Cronache dalla città perduta. Il Sud nella morsa dell’impresa criminale

Paolo Graziano

PAOLO TRAMA

Io so e ho le prove. R. Saviano

1. Citofoni sul mare

A Pinetamare i Coppola, famiglia di imprenditori molto potenti, costruì il più grande agglomerato urbano abusivo d’Occidente. Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento, il Villaggio Coppola, appunto. Non fu chiesta autorizzazione, non serviva, in questi territori le gare d’appalto e i permessi sono modi per aumentare vertiginosamente i costi di produzione, poiché bisogna oliare troppi passaggi burocratici. Così i Coppola sono andati direttamente con le betoniere. Quintali di cemento armato hanno preso il posto di una delle pinete marittime più belle del Mediterraneo. Furono edificati palazzi dai cui citofoni si sentiva il mare1.

Nei salotti si poteva sentire il rumore delle onde, bastava che un amico suonasse al campanello per spalancare l’orecchio al vociare dei bambini sulla spiaggia e alle canzoni estive di uno Sharp da passeggio. Alzare la cornetta, nelle torri di Pinetamare, era come accostare l’orecchio ad una conchiglia hi-tech: ti faceva sentire come un navigante tra i flutti. Intanto quei flutti si mangiavano la battigia anno dopo anno, avvicinandosi sempre più alle colonne portanti di quei mostri di cemento: questa lenta vendetta del mare si chiama, in termini geologici, erosione ed ha una manifestazione particolarmente violenta proprio sul litorale domitio di Pinetamare, gravato da decenni di abusivismo edilizio e scempio ambientale che ne hanno minato gli equilibri naturali. Tutto questo in nome di una perversa democrazia del divertimento, di offerta a buon mercato di edilizia vacanziera popolare; e di un’idea rapace di sviluppo, fatta di allevamenti intensivi di bufale e scarichi industriali a mare. Quest’immagine emblematica dell’economia criminale meridionale sta nel libro di Roberto Saviano, dal titolo Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, un testo inclassificabile nella tassonomia tradizionale dei generi, miscela incendiaria di narrazione e inchiesta che, a quattro mesi dalla sua uscita, non smette di alimentare polemiche letterarie e non2. Il passaggio citato si trova in un capitolo allucinato e bellissimo, in cui trova spazio, rispetto al filo dominante della narrazione, la rievocazione di un momento traumatico della propria adolescenza: il narratore viene condotto dal padre sul litorale domitio, abituale poligono di tiro della camorra, per imparare a usare quello che deve diventare strumento familiare nella vita quotidiana di un ragazzino che voglia farsi uomo, la pistola. Basta però uno sguardo più ravvicinato perché da queste poche righe possano essere evidenziate alcune parole-chiave che rimandano a nuclei concettuali estremamente pregnanti, non solo in funzione della comprensione organica del testo in cui si trovano, ma anche come spunti tematici per una riflessione più ampia sulla condizione generale di questa parte del Paese, specchio deformante e chiarificatore di un sistema a scatole cinesi che ci porta nel cuore stesso dell’economia globale. Lungo questo percorso attraverso la microfisica del potere camorristico - espressione che evoca lo spettro di Foucault, sempre incombente dietro le analisi e il metodo d’indagine di Saviano3 - alcune parole, più di altre, rimangono impresse nella mente, marchiando a fuoco l’attenzione e la sensibilità specie del lettore che per ventura vive nei luoghi di cui il libro racconta.

2. Periferia: il Sud come inconscio d’Italia Torniamo allora al Villaggio Coppola, anzitutto al tempo e al luogo in cui i citofoni si affacciano sul mare. Cominciavano gli anni Sessanta, anni di un boom controverso in cui tutto sembrava possibile e al Sud era a portata di mano anche l’impossibile, per chi ci sapeva fare. Questa era l’estrema periferia d’Italia, anzi la periferia della periferia. Nell’ordine: prima il Meridione, poi Napoli, infine il litorale selvaggio; per alcuni che non sanno guardare nelle pieghe delle cose, lo è ancora adesso: 3.500 abitanti che solo d’estate diventano 30.000, e un numero imprecisato ma abnorme d’invisibili, clandestini provenienti dall’Est e dall’Africa che si sistemano negli interstizi di illegalità di un territorio che le istituzioni trattano come terra quasi straniera, frontiera su cui non val la pena di esercitare il controllo4. Ma siamo al livello delle apparenze, perché nei regimi dell’economia criminale quella che viene stravolta è la stessa dialettica centro-periferia, i cui elementi non si dispongono più secondo il classico criterio che prevede un centro in posizione dominante, in espansione verso l’esterno. Il vero centro del potere dei clan è piuttosto l’estrema periferia, il territorio in cui più frequentemente s’aprono vuoti di potere da colmare e occasioni da cogliere, in forma di persone, relazioni, luoghi utilizzabili dal sistema criminale. Tutta la seconda parte del libro di Saviano è dedicata a questa “periferia”, la striscia disgraziata di Terra di Lavoro che collega Napoli a Caserta, ma non si tratta dell’analisi di un microcosmo, di una parte che dovrebbe rendere il senso del tutto, come fa lo storico Sheridan Allen quando spiega l’ascesa del nazismo in Germania attraverso l’analisi dei flussi elettorali e dei cambiamenti sociali di uno sperduto villaggio dell’Hannover5. Qui la periferia è il cuore, tutto ciò di cui ha bisogno il potere criminale per germinare in silenzio, allevarsi in sordina, e infine esportare se stesso con l’aggressività e la concorrenzialità del migliore affare, dell’offerta più conveniente. Non si tratta di una scelta residuale: la camorra non alligna in periferia perché è stata espulsa dal centro, ma perché è qui che il profitto può essere massimizzato mediante la pratica del saccheggio:

mi vengono in mente le parole di Luigi Einaudi, quando dice che l’imprenditore deve sviluppare uno dei principi del liberalismo, cioè far crescere il luogo in cui è nato per poter far crescere il Paese in cui è nato. Questo al Sud non accade, al Sud il luogo in cui sei nato fa crescere te in un altro luogo. Gli imprenditori che nascono al Sud hanno in molti casi gli stessi vettori economici dei camorristi: usare il Sud come serbatoio di manodopera a basso costo, materiali da costruzione, cave, possibilità di avere imprese con meno controlli, assicurazioni conniventi, trasporti a minor prezzo, insomma imprese che si avvantaggiano dello spazio criminale per poter avere un margine di concorrenzialità per riuscire ad essere vincenti nello spazio legale6.

Questa “vampirizzazione” del territorio è una delle marche inequivocabili dell’organizzazione camorristica, che la distingue dalle altre forme criminali attestate nel Meridione per l’assoluta modernità della sua gestione, improntata ai criteri neo-liberisti di minimizzazione della spesa, sfruttamento estremo dei beni, riduzione o aggiramento delle regole (la tanto invocata deregulation). E così, con geniale logica d’impresa, ogni risorsa viene spremuta finché ha tirato fuori tutto il succo e non ne resta che la buccia: dal fianco d’una montagna si ricava prima materiale da costruzione a buon mercato per le imprese edili “di riferimento”, poi nello spazio dello scavo si seppelliscono i rifiuti speciali provenienti dalle fabbriche del nord e infine, sul terrapieno artificiale, si possono edificare graziose villette a schiera. Nell’ultimo capitolo del libro di Saviano, Terra dei fuochi, questa ferina quanto aggiornatissima formula imprenditoriale s’incarna nella storia apocalittica dello stoccaggio clandestino di tonnellate di rifiuti provenienti da ogni parte della penisola nel Meridione:

Dalla fine degli anni ’90 i clan camorristici sono divenuti i leader continentali nello smaltimento dei rifiuti. [...] La stima della quantità sversata corrisponde a circa 28.000 Tir. Una massa rappresentabile immaginando una fila di camion, uno appoggiato al paraurti dell’altro, che va da Caserta a Milano7.

Questo enorme business del residuo è il segno più evidente della relazione che la criminalità organizzata campana intrattiene con il territorio. Le guerre agli inceneritori di oggi hanno radici profonde, in una legge di mercato implacabile che ha spinto gli imprenditori di tutto un Paese a rivolgersi agli stakeholder dei rifiuti tossici, veri e propri manager le cui attività di intermediazione galleggiano in quel mare dove si mescolano l’imprenditoria “pulita” e le organizzazioni criminali sfumando una nell’altra. Così questi intermediari tra imprese e clan si occupano di individuare i luoghi più periferici delle periferie, quelli ormai abbandonati dalla prima fase di estrazione del valore - una cava di pietra da costruzione, un campo coltivato fino a esaurimento della sua fertilità - per valorizzarli nuovamente e dieci volte tanto, come magazzini di rifiuti smaltiti a costi estremamente vantaggiosi8:

Col tempo ho imparato a vedere cogli occhi degli stakeholder. Uno sguardo diverso da quello del costruttore. Un costruttore vede lo spazio vuoto come qualcosa da riempire, cerca di mettere il pieno nel vuoto; gli stakeholder pensano invece a come trovare il vuoto nel pieno9.

L’eco, così insistente in questo periodo, del problema-rifiuti al Sud si tinge dei colori del grottesco, del paradosso: qui non c’è più spazio per quelli che vengono prodotti in loco, proprio perché il sottosuolo di intere aree geografiche al di sotto della linea di Terra di lavoro è letteralmente invaso dai residui produttivi e privati provenienti dal Nord del paese:

Le discariche erano l’emblema più concreto d’ogni ciclo economico. Ammonticchiano tutto quanto è stato, sono lo strascico vero del consumo, qualcosa in più dell’orma lasciata da ogni prodotto sulla crosta terrestre. Il sud è il capolinea di tutti gli scarti tossici, i rimasugli inutili, la feccia della produzione10.

Ecco come un organismo territoriale e politico, un’intera nazione, a furia di rimuovere ciò che ne ingombra il cammino luminoso verso lo sviluppo, finisce per riprodurre in modo inquietante la dinamica psichica dell’individuo freudiano. Forse se Freud avesse conosciuto questa storia non avrebbe usato la metafora archeologica11 per spiegare il funzionamento dell’inconscio, ma avrebbe adottato quella della munnezza: il Sud assurge così a inconscio di un’intera nazione a furia di nascondere ciò che è il rimosso della produzione. E come un organismo che si scompensa fino a crollare, se non si assume consapevolezza dei meccanismi nevrotici, così i sintomi della sofferenza della terra si incarnano nel vertiginoso aumento stocastico di certe malattie:

L’Istituto Superiore di Sanità ha segnalato che la mortalità per cancro in Campania, nelle città dei grandi smaltimenti di rifiuti tossici, è aumentata negli ultimo anni del 21 per cento. Bronchi che marciscono, trachee che iniziano ad arrossarsi e poi la TAC in ospedale, e le macchie nere che denunciano il tumore. Chiedendo il luogo di provenienza dei malati campani spesso fuori l’intero percorso dei rifiuti tossici12.

3. Economia criminale: il volto segreto del capitalismo Il lungo cammino dei rifiuti illegali, foderato di imprenditori desiderosi di non sapere e giovanotti professionali impegnati a rassicurare, disegna perfettamente il profilo di quella che Saviano chiama “economia criminale”. Precisando, tuttavia, che nelle sue rappresentazioni sociali l’aggettivo spesso scivola in ombra, e il confine tra l’attività economica spregiudicata e il crimine si fa sempre più labile. L’attività illegale dell’ultima generazioni di capo-clan, allevata con successo alla scuola neo-liberista e laureata a pieni voti negli atenei italiani, si organizza alla perfezione sulla base del modello toyotista di matrice post-fordista: una miscela di flessibilità, modularità e compartimentazione che garantisce l’efficienza e la protezione della macchina anche in caso di tracollo di una delle sue parti (a seguito, ad esempio, di eventi come l’arresto di certi membri del clan):

Il clan Di Lauro è stato sempre un’impresa perfettamente organizzata. Il boss lo ha strutturato con un disegno d’azienda multilevel. L’organizzazione è composta da un primo livello di promotori e finanziatori, costituito dai dirigenti del clan che provvedono a controllare l’attività di traffico e spaccio tramite i loro affiliati diretti [...] Il secondo livello comprende chi materialmente tratta la droga, l’acquista e la confeziona e gestisce i rapporti con gli spacciatori, ai quali garantisce difesa legale in caso di arresto [...] Il terzo livello è rappresentato dai capipiazza, ossia membri del clan che sono a diretto contatto con gli spacciatori, che coordinano i pali e le vie di fuga e curano anche l’incolumità dei magazzini dove viene stoccata la merce e i luoghi dove viene tagliata. Il quarto livello, il più esposto, è costituito dagli spacciatori. Ogni livello ha in sé dei sottolivelli, che si relazionano esclusivamente con il proprio dirigente di riferimento e non con l’intera struttura. [...] Tutto l’assetto economico finanziario ha il suo team militare: un feroce gruppo di fuoco e una capillare rete di fiancheggiatori13.

La descrizione di quest’organigramma, così familiare agli aziendalisti, sfata peraltro un altro mito oleografico, chiarendo che le armi sono un elemento assolutamente periferico del sistema economico camorrista e il ricorso alla violenza è per lo più episodico. Esso s’impone soltanto in frangenti eccezionali del ciclo economico: per difendere spazi attaccati, per sconfiggere una concorrenza non eliminabile con offerte migliori, per aggredire nuovi contesti ed espandere il dominio commerciale. Né più né meno, a ben vedere, di quanto fanno e hanno fatto grandi multinazionali perfettamente legali in contesti difficili come quelli di alcuni paesi in via di sviluppo, in cui squadre paramilitari mercenarie vengono utilizzate per abbattere resistenze, colonizzare territori, inibire l’attività sindacale e così via. Per il resto, come fanno le aziende “pulite”, “il clan non impone con l’intimidazione il prodotto che decide di ‘adottare’ ma con la convenienza”14. È questa risorsa - la convenienza - che ha la capacità di saldare il circuito legale con quello illegale, come avviene nel caso dei rifiuti: per definizione non essendoci morale possibile nei geni del capitalismo se non quella della migliore offerta, l’impresa legale affida parte del ciclo in outsourcing all’impresa criminale. Se può farlo senza rischi, naturalmente, come sa garantire la moderna agenzia di servizi camorrista. Una volta compresa questa alleanza, e una volta acquisito il dato che non si tratta di un’alleanza contingente ma potenzialmente strutturale per la stessa natura del capitalismo15, non fa più sorridere l’atteggiamento del capoclan che si ribella alla propria persecuzione giudiziaria, che invoca per sé il diritto di perseguire successo e ricchezza, implicitamente chiedendo di assumere quelli - e solo quelli - come parametro per pronunciare un giudizio sul suo operato: “Imprenditori. Così si definiscono i camorristi del casertano: null’altro che imprenditori”16. In una delle pagine più intense del reportage, l’autore che assiste in un’aula del Tribunale di S. Maria Capua Vetere alla lettura del dispositivo del processo “Spartacus” riporta la reazione illuminante di uno dei boss, condannato per innumerevoli reati:

Si agitava, voleva reagire alla sentenza, ribadire la sua tesi, quella del suo collegio difensivo: che lui era un imprenditore vincente, che un complotto di magistrati invidiosi e marxisti aveva considerato la potenza della borghesia dell’agro aversano una forza criminale e non il frutto di capacità imprenditoriali ed economiche17.

Si trattava di una posizione che avrebbe potuto ascriversi delle prove a favore, se solo l’imputato fosse stato in grado di enumerare le proprie alleanze e clientele “legali”. D’altronde anche la rappresentazione vittimistica di se stesso trova la sua giustificazione profonda nel meccanismo di funzionamento dell’economia criminale, dato che i boss costituiscono niente più che il primo livello nell’estrazione di capitale illegale alimentata dalla macchina criminale, un locomotore lanciato a folle velocità sui binari del profitto e pronto a cambiare conducente ad ogni curva:

La forza economica del Sistema camorra è proprio nel continuo ricambio di leader e di scelte criminali. La dittatura di un uomo nei clan è sempre a breve termine, se il potere di un boss durasse a lungo farebbe levitare i prezzi, inizierebbe a monopolizzare i mercati irrigidendoli, investirebbe sempre negli stessi spazi di mercato senza esplorarne di nuovi18.

4. Sistema: il camaleonte camorrista

Non semplicemente uomini associati per delinquere, ma qualcosa di più; un’associazione capace di usare e sostituire i suoi membri alla bisogna, perpetuando con energie nuove e più aggressive il meccanismo di accumulazione capitalistica. Meglio: non un’associazione, ma un vero e proprio sistema, così autarchico e sicuro di sé da adottare codici propri, nel pensiero e nei linguaggi. Gli affiliati di “sistema” (perché nessuno di loro usa più la parola “camorra”) hanno la propria musica, le griffe preferite, le auto d’ordinanza, i miti del cinema come The Crow, Matrix e Pulp Fiction19. E parlano in un gergo da iniziati, modellato con grande creatività sull’immaginario televisivo più triviale: i Visitors sono i tossici all’ultimo stadio usati come cavie per provare il taglio della droga da immettere sul mercato; X-file è un tipo di Ecstasy; Vietnam è la faida tra bande rivali; Pikachu, come il mostriciattolo dei cartoni giapponesi, è il soprannome di un giovane affiliato, e un altro si chiama Kit Kat perché mangia grandi quantità di snack, per non citare i soprannomi e “contronomi” dei boss che “hanno una precisa logica, una sedimentazione calibrata”20, un florilegio davvero infinito. Poi ci sono le espressioni eloquenti: fare un pezzo è una frase prelevata dal mondo del lavoro a cottimo, ma per la camorra - moderna impresa che produce tra l’altro morti ammazzati - vuol dire eseguire un omicidio. È con il concetto di sistema - senza tuttavia sottrarre responsabilità a nessuno degli attori materiali del dramma criminale - che Gomorra riesce meglio a descrivere l’essenza del potere criminale, un potere proteiforme e variegato che tuttavia conserva sempre l’esatta cognizione dei propri obiettivi. Che sono, appare ormai chiaro, di natura eminentemente economica: il potere camorrista è quello dei soldi e per i soldi, l’esercizio militare è una fastidiosa necessità o una incresciosa deriva, la politica tutt’al più un bisogno. Come un’impresa che deve ad ogni costo imporre il suo prodotto, quindi, di tutti questi strumenti la camorra è disposta ad avvalersi, senza tuttavia annacquare l’interesse imprenditoriale con ambizioni di altra natura. In una dichiarazione processuale riportata da Saviano, un imputato chiarisce la disponibilità del potere camorristico a “fare sistema” con altri poteri in vista del miglior profitto per tutti:

Noi vivevamo con lo Stato. Per noi lo Stato doveva esistere e doveva essere quello Stato che c’era, solo che noi avevamo una filosofia diversa dai siciliani. Mentre Riina usciva da un isolamento isolano, da montagna, vecchio pecoraio insomma, noi avevamo superato questi limiti, noi volevamo vivere con lo Stato. Se qualcuno nello Stato ci faceva ostruzionismo, ne trovavamo un altro disposto a favorirci. Se era un politico non lo votavamo, se era uno delle istituzioni si trovava il metodo per raggirare21.

Mentre il pachiderma mafioso punta ad occupare effettivamente il potere, costituendosi come anti-Stato, il camaleonte camorrista si adatta all’ambiente, ne sfrutta caratteristiche e sfumature per mimetizzare e lubrificare il meccanismo affaristico. Per questo - ed è la tesi centrale del libro22 - il sistema camorristico è il luogo in cui può specchiarsi con maggiore fedeltà la deriva neo-liberista del capitalismo contemporaneo, affrancato dai vincoli delle frontiere, sfrondato finalmente delle regole e reso autonomo da ogni ratio esterna di natura politica o morale.

5. Testimone partecipante: una lucida rabbia Lo stomaco e il cervello, in Gomorra, non si pestano i piedi: macinano chilometri, i piedi di Saviano, attenti a lasciare tutto lo spazio necessario all’attività di due organi che sembrano tanto inconciliabili. Sia chiaro: qui il calcolo preciso degli ingredienti formali, il fine bilanciamento degli equilibri strutturali non sono di casa, il dosaggio dell’emotività viscerale e dell’ossessività analitica non prevede cura certosina. Le non poche pagine offrono solo un flebile resoconto di quanta “miscela” ha dovuto bruciare la vecchia vespa per portare in giro un corpo impastato di rabbia e di lucidità, in un connubio che appare come una delle cifre metodologiche più intriganti di questa vigorosa testimonianza. Ci sono le letture fatte in casa e all’Università, e c’è il quotidiano a stretto contatto con la melma delle emozioni primarie: la paura, la rabbia e la sfiducia in ogni possibile cambiamento. Ne deriva un’idea di scrittura potente e lucida: bisogna guardare in faccia la realtà, con tutto il suo carico di orrore, senza risparmiarsi alcuna frustrazione, limitando l’utilizzo degli strumenti culturali a quelli davvero necessari all’analisi, senza alcun orpello metodologico o compiacimento culto. E poi la scrittura deve saper registrare appunto questa frustrazione dell’osservazione, deve restituire anche gli effetti che assalgono il corpo dell’osservatore impotente, frustrato e perciò rabbioso, di chi - come don Peppino Diana, il sacerdote ucciso dalla camorra a Casal di Principe23 - non ha altra arma che la parola, ma che non può permettersi nessun cedimento all’eleganza metodologica e tanto più formale. È così che neuroni e viscere trovano e perdono ripetutamente il loro equilibrio instabile. Ma è proprio in questa lotta estenuante tra le parole e le loro motivazioni, tra l’urgenza di spiegare e la difficoltà di raccontare l’inenarrabile, che l’autore riscopre i padri dell’inchiesta sociale - Scotellaro, Levi, Pasolini - e, con loro, lo spessore umano di un metodo che sottomette l’estetica all’etica, l’atto della scrittura alla capacità di giustificarlo, continuamente. Nel verboso dibattito sulla natura di questo libro, di cui si diceva in apertura, la classificazione che sembra più convincente - quella nel genere del reportage - pure ci appare a questo punto insufficiente: nelle sue manifestazioni classiche, infatti, il reportage è lo scritto di un giornalista-viaggiatore che descrive, attraverso le impressioni del suo autore, un luogo lontano o un ambiente sconosciuto. Si tratta di aprire gli occhi su un mondo nuovo, insomma, e raccontare la meraviglia che ne deriva. Niente del genere accade in questo libro: lo stupore di Saviano è piuttosto quello di chi decide di riaprire occhi chiusi dal dolore dell’impotenza, come quelli del suo lettore che - scrive efficacemente Giuseppe Montesano - “esce dalla lettura di Gomorra come uno a cui è stato ricordato che sopravvive in un incubo”24. Perché, come tutti noi, Saviano vive da sempre nelle terre di camorra: ha sentito per anni l’odore acre delle discariche invisibili, si è nutrito di mozzarelle alla diossina, e gli sarà capitato di tanto in tanto di vedere qualche morto ammazzato coperto da un lenzuolo. È per questo che l’impegno della sua scrittura risulta di gran lunga più denso e importante di altre, più esplicite, dichiarazioni d’intenti: il suo libro è un programma ideale per l’inchiesta sociale, condotta sul territorio da coloro che vivono nel territorio; un apprendistato della parola alla scuola della consapevolezza e dell’azione che, dentro e oltre i confini del Meridione, provoca le coscienze dispiegando sul tavolo la mappa sconcertante dei tragitti del capitale criminale. E invitandoci a riaprire gli occhi. E a leggerne i segni.

note

* Insegnante, giornalista, ricercatore dell’Osservatorio Meridionale di Cestes-Proteo.

** Saggista, docente presso il Laboratorio di Scrittura dell’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale”.

1 R. Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori, Milano 2006, p. 186.

2 Caratteristica, anche per la sua vacuità, la polemica sorta tra il collettivo Wu-Ming da un lato e Tiziano Scarpa con Carla Benedetti dall’altro, centrata sull’attribuzione del libro ad un genere letterario. Per Wu-Ming: “Non hanno alcun senso le contrapposizioni tra finzione e reportage, tra romanzo-romanzo e romanzo-qualcos’altro: noi tutti produciamo, quando lo riteniamo giusto, “oggetti narrativi” che se ne fottono del filo spinato, degli allarmi, dei cocci di vetro sul muro di cinta”. Per Scarpa e Benedetti: “L’io nel libro di Saviano è coinvolgimento profondo, totale, è strumento di conoscenza, è assunzione di responsabilità delle proprie parole, è motivazione autobiografica che spinge a indagare e capire”. Cfr. www.wumingfoundation.com e www.ilprimoamore.com.

3 Per Michel Foucault, nelle cosiddette “istituzioni totali” come caserme, manicomi, carceri il potere si manifesta agli occhi dell’osservatore senza orpelli destinati ad occultarne metodi e forme: in questi contesti, può essere studiato nei suoi caratteri essenziali. Con l’osservazione dell’economia criminale camorrista, secondo Saviano, si ottiene qualcosa di simile, poiché essa rivela i meccanismi intrinsecamente cannibalistici del capitalismo contemporaneo, una volta privati dei loro nascondimenti giuridici.

4 Cfr. F. Erbani, La città degli abusi, in “la Repubblica”, 9 luglio 2002.

5 Cfr. W. S. Allen, Come si diventa nazisti. Storia di una piccola città 1930-1935, Einaudi, Torino 1994.

6 R. Saviano, Azzannare la realtà, intervista a cura di F. Zucchella, in “Pulp”, n. 62, luglio-agosto 2006, p. 10.

7 Gomorra, pp. 311-312.

8 Peraltro un costo che non è mai troppo basso: “Lo smaltimento è un costo che nessun imprenditore italiano sente necessario. Gli stake ripetono sempre la stessa medesima metafora: ‘per loro è più utile la merda che cacano piuttosto che i rifiuti, per smaltire i quali devono sborsare valigie di soldi’” (Gomorra, p. 318).

9 Gomorra, p. 321.

10 Gomorra, pp. 310-311. L’elevazione dei rifiuti a simboli più autentici della post-modernità industriale trova la sua compiuta espressione nel romanzo di Don DeLillo, Underworld, Einaudi, Torino 2000.

11 Nella scrittura freudiana è ricorrente la metafora archeologica, in grado di spiegare assai efficacemente il lavoro dell’analisi che procede come la scienza archeologica, portando alla luce “dopo lunga sepoltura reliquie inestimabili, anche se mutilate, dell’antichità” (Freud). I livelli preistorici della civiltà rappresentano la realtà interna del nostro passato infantile - dimenticato ma non perduto - che, ancora intatto e concretissimo, può essere rievocato nella seduta d’analisi.

12 Gomorra, p. 327.

13 Gomorra, pp. 73-74.

14 Gomorra, p. 61.

15 “Sì, io sono convinto di questo. Il capitalismo ha in sé il germe del crimine nella misura in cui il mercato dell’illegalità - o meglio, lo spazio dell’illegalità - diventa una risorsa” (R. Saviano, Azzannare la realtà, cit., p. 9).

16 Gomorra, p. 210.

17 Gomorra, pp. 220-221.

18 Gomorra, p. 222.

19 “I nuovi sovrani militari dei sodalizi criminali napoletani non si presentano come guappi di quartiere, non hanno gli occhi sgranati e folli di Cutolo, non pensano di doversi atteggiare come Luciano Liggio o come caricature di Lucky Luciano e Al Capone. Matrix, The Crow, Pulp Fiction riescono con maggiore capacità e velocità a far capire cosa vogliono e chi sono. Sono modelli che tutti conoscono e che non abbisognano di eccessive mediazioni” (Gomorra, p. 125).

20 Gomorra, p. 65.

21 Gomorra, pp. 209-210.

22 Tra gli altri, l’ha individuata con esattezza, sulle pagine di “Repubblica”, Angelo Petrella: “la camorra non è semplice devianza criminale, ma è un fenomeno connaturato alla società, che nasce con l’esasperazione del capitalismo. L’aspetto militare è solo l’epifenomeno più appariscente, ma il cuore vero sta nella struttura produttiva della ricchezza, di cui Saviano mette a nudo i meccanismi” (A. Petrella, Nel romanzo-richiesta le domande di Saviano, in “la Repubblica”, 5 luglio 2006).

23 Parroco della chiesa di San Nicola di Bari, a Casal di Principe, don Peppino è stato ucciso a colpi di pistola il 19 marzo 1994, nel giorno del suo onomastico. Il killer lo aveva sorpreso in sagrestia dopo la messa. Poco tempo prima, durante le celebrazioni natalizie, don Diana aveva distribuito il documento Per amore del mio popolo non tacerò, in cui denunciava duramente la morsa micidiale del potere camorristico.

24 G. Montesano, Io, cittadino nelle terre di Gomorra, in “Il Mattino”, 12 giugno 2006.