I modelli del potere neoliberista e la lotta di classe in Uruguay e in America Latina

Alfredo Falero

Considerazioni fatte a partire dal caso dell’Uruguay e dalle nuove sfide regionali

1. Introduzione a partire dal caso uruguayano

Stanno avvenendo alcuni cambiamenti importanti in America Latina. Tra questi, la vittoria elettorale delle proposte politiche presentate con un profilo di centro sinistra, costituisce il punto di partenza di quest’articolo. Anche se il ricambio registrato in alcuni paesi delle elite di partito mediante elezioni - e recentemente si è aggiunto il caso dell’Uruguay - non costituisce fino ad ora un’inflessione storico-sociale regionale, ha delle conseguenze che bisogna analizzare. Il peso di questi processi non può essere minimizzato, poiché si rischia di non capire le complesse dinamiche di cambiamento nelle società, così come gli orizzonti delle possibilità che si aprono nella congiuntura. Naturalmente, tali processi non possono nemmeno essere sopravalutati poiché si rischia di non considerare le limitazioni per la regione del loro rapporto asimmetrico nell’attuale sistema-mondo e le costellazioni del potere locale, regionale e globale, in grado di bloccare i cambiamenti significativi. In questa contraddittoria visione di formazione storica di correnti favorevoli al cambiamento sociale - ma all’interno di enormi poteri politici ed economici post-nazionali in grado di giudicare tali correnti - bisogna tener conto di ciò che è avvenuto in Uruguay. In questo piccolo paese di poco più di tre milioni di abitanti, ubicato nel cono sud tra due giganti come il Brasile e l’Argentina, si è verificato un cambiamento politicamente significativo, se si considera la sua storia durante il XX secolo.1 Il Fruente Amplio - Alle elezioni nazionali del 30 novembre del 2004, il Fruente Amplio, una coalizione consolidata di partiti e gruppi che si situano al centro-sinistra, ha ottenuto la vittoria elettorale al primo turno, superando il 50% del totale dei voti (esattamente il 50.45% del totale dei voti). Di conseguenza, a partire dal 1 marzo del 2004, l’Uruguay con un nuovo governo di centro-sinistra, si aggiunge alla mappa di elite politiche non favorevoli ad un facile schieramento con Washington: Cuba, Argentina, Brasile e Venezuela. È naturale che in questi casi nascano per gli analisti un insieme di interrogativi e per molti uruguayani si apra una speranza nel futuro che non si osservava da molto tempo. Non è possibile non pensare alle aspettative di questo caso, se si prende in considerazione questo grande sogno locale di vedere il Fruente Amplio al governo. Fondato nel 1971 come nucleo di forze di sinistra ad ampio spettro, molti dei suoi militanti sono stati uccisi, torturati e arrestati durante la dittatura che ha sopportato il paese tra il 1973 ed il 1985. Successivamente, come protagonista dell’opposizione alle forze di centro destra che hanno governato da allora - i partiti storici Colorado e Nazionale si sono alternati nella gestione del Paese - è stato capace di crescere sia per l’aumento del malcontento sociale sia per la crescente legittimità della sua proposta di trasformazione sociale. Non si deve dimenticare che dal 1990 il Fruente Amplio già governava Montevideo (la capitale del paese) e la circoscrizione territoriale vicina, quella che concentra in una piccola superficie circa la metà della popolazione del paese. Il sostegno a tale gestione si è rinnovato ed è cresciuto ininterrottamente fino ad oggi. È certo che la forte possibilità di accedere al governo - come finalmente è avvenuto - ha portato il Fruente Amplio a dosi inedite di pragmatismo e moderazione. Ciò nonostante questo processo di avvicinamento alla proposta di cambiamento “possibile” non gli ha fatto perdere l’enorme capitale simbolico su cui già contava in buona parte della società. Una società, si dica di passaggio, che a differenza di altri paesi, ancora considera la politica come un tema frequente di conversazione e che è in grado di convocare migliaia di uruguayani dall’estero per andare a votare (poiché il voto consolare è stato bloccato al momento della sua proposta). Di fatto, l’apporto di voti degli uruguayani residenti all’estero (in particolare ma non esclusivamente dalla vicina città di Buenos Aires) è stato molto importante per il risultato che ha dato la vittoria al Fruente Amplio. Giunti a questo punto, ci si possono porre molti interrogativi sulla gestione futura del Fruente Amplio. Uno schema di due percorsi può permettere di navigare più rapidamente tra questi. Per alcuni osservatori che enfatizzano l’eccessivo pragmatismo elettorale con cui si è gestita questa forza politica, così come è avvenuto con la gestione di Lula e del Partito dei Lavoratori in Brasile, si tratterà semplicemente di constatare nuove delusioni sulle possibilità di trasformazione sociale. In tal senso non è meno grave il fatto che la linea economica rimanga totalmente a carico dei settori meno critici riguardo la conduzione economica degli ultimi anni. Per altri, è imprescindibile stabilire un margine di incertezza, se ci si concentra sulle particolarità del paese, della forza politica e di alcune tensioni esistenti al suo interno e sulle basi sociali in merito alla direzione da prendere. Detto questo, in riferimento a ciò che si dirà successivamente, non si pretende di concentrarsi su questi aspetti particolari del paese ma di realizzare un esame regionale più generale. Si tratta di fare un’analisi ponderando particolarmente le trasformazioni della regione negli ultimi decenni e le sfide che si aprono per la stessa nell’attuale congiuntura. Da questa prospettiva, si integreranno alcuni elementi della specificità uruguayana, sulla costruzione dei modelli di potere regionale vigente così come del suo eventuale contributo alle possibilità di cambiamento del potere stesso. 2. Alcune premesse teoriche: il concetto di modello di potere Numerose analisi - le più conosciute sono quelle di Amin, Arrighi, Frank e Wallerstein - hanno abbandonato l’approccio del sistema-mondo o del sistema storico così come è stato esaminato in altri lavori (Falero, 2003 - 2005). Si ricordi, come sintesi, questa polarità intrinseca al capitalismo che si esprime socialmente e geograficamente e che suppone la perpetuazione di una logica delle regioni centrali e regioni periferiche per cui le ultime ostentano una condizione di subalternità che si può riassumere nella formula che afferma che il sottosviluppo di alcuni è il prodotto dello sviluppo di altri, anche se questa proporzione non è simmetrica o reversibile. Le società latinoamericane, con alcune differenze, si sono costituite socio storicamente come società periferiche sebbene alcune di esse, in certi periodi, hanno ottenuto qualche grado di autonomia dell’accumulazione globale o sono riuscite ad armonizzare le sue conseguenze più dure. Il debito estero deve essere visto come parte di flussi asimmetrici più ampi che include tra gli altri, la remissione dei benefici da parte delle transnazionali o l’attuale tematica dei brevetti (Costa Lima, 2003) contenuta nel passaggio a una fase di capitalismo cognitivo o informativo che non si annulla e che al contrario si inscrive in questa riproduzione polare. Il sociologo peruviano Anibal Quijano usa l’espressione “modello di potere” per riferirsi a un formato di dominio globale eurocentrico che si è costituito in America Latina da circa 500 anni e che governa globalmente. L’America Latina si è costituita come il primo spazio / tempo con due assi fondamentali: la codificazione delle differenze tra conquistatori e conquistati e l’idea di razza e di articolazione di tutte le forme storiche di controllo del lavoro intorno al capitale e al mercato mondiale (Quijano, 2000). Di seguito si userà l’espressione più liberamente assegnandole un carattere regionale per poter stabilire l’idea di formati specifici all’interno di quella maggiore totalità. Nel significato che qui si definirà, acquisirà quindi un indirizzo prossimo al “modello di accumulazione” o al “regime di accumulazione” o al “modello di sviluppo”, anche se con una enfasi più specifica rispetto a quello che trasmette la tecnologia precedente. In ogni caso, la cosa più importante è percepire le forme che cambiano articolazione centro-periferica e le specifiche costellazioni di potere che suppongono una determinata forma di accumulazione. A partire da qui, si può dedurre che la costruzione di ciò che è alternativo in America Latina passa per la “disconnessione” - per utilizzare il concetto di Samir Amin - della logica centrale di accumulazione globale e della costruzione di nuove articolazioni perifiche-centrali. Su questa base, il modello di potere costituisce uno strumento concettuale con cui si pretende di poter percepire nuove chiusure e nuove aperture per il futuro immediato dell’America Latina come regione. La seguente periodizzazione permette di osservare il passaggio di un modello di potere ad un altro, per poi stabilire le particolarità dell’attuale:
  MODELLO DI POTERE SVILUPPATORE: quello degli anni cinquanta e sessanta, caratterizzabile nelle istituzioni statali che hanno promosso l’accumulazione appoggiandosi sulla borghesia e in condizioni centro-periferiche che hanno permesso uno stimolo all’industrializzazione, ma senza modificare le strutture del potere precedentie.
  TRANSAZIONE TRA MODELLI DI POTERE: quello degli anni settanta, di transizione autoritaria per l’imposizione di un nuovo modello di accumulazione includente e di approfondimento dei rapporti capitalisti.
  MODELLO DI POTERE NEOLIBERISTA: quello degli anni ottanta e novanta di sostegno all’accumulazione privata, di consolidamento della maggiore mobilità del capitale e di mercantilizzazione dei rapporti sociali.
  PERIODO DI BIFORCAZIONE: quello che inizia con il XXI secolo che si può supporre per l’America Latina sia il consolidamento del precedente in condizioni di interdipendenza asimmetrica - anche se con un volto possibilmente più umano - come la costruzione dell’alternativa in base a un progetto di ottenimento di una minima autonomia dell’accumulazione globale. Infine per analizzare ogni modello di potere, si possono identificare almeno quattro linee portanti o dimensioni centrali che è necessario caratterizzare per poi esaminare particolarmente come si presentano attualmente e come può costruirsi un progetto alternativo. Analiticamente separabili ma in verità profondamente relazionati, si tratta quindi dei seguenti percorsi portanti: a) Quello della politica economica ed il suo rapporto con l’ideologia dominante estesa come visione sistematizzata del mondo che permette la naturalizzazione sociale delle pratiche economiche o come segnala Zizek, una tematica che passa nel mezzo e per il quale gli individui vivono i loro rapporti con una struttura sociale fino alle idee false che legittimano un potere politico dominante (Zizek, 2003). b) Quello delle agenzie costruttrici o meglio gli agenti che modellano la soggettività sociale estesa come forma del pensare, del percepire e dell’attuare, razionali o irrazionali, cognitive o valoriali ed il loro rapporto con le agenzie socializzatici della vita quotidiana che portano a forme di attuazione specifiche. Si capisce che un’idea di costruzione sociale per la quale la successione delle quotidianità e delle congiunture sono costitutive delle successione degli eventi (Zemelman, 1998; Leòn e Zemelman, 1997).2 c) Quello dello spazio geografico di riferimento dove si svolgono i rapporti sociali e si creano condizioni specifiche per l’accumulazione. d) Quello dell’ingegneria istituzionale e della costruzione dei diritti democratici (civili, politici e sociali). Ci si può rendere conto che per ognuna di queste linee di analisi servirebbe un libro. È per questa ragione che in questo lavoro si presentano solo alcune delle caratteristiche più importanti, evidenziando soprattutto la cristallizzazione regionale del nuovo modello di potere.

3. Il modello di potere del dopoguerra in America Latina Si sa che il modello di accumulazione del capitale del post guerra in America Latina è frequentemente caratterizzato come un periodo di sostituzione delle importazioni nei settori economici caratterizzati da forte intervento statale. L’accumulazione si fondava sulla combinazione di esportazione tradizionale di materie prime e di alimenti come forma di crescita verso l’esterno e l’industrializzazione sostituzione delle importazioni che favoriva una crescita all’interno. Quest’ultima si è basata su un rapido sviluppo dell’industria nazionale mediante la protezione di tariffe doganali e l’erogazione di risorse derivanti dagli importanti investimenti dello Stato. Ciò vuol dire che nel rapporto politico economico ed ideologico di sostentamento, la componente keynesiana si vincolava alla visione - naturalmente eurocentrica - della corsa nazionale allo sviluppo. Era possibile raggiungere lo sviluppo nella misura in cui venivano eliminati valori, comportamenti o strutture tradizionali che coesistevano con il moderno in quelle società. Bisogna sottolineare questo termine di “coesistenza” in quanto difficilmente si sono viste strutture articolate in una formazione sociale data e configurata. Di fronte alla possibilità di costruzione del socialismo, lo sviluppo permetteva una transizione verso la modernizzazione e permetteva così di superare il “sottosviluppo” senza troppi traumi sociali. 3 Dal punto di vista della soggettività sociale, il periodo si caratterizzò per l’incorporazione politica dei nuovi attori sociali. Nonostante ciò, sul terreno di ciò che oggi chiamiamo inclusione sociale e costruzione della cittadinanza, è necessario affermare che sono esistite varianti nei vari paesi, perché, ad esempio, tale inclusione è maggiore nella regione del cono sud e minore nella zona andina. Non si deve dimenticare che le società latinoamericane sono di solito molto eterogenee ed il modello di protezione sociale statale, centrato sul settore urbano-industriale, non ha toccato nemmeno altri importanti settori sociali. Così che in generale, si è trattato di una “modernizzazione includente” che ha supposto una soggettività sociale ben differente, comparata alla soggettività che ha permesso invece la costruzione del proletariato europeo. L’efficacia retributiva costruita dallo Stato poteva essere tale sulla base del lavoro formale, industriale ed urbano. Le forme di lotta delle classi associate a questa base, manifestate nei conflitti tra sindacati ed impreditori, e mediate dalle istituzioni statali, potevano permettere miglioramenti nelle condizioni sociali di questi settori ma non di altri. Il dominio di altri settori si manifestò come l’esclusione di tutta la partecipazione delle popolazioni indigene, nere e meticcie considerate dalla prospettiva eurocentrica - secondo l’idea di razza - come inferiori, marginali, estranee allo sviluppo e vincolate ai rapporti sociali non moderni, ma che in verità procedevano chiaramente con i rapporti sociali capitalisti classisti. Ciò significa che è continuata ad esistere la divisione di differenti soggettività sociali in funzione del modello di potere, che ha bloccato la potenzialità che implicava l’articolazione in un periodo di lotta con distinte componenti soggettive. Le fratture, l’identificazione degli interessi come diversi è ciò che è prevalso. La particolarità dell’Uruguay e della regione del cono sud in questo contesto, sta nell’eterogeneità sociale imposta mediante il precoce genocidio degli indigeni ed il dominio tradizionale dei neri. Ma anche l’Uruguay si differenziava abbastanza da questo quadro comune che ostentava l’America Latina dalle grandi regioni con oligarchie forti, caudillismi estesi con inesistenza di interventi statali moderni, forza lavoro schiava e semi schiava e l’esclusione indigena. Anche per questo, il sistema di soggettività sociale predominante nella società uruguayana è riuscito ad assomigliare abbastanza a quello che aveva il proletariato classico con le sue agenzie di socializzazione: il sindacato ed il partito. Per ciò che riguarda il referente territoriale, questo modello di potere era molto più stato-centrico di oggi, non perché già allora non esistesse una logica regionale e globale reale, ma per la maggiore capacità dello Stato (a paragone di ciò che accade oggi) di regolare i flussi al suo interno e la minore capacità di mobilità del capitale esistente in quegli anni. Naturalmente anche allora c’era un potere ubicato “fuori” dallo Stato-nazione (transnazionali, organismi internazionali, paesi centrali) ma questa maggiore capacità di regolazione permetteva che concetti come la “sovranità” e “l’autodeterminazione dei popoli” non si udissero come mere espressioni vuote. Una forte componente di sfiducia avvelenava i rapporti tra stati dell’America Latina e di fatto la storia della regione fu segnata dai forti conflitti tra stati. I tentativi di integrazione latinoamericana, alcuni modesti come ALALC e ALADI, fallirono. D’altra parte le analisi come quelle di Ruy Mauro Marini (1969) e di Paulo Schilling (1978) prendevano in cosiderazione negli anni sessanta e settanta la problematica che suppone il Brasile nella regione. Per molti, gli Stati Uniti avrebbero dovuto riconoscere il “destino manifesto” del Brasile in America del Sud eleggendolo a “satellite privilegiato” che a sua volta poteva “satellizzare” “subimperializzare” il resto del continente. Nei fatti, nei piccoli paesi tale prospettiva emergeva: Bolivia, Paraguay ed Uruguay. (Schilling, 1978). Infine, rispetto alla citata quarta dimensione, si deve affermare che in primo luogo i diritti democratici furono un’eccezione nel capitalismo latinoamericano. Considerando le potenzialità e le diverse fonti di conflitto che si creavano, non deve sorprendere la forte instabilità istituzionale prima degli autoritari anni settanta. Un sistema democratico relativamente duraturo come in Uruguay dagli anni quaranta fino all’autoritarismo costituzionale del 1968 (e dalla dittatura a partire dal 1973) o in Cile per i due terzi del XX secolo fino al 1973, furono l’eccezione. Ma non è un caso che in entrambe i paesi questo sistema democratico si fosse costruito parallelamente all’incorporazione di nuovi gruppi sociali alla vita collettiva e ad una industrializzazione sostenuta dallo Stato e orientata al mercato interno. In America Latina, la componente autoritaria è stato frequente, soprattutto in alcuni paesi come il Paraguay con ferree e lunghe dittature. In altri casi, furono frequenti i colpi di Stato militari e l’instabilità politica almeno fino l’omogenizzazione autoritaria che si consolidò negli anni settanta. In tal senso, il caso estremo è stato quello della Bolivia che ha subito innumerevoli colpi di Stato. Come è noto, le spinte industrializzatrici dell’Argentina (Peròn dal 1946) e del Brasile (Vargas dal 1930) nascono nell’ambito istituzionale autoritario di populismi che suppongono il dispiegamento dei lavoratori. I limiti di questo modello di potere sono noti. Mentre i paesi centrali sviluppavano un settore scientifico-tecnico e un apparato produttivo fordista in cui si capovolgevano le innovazioni create, in America Latina, non smetteva di manifestarsi il carattere incompleto o “tronco” della sua industrializzazione. E si deve pensare adeguatamente che questo carattere incompleto ha conseguenze sul funzionamento dell’insieme del sistema economico, giacché devia verso le importazioni gli stimoli di certe domande che potrebbero dinamizzare attività interne e favorire maggiore autonomia e auto sostentamento (Vuscovic, 1985). La manifestazione interna dei limiti di quest’articolazione centro-periferica possono riassumersi come segue: a) Aumento dei costi di produzione industriale, obsolescenza o ritardo tecnologico e difficoltà ad aumentare scale di produzione se si fa il paragone con le possibilità dei paesi centrali. b) Sintomi di stanchezza dell’accumulazione nella misura in cui la protezione doganale non è sufficiente per ottenere livelli migliori di redditività delle borghesie locali. c) Crescente deficit esterno come blocco all’accumulazione in un contesto dove inizia a comparire una nuova divisione internazionale del lavoro. d) Crisi dei paesi centrali particolarmente a partire dal 1973; sviluppo del debito estero dei paesi periferici come forma di valutazione delle grandi masse del capitale - denaro dei paesi centrali. Basandosi su ciò che precedentemente è stato detto, bisogna segnalare allora che la crisi dell’America Latina non si crea a partire dalla “crisi del debito” del 1982 che menzioneremo di nuovo successivamente, ma emerge già dagli anni settanta con l’abbattimento del modello di crescita del dopoguerra (Cordova, 1991).

4. La transizione militare: le basi del nuovo modello di potere Nonostante gli anni settanta sono stati caratterizzati da un dinamismo significativo del commercio mondiale ed da un flusso inusuale di prestiti esteri diretti verso l’America Latina, la crisi globale del 1973 può essere interpretata come la fine di un modello di accumulazione che già era in crisi e conseguentemente anche di un sistema di intervento sociale dello Stato. Nel caso uruguayano, l’abbattimento di suddetto modello già si avverte alla fine degli anni cinquanta nell’ambito di un sistema politico che in generale agiva in maniera incerta. Il ciclo delle lotte sociali in America Latina ha questo scenario di crisi, di politiche restrittive sul piano salariale che si apre a un insieme di domande e ad un orizzonte di possibilità dove appare chiara la possibilità di procedere verso un modello alternativo che si caratterizza come antimperialista e/o socialista. I movimenti di “liberazione” nazionale e socialisti si plasmano in organizzazioni significative il cui obiettivo centrale, al di là dell’enfasi secondo i paesi, può leggersi come l’aspettativa di superare il carattere periferico delle economie e di costruire altri rapporti sociali. La successione dei colpi di stato - dal Brasile nel 1964 all’Argentina nel 1976 passando per l’Uruguay nel 1973, anche se con un autoritarismo costituzionale che proveniva già dal 1968 - è il freno repressivo ad una crisi di egemonia e l’apertura della transazione controllata ad un altro modello di accumulazione che implicherebbe un’apertura estera quasi indiscriminata e un’enfasi quasi elusiva sul mercato. È noto il fatto che l’ispirazione autoritaria ha la sua principale componente nella dottrina della sicurezza nazionale promossa dagli Stati Uniti che hanno preparato i militari ad una “guerra non convenzionale” e che poi ha portato alla transnazionalizzazione della repressione attraverso il Piano Condor. Nella politica economica, lo spiegamento degli strumenti tendenti a promuovere le esportazioni manifatturiere - per esempio mediante la riduzione dei costi della produzione, particolarmente quelli da lavoro - genera un nuovo orientamento che spesso è stato caratterizzato dall’eufemismo del nuovo modello esportatore.4 L’espressione sembra poco adeguata per il fatto che ciò che iniziò a cambiare fu molto di più che l’instaurazione di un modello che favoriva l’esportazione. Si stavano gettando le basi di ciò che poi si conoscerà popolarmente come “neoliberismo” che, in verità, non sarebbe nemmeno adeguato, giacché non permette di segnalare il cambiamento nella struttura di potere che ha implicato. Come è noto, all’inizio le dittature tentarono sul terreno economico l’instaurazione, anche se incerta e contraddittoria, di un nuovo schema di articolazione globale che cercò di approfondire il rapporto asimmetrico con i centri egemonici. La disciplina sociale (nel senso di Foucault) da parte delle forze armate ed il sostegno diretto agli inizi dagli Stati Uniti, cercò di rendere compatibile l’economico con il sociale ed il politico. Le basi della nuova matrice socio-economica implicheranno il collegamento dei principi democratici ad una logica di adeguamento fiscale e di stabilizzazione monetaria che non ha precedenti il che richiede la gestione della conflittualità sociale - non solo l’esistente ma anche la potenziale - anch’essa senza precedenti. Ciò che ne procede è un nuovo schieramento di attori (ovviamente militari, uno spettro politico importante soprattutto di destra, la maggior parte dei settori capitalisti) in uno scenario globale di ricerca della risoluzione alla crisi dell’egemonia che già aveva avuto manifestazioni regionali in America Latina. Dopo le dure lotte sociali e politiche che permisero la cacciata dei militari e la convocazione delle elezioni, le aspettative sociali vennero nuovamente vanificate. In questo senso è necessario evidenziare le continuità economiche, in cui uno degli indicatori è la presenza dei cosiddetti tecnocrati. Di fatto, la costruzione del consenso politico sulla politica economica si basa su di loro, sostituiscono i politici tradizionali in questo aspetto e si trasformano in un settore che condiziona o determina la presa di decisione per lo stabilimento di suddetta politica. Il nuovo consenso ideologico è di tipo “tecnico”, cioè, di supposta esistenza di una sola via per affrontare il problema, sottovalutando qualsiasi altra incertezza o discussione, visto che questa sarebbe terreno di ideologia e la tecnocrazia ne è carente (Garcia-Pelayo, 1974). Sostenendosi sulla legittimità che permetteva i ricambi di elite politiche mediante processi elettorali, si celava la continuità della nuova elite tecnocratica, cosmopolita, che ha aiutato a consolidare il nuovo modello d’accumulazione. Rispetto al piano economico, uno dei temi chiave degli anni ottanta, è stato l’utilizzo del debito estero. Bisogna ricordare che l’onda di crisi era già iniziata nel 1982 quando il governo messicano aveva stabilito una moratoria nei pagamenti degli interessi sul debito del settore pubblico. Ma non si trattava di un mero fenomeno finanziario, esisteva un problema di natura strutturale: il trasferimento dei risparmi ai paesi centrali in un contesto di cambiamento nella struttura del potere globale. Le cifre delle esportazioni nette del capitale della regione segnavano il riorientamento dei flussi. Secondo CEPAL, tra il 1982 ed il 1989 l’uscita era di circa 200 mila milioni di dollari in contrasto con i 90 mila milioni di dollari riscossi tra il 1974 ed il 1981.5 Alla fine di questi anni, era divenuto un luogo comune parlare nei circoli professionali, politici e tecnocratici, degli anni ottanta come di “anni persi”. Non solo per il basso dinamismo economico o la maggiore vulnerabilità estera, ma anche per il noto deterioramento delle condizioni di vita della maggior parte della sua popolazione. Ciò che costituiva il prodotto dell’imposizione del nuovo padrone d’accumulazione, di approfondimento dei rapporti sociali capitalisti, nonostante tutto assunse la forma di una crisi congiunturale di proposta. In tal senso, non deve meravigliare la notorietà che ottenne John Williamson quando nel 1989 inventò l’espressione “Consenso di Washington” per designare le nuove basi della crescita che era in verità la sintesi del già famoso pensiero neoliberista.6 Gli anni 90 hanno segnato l’approfondimento delle riforme e hanno consolidato il nuovo padrone del potere. Nonostante questo, ciò che si è diffuso negli ambiti sociali e accademici come “politica neoliberista” era un’espressione troppo limitata visto che non rendeva conto di un insieme di grandi trasformazioni sociali articolate tra loro. E ciò ci porta ad analizzare i cambiamenti nei quattro assi gia citati all’inizio.

5. Il modello di potere “neoliberista”

IL NUOVO RAPPORTO POLITICO ECONOMICO - IDEOLOGICO. Bisogna evidenziare i profondi cambiamenti tra la nuova matrice socioeconomica ed il discorso, della legittimità del modello rispetto al precedente modello del potere. Gli elementi centrali del nuovo schema globalizzatore e neoliberista sono stati applicati in paesi centrali e in paesi periferici. Tra questi ultimi, in America Latina si notano alcune particolarità. In questo lavoro, è importante evidenziare soprattutto sei linee base:7 a) BASSA REDISTRIBUZIONE DI SALARI: la sua diminuzione per la redditività del capitale non ha bisogno di maggiori spiegazioni, ma ci si avvale nel discorso del fatto che tale riduzione potrebbe implicare un aumento degli investimenti. b) INDEBOLIMENTO STATALE NELLE AREE SOCIALI: l’indebolimento delle prestazioni sociali nella sanità, nell’educazione, nelle pensioni, nelle casse integrazioni, ecc. è lo stesso che dire che si è imposta una politica di riduzione dei salari indiretti. Le cosiddette “politiche sociali focalizzate” hanno sostituito quei modelli di prestazione più universali e integrali per ottenere maggiore giustizia ed effettività nell’attività più utilizzata. c) CONTRORIFORMA FISCALE: il sistema di tassazione ha cercato di basarsi su tasse indirette che gravano sul consumo al posto delle tasse dirette che gravano sul reddito. L’argomento utilizzato per giustificare questo cambiamento era che queste ultime annichilivano l’iniziativa privata, ma nonostante ciò hanno funzionato come una forma di retribuzione regressiva di entrata, che nella regione ha rafforzato la tendenza alla disuguaglianza nella distribuzione delle entrate. d) DEREGOLAMENTAZIONE LAVORATIVA: il mercato del lavoro flessibile permetteva l’investimento, la riconversione dell’apparato produttivo, l’aumento del livello di impiego ed il passaggio dall’ambito informale a quello formale. In verità si creavano le condizioni per aumentare la redditività del capitale non solo attraverso la soppressione diretta dei diritti sul lavoro ma anche debilitando la capacità di negozioazzione. In questo senso, l’Uruguay si è trasformato in uno dei paesi con minore rigidità lavorativa dell’America Latina (è stato superato da Haiti e Cile).8 e) PRIVATIZZAZIONE DELLE IMPRESE PUBBLICHE: un insieme di attività statali si aggiunse a quelle già esistenti capaci di produrre reddittività del capitale. Prima costituivano gettiti (per avere sovvensioni e costruire monopoli) che dovevano essere rimossi per migliorare la competitività. In funzione di ciò, si realizzò una politica di privatizzazione diretta o indiretta di attività che ha trasformato lo spazio pubblico ed i rapporti sociali. Nel caso uruguayano, come è stato detto all’inizio, il processo fu più limitato. f) INTRODUZIONE DI UNA POLITICA MONETARIA RESTRITTIVA: la politica neoliberista sostituisce la politica fiscale di intervento keynesiano nell’economia con una politica monetaria restrittiva (credito e quantità di denaro in circolazione). Al di là degli effetti economici diretti, l’aumento della disoccupazione, prodotto delle imprese che non competono, è anche un’arma della lotta di classe. Prendendo in considerazione ciò che precedentemente è stato detto, si evidenzia che questo insieme ha costituito una vera “rivoluzione antikeynesiana”, un’espressione delle necessità del capitale per la ricostruzione delle condizioni ed una loro rivalutazione nel contesto di un lungo periodo depressivo (Flores e Mariña, 1999). Ma dal punto di vista ideologico, si può discutere fin dove l’insieme delle posizioni costituiscono un ritorno alla tesi del liberalismo originale. Secondo Josè Luis Fiori (1998), dal punto di vista dello Stato e delle politiche pubbliche, non esistono differenze sostanziali tra il vecchio liberalismo nato e formulato nel XVIII secolo e quello attualmente chiamato “neoliberismo”. Nonostante ciò, ci sono delle differenze tra il liberalismo originale e quello attuale: a - L’individualismo liberale si presenta oggi con la pretesa scientifica di ottenere una strutturazione modellistica formale e matematica importante (teorie dei giochi, dell’elezione razionale ecc.) b - Le idee e le politiche si sono combinate in forma virtuosa per provocare un progresso espansivo del capitale senza precedenti. c - Il carattere universalmente egemonico che hanno implicato le idee e le politiche, considerando particolarmente la sconfitta dei regimi conosciuti come comunisti dell’Europa dell’Est. d - Vi è una vittoria ideologica di fronte al Welfare State (e al riformismo sociale-democratico) su cui si realizza uno smantellamento istituzionale. Di fatto, la volontà di cambiamento si neutralizza nella convizione generale che non esista altro progetto possibile. Per Perry Anderson il nucleo del neoliberismo consiste nel messaggio che il capitalismo è il destino universale e permanente dell’umanità. O meglio, il capitalismo sregolato è il miglior mondo possibile; questa è una novità del sistema egemonico attuale, prodotto della scomparsa del suo avversario della Guerra Fredda. In tal senso, aggiunge che “nemmeno nel periodo vittoriano, si proclamavano così clamorosamente le virtù e le necessità del regno capitale” (Anderson, 2004: 38). Seguendo Goran Therborn (1987), si può anche dire che in questo rapporto politico economico ed ideologico, si è giunti all’ultima delle tre “linee successive della difesa” per mantenere un ordine stabilito. Si ricorda che in primo luogo bisogna mantenere il fatto che esistano certi tratti di ordine sociale, negando l’esistenza di altri. Per esempio, si può dire che esiste una piena libertà e che non esiste povertà come alcuni affermano. In secondo luogo, se non è più valida questa linea di difesa, esiste quella che ammette che sebbene esista una determinata situazione, non necessariamente si deve considerarla ingiusta. L’autore presenta il classico esempio della gente povera ed emarginata che si trova in questa situazione per essersela cercata. In ogni caso non è possibile una legittimazione mediante le due “linee di difesa” precedenti, resta solo ciò che esiste attualmente: la situazione viene accettata, si concede che esista e si ammette anche che sia ingiusta, la difesa giunge ad affermare che non è possibile un ordine giusto. Forse in un futuro lontano ciò potrà avvenire, ma ora non esiste possibilità reale di cambiarlo. Questa è, a nostro giudizio, la situazione attuale e in tal senso, ci troviamo in un periodo di biforcazione che vorrebbe dare un volto umano del capitalismo perifierico o cerca di costruire un altro modello di potere. LA NUOVA SOGGETTIVITÀ SOCIALE: AGENZIE E SFIDE. L’approfondimento dell’ideologia capitalista conosciuta come neoliberismo si è fatta strada contemporaneamente alla cristallizzazione di una soggettività sociale basata sulla logica dell’immediata massimizzazione individuale costo-beneficio. I processi di atomizzazione sociale, di individualismo e mercantilizzazione dei rapporti sociali sono più che conseguenze della ristrutturazione economica: una nuova soggettività costituisce la condizione di esistenza della nuova fase. Giunti qui, si potrebbe concludere con l’attribuzione di un ruolo esagerato ai mezzi di comunicazione di massa per la trasmissione dell’ideologia e della costruzione quotidiana (cioè con elementi non necessariamente razionali e cognitivi che creano la soggettività sociale). Senza dimenticare di considerare l’importanza di questo punto per il futuro, si deve prestare attenzione alle altre agenzie costruttrici della soggettività che la nuova fase di accumulazione ha minimizzato. In quest’aspetto non si può sottovalutare la profondità della trasformazione della mappa di classe in tutta l’America Latina che ha portato, per esempio, alla costruzione di un enorme “proletariato informale” che fluttua tra un terzo e la metà della popolazione occupata (Portes e Hoffman, 2003). Tenendo presente l’insieme dei lavoratori non protetti nelle grandi aziende, le cifre dei lavoratori informali rispetto ai formali (che qui include lavoratori manuali e non manuali), sono di un 48.1% contro il 33.4% in Brasile, del 45.7 contro il 39.1 in Messico, del 34.9 contro il 45.2 in Cile, del 44.9 contro 35 in Colombia e del 38 contro il 36.4 in Venezuela.9 Gli effetti sulla classe lavoratrice son profondi e tra i tanti elementi vi è la sfida per il movimento sindacale che si trova in una crisi strutturale e a lungo termine. Paragonando la soggettività sociale della fase di accumulazione vincolata alla sostituzione delle importazioni, ci si rende conto che si perde l’originale attaccamento allo spazio sociale del lavoro formale - anche in America Latina - per costruirsi una soggettività molto più dissociata. Ciò suppone che si debba considerare, come riassume Antunes (1999), una significativa eterogenità, complessità e frammentazione del lavoro, essendo il processo di “sottoproletarizzazione”uno degli aspetti chiave che include forme di precarietà molto importanti già evidenziate nel sistema precedente. Il movimento sindacale non solo è in crisi per questa trasformazione, ma bisogna anche ricordare che i sindacati (come i partiti politici di sinistra) perdono il ruolo precedente come costruttori della soggettività sociale. La gestione, la prassi manageriale, si trasforma per alcuni settori in un modello di riferimento. La combinazione di elementi che propone, come il merito individuale, l’adesione all’impresa, la negoziazzione, l’autonomia di ogni individuo, l’adattabilità, ecc. suppone la costruzione di una soggettività sociale visto che ovviamente non si può limitare al campo dell’impresa. In tal senso, Sennett ha dimostrato che nell’organizzazione flessibile l’incertezza filtra le pratiche quotidiane, la nuova dinamica corrode la fiducia, la lealtà ed il mutuo impegno. (Sennett, 1998). Posizioni come questa, possono indicare l’esistenza di un processo di transito ad una società dove l’impresa ha un nuovo ruolo storico che ridefinisce vecchi valori (per esempio la libertà in maniera totalmente privata) dove la soggettività sociale tende a ridursi ad un esercizio pragmatico di controllo sugli altri. Se è così, questa cultura dell’impresa starebbe guadagnando progressivamente spazi impensabili nella società. Questo modello può essere reale e sostenibile nel tempo? Ancora non è chiaro e almeno per la regione socialmente eterogenea in cui viviamo, bisogna essere prudenti. Si può arguire che per l’America Latina questo è un aspetto ristretto a determinati strati sociali e a determinate imprese importanti. In tal senso il problema si limiterebbe a nuove tecniche di gestione canalizzate dell’energia individuale che arrivano a sentirsi parte di un impresa, di un progetto comune; ciò non costituisce necessariamente una novità. Si può anche dire che l’insieme dei valori (successo, competizione, rischio, ecc,) che implicano queste pratiche hanno effetti nei rapporti immediati dell’individuo, ma non in tutta la società sempre più segmentata. Per il momento circoscritti, non smettono di essere potenzialmente incostanti. Inoltre non si può non ricordare che in America Latina queste forme di gestione coesistono e si articolano in una molteplicità di formati di produzione che arrivano alle più arcaiche forme di sfruttamento. Nel caso dell’Uruguay ciò accade attualmente con l’industria forestale. In tal senso, per la loro generalizzazione limitata, le nuove tecnologie di gestione non costituirebbero un tema rilevante di fronte ad altre problematiche. Nonostante ciò, si può trascurare il fatto che si tratti di una nuova forma per governare la soggettività sociale che prospera in un contesto in cui i sindacati e altre agenzie di potenziale costruzione dell’alternativo si sono indebolite. In particolare i sindacati in molti casi tendono ad agire in modo corporativo con scarsa proiezione alternativa. Altre componenti della soggettività attuale hanno a che vedere con la costruzione dell’insicurezza in un senso generale. Il sociologo Norbert Lechner, recentemente defunto, segnalava in merito alla soggettività che quando la violenza urbana, la corruzione, l’istabilità dell’impiego e la competitività spietata sono le “barbarie quotidiane” pe rla gente, allora gli effetti centrifuga della modernizzazione non riescono ad essere fermati dalle regole del tratto civilizzato. Ognuno si affanna come può e regna la “legge della giungla”. Parafrasando Sarmiento: forse la civilizzazione e le barbarie non sono tendenze contropposte; forse la modernizzazione comporta tendenze intrinseche alle barbarie” (Lechner, 1999: 21). Se si sostituisce l’eufemismo della modernizzazione con l’approfondimento del capitalismo, la frase sembra acquistare maggiore validità. Su cosa si basa una soggettività alternativa? Difficile pensare ad un’altra agenzia diversa dai movimenti sociali. Come è stato detto in un altro lavoro (Falero, 1999), ciò implica il fatto di dover segnalare le elaborazioni del significato che danno sulle distinte tematiche i protagonisti nell’attuale contesto socio-storico: i “piqueteros” ed il lavoro in Argentina, il Movimento dei Senza Terra e la proprietà della terra in Brasile, i movimenti indigeni e la lotta per una società inclusiva e più ugualitaria in Bolivia ed in Ecuador, il FUCVAM (Federazione Uruguayana delle Cooperative di Aiuto Mutuo) e le abitazioni in Uruguay ecc. La soggettività sociale è un campo di battaglia permanente in America Latina. Perchè tale conformazione di movimenti sociali, non può essere vista come qualcosa di prodotto, ma come una produzione permanente in una successione di congiunture. Le posizioni variano conflittivamente, esiste sempre tensione tra interessi di ogni tipo, il risultato del movimento è sempre indeterminato. Ma oltre alle sue tensioni interne, la capacità di convocazione di un movimento sociale o di un insieme di movimenti sociali, suppone che soggettivamente esista predisposizione a stabilire la sua potenzialità. Se esiste, il movimento acquisisce protezione e la soggettività alternativa è possibile. IL RIFERIMENTO GEOGRAFICO E LA MOBILITÀ DEL CAPITALE - Non bisogna insistere sull’attuale contesto globale regolato dallo sviluppo delle imprese transnazionali e sulla sua maggiore forza finanziaria.10 Deve considerarsi che la crescente interconnessione ed il dominio geografico del capitale accelera la generazione degli accordi di libero commercio, di trattati multilaterali e bilaterali e la conformazione dei blocchi regionali. Non ha senso chiedersi se è favorevole l’integrazione regionale. Nell’attuale contesto, l’integrazione avviene di fatto, “de facto” per il capitale. Il problema è che tipo di integrazione regionale deve costruirsi. Bisogna ricordare che gli anni novanta sono stati la chiave per la costituzione dell’Unione Europea (prima c’era solo la Comunità Economica Europea) e per la messa in opera del Trattato del Libero Commercio tra Canada, Stati Uniti e Messico (nel 1994) che senza dubbio ha contribuito alla mobilità continentale del capitale senza cercare di armonizzare le più amplie assimitrie che ha riprodotto.11 È anche il tempo storico in cui gli antichi progetti falliti di integrazione (ALALC, ALADI) ora danno luogo al Mercosur. Il suo anno funzionale è il 1985, quando a Foz de Iguazù i presidenti dell’Argentina e del Brasile hanno dimostrato la volontà politica di integrazione bilaterale, ma il processo viene approfondito con il Trattato do Asunción.12 Fino al 1994, il commercio intrarregionale era aumentato sei volte duplicando il commercio extra-zona. (Ferrer, 1996). In questo nuovo modello di potere, nemmeno la stessa borghesia brasiliana può pensare di dirigere uno sviluppo autonomo, al massimo può pensare di costituirsi parte fondamentale di un progetto latinoamericano che le pemetta di competere a livello globale nel grado di “semiperiferia” nel senso di Wallerstein (1998, 2001). Esiste una sola direzione per questo processo? Assolutamente no. La prospettiva che qui si sostiene è che come in ogni spazio sociale in costruzione, si annidano progetti differenti e conflitti latenti. Negli anni novanta era visibile una dinamica economica che richiedeva un altro livello di integrazione che giunse parzialmente - con un germe di sopranazionalità - il 1° gennaio del 1995 quando si mise in marcia l’unione doganale flessibile. Nonostante ciò, la debolezza dei meccanismi istituzionali generati di fronte alle strategie particolari del Brasile e dell’Argentina fu ostensibile. In questo processo socio-politico, mai ha cessato di essere una negoziazione chiusa in cui alti funzionari statali discutono intrappolati in una rete di pressioni di interessi imprenditoriali di grandi oligopoli come automobili, siderurgia o petrolchimica. La marcia relativamente rapida del processo negli anni novanta, è dovuta in buona misura ai progressi dell’economia brasiliana, mercato importante per i prodotti dei vicini. Di fatto, il cambio di direzione caratterizzato dalla svalutazione del real portò ad una delle crisi maggiori del progetto 1999. Verso l’anno 2001 il Mercosur già era visto come un cadavere e l’Alca promossa dagli Stati Uniti sembrava avere maggiori possibilità. Governi come quello uruguayano si schieravano su questa posizione con gli Stati Uniti anche se sostenuti da un blocco monolitico all’interno della destra politica. La riunione di Asunciòn del 21 e 22 giugno 2001, avvenne con la prospettiva che non era stato compiuto ciò che precedentemente era stato accordato e con una percezione generalizzata della quasi inesistente credibilità come strumento verso l’interno e verso l’esterno. Si può dire che la caduta economica e la crisi istituzionale dell’Argentina avevano portato al Mercosur, ma il problema di fondo conduce allo stesso progetto di integrazione. L’anno 2003 segna un rilancio, specialmente a partire dagli incontri dei presidenti Lula e Kirchner in cui appare una volontà politica manifesta di rafforzare l’integrazione come progetto strategico e che cerca di coinvolgere un insieme di protagonisti sociali. Inoltre, dopo il cosiddetto “Consenso di Buenos Aires” (del 16 e 17 ottobre), non è assente nella volontà politica la necessità di generare un’appartenenza di indentità sopranazione. Nonostante ciò, i conflitti commerciali tra Argentina e Brasile - i conflitti tra poteri economici radicati in emtrambi i paesi - non hanno lasciato troppo spazio all’ottimismo iniziale. Indubbiamente i governi del Venezuela, del Brasile, dell’Argentina e ora dell’Uruguay danno una svolta alla prospettiva latinoamericana, ma nei fatti esiste una complessità evidente che si traduce in frequenti tensioni. Di fatto la prospettiva del Fruente Amplio in Uruguay scommette sul Mercosur, ma ciò genera una serie di domande. Che capacità effettiva avrà l’Uruguay (ovviamente molto meno che in Brasile) per promuovere il Mercosur o l’unione latinoamericana? E se si dissipano le tensioni, il Mercosur sarà in grado di construirsi come un progetto geopolitico in espansione e di non schieramento con gli Stati Uniti? Sarà in grado nel sociale di smettere di essere dichiarativo e accessorio e di abbandonare finalmente gli importanti impatti socio-lavorativi che qualsiasi processo di integrazione scatena? È importante insistere sul fatto che l’alternativa nella tematica dell’integrazione regionale suppone un doppio processo in America Lationa. Da un lato, si deve considerare una costruzione geo-politicamente efficace di fronte alla storica incidenza degli Stati Uniti nella regione. D’altro, si deve tener presente una dinamica che potenzialmente generi la maturazione della cooperazione postnazionale e la conformazione di nuovi quadri di riferimento nelle società. In tal senso, si creeranno misure come per esempio una base di diritti minimi sul lavoro che implichi ed obblighi i paesi dell’accordo al loro rispetto. Se entrambi i punti non appaiono nella prossima costruzione regionale, purtroppo si dimostrerà il fallimento della spinta alle alternative da parte delle opzioni politiche du centro-sinistra. LA DEMOCRAZIA REGOLATRICE- Analizzare gli inizi del nuovo percorso globale riguardo il nuovo formato democratico, significa ricordare l’influente Commissione Trilaterale, vincolata alla presidenza di Carter e finanziata da numerosi banchieri statunitensi ed europei come David Rockfeller (Wolfe, 1987). Il rapporto chiamato “The governability of democracies”, presentato formalmente il 30 e 31 maggio 1975, è noto per aver prospettato “l’amministrabilità” della democrazia di fronte al sovraccarico di domande che i governi non possono soddisfare. La democrazia non può funzionare quando il cittadino non è passivo e questo era ciò che non accadeva in quel momento. Tra le “correzioni” proposte, già a partire dalla Trilaterale, si osservava la necessaria depolitizzazione degli individui e dei gruppi di fronte al grado di apatia e di disimpegno. Con questo tipo di situazione divengono pubblici sentimenti antidemocratici che precedentemente rimanevano nascosti. Ma soprattutto bisogna sottolineare che esiste una crisi di legittimità quando si osserva l’incapacità nel mantenere la retorica democratica per preservare l’accumulazione del capitale (Wolfe, 1987: 357)13. In America Latina, le dittature ed i precedenti governi della democrazia limitata, resero possibile la stabilità sistematica per il nuovo padrone del potere. In generale, i militari conquistarono il diritto a un ritiro ordinato e senza depurazione politica dei loro dirigenti (Petras, 1987). Il loro ruolo si vincolava ad un nuovo tipo di Stato che supponeva la centralizzazione delle decisioni nel Potere Esecutivo e che si manifestava in diverse forme secondo i paesi, per esempio assegnando un minor ruolo effettivo al Parlamento (De Sierra, 1992). Da allora in tutta l’America Latina, la tendenza a limitare la democrazia alla mera elezione di autorità politiche in un periodo di tempo determinato è stata evidente. Non esisteva nessuna discussione in merito all’apertura di spazi per attori sociali che non fossero clienti statali di sostegno. La funzionalità di tutto questo per il nuovo modello di potere è indiscutibile. Nonostante ciò, ci furono lotte politiche che misero in discussione questo processo: a volte come movimenti sociali, a volte come strumento di partecipazione come a Porto Alegre, a volte nella forma particolare di promozione dei plebisciti per fermare le privatizzazioni come in Uruguay. Questo punto è importante in quanto permette di passare al tipo di democrazia regolatrice. Si può considerare che in Uruguay i plebisciti hanno costituito una forma particolare di lotta di classe. Se la struttura della proprietà non è stata radicalmente trasformata come è accaduto in Argentina, se esistono ancora importanti imprese statali, ciò si deve a questa forma di mobilitazione sociale e al suo risultato alle urne. È anche certo che in altri casi, ci furono sconfitte come quella che non riuscì ad evitare i privilegi militari per ovviare i processi giurudici durante il periodo della dittatura o come quella che non riuscì a far tornare la tendenza alla deregolamentazione lavorativa quando non è stato possibile alzare la riduzione da 2 a 10 anni per la prescrizione dei crediti lavorativi. Sulla logica dei plebisciti, si debbono fare due considerazioni aggiuntive per osservare la loro dinamica come attori sociali. In primo luogo, bisogna affermare che i suddetti non sono stati iniziativa del Fruente Amplio come tale, ma dei sindacati (anche se con l’appoggio da parte della sinistra); durante la loro creazione trascinarono tutta la forza politica in una posizione inizialmente non cercata in funzione di altre previsioni elettorali. In secondo luogo, si deve sottolineare l’idea di costruzione sociale del plebiscito, nel momento in cui in questo processo si manifesta la connessione e la vitalità delle reti, particolarmente a partire da alcuni sindacati. Queste connessioni tra organizzazioni sociali diverse, attivarono e sostennero la mobilitazione per la raccolta di firme che a sua volta rese possibile l’abilitazione del meccanismo. Cioè, non si tratta solo della visualizzazione di partecipazione diretta nella democrazia per mezzo di un atto preciso, ma anche della complessa dinamica precedente che la rende possibile. Considerando i mezzi della destra politica per ostacolare o per limitare questo processo, si può scorgere il tipo di tensione tra la democrazia regolatrice e la democrazia emancipatrice (Sousa Santos, 2000) che implica il processo. Un’ampliamento dei diritti che ha permesso che all’Uruguay di divenire recentemente il primo paese che consacra l’accesso all’acqua come diritto fondamentale. L’America Latina ha vissuto la tensione tra democrazia intesa come limitazione all’elezione di amministratori del padrone del potere stabilito, come ampliamento a tutti gli spazi sociali, come stimolo alla partecipazione diretta, come costruzione dei diritti civili, politici e sociali. In questo senso, deve analizzarsi il rapporto con i movimenti sociali. Un’altra sfida futura per superare la democrazia regolatrice è quella di vincolare la problematica della democrazia ai processi di integrazione regionale considerando che un “Parlamento del Mercosur” non è sufficiente e rappresenta solo un passo di un lungo cammino.

6. Conclusioni

La volontà di cambiamento in America Latina si manifesta in diverse maniere. L’elezione di elite politiche di centro-sinistra in Uruguay e le forme particolari di lotta di classe avvenute in questa società, costituiscono una delle forme diverse di espressione della necessità regionale di costruzione del nuovo. In tal senso, per le forze sociali e politiche uruguayane, come per il resto della regione, si presenta una opportunità ed un pericolo. L’opportunità è quella di approfittare del periodo di biforcazione aperto in funzione dei limiti dell’attuale modello di potere e in tal senso accettare la sfida per contribuire a cambiarlo in una costruzione che implica ma che trascende anche gli Stati nazionali. Il pericolo è quello di soccombere alla corrente dei cambiamenti superficiali promossi per esempio dal BID (Banca Interamericana dello Sviluppo). Esistono indicatori regionali e globali che permettono di affermare che esiste una certa garanzia generale per cercare di attenuare i brutali livelli di povertà dell’America Latina anche senza mettere in discussione le attuali strutture di potere (soprattutto le sue elite finanziarie e agro - esportatrici). Se ciò avviene, si deve evidenziare l’insufficienza di tale scelta, fin quando entrambe le cose restano unite. Nonostante ciò, ci sono indicatori per i quali i pezzi che compongono l’attuale modello di potere stanno soffrendo una rapida erosione di legittimità. L’attuale congiuntura non permette di avere una prospettiva chiara dei risultati della trasformazione che alcuni settori del capitale promuovono. Si può affermare che un primo scenario possibile sarebbe il mantenimento dell’ordine attuale anche se con un volto più umano di “etica imprenditoriale” e di “responsabilità sociale imprenditoriale”, diretto da un’altro elenco politico più legittimato rispetto al precedente. In tal senso potrebbe essere ben interpretato ciò che è accaduto in Argentina ed in Brasile negli ultimi anni. Se effettivamente è così, si sta vanificando una nuova opportunità storica di cambiamento. Il secondo scenario è quello della costruzione - inevitabilmente lenta e complessa - di un’alternativa sociale che suppone la conformazione di un nuovo modello di potere e di un nuovo soggetto storico. Si debbono tenere in considerazione le quattro dimensioni esaminate in questo lavoro. In primo luogo, se si considera il rapporto tra la politica economica ed ideologica, si commette l’errore di limitare la tematica ad una questione di direzionabilità più o meno keynesiana nella politica economica futura. Ciò presuppone molto di più. Molte delle trasformazioni articolate che si sono prodotte non sono di carattere congiunturale. L’alternativo quindi non presuppone la ricreazione nostalgica del padrone del potere sviluppatore, ma la laboriosa costruzione del nuovo. Per esempio, in Uruguay è funzionale al mantenimento del modello di potere la ricreazione del mito - al di là del reale - dell’eccezionalità uruguayana in America Latina. In tal senso, una visione alternativa dovrebbe presentare come problematica la non-mercantilizzazione di spazi sociali. Di fatto, questo è stato ciò che realmente è accaduto con l’acqua in Bolivia e in Uruguay per diversi canali. Nel caso dell’Uruguay, la cristallizzazione della necessità che non sia più un prodotto di mercato in cui primeggia il fine di lucro nel gioco delle transnazionali, è il risultato delle lotte sociali ma in un contesto in cui il Fruente Amplio era opposizione e non governo. In quanto all’egemonia attuale di una soggettività sociale conformista e mercantilizzata, non si può non evidenziare che come in altri contesti storici esiste una generazione di spaccatura, di nuovi spazi sociali, non “catturata” nei termini precedenti. In questo senso, deve sottolinearsi l’importanza della nascita di nuovi movimenti sociali in tutta l’America Latina come nuove agenzie socializzatrici. Si ricordi che anche agli inizi del XIX secolo non si poteva presentare in Inghilterra un panorama completo della nuova classe in formazione: il proletariato. Nonostante ciò nel 1830, là dove precedentemente avevano prevalso divisioni tradizionali per regione, i lavoratori avvertivano un’identità di interesse su scala nazionale. Allo stesso modo, si può presentare l’ipotesi che agli inizi del XXI secolo l’alternativa sociostorica dell’America Latina, il nuovo soggetto, non si può presentare se non come un panorama terrotoriale e socialmente frammentato. In quanto al blocco di integrazione regionale, in quanto alla costruzione, può essere adeguato sia per l’ampliamento ed il consolidamento dell’ordine sociale attuale che per un progetto alternativo. Non si tratta in questo ultimo caso di un ricorso puramente axiologico del “dover essere”. Alcune posizioni della sinistra politica e di alcune organizzazioni della società civile già prospettano l’integrazione latinoamericana in altri orizzonti e danno un nuovo compito ai movimenti sociali. Dentro le sue possibilità di paese piccolo, le nuove elite politiche uruguayane possono indicare un cammino possibile e cioè: l’integrazione regionale non è mera conseguenza del gioco del capitale ma è sostenuta da un tessuto sociale latinoamericano, alternativo e con altri orizzonti globali. La lotta per la costruzione dei diritti può permettere di passare da una democrazia nel senso di regolazione a una democrazia nel senso di emancipazione. Ciò implica elementi conosciuti, anche se non applicati, come la diffusione effettiva dei diritti, l’introduzione dei meccanismi di partecipazione, la non centralizzazione del potere statale ecc. ma anche rendersi conto del fatto che se esistono decisioni che si prendono in ambiti regionali, è possibile anche la costruzione territoriale. L’esistenza di governi eletti di centro-sinistra come quello uruguayano, con maggiore sensibilità sociale, può significare un’accumulo caotico di frustrazioni se non si accetta in tutta la sua complessità questa sfida di espansione reale della democrazia e con essa la modifica del modello di potere vigente.

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Note

* Professore del Dipartimento di Sociologia, Facoltà di Scienze Sociali, Università della Repubblica dell’Uruguay.

1 Per un approfondimento del caso uruguayano e soprattutto del movimento sindacale, si veda un articolo precedente nella rivista Proteo. (Falero, 2003).

2 Negli altri lavori, è stata ripercorsa una nozione di soggettività sociale che qui si omette, ma sulla quale si è insistito particolarmente in Gramsci (1985) e in Thompson (1981). In qualche modo quest’ispirazione ripercorre anche il presente lavoro.

3 Le critiche a questa visione sono state sviluppate con enorme creatività in America Latina negli anni sessanta, originalmente da Stavenhaguen (1970) e Frank (1970). Si veda Falero, 2005.

4 Nel caso uruguayano, la caduta del salario reale come variabile essenziale di questo processo, è indiscutibile. Considerando il 1957 come base 100, a gennaio del 1985, e cioè alla fine del periodo militare, si calcola che fosse del 37,1% (Cancela e Melgar, 1986).

5 CEPAL: Panorama Economico dell’America Latina, Santiago del Cile, 1990.

6 Il cosiddetto “Consenso di Washington” costituì l’agenda nata da una conferenza in cui parteciparono i paesi latinoamericani nell’Istituto Internazionale dell’Economia. Il documento di seguito segnalato è “The Progress of Polity Reform in Latin America” del 1990, dello stesso Istituto. Si veda “Latin American Adjustment: how much has happened?”.

7 Si segue lo schema di Montes (1996) anche se adattandolo all’America Latina.

8 Fonte: Rapporto “Fare affari nel 2005: eliminando ostacoli per la crescita” della Banca Mondiale e della Corporazione Financiaría Internazionale. Si veda Correio Sindical Mercosul n. 168,1 del 15 settembre 2004.

9 Dati riuniti da Portes e Hoffman (2003) su fonti ECLAC e OIT del 2000.

10 Tra il 1980 e il 1994, il commercio passò dal 20 al 33% del totale del commercio mondiale. Si stima che circa 200 grandi imprese hanno oggi il controllo sui flussi del commercio mondiale (Agenda sociale o Mercosur: una prposettiva brasiliana”, rapporto di Atila Roque).

11 È difficile non smettere di vedere un progetto ricolonizzatore da parte degli Stati Uniti con una espansione verso il Sud attraverso il TLC e il Piano Pueblo Panamà che implica non solo l’accesso alle fonti di energia ma anche all’acqua e alla diversità biologica che si anticipa nel XXI secolo. L’estensione del modello più a Sud del Centroamerica mediante l’Alca per il momento sembra bloccata.

12 Non ci sono dubbi sulla prospettiva ideologica di destra dei presidenti Carlos Saul Menem, Fernando Collor de Mello, Andres Rodríguez e Luis Alberto Lacalle che istituiscono formalmente il 26 marzo 1991 la prospettiva del “mercato comune”.

13 Una delle figure più conosciute della Trilateral Commission fu Samuel Huntington (gli altri due furono Crozier e Watanuky) che affermava, nel 1976: “bisogna fare un’apprezzamento realista sul fatto che non possiamo ritornare ad un mondo semplice; stiamo vivendo in un mondo di grandi organizzazioni, di specializzazione e gerarchia. Bisogna anche accettare la necessità di autorità nelle diverse istituzioni della società (citato in Wolfe, 1987: 364).