Un ritorno agli albori del diritto del lavoro?

Antonio Di Stasi

1. Premessa

 

E’ difficile non cogliere come gli albori del diritto del lavoro non siano strettamente dipendenti o frutto di quella “società dell’incertezza” caratterizzante il passaggio da un mondo a prevalente vocazione agricola ad uno industriale.

Ed è consegnato alla storia sociologica il ruolo svolto dalla percezione di una condizione di “sradicamento” che segna la vita di uomini e donne durante la genesi del capitalismo e che ha stimolato un rinnovato e forte bisogno di “appartenenza”. Senso e bisogno di appartenenza, seppur nella frammentazione produttiva e in un quadro di competizione tra proletari, che porta alla nascita del partito operaio, della lega, della camera del lavoro, della società di mutuo soccorso.

E’, poi, altrettanto noto che il diritto del lavoro, come ramo speciale e scienza autonoma dal diritto civile, sia il frutto di un percorso, non scontato, del rivendicato bisogno di ottenere parità e certezze in un sistema dominato dalla libertà formale. Libertà formale che, nei rapporti di lavoro, si traduce in diseguaglianza e discriminazione.

Se, infatti, tutti gli altri contratti riguardano l’avere delle parti, il contratto di lavoro riguarda ancora l’avere per l’imprenditore, ma per il lavoratore riguarda e garantisce l’essere.

Il passaggio da un diritto del lavoro come capitolo minore, quasi un’appendice, del diritto dell’impresa ad un diritto che si fonda su principi diversi e sulla inderogabilità, dicevamo, non è stato scontato ma frutto diretto della rivendicazione e della lotta sociale.

Un percorso non lineare e non breve sol che si pensi alla difficoltà del legislatore dei codici civili a regolamentare in modo organico il rapporto del lavoro piuttosto che considerarlo all’interno del contratto della locazione delle opere.

Al diritto del lavoro sono occorsi molti decenni per diventare “maturo”, sicuramente i due terzi dell’era industriale fino ai giorni nostri, accanto alla circostanza che a concorrere alla produzione normativa ha contribuito la fonte collettiva, esperienza non riscontrabile in altri campi o discipline.

Ciò che il legislatore e il contratto individuale negava, era la contrattazione collettiva, quando non la funzione creatrice della giurisprudenza, che conquistava diritti e tutele, salvo poi ottenere, in un circolo virtuoso, il riconoscimento del diritto e della tutela nella fonte legislativa e nel rapporto individuale.

L’esatto opposto di quanto accade nel diritto civile e dei privati ma, ciò, per una ragione ben presto disvelata: il lavoratore tipo, privo individualmente di una specifica forza contrattuale e condizionato dagli squilibri sfavorevoli all’offerta di lavoro si trova davanti, in sede di negoziazione individuale, il “potere di determinazione” delle condizioni di lavoro detenuto dal datore di lavoro. Sul piano individuale, infatti, o è forte il lavoratore oppure non si dà equilibrio negoziale, perché prevale il potere sociale del datore di lavoro.

Potere superiore preesistente alla nascita del rapporto di lavoro, che emerge già nel mercato del lavoro, nella scelta del lavoratore a cui dare lavoro, e, subito dopo, nella scelta del tipo contrattuale di regolamentazione del rapporto e del suo contenuto, nella gestione del rapporto di lavoro, e, infine, nel risolvere il rapporto stesso.

Ecco, se si dovesse indicare un nocciolo duro di tutele e limitazioni del diritto del lavoro, esso sarebbe composto da regolamentazione pubblica ed imparziale dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, tipicità e inderogabilità della tutela, stabilità del posto di lavoro.

Un approdo, questo, voluto dai lavoratori e dalle organizzazioni sindacali per dare certezza e dignità all’uomo, oggetto del contratto di lavoro, e senza il quale il diritto del lavoro, verrebbe, inevitabilmente, riattratto nell’orbita del diritto civile e dei privati, perdendo natura ed obiettivo.

Le recenti ed importanti novità del mondo del lavoro, la qualificazione del rapporto alla luce di quelli che, molto superficialmente, vengono definiti “nuovi” lavori, i confini e la differenziazione delle tutele e la forma e qualità di rappresentanza sindacale, sono l’ultimo, e forse non ultimo, stadio di una trasformazione del diritto del lavoro che, volendo periodizzare, risale agli inizi degli anni ’80: a partire proprio da quello che, come fu definito allora, è stato lo “strappo” di San Valentino sul modo di garantire il valore reale delle retribuzioni.

Limitandoci all’esame della evoluzione dei nuclei che compongono quello che abbiamo definito il nocciolo duro del diritto del lavoro, risulta di tutta evidenza la constatazione di trovarci in presenza di una erosione degli stadi di tutela, negli anni sedimentatisi, e che ora rischiano lo sfaldamento, tanto da far emergere questioni e soluzioni regolamentative appartenenti ad un’altra “era”.

Proviamo, seppur per cenni, a trattare distintamente quelli che fino a poco tempo fa si consideravano i pilastri del diritto del lavoro.

 

2. Mercato del lavoro e condizioni di lavoro

 

La c.d. riforma del mercato del lavoro, se da un lato ha aumentato la partecipazione di sindacalisti o di persone nominate dal sindacato all’interno della struttura burocratica delle nuove articolazioni del ministero del lavoro, dall’altro ha sfibrato l’intervento pubblico nella scelta e nella determinazione concreta del lavoratore da avviare all’impresa che chiede forza lavoro.

Il controllo sindacale del mercato del lavoro è stato uno dei primi temi affrontato dalle organizzazioni dei lavoratori perché, da subito, e si pensi all’esperienza anglosassone, si è capito che l’esercizio da parte dell’imprenditore, pro domo sua, del potere di scelta del soggetto che deve accedere al lavoro, è il primo tassello di discriminazione che crea, a sua volta, debolezza nei rapporti contrattuali tra lavoratore e datore.

La rinuncia ad una pubblica funzione come è quella della disciplina del mercato del lavoro, che pure veniva criticata per la sua insufficiente o scarsa effettività sia sotto il profilo della mediazione che del controllo, si compie con l’introduzione e la legittimazione della mediazione di privati o di agenzie che di fatto vanno ad operare in un mercato oligopolista, quasi reintroducendo, seppur con il riconoscimento legale, una sorta di caporalato.

Si apre così, nella sostanza, una falla in quel nucleo di tutela che si pone a monte del rapporto di lavoro, ma che poi riverbera i suoi effetti anche a valle dove viene portata allo sconto la calcolata preferenza o pratica discriminatoria che non trova più, se mai l’ha trovata, argine nel generale divieto di discriminazione, il cui diabolico onere della prova è posto a carico del lavoratore o aspirante tale.

In sostanza si tratta di un ritorno alle origini o quanto meno a quella situazione “da rapina” che con la legge del 1960 (la n. 1369 del 23 ottobre) si è voluto vietare e sanzionare penalmente.

 

3. Il recinto del diritto del lavoro

 

L’altra area di crisi riguarda la qualificazione e i confini della subordinazione e anche questo tema è antico come quello del controllo dell’incontro tra domanda e offerta di occupazione ovvero coevo alla nascita del diritto del lavoro. Anzi dalla distinzione tra locatio operis e locatio operarum e sulla specificità di regolamentazione del tipo “lavoro alle dipendenze” si sviluppa il dibattito e viene teorizzata la necessità di una regolamentazione diversa del rapporto di lavoro subordinato. La necessità era proprio quella di superare la contraddizione che vedeva, con la metamorfosi dell’artigiano in operaio, rimanere intatta la struttura legale della locazione d’opera a fronte di una situazione enormemente diversa della situazione reale in cui l’artigiano non aliena più il prodotto del proprio lavoro, ma le sue energie lavorative ad un imprenditore, che quindi su queste lucra.

Il “popolo” delle partite iva, del coordinato e continuativo, del lavoro interinale, della associazione in partecipazione sono una realtà statistica e oggetto di importanti studi sociologici. Il punto di partenza particolarmente enfatizzato è dato dalla considerazione che l’area dei “nuovi” lavori ammonta a circa 2 milioni di unità e che il fondo di previdenza del 10% vede più di un milione e trecentomila iscritti, cosiché di fronte al “successo” sociale di questi rapporti si è soliti dire che ora “ c’è un nuovo terreno, quello vecchio è andato; le conquiste del vecchio non servono più”.

Occorre, in verità, una riflessione che vada oltre superficiali affermazioni ad effetto, per capire cosa c’è di veramente nuovo dietro a rapporti che vengono presentati come nuova frontiera ma che, in molti casi, altro non sono che la riproposizione di medesimi rapporti e, conseguentemente, questioni giuridiche della prima fase di sviluppo della tutela lavoristica.

Innovazione tecnologica e maggiore richiesta di autonomia nel lavoro, ha contribuito ad ampliare numericamente la categoria dei lavoratori parasubordinati, peraltro già riconosciuti dal nostro ordinamento, per i quali diventa ormai improrogabile emanare una organica disciplina. Altrettanto non si può negare che la stragrande maggioranza di questo composito e straordinariamente folto popolo di “fatturisti”, di coordinati e continuativi e via di seguito, altro non contiene che una figura di lavoratore subordinato che fraudolentemente si fa passare come lavoratore autonomo.

Affermare quindi i confini dell’area dei lavoratori subordinati, disvelando la fraudolenta natura di contratti autonomi, significa poter garantire la tutela del lavoratore. Una sorta di passaggio obbligato senza il quale, allo stato dell’arte ed in attesa dell’esito dei progetti di legge attualmente in discussione, si rischia di tornare ad una situazione in cui ampie fette di lavoratori si trovano in un limbo, in una zona grigia, dove, pur non avendo la forza contrattuale del soggetto economico autonomo, non hanno neanche il riconoscimento dei diritti inderogabili posti a protezione della persona del lavoratore.

 

4. Stabilità del posto e presenza sindacale

 

Se ad inizio di secolo si reagiva allo sradicamento con il bisogno e la rivendicazione di stabilità, oggi, si sostiene che “il valore di riferimento per il lavoro è soprattutto quello di dare al lavoratore la possibilità di scegliere” e su questo assunto viene colorata di negativo la tipica stabilità del posto di lavoro.

Anche qui riecheggia il ritorno al passato, a quella concezione secondo cui la parità contrattuale era un dato intangibile che però portava con sé disparità sostanziale; quando, in ossequio al principio della libertà formale, si vietava nel modo più assoluto e tassativo il contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Ben presto i lavoratori hanno capito che con un contratto a termine significa avere, già in partenza, in tasca la lettera di licenziamento e che solo di fronte ad una completa soddisfazione degli interessi dell’imprenditore si potrebbe sperare, forse, nel rinnovo del contratto, e così via. In una tale precarietà, a fronte del bene massimo dell’avere un lavoro purchessia, e la spada di Damocle della disoccupazione sopra la testa, è difficile pensare che il lavoratore precario sia spinto a rivendicare diritti o ad aderire ad una organizzazione sindacale.

Si deve alla elaborazione teorica dell’ingiustizia del “tempo determinato” e alla pressione sindacale, l’esito della conquista di una legge, la n. 230 del 1962, che vieta il contratto a tempo determinato se non allorquando il ricorso a tale strumento sia indispensabile e giustificato. Si configura così il rapporto normale di lavoro come un rapporto subordinato a tempo indeterminato. Un rapporto cioè in cui è minore il rischio di autocensura a rivendicare tutele o a rivendicare status e posizioni, non recidendo alla radice la possibilità di esercitare una effettiva libertà sindacale.

In questi ultimi anni l’aumento di contratti di lavoro atipici, di quei contratti che a ben vedere sono sostanzialmente ancorati dal minimo comun denominatore del tempo determinato, del loro riconoscimento giuridico ed anzi della loro promozione, anche sotto questo profilo, porta indietro le lancette della storia del diritto del lavoro di molti decenni.

D’altro canto, non sembra scientificamente corretto accettare, e porre a base di un ragionamento, il dato secondo cui la maggior parte delle occasioni di lavoro create negli ultimi anni sono a tempo determinato perché questa è la moderna e imprescindibile esigenza del sistema produttivo. Abbiamo appena ricordato che l’utilizzo di forza lavoro precaria ha costituito una frontiera che l’impresa ha difeso strenuamente da sempre e che anzi, in ossequio al rigido formalismo giuridico liberale, il divieto legale era posto proprio per il contratto a tempo indeterminato. E non si ritiene neanche corretto sostenere che la flessibilità dei rapporti di lavoro è conditio sine qua non per la competitività delle imprese se non attraverso la possibilità, evidentemente fraudolenta, di ottenere maggiore produttività o minore richiesta di tutele o minore presenza sindacale che, come visto, consegue al rapporto di lavoro precario. La scienza aziendalista ha messo in luce come con la programmazione e controllo della produzione (PCP) è possibile “armonizzare gli ordini di produzione ricevuti o le previsioni di vendita definite dalla funzione commerciale, con le potenzialità del sistema di produzione”.

L’altro argomento che viene presentato dai cultori dei rapporti di lavoro flessibili è che sono gli stessi lavoratori a voler scegliere tipi contrattuali che non li leghino ad un dato rapporto ma che li lasci liberi di “scegliere”.

Nessuno può disconoscere che in passato la vita sociale ed individuale era tutta modellata sui ritmi e tempi della fabbrica, mentre oggi il rapporto tempo di lavoro-tempo di vita è profondamente mutato. Nel tentativo di migliorare la qualità della vita comunemente si cerca di “liberare” una parte del tempo dal lavoro per poterlo dedicare ai bisogni individuali e collettivi. Ma esiste, evidentemente, una forzatura logica tra il premettere tale esigenza e vedere come modus satisfativo quello della precarizzazione dei rapporti. E se si va oltre la superficialità si trova che, come numerose ricerche sociologiche hanno evidenziato, i lavoratori non aspirano in generale ad un tempo di lavoro flessibile, ma piuttosto ad un tempo di lavoro “svincolato”.

Per evitare, quindi, di dare una interpretazione distorta a questo nuovo atteggiamento è necessario ricordare che “tempo della prestazione lavorativa” e “durata del vincolo contrattuale” sono due aspetti distinti del rapporto di lavoro.

Se da un lato, una gestione più flessibile degli orari di lavoro, con strumenti come il part-time, gli orari variabili, può rappresentare una risposta alle richieste di flessibilità, nel senso reale inteso dai lavoratori, altrettanto non può dirsi per il tempo determinato o comunque per quei rapporti precari sforniti di stabilità e delle più elementari tutele.

In questo secondo caso, più che flessibilità, si produce incertezza su un futuro più o meno lontano, ovvero una situazione che certo non contribuisce a migliorare la qualità della vita. Queste analisi da tempo non mancano nella letteratura giuridica e per usare le parole di Giugni è veramente difficile, usando un eufemismo, dire se la nuova disponibilità sia legata a ragioni di tipo soggettivo, o alla consapevolezza di una condizione di debolezza nel mercato, considerando che questa maggiore disponibilità proviene proprio dalle fasce più deboli.

Il rischio vero che produce l’accettazione e la legittimazione, anche all’interno di una parte del mondo sindacale, di una cultura che abbiamo definito “nuovista” del mondo del lavoro rischia di tramutare la flessibilità in “precarizzazione assoluta”.

Nei rapporti di lavoro precario, l’assenza di stabilità anche temporale, e la condizione di incertezza che ne deriva, pongono il lavoratore in una situazione di “maggiore subordinazione” e non di maggiore autonomia. Un rapporto non connotato da stabilità crea nel lavoratore , il quale è cosciente di poter tornare ad essere disoccupato per un nonnulla (la continuazione del rapporto è rimessa alla volontà dell’imprenditore), una condizione di soggezione assoluta, un ritorno al lavoro servile.

Se a tutto questo si aggiunge la parcellizzazione delle unità di lavoro, la non rispondenza tra datore di lavoro reale e datore di lavoro formale - il lavoro interinale ha anche questo effetto - la stessa prospettiva di una presenza sindacale organizzata sul luogo di lavoro diventa più difficile con il rischio di far mancare proprio una gamba fondamentale per le fonti e la produzione di regole del diritto del lavoro.

Che possa venir eroso anche lo spazio, nella regolamentazione del rapporto di lavoro, conquistato dalla contrattazione collettiva? Oppure di fronte allo scenario di un sostanziale regresso del diritto del lavoro, in senso costruens, il sindacato sarà costretto, pur tornando ad essere un soggetto organizzato fuori dal luogo di lavoro come agli albori, a riscoprire funzione e vocazione, e a tentare, attraverso la contrattazione collettiva, di recuperare diritti e tutele? Può il senso di sradicamento del lavoratore precario portare ad una nuova e forte richiesta di appartenenza?

Un bagno rigeneratore, un eterno ritorno o, più volgarmente, un gioco dell’oca?

 

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