Mercato mondiale, Stato nazione,competizione globale... e altro ancora

SILVIO SERINO

Una porta giusta per entrare in argomenti di scottante attualità

Della genesi del capitalismo si è sempre discusso poco in Italia. In questo vuoto c’è chi è arrivato a sostenere che il capitalismo è diventato modo di produzione dominante solo accidentalmente, attraverso gli Stati-nazione. Anzi - come lasciavano prefigurare le prime aggregazioni (proto)capitalistiche a Venezia e Genova con la loro dimensione e vocazione immediatamente sovrastatali - era più probabile che esso si sviluppasse dentro uno Stato mondiale. Riprendendo però la sua vocazione originaria, dopo il crollo dell’Urss e la fine delle colonie, il capitalismo sarebbe diventato finalmente Impero globale. L’ultimo libro di Vasapollo/Jaffe/Galarza - con il significativo titolo di “Introduzione alla storia e alla logica dell’Imperialismo” - è la strada buona da seguire per dare fondatezza maggiore alla teoria dell’Imperialismo come sistema mondiale che accentua le contraddizioni, le barriere e la polarizzazione. È, tanto per cominciare, proprio la genesi del capitalismo che - già per la sua lunga durata rende poco credibile l’ipotesi dello Stato come accidente, quasi un ingombro - dimostra l’intrinseca necessità delle formazioni nazionali e statali. Se vogliamo attenerci a quanto ci dice Benedict Anderson in Comunità Immaginate non si tratta neppure di una necessità che sorge per incontro con un’entità già data e cioè come un primo (e magari provvisorio) risultato di una tendenza al minimo sforzo: nel periodo che segue la scoperta dell’America assistiamo a un tenace, sistematico e imponente sforzo per costruire lo Stato-nazione fino al punto da dargli una memoria, una tradizione e una cultura che non aveva. Per dirla con una battuta, l’Olanda diventa, nella corsa al capitalismo, nazione separandosi da un Impero: non approfitta dell’Impero. E c’è chi addirittura sostiene che gli imperi - come quello cinese - furono l’ostacolo determinante a commercianti e imprenditori che pure operavano al loro interno, mentre la emergente competizione interstatale - che trionfa finalmente dopo la pace di Westfalia - favorì il decollo del capitalismo europeo occidentale. Sono ipotesi discutibili queste ultime. Ma una cosa non è assolutamente vera, e cioè che gli Stati-nazione riuscirono a esprimersi e a dare impulso al capitalismo perché nella fase dell’accumulazione primitiva (e ancora dopo per molto tempo) non c’era ancora il mercato mondiale... per sottintendere che la successiva crescita di quest’ultimo si sbarazzerà dell’incomodo. Sostiene Marx che il mercato mondiale è presupposto (è la balia, dicono i tre autori) e risultato del capitalismo. Quanto al presupposto, la prima accumulazione capitalistica viene in parte favorita dall’evolversi delle contraddizioni interne, ma riceve impulso dal saccheggio e dal supersfruttamento crudele dell’America (tramite anche gli schiavi africani), oltre che dal commercio sulla lunga distanza. Molti marxisti spiegano che il mercato mondiale è in effetti il risultato del capitalismo - quindi sarebbe un fenomeno recente - per cui il riferimento marxiano anche al presupposto sarebbe un altro gioco di parole, una civetteria letteraria cui non bisognerebbe dare troppo peso: in fondo con alcune caravelle per mare e qualche cavallo per terra non sarebbe plausibile parlare di mercato mondiale vero e proprio... per concludere che abbiamo fatto tutto (o prevalentemente) da soli in Europa (o nella sola Inghilterra: per Paul Brenner addirittura nella sola Inghilterra sud-orientale). Non abbiamo rubato niente a nessuno, dunque, non avevamo bisogno di rubare, perdinci! Ritengo invece, assieme agli autori del libro, che la precisazione di Marx non volesse essere una civetteria, se è vero che egli vi ritorna sostanzialmente in varie altre occasioni. Fin da giovane, nella “Ideologia tedesca” egli così argomenta: “La manifattura e il movimento della produzione in generale ricevettero un enorme (sottolineatura nostra) impulso tramite l’estensione del commercio che derivò dalla scoperta dell’America e delle vie marittime verso le Indie Orientali. I nuovi prodotti importati da lì, particolarmente le masse di oro e di argento che vennero in circolazione e cambiarono totalmente la posizione delle classi tra di loro, portando un duro colpo alla proprietà fondiaria feudale e ai lavoratori; le spedizioni degli avventurieri, la colonizzazione, e soprattutto l’estensione nel mercato mondiale, che avevano reso possibile ora e stavano quotidianamente diventando sempre di più un fatto, aprivano una nuova fase di sviluppo storico, nel quale in generale non possiamo qui addentrarci ulteriormente. Attraverso la colonizzazione dei paesi recentemente scoperti alla battaglia commerciale delle nazioni tra di loro viene fornito nuovo alimento e conseguentemente più grande estensione e animosità. Quindi, mercato mondiale con le colonie, con i mercati al plurale, e soprattutto mercato mondiale formatosi sotto l’enorme impulso della conquista dell’America, ecc. ecc. Nel libro di Vasapollo/Jaffe/Galarza si ritorna sull’enorme impulso del mercato mondiale come presupposto del capitalismo, fornendo ulteriori informazioni sul contributo del commercio e dell’uso degli schiavi, ribadendo con grande efficacia che “la maggior parte dell’accumulazione primaria consisteva non nel cambiare la società feudale in una società capitalista per mezzo della lotta di classe all’interno della stessa Europa, ma nel processo globale di colonizzazione descritto... da Marx. Il colonialismo fu la nascita sanguinosa sia del capitalismo sia dell’Europa”. Si può discutere sulla maggiore importanza del mercato mondiale rispetto ai fattori endogeni europei ai fini del decollo del capitalismo. È però innegabile (neppure Dobb o un accanito eurocentrico come Brenner lo ha negato) che esso già funzionava subito dopo la conquista dell’America, sebbene all’epoca anche il solo “Mediterraneo era ancora lungo sessanta giorni”. Senza le miniere di Potosì non ci spiegheremmo lo sviluppo straordinario di Liverpool, senza la tratta degli schiavi non ci spiegheremmo i bei quartieri di Amsterdam o di Bordeaux che nacquero nel giro di pochi anni; senza il sangue degli schiavi sul cotone americano non avremmo avuto la rivoluzione industriale inglese; senza la patata americana l’aratro pesante a sversoio trainato da otto buoi (che Lynn White crede sia stato inventato in Europa nel medioevo, ignorando che era in uso in India già nel VI secolo a. C.) non avrebbe prodotto alcuna grande rivoluzione agricola nel Nord dell’Europa. “La tanto decantata ‘rivoluzione borghese’ in Francia (1789-93) e in Inghilterra (capeggiata da Cromwell nel 1644-55) e la libertà dell’Olanda dalla Spagna nel 1548 - viene riassunto con maestria - furono finanziate dal commercio e dalla schiavitù di gigantesche compagnie mercantili oceaniche... La borghesia francese era già da decenni in piena fiorente economia prima del 1789 (come misero in evidenza già CRL James nei “Black Jacobins” ed Eric Williams in “Capitalism and Slavery”, ndr) grazie alla sua flotta mercantile coloniale. Il potere francese sui mari aveva svuotato il feudalesimo di gran parte della sua economia già durante le guerre coloniali e i carichi di schiavi attraverso l’Atlantico sotto Luigi XIV, due regni prima che la rivoluzione decapitasse Luigi XVI”. Se tutto ciò è vero, con il modo di produzione capitalistico risultano inscindibili i tre “termini” mercato mondiale, economia nazionale e Stato: nello sviluppo dei secoli successivi, non c’è un “termine” che si sviluppa eliminando un altro termine o gli altri due. Il mercato mondiale (anche) come risultato del capitalismo si allarga e si intensifica, riduce la “lunghezza” dell’Atlantico a meno di un secondo, ma la potenza delle sue contraddizioni evoca pure la terribile ipertrofia degli Stati dominanti che arrivano ad esercitare la violenza “in tempo reale”. La contraddizione tra i maggiori di questi Stati si attenua durante la pace dei cento anni, che fa seguito alla sconfitta di Napoleone Bonaparte. Ma ciò non è dovuto al maggior sopravvento del mercato mondiale che tenderebbe ad emarginare gli Stati e a realizzare la pace kantiana. È dovuto invece al fatto che le grandi potenze coloniali possono alleggerire la tensione tra di loro e le contraddizioni sociali al loro interno, potendo ancora conquistare nuove colonie. Di mercato mondiale si è parlato con grande enfasi all’epoca dell’egemonia britannica. Ma paradossalmente un fenomeno che dovrebbe, secondo talune teorie, mettere almeno in ombra il ruolo degli Stati, finisce poi per esasperarlo al massimo: la I. g. m. non è un incidente di percorso, come pure le economie nazionali che subito dopo celebreranno i loro fasti non sono il riflesso di un ridimensionamento del mercato mondiale, che anzi tende sempre di più ad essere invasivo. Tuttavia, la lezione dei cinquecento anni che stanno alle nostre spalle non sembra essere abbastanza istruttiva: si torna oggi a parlare nuovamente di tendenza all’Impero, Stato mondiale, globalizzazione ecc. I tre autori del libro smontano ancora una volta questa illusione con puntuali e persuasive analisi concrete, riproponendo la realtà di un mondo unitario, sotto l’egida del capitale, ma proprio per questo strutturalmente incapace di omogeneizzare il tutto al suo punto più alto. Il capitalismo - si dice spesso - rivoluziona continuamente se stesso. È vero, ma ciò viene talvolta assunto come la trasformazione di quanto è arretrato, non ancora capitalistico, in realtà pienamente capitalistica. In questa aspettativa, qualcuno ha suggerito di spostare “Lenin in Inghilterra”, di non affidarsi alla magra consolazione della “rottura dell’anello debole”: è sull’anello forte che si gioca tutta la partita, non sul residuale, sul “non ancora”. Da qui anche la ricorrente e fascinosa rincorsa al soggetto sociale decisivo, a quella parte del proletariato, sempre metropolitano, capace di spezzare quell’anello. L’attenzione del libro è invece di nuovo sulla complessità, quale ruolo chiave. Una complessità che combina lavoratori, intellettuali, classe operaia industriale, precariato, immigrati e perfino nuovi schiavi con tutte le loro implicazioni razziste, nazionali, sessiste. Perfino in un paese come l’Italia esponenti del centro-sinistra hanno dichiarato, con una punta di malcelata soddisfazione, che il lavoro nero è il volano dell’economia; mentre esponenti del centro-destra hanno di fatto invitato a non demonizzare troppo la criminalità mafiosa e camorristica e a considerarla invece come parte utile, per quanto sgradevole, del sistema. Volendo riprendere un po’ liberamente la teoria di Samir Amin (purtroppo non sempre coerente in politica con i suoi assunti teorici), la criminalità organizzata, la cui connessione con lo Stato e l’imprenditoria ufficiale è evidente anche ai ciechi, concorre anche, in determinate aree, alla continua attualizzazione dell’accumulazione originaria. Verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso, un intellettuale poco noto titolò “Napoli come New York”. Come dire: quella criminalità che fa sproloquiare su Napoli come capitale della marginalità la ritroviamo nella stessa misura e qualità nel cuore dell’Impero. Egli doveva solo aggiungere che quella criminalità era compatibile con una Napoli che era allora la quarta città industriale, per numero di addetti, d’Europa. Ed è ora compatibile con il centro-sinistra. Siamo abituati da decenni ad essere richiamati sulla centralità della contraddizione dentro lo sviluppo capitalistico più avanzato e a veder trattare tutto il resto come “questioni”: la questione razziale, la questione del lavoro nero, la questione del sottosviluppo, la questione femminile, la questione della monnezza, pardon ecologica, la questione nazionale, e ora la questione immigrati o di nuovo del lavoro servile. Non ci sfugge la centralità della contraddizione capitalistica: se il capitale potesse superare la resistenza operaia, attiva o passiva, senza ricorrere alla ristrutturazione che fa calare il saggio di profitto, magari ricorrendo al lavoro delle scimmie ammaestrate, non ci sarebbero più “questioni”; ma il capitale, anche nell’epoca dell’automazione che richiederebbe solo la sorveglianza e la ripetitività, ha bisogno del lavoro vivo umano per una serie di motivi (che qui non possiamo trattare) che attengono al processo lavorativo stesso, all’acquisto”gioioso” delle merci e al consumo, al consenso, alla politica. Tuttavia, mi sembra sbagliato trattare le “questioni” solo come conseguenza della mancata risoluzione della contraddizione centrale. È invece anche attraverso l’uso di quelle “questioni” che il capitale risolve la caduta del saggio di profitto. Peraltro annotava alcuni anni fa Wallerstein che quelle che noi definiamo “questioni”, con il sottinteso di secondario o di derivato o di residuale e quant’altro, rappresentano, in forme anche virulenti, i nove decimi di questo mondo e coinvolgono perfino il proletariato più avanzato. Mi rendo ovviamente conto della diffidenza che suscita la prospettazione dei cosiddetti problemi “arretrati”. Essi sono stati utilizzati dal riformismo per suggerire battaglie di modernizzazione per tappe possibili, magari in alleanza con il capitalismo avanzato e la borghesia progressista. Al riguardo, però, vorrei proporre due considerazioni. Sostenere che non vale la pena occuparsi dell’arretrato, perché marginale e comunque superabile nella stessa agenda del capitalismo che rivoluziona sempre se stesso, è un rovesciamento sì del riformismo ma è un rovesciamento di tipo simmetrico. Cosa infatti c’è di diverso tra il sostenere che bisogna battersi per il superamento dell’arretratezza e il sostenere che tale superamento è già inscritto nell’evoluzione del capitalismo? A me pare che in entrambe le posizioni corra la convinzione di un capitalismo che, con le buone o con le cattive, comunque evolverebbe, abbia la capacità di mondarsi dei suoi peccati originali. L’altra considerazione la pongo sotto forma di domanda. È possibile partecipare, con una posizione critica e autonoma, alle lotte - che comunque si danno - provocate dalle “questioni” con una tensione anticapitalista fin dalle sue prime battute? Conosco le due opposte risposte: la prima, molto convenzionale, mi inviterà realisticamente a rinunciare, durante la prima tappa della lotta, a qualsiasi velleità di distinguersi dal democratico o nazionalista o ecologista di turno; la seconda mi ammonirà sui rischi di una commistione in lotte impure, mostrandomi i fallimenti del passato e invitandomi ad aspettare sempre che la lotta si decanti da sé. Ciò nonostante mi sento ancora motivato a proporre quella domanda, perché concordo su questo punto con Wallerstein (talvolta discutibile su alcune disinvolte interpretazioni del marxismo): “Temo che razzismo e sottosviluppo siano più che dilemmi. Essi sono... aspetti costitutivi dell’economia-mondo capitalistica in quanto sistema storico. Sono condizioni fondamentali e manifestazioni essenziali della distribuzione ineguale del plusvalore, e rendono possibile l’incessante accumulazione di capitale, la raison d’ètre del capitalismo storico. Organizzano il processo da un punto di vista occupazionale e lo legittimano politicamente. È impossibile concettualizzare un’economia-mondo capitalistica che ne sia priva. Forse è il caso di ritornare alla definizione di ‘dilemma’ data dai dizionari. Dal punto di vista di coloro che detengono il potere nell’economia-mondo capitalistica, risolvere o non risolvere i ‘dilemmi’ del razzismo o del sottosviluppo costituisce ‘alternative egualmente sgradevoli’. Il sistema non può funzionare senza di essi, e sul lungo periodo non può funzionare con essi. È qualcosa in più di una scelta difficile; si tratta di una scelta impossibile”.

Note

* Ricercatore socio-politico indipendente e storico.