Gli avamposti del capitale

PASQUALE CICALESE

Servizi a rete per le strategie dello sviluppo capitalistico

Quanto più la produzione si basa sul valore di scambio, e quindi sullo scambio, tanto più importante diventano per essa le condizioni fisiche dello scambio - i mezzi di trasporto e di comunicazione. Il capitale, per sua natura, tende a superare ogni ostacolo spaziale. La creazione delle condizioni fisiche dello scambio - ossia dei mezzi di trasporto e di comunicazione - diventa dunque per esso una necessità, ma in tutt’altra misura diventa l’annullamento dello spazio per mezzo del tempo. Se il prodotto immediato può essere valorizzato in massa su mercati distanti solo nella misura in cui diminuiscono i costi di trasporto, se d’altra parte mezzi di comunicazione e trasporto a loro volta non possono avere altra funzione che quella di essere sfere della valorizzazione, del lavoro gestito dal capitale; se insomma esiste un commercio di massa - attraverso cui viene reintegrato più del lavoro necessario - la produzione dei mezzi di comunicazione e di trasporto a buon mercato è una delle condizioni della produzione basata sul capitale, ed è per questo motivo che il capitale la promuove. Karl Marx1

Sono trascorsi diversi lustri da quando il dibattito economico, finanche quella d’impronta “marxista”, rimarcava la fine del paradigma taylor-fordista, sostituito dalla nipponica produzione just-in time, dalla disintegrazione delle fasi produttive e dalla scomparsa del concetto stesso di magazzino. Pochi avevano intravisto nel nuovo paradigma toyotista l’estremizzazione dell’organizzazione scientifica del lavoro nel nuovo contesto della crisi di sovraproduzione, iniziata verso la metà degli anni sessanta del secolo scorso e non ancora conclusa2. Vissuto quasi come una liberazione, il dibattito sulla presunta scomparsa dell’operaio-massa favoriva un ritorno dell’apologia dell’auto-impiego, del lavoro fintamente indipendente, l’esaltazione delle reti “molecolari” delle formiche del nuovo capitalismo e, ça va sans dire, in definitiva l’esaltazione del “piccolo è bello”. Illudendosi che anche altri paesi, magari “emergenti”, abbandonassero i caratteri tipici del modo di produzione capitalistico del XX secolo per trastullarsi verso forme di estrazione di plusvalore pre-capitalistici ed in definitiva “feudali”. Con questi presupposti teorici nel nostro Paese si è assistito ad un’oggettiva convergenza tra la parte più retriva della borghesia italiana della piccola e media imprenditoria, protagonista di un panorama produttivo familistico ed estremamente frammentato e lillipuziano, e settori cosiddetti “antagonisti” circa l’esaltazione di feudali forme di produzione e di scambio, dall’autoconsumo alle forme reticolari di autoimprenditorialità (magari con l’illusione di fuoriuscire dal reale costituito dal modo di produzione capitalistico), con l’accettazione acritica del federalismo, di contro alla centralizzazione delle sfere decisionali pubbliche, che rappresentano, in paesi come la Cina, uno dei veri motivi dell’accelerazione capitalistica e dello sviluppo delle forze produttive, quello che il linguaggio comune afferma essere competitività del Sistema-Paese in un afflato neocorporativo che cela le forme più brutali della sottomissione reale del lavoro al capitale. Non è un caso che vi sia stato in questi anni un parallelismo tra le italiche fobie della concorrenza “sleale” dei paesi emergenti e la filosofia no-global contro il compimento del mercato mondiale e del libero scambio. Nel frattempo il capitale, con i suoi processi progressivi inarrestabili, si apprestava a smentire gli apologeti del nanocapitalismo e a presentarsi, nel compiuto mercato mondiale - la cui realizzazione è da datarsi dopo il crollo del muro di Berlino - nella sua essenza storica, caratterizzata da processi quali la ridislocazione della divisione internazionale del lavoro, il consolidamento produttivo, la centralizzazione finanziaria, la creazione di grandi oligopoli e “cartelli; in definitiva, il gigantismo à go-go3 quale modalità di uscita dalla crisi di sovraproduzione. Alla luce di queste considerazioni il presente lavoro ha l’obiettivo di dimostrare l’assoluta adeguatezza storica delle moderne forme in cui si oggettivizza il processo di valorizzazione su scala mondiale, caratterizzato, al contrario degli assunti dei sinistri cantori del “piccolo è bello”, da grandi conglomerati, dalla standardizzazione dei processi produttivi, dalla taylorizzazione delle forme di organizzazione del lavoro, dal ruolo crescente delle masse salariate dell’Asia entro il quadro di nuova divisione internazionale del lavoro e dallo spostamento di filiere di produzioni laddove le condizione generali della produzione consentano una maggiore estrazione di plusvalore. Questo processo venne definito circa dieci anni fa come una nuova “hausmanizzazione”(dal concetto benjaminiano contenuto in Parigi Capitale del XIX secolo e dagli scritti di Amedeo Bordiga sulle città e su Le Courbusier) delle nuove megalopoli, definite “New Manchester”, nell’ambito dell’industrializzazione “nomade”. Ecco come venne inquadrato il fenomeno che ha sconvolto il panorama produttivo internazionale, nell’ambito della marxiana legge generale dell’accumulazione capitalistica, caratterizzata dalla creazione di una sovrappopolazione relativa e dall’esercito industriale di riserva, a seguito delle “rivoluzioni verdi” intervenute in ambito agricolo: “Oggi, quando la nuova organizzazione del lavoro di tipo “toyotista” prevede la produzione just in time, cioè flessibile, adeguata alle oscillazioni del mercato, con le scorte ridotte al minimo, ecco che la megapopoli consente di sostituire agli stock di merci, gli stock di forza-lavoro”4. Un volenteroso funzionario del capitale qual è il sig. Lim Hng Kiang, ministro del Commercio e dell’Industria della città-stato di Singapore, spiega con rude chiarezza “marxiana” il processo in atto. “Ricordo che negli anni ’70 i miei primi studi da economista sulla Cina mi fecero soffermare su una cifra chiave, quell’80% del miliardo e trecento milioni di cinesi che viveva nelle campagne. Pochi mesi fa ho aggiornato questa percentuale con un mio collega di Pechino: è scesa al 60%. Questo significa che lo spostamento dalle campagne alle città e alle fabbriche del solo 20% dei cinesi ha fruttato a quel paese oltre venti anni di crescita ininterrotta al 7-10%. Significa altresì che la Cina ha spazio per crescere ancora per quarant’anni, anche non assumendo che alla fine la popolazione agricola si riduca a una quota americana, al 6%”5. Un esempio si tutti è dato dalla città di Shenzhen, fino alla agli anni ’70 un villaggio di pescatori del Pearl Delta River a ridosso di Hong Kong, che fu trasformata da Deng come “zona economica speciale”; nel giro di cinque lustri è diventata una megalopoli di 12 milioni di abitanti. Al contempo, il presente saggio delinea le chances perse dal nostro Paese entro il quadro della nuova e possente divisione internazionale del lavoro, le occasioni mancate nel processo di accumulazione del capitale, il fallimento delle politiche pubbliche che hanno impedito la creazione di quel “comunismo del capitale” insito nella costruzione di reti infrastrutturali fisiche ed immateriali. Altresì sono da rimarcare l’assenza di una moderna politica industriale, così come l’inesistenza di una prassi amministrativa ed aziendale tale da configurare una presa di coscienza, da parte della classe dominante, dell’attuale “ruolo storico” del Paese rispetto ai processi economici internazionali, che costituisce, quest’ultimo punto, la reale inadeguatezza storica dell’attuale blocco sociale dominante al potere (le gramsciane spalle destre e spalle sinistre della borghesia), figlio di quell’atavico provincialismo frutto della tara ereditaria della borghesia italiana. Da questo punto di vista parlare delle forme moderne di valorizzazione del valore, in pratica del ruolo progressivo del capitale, significa ipotizzare una certa modalità di uscita da questo feudalesimo che ha infestato il nostro paese negli ultimi trent’anni, riconoscendo la funzione rivoluzionaria dello sviluppo capitalistico e delle forze produttive, in particolare nell’ambito del plusvalore relativo, possibile solo laddove il sistema delle grandi imprese permea l’assetto produttivo di un Paese e le condizioni generali della produzione permettano la valorizzazione del valore. Ecco perché parlare di traffici marittimi internazionali equivale a disegnare una fuoriuscita dalle secche delle dinamiche produttive del Paese, contraddistinte da una polverizzazione produttiva, da un indice di specializzazione settoriale equivalente a quella del 1980 - come se la rivoluzione dell’informatica, delle nanotecnologie, della biogenetica non avessero sconvolto il quadro della divisione internazionale del lavoro. Nel recente accordo Confindustria-Sindacati confederali sul Mezzogiorno uno dei capitoli specifici è dedicato al potenziamento della logistica portuale e ferroviaria, visti come asse strategici della “competitività” del Paese; tuttavia è da sottolineare che l’Italia sconta in questo settore un ritardo manageriale, infrastrutturale, organizzativo e “politico” di diversi decenni (almeno tre, ad essere ottimisti). Così come è da chiarire che un’eventuale presa d’atto delle potenzialità in questo ramo, e dunque un conseguente spostamento di enormi risorse finanziarie pubbliche e private verso questo settore, implicherebbe per il nostro Paese una scelta finalizzata a quel “comunismo del capitale” tanto deprecato dalle feudali classi dominanti italiane - ossessionati dall’aumento della massa dei salariati di contro all’arretramento dei lavoratori cosiddetti “indipendenti -, e dunque: grandi imprese, egemonia del capitalismo manageriale centrato sulle società di capitale a controllo diffuso, enorme arretramento del capitalismo familistico anticapitalistico - dove alla scarsità di potenza di fuoco patrimoniale e finanziario in ambito aziendale corrispondono enormi fortune personali dei proprietari -, creazione di un quadro regolamentare di natura finanziaria, societaria e bancaria incentrato sulla modernizzazione capitalistica, ecc. ecc. Insomma, “condizioni generali di produzione” attualmente inesistenti nell’italiaetta crispina di questi anni. Tutto il contrario di quanto successo dalla metà degli anni sessanta, quando la classe dominante, “terrificata” dall’ascesa del movimento dei lavoratori, avviò un assetto produttivo che lo stesso economista Marcello De Cecco non nasconde essere “antistorico”, entro una cornice di permanente e sanfedista rivoluzione passiva contro il capitale. Da questo punto di vista la pagine seguenti, nel fornire un quadro storico di un settore primordiale del commercio mondiale, al contempo effetto e causa dell’enorme sviluppo dei traffici mercantili e della nuova divisione internazionale del lavoro, delineano una genealogia del ritorno della pratica fordista, nell’accezione gramsciana e come forma di sfruttamento del lavoro, nelle asiatiche terre, dove i volumi di traffico dei containers dei maggiori porti di questa parte del pianeta rispecchiano alcune caratteristiche fondamentali del modo di produzione capitalistico quali l’abbattimento dello spazio attraverso il tempo, le economie di scala, l’abbattimento dei costi di circolazione così come la tensione infinita protesa alla forte diminuzione dei tempi di valorizzazione, a partire dalla sfera di produzione fino ad arrivare a quella dello scambio. L’assunto principale del presente lavoro è che nell’organizzazione toyotista del lavoro il magazzino “scompare” dal sito industriale per “ricomparire” in una nave Malacca-max (dal nome dello stretto della Malesia) capace di trasportare 12 mila container a viaggio; in pratica il magazzino diventa esso stesso un fattore di trasporto, confermando la tesi marxiana secondo cui i costi di trasporto equivalgono ai costi di produzione e, dunque, che la navi-container sono essi stessi fattori di produzione e rientrano nella sfera della valorizzazione vera e propria. La pratica di mettere il fuoco al culo ai lavoratori, come amano ripetere i padroni nipponici, viene esteso alla fabbrica galleggiante e da lì ai lavoratori portuali e agli addetti alla logistica, dai confezionatori ai trasportatori; tutto diventa sistema di fabbrica, riproducendo massa di salariati ed esercito industriale di riserva. Da qui si spiega la sconfitta dei camalli genovesi negli anni ottanta - per importanza equivalente alla sconfitta operaia della Torino del 1980 - o la privatizzazione strisciante delle organizzazioni marittime. Indagare su questi assunti equivale ad indagare sulle nuove modalità di estrazione del plusvalore e, al contempo, “ fotografare”, per quanto è possibile, una nuova fase distruttiva/creativa del capitale, in un (in)finito ed incessante processo di trasformazione nella modalità di estrazione del plusvalore del modo di produzione capitalistico.

1. Il fordismo non è mai scomparso

Durante la seconda guerra mondiale la Marina statunitense adottò per le sue esigenze di trasporto contenitori standard di 6 piedi - denominati Conex box -, utilizzati soprattutto per il trasporto di soldati statunitensi morti nei campi di battaglia in Europa. Per alcuni lustri i Conex furono adottati solo in ambito militare, fino a quando un geniale trasportatore americano standardizzò la misura dei contenitori adattandoli al pianale dei camion e successivamente dei treni-merci: in questo modo Mr. Malcolm Mclean inaugurava una nuova modalità di trasporto mare-terra che di lì a poco rivoluzionò i traffici marittimi e terrestri statunitensi e in seguito mondiali, creando la Sea-Land Corporation, che divenne la più grande compagnia di trasporto a livello mondiale6. Il contenitore elaborato da McLean, di seguito TEU (twenty equivalent unit), standardizza i processi industriali giacché omogeneizza le merci di disparate forme e valore in un’unica “scatola”, provoca un’innovazione presso tutti i mezzi di trasporto, che si adattano ad esso e con esso “entra la cultura e la mentalità della fabbrica, entra la organizzazione centralizzata, entra la necessità della pianificazione... per una gestione efficiente di investimenti così alti da necessitare da una parte del supporto pubblico e dall’altra di una visione globale delle prospettive del commercio internazionale”7. Il porto diventa, con la standardizzazione delle macchine di movimentazione dei teus, esso stesso una fabbrica mediante la creazione di piattaforme logistiche per il trattamento ed il confezionamento delle merci, a cui si applicano le stesse regole di standardizzazione taylorista. In tal modo i porti si trasformano, molto più che durante lo sviluppo mercantile, in veri e propri avamposti del capitale mondiale, con un abbattimento dei costi (sia per i noli sia per le soste nei porti) ed un grado di sfruttamento micidiale, tanto che una nave fullcontainer impiegava, nei primi anni della sua adozione, per lo scarico nei porti, circa il 20% del suo tempo di viaggio8, di contro al 60% del periodo precedente. Si potè in tal modo, molto più di prima, applicare lavoro combinato con il sistema delle macchine - le quali prendono il sopravvento - e l’intensificazione e la condensazione dei tempi di lavoro, alla stregua di quanto avveniva nella Detroit di Henry Ford o nella Chicago dei macelli descritta da Marco D’Eramo9. Negli anni ’60 le porta-containers avevano una capacità di 600 teu, negli anni ’70 di 2000 teu, per finire al gigantismo degli anni ’80-90, quando si iniziò a costruire navi di 3000, 6000, 9000 teu: l’epoca del fordismo navale e portuale, con le sue economia di scala, il suo gigantismo, la creazione di un mercato oligopolistico del trasporto e dei noli, anticipava i tempi della costruzione del mercato mondiale, della subfornitura manifatturiera e della delocalizzazione produttiva - rese possibili appunto dalla standardizzazione e dall’abbattimento dei tempi dei trasporti marittimi- oltre che dell’emergere di nuovi paesi industrializzati del sud-est asiatico. Sul fronte dei vettori intervenivano pratiche oligopolistiche mediante cartelli, il più noto dei quali era il secolare ed anacronistico metodo delle Conferences, basato sulla tipologia merceologica già in vigore nell’Impero Britannico di fine Ottocento per le tratte UK- India e attraverso cui “un gruppo di due o più vettori marittimi che forniscono servizi di linea internazionale per il trasporto di beni su una determinata rotta ed entro predefiniti limiti geografici praticano rate di nolo comuni ed uniformi”10. Ad esso fece seguito, per gli alti costi di investimento dovuti dall’adozione di nuove navi fullcontainer, la pratica dei consorzi: ad es. due linee tedesche diedero vita all’Hapag-Lloyd, in Olanda quattro società crearono la Ned-Lloyd, in seguito fuse, come tante altre, ecc11. Ma la containerizzazione - intesa quale unità di carico standardizzata, provocò, oltre che un’ondata di sanzioni per violazione della libera concorrenza, l’entrata in scena di nuovi protagonisti: nel 1979 la taiwanese Evergreen offrì un nolo uniforme per le varie tipologie di merci, seguita da altri vettori asiatici12. Fu l’inizio dell’era moderna dei vettori marittimi, i quali diminuirono drasticamente i costi di nolo e di trasporto e permisero una nuova ondata di delocalizzazione produttiva, soprattutto in Asia13. La risposta alla sfida competitiva fu alla fine degli anni novanta una più gigantesca creazione di cartelli su scala mondiale, simili a quelli del trasporto aereo, tra i maggiori vettori al fine di garantire ai soci delle rispettive alleanze - Global Alliance, Grand Alliance, Maersk-Sealand, Hanjin/Tricon “ampia copertura geografica, elevate dimensioni aziendali, profilo internazionale (comprendendo partners delle tre maggiori aree generatrici di traffico Usa, Europa, Asia), conseguimento di economia di scala, integrazioni di numerose funzioni”14. Il fordismo portuale innescava un processo di integrazione delle filiere di produzione che, accanto alla rivoluzione dell’automazione del controllo e all’innovazione nel settore della nuova economia, rendevano possibile la compiutezza del mercato mondiale. Esso andava di pari passo all’aumentato grado di sfruttamento praticato attraverso l’utilizzo delle tecniche di organizzazione del lavoro onho-toyotiste a monte della catena, mentre a valle, nei paesi cosiddetti emergenti o “periferie fordiste”, si praticava l’estrazione del pluslavoro assoluto con la standardizzazione delle fasi lavorative simil tayloriste. Gli avamposti portuali - una volta innescata la competizione mondiale e selezionate le città per l’approdo delle navi fullcontainer - con le loro piattaforme logistiche, i loro districtpark, con la presenza di servizi logistici, finanziari e marittimi - divennero nel giro di pochi decenni gli anelli di congiunzione della produzione manifatturiera mondiale, a tal punto che l’infrastrutturazione di questi porti divenne una questione di politica economica strategica per paesi come l’Olanda, gli Usa, Singapore e la stessa Germania15. Fino agli anni novanta le tratte a maggior valore aggiunto furono quella transpacifica - e ciò costituisce una delle ragioni della delocalizzazione ante letteram delle multinazionali a base Usa, così come il ruolo crescente del Giappone e della Corea del Sud -e quella transatlantica, non fosse altro per l’interscambio tra la Cee e gli Stati Uniti. Si avvantaggiarono di queste relazioni commerciali internazionali porti quali Long Beach, Savannah (Georgia), New York, Amburgo, Anversa, Rotterdam, Brema/Bremenhaven, Yokohama, Singapore, Hong Kong e la coreana Busan. In particolare i porti del Nord Europa, in attesa di vedersi riaprire dopo diversi decenni la rotta baltica a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, proiettarono le loro invidiabili e centenarie capacità di traffico marittimo mondiale riappropriandosi del loro ruolo storico svolto per secoli quando erano alleati, alcuni di essi, nella Lega Anseatica. Essa si ricostituiva in quella che gli economisti industriali battezzarono come Northern Range, capace di offrire servizi alla round the world alla “blu banana”, vale a dire il nucleo industriale europeo compreso tra Londra, Amsterdam, e Monaco di Baviera - con proiezioni fino alla pianura padana -, vale a dire il più grande cuore manifatturiero a livello mondiale. L’abbattimento dei tempi di trasporto, innervati nel processo di valorizzazione, permise alle multinazionali nipponiche, statunitensi ed europee di avviare, a partire dagli anni settanta, una delocalizzazione produttiva su scala globale; in tal modo riuscirono a sfuggire alla crisi di sovraproduzione iniziata a partire dagli anni ’60 così come a raggirare il drago inflazionistico che si abbattè su quegli anni. Una volta poste queste premesse e costruite cattedrali fordiste marittime, poterono applicare nelle fasi produttive “core” la rivoluzione onhista che presupponeva l’assenza del polmone costituito dal magazzino, ma solo in quanto esso veniva “spostato” nella sfera di valorizzazione costituita dai trasporti marittimi internazionali. La presupposta fine della standardizzazione taylorista (su cui si possono nutrire forti dubbi circa la veridicità, qualora inquadrassimo l’attività industriale e il proletariato16, nell’epoca del mercato mondiale), dettata dalla pratica toyotista, in realtà ricompariva nella standardizzazione provocata dall’adozione di navi portacontainers sempre più grandi, con contenitori omogenei che rappresentavano polmoni produttivi che “navigavano” per le rotte marittime. La compressione dello spazio attraverso il tempo passava nuovamente per la standardizzazione dei fattori produttivi. Dopo Ure, Taylor, Ohno era la volta dell’egemonia di Mr. Mclean. Attorno ai principali scali marittimi mondiali si svilupparono attività industriali legati alla logistica, al confezionamento delle merci, alla distribuzione: gli avamposti del capitale permeano tutto il territorio circostante, con un raggio di decine e decine di chilometri, con reti ferroviari, stradali, scali aeroportuali necessari affinché all’abbattimento dei tempi per via marittima si accompagnasse l’abbattimento dei tempi di trasporto via terrestre. Ciò provoca una nuova fase di insediamenti industriali operata dalle multinazionali che vedono nell’infrastruttura portuale l’anello di congiunzione tra le varie filiere transnazionali dislocate in tutto il mondo. La California, l’Olanda, la città-Stato di Singapore e la colonia britannica di Hong Kong si specializzeranno nei servizi ad alto valore aggiunto della distribuzione mondiale delle merci e dei servizi finanziari ed assicurativi, costruendo vere e proprie cittadelle della logistica (freight village), sedi dei magazzini centrali delle multinazionali e regno dell’estrazione del plusvalore relativo nella misura in cui vi è una dotazione tecnologica, organizzativa ed industriale avanzata, di contro al plusvalore assoluto delle periferie fordiste e degli entroterra degli scali portuali asiatici. La più famosa di essa è Venlo, una cittadina olandese che diviene la piattaforma logistica continentale specializzata nell’attività di stoccaggio e di assemblaggio dei pezzi contenuti nei teus e al servizio della potenza talassocratica di Rotterdam; sul Pacifico è la città di Seattle a specializzarsi in queste attività, che coinvolgono attualmente circa 200 mila addetti tra operatori portuali, aeroportuali e logistici (quasi quanto gli addetti delle Poste e delle ferrovie italiane messi assieme..)17. Fedele Iannone, economista dei trasporti e della logistica, spiega il motivo per cui le piattaforme generano un’alta domanda di lavoro: “la creazione di posti di lavoro è funzione crescente delle tonnellate di merci che transitano per la piattaforma stessa o, alternativamente, è funzione crescente delle unità di carico (contenitori, casse mobili, pallet) sottoposte ad operazioni di logistica ad alto valore aggiunto”18

2. Il fattore Cina

Ma è sul fronte asiatico, dal lato opposto della California, che il gigantismo industriale delle piattaforme logistiche si afferma nella sua più completa versione, divenendo il protagonista assoluto del nuovo panorama manifatturiero. È lì che lo stock di forza-lavoro dà la possibilità ai capitalisti di tutto il mondo di abbattere i costi di produzione, di estrarre plusvalore - assoluto, in primo luogo - in una misura maggiore che nei paesi dominanti e, in ultima misura, di eludere la crisi di sovraproduzione spostandola in avanti e in un vortice sempre più gigantesco, alla ricerca di un impossibile infinito matematico della valorizzazione di Monsieur le capital. È in Asia che prenderà corpo quel che vengono definiti Marittime Industrial Development Areas (MIDA), sede delle delocalizzazioni produttive di migliaia di multinazionali e che costituiscono le zone dove più si realizzano gli Investimenti Diretti Esteri (IDE), esplosi a partire dalla fine degli anni settanta. Diversi sono i vantaggi, dalla manodopera a buon mercato ai vantaggi fiscali, tramite accordi tra i governi dei “paesi emergenti” e le multinazionali. Questi ultimi sono attirati dall’Export Processing Zones (EPZ), vale a dire zone industriali franche dedite alla produzione per l’esportazione. In tal modo “l’intera struttura porto, deposito franco, industrie attirava investimenti e diventava un fattore di internazionalizzazione della regione di appartenenza”19, nel mentre i porti storici dei paesi industriali più avanzati si trasformano in MIDA di ultima generazione specializzate in trasformazioni merci più vicine alla testa del ciclo del valore. Attrattori di simili investimenti internazionali furono inizialmente le aree portuali di Hong Kong, Singapore, Kaoshiung (Taiwan) e alcuni porti coreani e della Malesia. Ma nel giro di due decenni i protagonisti della rivoluzione portuale mondiale divennero essi stessi aree di provenienza ad alto tasso di investimenti diretti esteri nella nuova Eldorado del capitale, la Cina. Questi porti ebbero la caratteristica di avere governi autoritari dediti all’accumulazione del capitale nella sua veste di programmazione delle infrastrutture di base per lo sviluppo di dette Mida, oltre che un dominio totale della forza-lavoro, una modalità di politica economica e di comando dei lavoratori che fu adottata dalla dirigenza cinese alla fine degli anni settanta. Singapore, Hong Kong e altre aree portuali industriali asiatiche divennero teste di ponte della delocalizzazione più recente nella Cina continentale, conservando al contempo i servizi a più alto valore aggiunto e ponendosi essi stessi alla testa del ciclo del valore, al pari di porti come Rotterdam o Long Beach. La seconda ondata di rivoluzione portuale nel giro di qualche decennio corrispose all’apoteosi dell’hausmanizzazione e allo sventramento delle città portuali cinesi e delle zone economiche speciali. I porti costituirono la punta dell’iceberg della penetrazione capitalistica nella Cina continentale, al pari della penetrazione imperialista di fine Ottocento. La seconda fase dei porti asiatici corrisponde alla hueping jueqi (ascesa pacifica) cinese, secondo la dottrina di Sun-Tzu, in primo luogo come officina globale, in secondo luogo, tramite la politica di irradiamento, come centro propulsore delle dinamiche commerciali, finanziarie e monetarie internazionali, con proiezioni in Africa, Sud Est Asiatico e America Latina, ribaltando gli assetti dell’economia internazionale. Adottando la strategia di attrazione di risorse finanziarie nelle zone economiche speciali, la Cina applica la stessa strategia manifatturiera ed industriale dei porti asiatici di seconda generazione, quali Busan e Singapore. In circa vent’anni la Cina riceve oltre 400 miliardi di dollari di Ide, contribuendo, questa massa di afflusso di capitali, al 20% della produzione industriale e a circa il 50% dell’export cinese. La fabbrica del mondo incoraggia le operazioni internazionali di assemblaggio, esentando dai diritti doganali le merci importate destinate ad essere riesportate dopo la trasformazione industriale. Alle multinazionali estere, in particolare nipponiche e taiwanese, sono da attribuire il 75% delle esportazioni di assemblaggio e del 78% delle importazioni di pezzi da assemblare, dai dvd ai telefonini, dai pc da ufficio ai portatili, solo per rimanere nel settore dell’elettronica20. Shangai, Shenzen, Quingdao, Tjianin diventano in due decenni i nuovi avamposti planetari del capitale, con tassi di crescita annui dell’ordine del 30% annui. Il nuovo protagonismo degli scali portuali cinesi fa sì che le economie di scala ed il gigantismo dei vettori marittimi aumenti a dismisura21, giacché le esportazioni cinesi nel mondo vengono trasportati per intero via container. L’entrata in scena dell’Impero di Mezzo sconvolge l’industria marittima a tal punto che si afferma il “fattore Cina”: la navi portacontainer che percorrono la tratta Cina-Europa o la rotta transpacifica operano a piena capacità, con fattori di carico prossimi al 100%. I noli marittimi per la navi rinfuse specializzate nel trasporto di materie prime raddoppiano nel corso degli ultimi anni, mentre le tariffe di noleggio delle portacontainers raggiungono il livello più alto degli ultimi trent’anni22. Infatti nel corso del 2003 i costi dei noli sono aumentati del 130% per navi con capacità di due mila teus, di circa il 120% per navi di tre mila teus e dell’80% per navi Suez-Max superiori ai 4 mila teus. È come se alla deflazione mondiale derivante dall’entrata in scena della nuova potenza asiatica corrisponda una possente reflazione dei “magazzini naviganti”, tale per cui le multinazionali dei trasporti marittimi rispondono alla crescente domanda con investimenti colossali; allo stock della forza-lavoro asiatica si affianca la costruzione di magazzini naviganti sempre più giganteschi, in modo che la sfera di estrazione del plusvalore vada in simbiosi totale, attraverso l’abbattimento dei tempi, alla sfera di circolazione, nel mentre l’aumento dei costi dei noli sono ampiamente compensati dal grado di sfruttamento della forza-lavoro asiatica. A sua volta, la potenza del processo in atto provoca invero una nuova ondata di ordinazioni di gigantesche navi portacontainers di otto-novemila teus, denominate super Post-Panamax, visto che sono troppo grandi per poter transitare dal Canale di Panama, ma adatte invece per il Canale di Suez. Attualmente le navi post-panamax sono 200 su un totale della flotta di circa 2900 navi, ma già si stanno progettando navi ancora più grandi capaci di contenere 12 mila teus. Nel 2003 - ultimo anno disponibile- si è registrato un boom di nuovi ordinativi per navi full-containers nell’ordine di 620 navi, per una capacità di oltre 2,5 milioni di teus, rappresentando il 40% della capacità della flotta attuale mondiale. Di queste, cento navi ordinate hanno capacità superiori ai 7500 teus23. Malgrado l’aumentata capacità di offerta di navi post-panamax, per i prossimi anni è previsto che l’offerta crescerà del 9% annuo, mentre la domanda registrerà una crescita di circa il 12%, per cui si assisterà ad uno squilibrio molto simile a quanto sta succedendo nei mercati petroliferi e nelle commodities24. Il nuovo quadro della divisione internazionale del lavoro ed il ruolo delle periferie fordiste della Cina continentale si rispecchiano nella graduatoria dei maggior porti del mondo: nel giro di un decennio i porti cinesi conquistano le primissime postazioni, spodestando porti storici quali Rotterdam (sebbene riferito al solo traffico container) e Busan. Il porto di Shanghai, infatti, ha movimentato nel corso del 2004 14,5 milioni di teus, schizzando al terso posto, dopo Hong Kong (22 milioni) e Singapore (21 milioni); Shenzhen, con una crescita del 22% si piazza al quarto posto con 13 milioni di teus, tenendo a distanza Busan (Corea del Sud, 11 milioni); Kaoshiung (Taiwan, 9,7 milioni), Rotterdam (8,2) e Long Beach (7,4)25. Nel totale, i porti della Cina continentale, inclusa Hong Kong, hanno movimentato nel 2003 qualcosa come 60 milioni di teus, con un incremento del 23% rispetto al 2002, per una cifra che oscilla intorno agli 11 milioni di teus in più rispetto all’anno precedente 26. Questi dati potrebbero impressionare i non addetti ai lavori, ma in confronto alle proiezioni future sono ancora ben poca cosa. Ecco come si esprime al riguardo Giuseppe Smeriglio, Presidente di Confetra (la Confindustria degli operatori dei trasporti e dell’intermodalità): “Nel 2015 la Cina e il far East disporranno del 50% della capacità produttiva mondiale e questo moltiplicherà almeno per 4 le esportazioni di manufatti verso l’occidente via mare e attraverso Suez. Questi traffici e il loro indotto hanno l’Italia e Genova come baricentro d’Europa”27. È il quadro prospettato per il prossimo decennio, dunque a medio periodo, uno scenario già noto negli anni novanta quando la statunitense APL inaugurò, con l’utilizzo di navi post-Panamax, la corsa al gigantismo navale tale per cui navi di questa stazza sono impossibilitati a passare dal Canale di Panama, mentre sono compatibili con quello di Suez. L’entrata del colosso cinese nel WTO nel 2001 ha poi fatto il resto. Si aprivano nuove strategie di commercio marittimo internazionale, con un forte impatto sugli investimenti diretti esteri delle multinazionali, giacché è ora la rotta marittima e gli approdi portuali, più di quanto accedesse prima, a rappresentare la conditio sine qua non delle localizzazioni industriali. L’hausmanizzazione e la logica fordista, come un boomerang, ritornavano nei paesi occidentali, in primo luogo negli Usa, secondo il modello distributivo Wal-Mart. Dopo secoli il Mediterraneo si riappropriava del ruolo storico di cerniera tra l’Europa e l’Asia, anche a seguito della riapertura del Canale di Suez, chiuso per diversi anni dopo la guerra dello Yom Kippur del 1967. E nel mentre i porti del Nord Europa si attrezzavano per vincere la sfida e non vedersi togliere il primato, nel nostro paese crollavano le spese in conto capitale e gli investimenti netti erano prossimi allo zero. In compenso si privatizzava la rete autostradale, si elargivano circa 50 miliardi di euro annue per “incentivi alle imprese”, contando, inoltre, che con la moderazione salariale e con la flessibilità si potesse parare la concorrenza estera. La questione principe era il federalismo, non certo cosa stava avvenendo di epocale fuori dai nostri confini; il becero provincialismo, di cui hanno una grande responsabilità la classe imprenditoriale e la stessa sinistra al potere negli anni novanta (preferendo forme di estrazione del valore “pre-capitalistiche” quali il piccolo è bello), impediva di cogliere la grande possibilità di riavviare su basi progressive una nuova fase di accumulazione del capitale centrata sui trasporti e sulla logistica, abbandonando, come altri paesi più avanzati, settori maturi e prossimi al macero sulla scena internazionale, quali i prodotti per la casa, il tessile-abbigliamento o la pelletteria. Continua Smeriglio: “non è esagerato dire che tra 10 anni il trasporto e la logistica potranno valere dal 15 al 20% del nostro PIL se si faranno le scelte giuste e strategiche. Per questi motivi occorrerà che il nostro paese si dia una politica industriale del settore per non avere imprese deboli in un territorio leader”. Le richieste degli industriali sono la Genova-Rotterdam (Corridoio 1), la Torino-Lione (Corridoio 5), la Brescia-Bergamo-Milano, il completamento della Salerno Reggio-Calabria, un investimento massiccio nei porti contenitori (la maggior parte localizzati nel Mezzogiorno), varie tangenziali in città del centro-nord e il varo delle autostrade del mare. Gran parte di queste opere sono al momento nei libri dei sogni, in compenso partirà a breve la gara per la progettazione del Ponte dello Stretto di Messina, l’opera più inutile e disastrosa per lo stesso sistema portuale del tirreno, visto che impedirà alla navi super post-panamax (altezza media 75 metri) di poter passare dal ponte, alto 65 metri. Resta il fatto che giustamente Smeriglio è dell’avviso che, in tema di logistica, l’Italia presenta tutte le condizioni per essere un “territorio leader”; i primi ad accorgersene sono stati i grandi colossi dei trasporti containerizzati, sbarcati in massa alla fine degli anni novanta, nel mentre capitalisti nostrani si tuffavano, con quattro soldi dati dalle banche e per mezzo di scatole cinesi, nella rendita. Nell’indagare i motivi si capirà meglio quale occasione storica è stata finora persa dal paese e che conseguenze avrà nel futuro dell’economia italiana: evidentemente si è ritenuto che lavorare a cottimo in un call center o confezionare camicie e magliette fosse meglio che incunearsi nei meandri della divisione internazionale del lavoro, con la paura che si ricreasse la classe dei salariati addetti alle lavorazioni portuali e ai servizi connessi, e magari scoprire che piccolo è stupido. O piuttosto ancora constatare che lo sviluppo della logistica, vocazione naturale del Mezzogiorno, cozza in pieno con il pietoso lascito di cinquant’anni di cancrena italiana costituito dalle mafie e dalle ’ndrine, un po’ troppo per un paese che ha consegnato, con il contributo determinante delle sinistre, il suo destino ad un populista, i cui ministri invitano a convivere con le mafie. Infine, servirebbe creare nuove Seattle o Busan nel mezzogiorno per perdere parte dell’esercito industriale di riserva destinato ad esser sfruttato nelle padane terre, dentro e fuori le fabbrichette? Ecco che le occasioni perse hanno radici profonde attinenti al persistente e voluto “dualismo economico”, alla salvaguardia di pre-capitalistici modi di produzione, alla miopia della classe degli industriali, alla pochezza di un capitale finanziario che non va oltre la soglia della rendita e del mezzanino (per cui si dovrebbe difendere l’italianità, come se il capitale fosse di sua natura “nazionale”), per finire al fatto che circa un terzo del territorio “leader” non ha connotati tipici di uno stato moderno, dove la sua sovranità è ripartita con clan feudali, una modalità non certo presente nei länder orientali tedeschi, con i quali di solito gli illuminati economisti nostrani si giostrano a fare presunte “analogie”. Non resta che affidarsi alle dinamiche del capitale (internazionalista per natura e necessità, come la citazione marxiana specifica), all’esplosione dei commerci, alla compiutezza del mercato mondiale, alla nuova e più possente divisione internazionale del lavoro, tutti detti fattori che molto prima di quanto si pensi scardineranno gli assetti sanfedisti del paese. I “lanzichenecchi”, i novelli “saraceni” e i “barbari” dagli occhi a mandorla, insediandosi in Italia, hanno già preventivamente piazzato i loro alfieri nello scacchiere della portualità europea e mondiale. Il futuro era iniziato prima ancora che questo paese se ne accorgesse.

3. Un territorio leader con imprese deboli Come sopra accennato, è da datarsi agli anni novanta il periodo che sconvolse le rotte marittime internazionali, quando l’APL mise in navigazione nella rotta Asia-US. West-Coast la prima nave post-Panamx superiore ai 4,5 mila teus. Il ruolo del canale di Panama, troppo stretto per questo tipo di navi, passava in secondo piano allorquando le più importanti multinazionali del trasporto marittimo seguirono l’esempio della Apl, scegliendo il Canale di Suez come nuovo luogo di circumnavigazione mondiale ed elevando al contempo il Mediterraneo, dopo diversi secoli, al ruolo di nuovo baricentro dei trasporti marittimi internazionali28. Pochissimi anni dopo, tra l’indifferenza generale, in Italia si assisteva ad una campagna acquisti di terminal portuali da parte di colossi stranieri. Nel 1999 la tedesca Eurokai-Eurogate, proprietaria dei porti di Amburgo e Bremenhaven e azionista del porto di Anversa acquisiva la Contship-Italia, proprietaria dei terminal transhipment di Gioia Tauro e La Spezia. Pochi mesi dopo il colosso taiwanese Evergreen, tra i protagonisti dei traposrti mondiali di teus, rilevava un terminal a Taranto, l’australiana P&O Ports costituiva, due anni dopo, un terminal nel porto di Cagliari e la PSA di Singapore acquisiva il terminal di Genova-Voltri. Nel corso dei successivi cinque anni Eurokai, tramite Contship, rilevava la gestione di altri terminal a nella penisola, mentre il colosso cinese Cosco si prepara a scegliere Napoli come sede del transhipment dei suoi containers per l’area del Mediterraneo. Il quadro era completo, i principali operatori mondiali si erano insediati stabilmente in un paese che di lì a poco scoprì essere strategico per le rotte marittime internazionali. Era dai tempi della repubblica di Venezia, decaduta per lo sviluppo della rotta atlantica a seguito della scoperta dell’America, che ciò non avveniva. Il porto di Gioia Tauro diventa l’hub mondiale, assieme allo scalo spagnolo di Algesiras, della rotta commerciale mondiale Pacifico-Europa-US. East-Coast, via canale di Suez. L’occasione era ideale per ricentrare l’asse economico europeo verso sud giacché i giorni di navigazione Pacifico-Mediterraneo sono di 3-4 settimane, mentre per raggiungere i porti del Northern Range sono necessari altri sette giorni di navigazione. Da Gioia Tauro-Salerno (asse tirrenico) e Taranto-Brindisi (asse ionico-adriatico) la penetrazione commerciale verso la “banana blu” continentale europea, circa 400 milioni di persone ad alto potere d’acquisto, poteva essere attuata mediante un forte aumento di spese in conto capitale per potenziare quel che l’Ue aveva qualificato come Rail Freight Freeways, (RFF), vale a dire nodi e corridoi di importanza continentale perché da questi spokes stradali e ferroviari si diramano le RFF per i quali si arriva nel giro di due giorni esattamente ai porti del Northern Range, principalmente Amburgo, Bremenhaven, Anversa e Rotterdam29. Se ciò fosse successo si sarebbe scatenata una battaglia commerciale mondiale per insediare nei porti italiani piattaforme logistiche finalizzate all’interscambio Ue-Asia che avrebbero, a loro volta, provocato una ridislocazione degli IDE nella sponda sud del Mediterraneo. L’arma contro il predominio plurisecolare del sistema del Northern Range, che nel frattempo sta ampliando la propria capacità di altri venti milioni di teus, era ed è l’abbattimento dei tempi, (5 giorni di differenza mediante le direttrici terrestri) e dunque dei costi per le multinazionali del settore, in un quadro dove la forte diminuzione dei tempi di valorizzazione del valore, insito nella catena dei trasporti ed esso stesso facente parte dei costi di produzione (in una misura calcolata tra il 12 e il 15%), poteva essere garantita da un quadro di sviluppo delle forze produttive e delle condizioni generali della produzione. Ciò avrebbe dovuto comportare che i caratteri tipici della pluridecennale rivoluzione permanente contro il capitale dell’Italia, vale a dire incentivi a pioggia, forte presenza di economia sommersa se non criminale, elusione ed evasione fiscale elevate a sistema di regole, pessime condizioni delle infrastrutture, nanocapitalismo, rifugio nella rendita, ecc. venissero stravolti e quantomeno parzialmente superati per arrivare ad avere una massa critica di natura finanziaria ed industriale necessaria a preparare quella “razionalità capitalistica” richiesta dalla nuove condizioni del commercio mondiale, ma tanto aborrita dalla classi dominanti nostrane. Certo, alcune quote di mercato ai porti nordeuropei sono state strappate visto che dal 1995 al 2003 il movimento dei containers è passato da 3 milioni ai 9 milioni30, ma resta il fatto che buona parte, in particolare per quanto riguarda il porto di Gioia Tauro, che avrebbe una potenzialità di circa 10 milioni di teus, concerne la movimentazione transhipment, vale a dire l’interscambio dei teus tra una nave e l’altra. La merce, cioè non viene lavorata, manipolata, piuttosto che confezionata, non c’è insomma quell’attività logistica ad alto valore aggiunto che ha fatto la fortuna del Northern Range. Ad esempio il porto di Zeebrugge, facente parte del porti nordeuropei, è specializzato nello stoccaggio delle auto di multinazionali quali Toyota, Gm, Ford e altre marche europee: ivi si assemblano alcune componenti finali delle vetture, così come hanno sede i magazzini centrali dei ricambi. Nei prossimi anni è probabile che una mole enorme di teus provenienti dalla Cina invada i porti italiani, senza che vi sia la benché minima attività di trattamento delle merci, lavorazioni che magari verranno fatte nelle piattaforme logistiche del nord-Europa o, come sembra più probabile, nelle nuove cittadelle delle periferie fordiste dell’Est. Qui basti dire che per avere un’idea della posta in gioco del valore aggiunto che si genera a seconda che ci si limiti a movimentare i teus o nel caso esso venga sdoganato, stoccato, manipolato e distribuito, è sufficiente prender spunto dai dati di cui si è accorto persino il ministro Lunardi: “(...) i dati che mi lasciarono sconcertato e che sono veri denunciano chiaramente che il fatturato passa da 300 euro a 2300, l’utile da 20 euro passa a 200 euro, il beneficio allo Stato da 110 euro a 1000 euro e ogni mille unità movimentate invece di generare cinque unità lavorative ne generano 42”31. Ma se l’Italia è un territorio “leader” ha, tuttavia imprese deboli e lillipuziane che riflettono il nanocapitalismo italico. Le imprese dedite alla logistica sono 39 mila, sebbene si sia ridotti del 53% dal 1991; solo 500 di essi hanno un fatturato superiore ai 50 milioni di euro32. Questa polverizzazione dei servizi logistici frena le integrazioni nella catena del valore, riduce la possibilità di offrire standard adeguati alle grandi imprese e alle multinazionali e riflette in pieno il persistente nanismo dell’apparato produttivo nazionale incapace di rispondere all’aumentata domanda di servizi logistici europei ed intercontinentali. Anche in questo settore a farla da padrona sono i colossi stranieri: tra il 1992 e il 2003 cento imprese del settore sono state acquisite da operatori stranieri, mentre nella classifica mondiale dei maggiori operatori logistici nessuna impresa è italiana. Ecco come il Prof. Gian Maria Gros Pietro inquadra la questione: “la bilancia dei pagamenti dei servizi di trasporto di merci nel 2003 ha raggiunto un saldo negativo pari a 3,1 miliardi di euro (era 1 nel 1998); la quota delle imprese italiane nel trasporto transfrontaliero di merci è diminuito tra il 1995 ed il 2002 dal 61 al 24% nel comparto aereo, dal 50 al 33% nel comparto stradale e dal 23 al 21% nel comparto marittimo”33. Un territorio “leader” che ha una bilancia dei pagamenti dei trasporti passiva e per una cifra di tale entità: paradossi del nanocapitalismo nostrano! Non contribuisce di certo a migliorare la situazione la recente Finanziaria 2005 che vieta alle autorità portuali di programmare investimenti in una misura superiore al 4,5% rispetto a quanto consuntivato nel 2003: come a dire, se Gioia Tauro ha investito 10 milioni di euro per quella data, nel 2005 potrà investire 10,45 milioni di euro. Quando invece sarebbe necessario che ne investisse diverse centinaia, giusto per tenere il passo con chi, come l’Autorità Portuale di Shanghai, ha programmato opere per 12 miliardi di dollari. La questione si pone visto che il governo dovrà indicare ai cinesi quale porto sarà l’approdo per i contenitori che nei prossimi decenni arriveranno dal paese asiatico. La posta in gioco è enorme, circa 40 milioni di teus. La scelta è tra Genova, Napoli, Taranto e Gioia Tauro, tutti scali portuali che necessitano di forti investimenti per il dragaggio dei fondali (15 metri), ampliamento di terminal, raccordi ferroviari ed autostradali, servizi logistici, ecc. Dove troveranno i soldi per opere tanto imponenti? Da un condono, per caso? A ciò si aggiunga che nel giro di un ventennio è prevista la creazione di un mercato di massa a medio potere d’acquisto di circa un miliardo di persone nell’area asiatica, trainata dal tumultuoso sviluppo indiano e cinese e dalla creazione della più grande area di libero scambio del mondo in ambito Asean. Oltre che con il mercato nordamericano, quest’area interagirà con l’UE, attualmente costituita da una popolazione di circa 450 milioni di abitanti. Tutto questo genererà giganteschi interscambi commerciali, dunque trasporti marittimi internazionali che troveranno nel Mediterraneo il loro naturale luogo di approdo. Al fine di prepararsi a questo scenario e non perdere il predominio i porti del Northern Range si stanno già attrezzando con colossali investimenti. Nel paese del territorio ideale 50 miliardi di euro l’anno, tra risorse comunitarie, nazionali e regionali, vengono destinati alla conservazione della frammentazione e specializzazione produttiva di un assetto che può considerarsi antistorico da decenni. Altrove il capitale promuove la produzione di mezzi di comunicazione e trasporto e le condizioni generali della produzione, da noi si opera contro il capitale. Specchi del sanfedismo nostrano, contro cui, paradossalmente ma non troppo, si è quasi obbligati a fare l’elegia del capitale.

Note

1 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica Vol. II, pag. 160, La Nuova Italia 1997.

2 Tra questi vi è da sottolineare il saggio di Carla Filosa e Gianfranco Pala, Il terzo impero del Sole, Sinergon 1992.

3 Si affermava in tal modo quel che Gianfranco Pala inquadra come le “novità delle fasi evolutive del mercato mondiale... da inquadrarsi all’interno del modo di produzione capitalistico. L’estensione transnazionale del sistema di macchine al di là della singola fabbrica (il solo fenomeno di cui Marx potè analizzare compiutamente il carattere) in un “complesso” di attività e imprese, sta alla base delle attuali trasformazioni”. Si veda G. Pala Critica del postfordismo - catene imperialistiche e crisi- Metromondo, 1998 reperibile sul sito www.contraddizione.it. I giornali economici e finanziari hanno salutato l’arrivo del 2005 come l’anno del boom delle fusioni e delle concentrazioni transnazionali, come non si vedeva dal periodo d’oro 1999/2000. Nel frattempo, secondo una recente indagine di Unioncamere, in Italia operano circa 6 milioni di “imprese”, suggellando il fatto che la stupidità feudale in questo paese continua a persistere, nonostante quattro anni e più di stagnazione produttiva.

4 Si veda Roberto Sassi, Dalla “Campagna mondiale” alla “Bidonville mondiale”, in Il Capitalismo Reale, Laboratorio Politico, 1995.

5 In La forza di Pechino sveglia l’Asean, Alfa-Il Sole 24 Ore, 28/10/2004. Attualmente circa l’80% della forza-lavoro cinese è “indipendente”. Qualora nel giro di pochi decenni questa percentuale scendesse verso una quota prossima a quella giapponese (21%) o italiana (28%), e dunque ad una salarizzazione di massa, si assisterebbe, mediante l’effetto del lavoro combinato e del sistema delle macchine, ad una estrazione di plusvalore non più assoluto ma relativo di gigantesca portata. Dunque non vi è solo lo stock della forza-lavoro quale serbatoio dell’estrazione ma la stessa modalità di estrazione, la qualità medesima, a costituire un effetto micidiale per il mercato mondiale.

6 La fonte è il preziosissimo saggio di Antonio Battisitni e Dionisa Cazzaniga Franceschetti Porti e Traffici nel Mercato Globale”, Edizioni ETS 1993.

7 Ibidem, pag.15.

8 Sembra una riflessione dei marxiani Lineamenti Fondamentali: “..il concetto di fondo è che il porto come la fabbrica deve far circolare il capitale più rapidamente possibile e non deve permettere soste, quindi deve essere agibile dal mare, sulle banchine, a terra nonché permettere rapidi raccordi con le tratte seguenti che devono percorrere le merci”, in A.Battisitini, D.Cazzaniga Franceschetti, op- cit. pag. 34. Ecco le condizioni generali di produzione di cui l’Italia ha una scarsissima dotazione...

9 Si veda Marco D’Eramo, Il Maiale ed il grattacielo, Feltrinelli 1994.

10 Questa fu la definizione data al sistema delle Conferences da parte del Codice di Condotta per Conferenza di Linea adottata dall’UNCTAD nel 1974, con il quale veniva ratificata la pratica oligopolistica dei vettori internazionali. Si veda Renato Minoro e Alessandro Pitto, Il settore dei traffici containerizzati tra cooperazione e competizione, in Trasporti . diritto, economia, politica” nn. 77-78/1999.

11 La finalità di questi consorzi è spiegata da Midoro e Pitto i questi termini: “i coordinated sailing agreements [sono] accordi in virtù dei quali i partecipanti coordinano le partenze delle proprie navi da ciascun porto in modo da evitare inutili sovrapposizioni temporali e riducendo il rischio di realizzare bassi livelli di carichi”, in op.cit. pag. 125. Di nuovo l’ossessione incessante dei tempi e dei costi.

12 Ibidem ,pag. 120-121.

13 Negli anni novanta il costo dei noli diminuì del 35% in tutte le direttrici principali, transatlantiche, transpacifiche, così come nella rotta Europa/Far East. A ciò si aggiunga la delocalizzazione produttiva nelle periferie fordiste e il gioco è fatto. In Italia nel frattempo si blaterava di concertazione e di moderazione salariale come fattore di competizione... Attualmente il costo dei noli è in ascesa, vedremo in seguito per quale motivo.

14 A delineare questo scenario sono ancora i Proff. Minoro e Pitto, op. cit. Essi hanno la fortuna di insegnare queste cose così crude ai loro allievi presso il Dipartimento di Economia e Tecnica dell’Armamento e della Navigazione all’Università di Genova. Non essendo noti al grande pubblico, come altri loro blasonati “colleghi” economisti industriali e savi macroeconomisti editorialisti di prestigiosi quotidiani, hanno la libertà di dire cose tante sovversive e a non farci sorbire la tarantella delle piccole imprese e la pizzica dei “mitici” distretti industriali.

15 Nel frattempo l’Italia ulivista pensava bene di privatizzare Società Autostrade e di mandare a casa circa 40 mila ferrovieri, contando di competere nella nuova arena mondiale con i distretti industriali specializzati nella produzione di utensili da cucina e pentolame vario...

16 Nell’assunto dato da Aurelio Macchioro, che lo definisce “capitale variabile planetario”. Si veda Una storia civile, la critica dell’economia politica, in La Contraddizione, n. 106 . febbraio 2005.

17 La fonte è Port of Seattle, l’Authority che gestisce il porto e l’aeroporto della città statunitense, i cui ricavi ammontano nel 2003 a circa 12 miliardi di dollari (quanto una ventina di “distretti industriali”, se non di più). Nello specifico 34 mila posti sono da attribuirsi al porto, di cui 17 mila attribuibili al vero e proprio scalo portuale; 160 mila posti, di cui 97 mila diretti, sono stati generati dalle attività aeroportuali. Si veda www.informare.it del 26 gennaio 2005. Il settore dei trasporti e della logistica ruotante intorno a Long Beach dà lavoro a quasi 450 mila persone e costituisce la prima economia dell’area di Los Angeles, superando la stessa industria cinematografica. A Gioia Tauro gli addetti totali non arrivano al migliaio...

18 F. Iannone, Territorio e nodi logistici: dagli interporti alle piattaforme, ai distriktpark, ai city logistics center, mimeo, 2002, pag. 5. In Italia non c’è nessun porto che abbia le caratteristiche di Seattle o di Singapore, piuttosto che, per l’entroterra, di Venlo.

19 Si veda Adalberto Vallega, Geografia delle strategie marittime, Mursia, 1997.

20 Si veda Gianni Salvini, Un’officina su scala globale, in Il Sole 24 Ore del 20/12/2004, e Alessandro Politi, Un’ascesa pacifica lenta che sta diventando irresistibile, in Il Sole 24 Ore 20/12/2004.

21 Attualmente le prime 25 compagnie di linea al mondo rappresentano l’80% della flotta attuale. Di queste sette sono europee, tredici asiatiche, tre del Medio Oriente, una canadese ed una sudamericana.

22 Ecco come John Fossey, esperto di tematiche marittime e ricercatore della Drewry Shipping Consultants, inquadra la questione: “Si guarda ancora ad una crescita annuale del PIL (della Cina ndr) del 7-9%. Normalmente ne consegue che la crescita dei containers sia da due a tre volte superiore alla suddetta, ed in realtà, nell’ambito dell’intera industria marittima internazionale, non vi è alcun settore che in qualche modo non subisca le conseguenze di ciò che sta accadendo in Cina”. Si veda Il fattore Cina nelle attività containerizzate, in CISco n. 5/2005, reperibile sul sito www.informare.it .Nel corso del 2004 la crescita ufficiale cinese si è attestata al 9,4%, esclusa l’economia sommersa, quantificabile in circa il 35% del Pil.

23 La fonte di questi dati è la relazione di Giulio Schenone all’Assemblea Annuale dell’Associazione Agenti Raccomandatari Mediatori Marittimi (da questi presieduta), svoltasi a Genova il 29/04/2004 e reperibile sul sito www.informare.it.

24 Un quadro certamente roseo per le multinazionali costruttrici delle navi, le più importanti delle quali sono la Hyundai Heavy Industries, la Samsung Heavy Industries (Corea del Sud) e la nipponica Mithsbishi Heavy Industries.

25 Si veda B. Dardani, Container, la Cina detta legge, in Il Sole 24 Ore, 21/01/2005. La Shanghai International Port Group, l’Autorità Portuale di Shanghai, ed il governo cinese hanno un piano di espansione di circa 12 miliardi di dollari al fine di raggiungere nel medio termine la quota di 25 milioni di teus movimentati. L’obiettivo è quello di diventare l’hub dell’Asia nord-orientale.

26 I primi 100 porti al mondo hanno invece movimentato nel 2003 circa 255 milioni di teus; aumentando, rispetto all’anno precedente, di circa 30 milioni di contenitori. Si evidenzia in tal modo il forte impatto che ha il fattore Cina sul commercio marittimo internazionale. Si veda Il 2003:un’annata eccezionale per i primi 100 porti del mondo, i CISco n. 9/2004.

27 Fonte: Il sistema logistico motore dell’economia italiana, Relazione del Presidente Smeriglio all’Assemblea Annuale Confetta del 7 ottobre 2004.Smeriglio da pochi mesi è anche a capo della divisione cargo delle FS.

28 Nel 2004 il canale di Suez è stato attraversato da 16.580 navi, il 7,5% in più del 2003. Di questi 3.330 sono petroliere e 13.600 di altro tipo. Gran parte di essi sono diretti verso il sistema portuale del nord-europa. Si veda Arriva il piano nazionale della logistica, in Il Sole 24 Ore 5/10/2004.

29 Sulle direttrici terrestri europee e trancontinentali, visti in un’ottica di apoteosi del mercato mondiale, rimando al mio lavoro, Commercio e filiere transnazionali: trasporti mondiali, mediterraneo e corridoi eurasiatici, in La Contraddizione, n. 91/02.

30 Tuttavia, anche i porti del Northern Range hanno avuto performance di tutto rispetto, sebbene partissero da dati assoluti enormemente più alti. Ad esempio il porto container di Amburgo è cresciuto dal 1998 al 2004 del 51%, attestandosi a 7 milioni di teus; il traffico container con il Far East è aumentato nel triennio 2002-2004 del 70% (fonte: www.informare.it, 7/02/2005) . In ogni caso, il totale della movimentazione dei teus dei porti italiani equivale quasi per intero alla movimentazione dei contenitori del porto di Rotterdam...

31 Intervento di Lunardi all’Assemblea Annuale Confetra 7 ottobre 2004. I dati gli furono forniti dallo stesso Presidente Confetra Smeriglio. In Italia attualmente non c’è nessun settore, nemmeno protetto, capace di generare un aumento di utile così forte. Ma forse Lunardi, considerando il beneficio all’erario e all’occupazione, oltre che al capitale, ha pensato bene di strozzare gli scali portuali tirrenici con il Ponte dello Stretto, sicura fonte di guadagno e di beneficio per le casse pubbliche.

32 Fonte: La concentrazione accelera, in Il Sole 24 ore 21/09/2004. I dati si riferiscono ai soli operatori logistici. Contando anche i padroncini si arriva alla bellezza di 130 mila imprese. La chiamano concentrazione...

33 Altro che l’invasione cinese nel tessile-abbigliamento o nella pelletteria! La fonte, anche per i dati di cui sopra, è la relazione di Gros-Pietro all’assemblea annuale Confetra dell’ottobre 2004. Per recuperare la famosa “competitività” ritiene prioritario agire su tre fronti: promozione all’estero del territorio italiano come area di vocazione per gli insediamenti logistici, potenziamento dell’integrazione del sistema nazionale delle infrastrutture, una vera politica industriale per le imprese italiane di logistica e trasporto con la crescita dimensionale delle imprese del settore.