo eccessivo delle istituzioni pubbliche. Questi ultimi arrivano a parlare di una situazione limite nella quale l’intervento statale mette in pericolo l’economia di mercato. I neoconservatori andranno oltre: vogliono la riduzione dello Stato ai minimi termini. Tutte queste idee permeano il nostro mondo attuale, il nostro modo di osservare i fatti economici. La nostra ideologia è derivata da questo pensiero, che conosciamo come neoliberalismo e che può datarsi agli inizi della decade degli anni ‘80, pretendendo di ridurre lo Stato al non intervento e creando un mondo perfetto e in equilibrio. Inoltre di fronte all’impossibilità di sparire dello Stato e nonostante il non intervento di questi nell’economia, questa nuova corrente ha finito nel concepirlo in termini di efficenza economica, di globalizzazione; così che la nostra razionalità strumentale si è trasformata senza freni in una razionalità economica, che provoca il concepire concetti, idee e anche la stessa vita in un unico senso: quello economico. In questa maniera il mercato ha occupato un luogo centrale nei discorsi, si dice che è il miglior allocatore di risorse; per altra parte l’analisi economica sembra costituire l’approccio più valido e rigoroso al campo sociale, mentre la globalizzazione ci offre il benessere universale, la democrazia e la crescita economica. Questi tre poli costituiscono, si dice sempre, la nostra attualità. Però, oltre ai dogmi e ai miti, davvero questi tre poli costituiscono la nostra attualità, veramente hanno le redini dell’attività economica e devono determinare tutte le attività dell’essere umano costituito in società? Fino a che punto è certa l’impossibilità dello Stato nel regolare l’economia o, detto in altre parole, fino a che punto è valida la critica allo Stato e la costante ricerca della sua riduzione al minimo o addirittura la sua scomparsa mediante schemi liberisti? Comunque, nonostante le rispettabili formule della teoria economica, l’efficenza economica non dipende unicamente dalle scelte razionali degli individui, come nemmeno il mercato è sempre efficiente e lo Stato inefficiente. L’economia neoclassica sostiene che solo il mercato può distribuire efficientemente le risorse, che la competenza e la motivazione di massimizzare gli introiti conduce alla massimizzazione del benessere sociale, per il quale non è necessario l’intervento dello Stato mediante la pianificazione, le politiche pubbliche, regole e divieti, ma basta lasciare che i mercati funzionino senza interferenze. Così, privatizzare, lasciare che il libero mercato copra la realtà, questa è la proposta. Ma l’orizzonte storico ci ha mostrato che il mercato può fallire e certamente fallisce, sia per ragioni dovute alla struttura stessa dei mercati, i quali non sono sempre competitivi; sia perchè esistono mercati incompleti e segmentati; sia perchè l’individuo massimizzatore non sempre ha tutte le informazioni disponibili che gli permetterebbero di fare una scelta razionale, oltre al fatto che la sua condotta economica può deviare verso pratiche egoiste e opportuniste che lontano da significare un beneficio per la società si traducono in distorsioni. Nonostante questo, ancora oggi si chiede che lo Stato o qualsiasi altra istituzione regolatrice sia cancellata o per lo meno ridotta alla sua minima espressione. Davanti a questa situazione, c’è da chiedersi: perchè l’insistenza nell’applicare formule che hanno solo contribuito ad una maggiore esclusione sociale, all’aumento della povertà ed all’arretratezza? Perchè mantenere l’idea che la risposta ai problemi è la privatizzazione? Ci saranno alcuni che argomenteranno l’insistenza di privatizzare, ma anche tanti altri che ci faranno vedere la non convenienza nel seguire questi schemi. Quale cammino prendere, a chi dare, per lo meno, il beneficio dell’incertezza?

3. Il caso del Messico: un’aggressione alla dignità umana Il Messico ha avuto schemi d’intervento statale e schemi di libero mercato, ha nazionalizzato e privatizzato, ha vissuto, alla fine dei conti, ambedue gli schemi. Forse quello che ci vuole è una coscienza storica che permetta di riflettere sui benefici e gli svantaggi di ogni modello, fare un’analisi ed una sintesi interpretativa che ci permetta di stabilire il modello più propizio, quello che permetta non solo indicatori economici stabili, ma innanzitutto l’innalzamento reale del livello di vita. Forse quello che è necessario è lasciare quello che è stato fatto e provare un percorso differente, però fino a che punto è possibile questo in un contesto così determinato, così attraversato da interessi di gruppi per ambizioni personali? Mi sembra che il problema della nostra situazione stia nella carenza di schemi di partecipazione cittadina che possano esprimere, realmente, le domande; meccanismi che assicurino modifiche di politiche inadeguate e che impoveriscono. Quanta gente sarebbe realmente d’accordo con la direzione che ha seguito e segue il paese? Una domanda con poche possibilità di risposta, ma la cui esistenza permette il sospetto che le cose possano cambiare. Sarà possibile trovare una via differente alla privatizzazione, o bisognerà accettare che non è già tempo d’intervento statale, di politiche populiste e che l’unica cosa che ci aspetta all’orizzonte per il raggiungimento del tanto desiderato benessere sociale sia il mercato, le privatizzazioni, gli schemi di flessibilità lavorativa, il conformarsi a possedere la libertà di accedere al mercato anche quando non possiamo partecipare pienamente all’assegnazione di beni e servizi dovuto allo scarso possesso di risorse? Sono inquietudini chiave per comprendere la nostra attualità, la nostra condizione e soppesare la pertinenza della politica economica e della maniera nella quale si conduce l’amministrazione pubblica. Dobbiamo accettare il nostro luogo comune e non pretendere di mettere a rischio ciò che abbiamo raggiunto, anche quando sia molto poco, accettare le elaborazioni discorsive che ci ripetono in continuazione, che stiamo meglio di ieri e che seguendo lo stesso sentiero staremo ancora meglio. Non c’è dubbio che questo significa un’aggressione alla dignità umana e l’inazione tanto desiderata dalla classe politica ed economica di questo paese, e di qualsiasi altro. Che certezza abbiamo oggi circa la possibilità di vivere meglio? Molto poca e la privatizzazione non lo garantisce di certo.