Intorno alla rappresentanza sindacale: diversi profili per un approfondimento

Arturo Salerni

Maria Rosaria Damizia

Riprendiamo, in questo numero della rivista, alcune questioni relative alle regole in tema di rappresentanza sindacale. E’ la seconda parte del dossier curato per Proteo dall’Associazione Progetto Diritti e dal Comitato per una legge sui diritti e la rappresentanza sindacale: peraltro l’importanza di questo lavoro sta anche nell’attualità dell’argomento. Oltre all’articolo curato da Arturo Salerni e Maria Rosaria Damizia, che riprende ed utilizza schede e relazioni curate da alcuni collaboratori del Comitato per una legge sui diritti e la rappresentanza sindacale, pubblichiamo infatti la proposta approvata a seguito dell’ esame degli emendamenti dalla Commissione lavoro della Camera dei Deputati nel mese di settembre e che dovrà affrontare l’esame dell’aula. Su tale proposta, soprattutto in relazione alla necessità di una rapida approvazione della legge, il giudizio è globalmente positivo. Riteniamo peraltro che su alcune questioni fondamentali la proposta possa essere emendata e migliorata. Anche per discutere di questo il Cestes, l’Associazione Progetto Diritti, la rivista Proteo, il Comitato per una legge sui diritti e la rappresentanza sindacale, ed il Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia organizzeranno un convegno di studio e di proposta per il mese di dicembre chiamando come interlocutori le forze politiche, sindacali e parlamentari.Nell’articolo che segue ci si soffermerà sulla evoluzione nel corso degli ultimi decenni degli istituti di rappresentanza sindacale (riprendendo una scheda elaborata da Laura De Rose), lanceremo uno sguardo a ciò che succede in altri paesi (grazie al minuzioso contributo offertoci dal Dott. Simonluca Dettori), vedremo quanto il concetto di maggiore rappresentatività sindacale incida su istituti di grande rilevanza sociale (utilizzando in ciò una scheda elaborata da Rosa de Sanctis), ripercorreremo velocemente proposte e disegni di legge presentati nel corso delle ultime legislature (sulla base di una ricerca della Dott.ssa Barbara Frateiacci) ed infine torneremo a qualche valutazione sull’attuale assetto normativo post-referendario (anche per l’utile contributo predisposto dal Dott. Andrea Volpini). Intendiamo peraltro doverosamente ringraziare i giovani studiosi che abbiamo indicati per l’impegno e l’intelligenza con cui si sono accostati ad una questione democratica che si tende ad occultare e che invece deve tornare ad occupare un ruolo centrale nel dibattito politico nella difficile fase di transizione che viviamo.

1. Evoluzione storica degli istituti di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro

 

Per portare un contributo alla riflessione e al dibattito sulle proposte di riforma dell’attuale sistema, abbiamo ritenuto utile evidenziare il tipo di soluzione che le forme di rappresentanza fino ad oggi realizzatesi hanno offerto ad alcune questioni fondamentali. Si tratta di questioni inevitabilmente connesse alla stessa esistenza di un organismo rappresentativo degli interessi dei lavoratori a livello aziendale. Una prima questione è ovviamente quella degli spazi di agibilità sindacale. La questione cioè degli strumenti e degli spazi di cui questi diversi organismi hanno goduto nello svolgimento della loro attività di rappresentanza e tutela dei lavoratori: spazi ottenuti in una prima fase -anteriore al 1970- in forza della contrattazione collettiva, e nella fase successiva anche in forza delle norme contenute nello Statuto dei Lavoratori .L’approvazione dello Statuto è da considerarsi una tappa essenziale perché da questo momento, pur nel riconoscimento formale della libertà dell’attività sindacale sul luogo di lavoro per ogni aggregazione sindacale, si instaura una situazione per cui esistono attività e associazioni sindacali dotate di strumenti e garanzie ed attività invece prive di strumenti (se si fa eccezione per la tutela prevista contro gli atti discriminatori e per il generico riconoscimento della libertà di proselitismo). Si pone quindi il problema del diritto ad accedere al sostegno legislativo nello svolgimento dell’attività sindacale sul luogo di lavoro, cioè il problema dell’individuazione degli organismi titolari dei diritti riconosciuti dal titolo III dello Statuto. Ma la questione dell’agibilità sindacale e della legislazione di sostegno non è che uno degli aspetti legati all’organizzazione sindacale dei lavoratori nell’impresa. Altre questioni fondamentali sono quella della natura dell’organismo aziendale di rappresentanza dei lavoratori (è il problema dell’alternativa tra modello di organismo unitario elettivo, espressione anche dei lavoratori non iscritti al sindacato, e il modello associativo), quella del rapporto che deve intercorrere tra l’organismo aziendale e le associazioni sindacali esterne all’azienda, e quella inerente i poteri che deve avere l’organismo aziendale, ovvero se esso debba avere poteri contrattuali.

* * * * *

Appare opportuno iniziare una storia della rappresentanza dei lavoratori all’interno dell’impresa accennando brevemente alle vicende delle commissioni interne, storicamente i primi organismi diretti a garantire rappresentanza e tutela dei dipendenti sul posto di lavoro. Si tratta di vicende risalenti nel tempo, ma che dimostrano come alcune delle questioni sopraindicate costituiscano una costante nella storia degli istituti di rappresentanza sul luogo di lavoro. Nate come organismi occasionali in seguito a profonde ed estese agitazioni, ricevono il loro primo riconoscimento dal contratto collettivo Fiom-Itala nel 1906. Da questo momento la diffusione delle c.i. vede il tentativo del sindacato di farne uno strumento di controllo sul piano aziendale. In alcuni casi il tentativo ha successo: un accordo del 1919 tra Fiom e Consorzio torinese dell’industria delle automobili riconosce le c.i. e esclude dal diritto di voto per la composizione dell’organismo i non iscritti al sindacato. La questione è appunto se le c.i. debbano continuare ad essere organismi eletti da tutti i dipendenti, compresi i non iscritti al sindacato, o se debbano essere espressione del sindacato stesso. E’ chiaro che ciò che è in gioco è l’esistenza e la natura del collegamento tra l’organizzazione dei lavoratori dentro la fabbrica e il sindacato esterno. Ciò appare evidente nella polemica interna allo stesso sindacato tra i sostenitori e gli avversari del movimento torinese dei consigli di fabbrica , in cui un rilievo fondamentale ha la figura di Antonio Gramsci. Il movimento tendeva al superamento della c.i. e alla sua sostituzione con il Consiglio di fabbrica, organismo che si distingueva dalla c.i. per la natura rivoluzionaria dei suoi obiettivi e per il suo essere distinto dal sindacato. I suoi membri venivano eletti reparto per reparto, ed esso rappresentava la generalità dei lavoratori. Commissioni interne e Consigli di fabbrica saranno i protagonisti del biennio rosso del 1919/20, culminato nell’occupazione delle fabbriche.

 

Le commissioni interne negli accordi dal dopoguerra al 1966. La struttura di organismi unitari elettivi. La diffidenza dei sindacati e la progressiva riduzione dei poteri dell’organismo.

E’ un accordo tra Cgl e Confindustria del 1943, il c.d. accordo Buozzi-.Mazzini, a reintrodurre le c.i. dopo che l’ordinamento corporativo fascista le aveva abrogate. Negli anni seguenti l’istituto viene nuovamente e a più riprese disciplinato tramite accordi interconfederali: così nel 1947, nel 1953, fino all’accordo- formalmente ancora in vigore - del 1966. Che si tratti di un organismo di origine e disciplina contrattuale, e che tale rimarrà - nonostante venga più volte formulata la proposta di disciplinare l’istituto per via legislativa - è fatto importante, perché ciò ne consentirà il congelamento ad opera dei sindacati negli anni settanta. Gli accordi in questione disciplinano la struttura dell’istituto senza variazioni. La c.i - definita organo di rappresentanza dei lavoratori dell’azienda nei confronti della direzione- è costituita in ciascuna unità produttiva all’ interno di imprese industriali in cui siano occupati più di 40 lavoratori. E’ un organismo elettivo unitario, composto di operai e impiegati eletti separatamente in rappresentanza delle rispettive categorie. La consultazione elettorale avviene secondo il sistema elettorale proporzionale, per liste contrapposte, con voto diretto e segreto. Il riconoscimento del potere di indire le elezioni - in via sussidiaria rispetto alla c.i. uscente che è tenuta a farlo- spetta alle associazioni sindacali e a gruppi di lavoratori che dichiarino preventivamente di voler presentare delle liste. La presentazione delle liste è aperta ad ogni gruppo di lavoratori; solo l’accordo del 1966 richiede per le unità lavorative con più di 500 occupati che la presentazione della lista sia accompagnata dalla firma di un numero di elettori pari al 3% del totale. Il diritto dei sindacati di presentare liste di propri candidati non presuppone comunque un rapporto organico tra c.i. e sindacati: infatti i sindacati presentatori non hanno potere di revoca o di sostituzione dei membri della c.i. eletti nelle proprie liste. E’ interessante notare come sia previsto invece un meccanismo di revoca prima della scadenza del mandato (art. 8 dell’accordo del 1966) su deliberazione conforme del 51% dei dipendenti dell’unità aziendale. I vari accordi si differenziano per quanto attiene alla definizione dei compiti e dei poteri delle c.i., con una progressiva riduzione dei compiti di questo organismo. L’accordo Buozzi-Mazzini prevedeva il potere delle c.i. di stipulare contratti collettivi relativi alla dimensione dell’impresa , sia pure previa autorizzazione della locale associazione sindacale. Questo potere scompare nell’accordo del 1947, attraverso cui peraltro alle c.i. vengono riconosciuti importanti poteri limitativi del potere dell’imprenditore in materia di licenziamenti collettivi e individuali, poteri che verranno trasferiti alle associazioni sindacali nel 1950. Il ridimensionamento progressivo del ruolo delle c.i. si spiega proprio con la loro natura di organismi unitari ed elettivi, e con le implicazioni che ciò comporta sul piano del rapporto con il sindacato esterno. Un organismo i cui componenti sono eletti dalla totalità dei lavoratori, iscritti e non al sindacato, ha perciò stesso una legittimazione forte a rappresentare la collettività che lo ha eletto: e questo comporta in potenza un contrasto con l’associazione sindacale esterna e con la sua pretesa di rappresentatività. Questo spiega sia perchè gli accordi sulle c.i. dal 1947 in poi neghino potere negoziale alle c.i., riservando alle organizzazioni sindacali la disciplina collettiva dei rapporti di lavoro e le relative controversie, sia perché tale riserva sia finita inosservata non di rado, e siano numerosi nel corso degli anni cinquanta i casi di contratti aziendali stipulati dalle c.i.(e spiega anche perché non si sia mai arrivati ad un riconoscimento legislativo delle c.i.). La c.i., priva quindi - almeno formalmente - di poteri contrattuali, assolve ad una serie di compiti di carattere preventivo (la c.i vigila sull’applicazione del contratto collettivo e degli accordi sindacali, della legislazione sociale e delle norme sull’igiene e la sicurezza sul lavoro), conciliativo (tenta in prima istanza il componimento delle controversie collettive e individuali sorte tra prestatori e imprenditore), propulsivo (formula proposte per il migliore andamento dei servizi aziendali e il perfezionamento dei metodi di lavoro), deliberativo (contribuisce all’elaborazione degli statuti e dei regolamenti interni di carattere sociale, previdenziale, assistenziale, culturale, ricreativo) e consultivo (esamina con la direzione in via preventiva gli schemi di regolamenti interni, l’epoca delle ferie, la determinazione dell’orario di inizio e di cessazione del lavoro nei vari giorni della settimana). Per consentire lo svolgimento delle attività strumentali rispetto ai compiti in questione gli accordi dettano regole che impegnano le imprese a mettere a disposizione delle c.i. locali per le riunioni e spazi per le affissioni. Si rimanda invece ad accordi tra la c.i. e la direzione per quanto attiene alle riunioni dei lavoratori e si condiziona la possibilità per i membri della c.i. di assentarsi durante l’orario per espletare i propri compiti alla concessione dell’autorizzazione da parte della direzione. Gli accordi contengono infine norme dirette alla tutela dei componenti della c.i. in caso di trasferimento o di licenziamento, norme che peraltro richiedono il nulla osta delle associazioni sindacali territoriali.

Nate in una fase di unità sindacale le c.i. sopravvivono alla scissione della CGL nel 1948 e alla nascita di CGIL ,CISL e UIL. Sopravvivono come organismi unitari ma la competizione esistente tra le tre confederazioni fa si che ciascuna di esse tema di divenire minoritaria nella singola impresa: una simile dinamica non può ovviamente che contribuire alla svalorizzazione del ruolo delle c.i..

 

L’esperienza delle sezioni sindacali aziendali. Il modello associativo di rappresentanza sindacale aziendale.

Espressione dell’intera collettività aziendale, lavoratori non sindacalizzati compresi, e organismo a carattere unitario in regime di divisione sindacale: ragioni sufficienti per far considerare le c.i. non sufficientemente affidabili, specialmente da parte della CISL, organizzazione con un radicamento nelle fabbriche assai inferiore rispetto a quello della CGIL. Da queste ragioni origina il tentativo della CISL (seguito poi dalla CGIL e dalla UIL) - a metà anni cinquanta - di lanciare le s.a.s., sezioni sindacali aziendali , organismi incardinati nell’organizzazione sindacale. Era il tentativo di creare organismi di rappresentanza sul luogo di lavoro secondo il modello associativo, alternativo rispetto a quello dell’organismo unitario elettivo. Doveva consentire a ciascuna organizzazione sindacale di dotarsi di una propria struttura rappresentativa a livello di impresa . In realtà, là dove vengono create, le s.a.s. più che strutture di base del sindacato-associazione si rivelano organi decentrati in azienda del sindacato territoriale. Non hanno autonomia rispetto ad esso; gli organi sociali - assemblea degli iscritti, direttivo e segretario- funzionano poco e male. Anche i compiti loro riconosciuti sono scarsi, ed essi non hanno potere negoziale. Viene loro negato il ruolo di agenti contrattuali a livello di azienda anche nel momento in cui, all’inizio degli anni 60, si riconosce la contrattazione aziendale- sia pure riservandole un ruolo integrativo rispetto alla contrattazione di livello superiore- con l’avvio del sistema della contrattazione articolata. Le s.a.s. sono un’esperienza che riflette in modo esemplare lo spirito di un sindacalismo che concepisce il raccordo con la base in termini di controllo dall’alto, anziché di partecipazione della stessa ai processi decisionali. Il tentativo di creare organismi alternativi alle commissioni interne fallisce. Il carattere necessariamente parziale della rappresentanza rivestito dalla s.a.s. a fronte dell’universalità della rappresentanza della c.i. fa sì che la commissione interna continui ad essere il punto di riferimento in azienda per i lavoratori e interlocutore privilegiato per gli imprenditori.

 

Il superamento delle tradizionali forme di organizzazione dei lavoratori nelle imprese. I delegati, il consiglio di fabbrica, l’assemblea dei lavoratori.

La fine degli anni sessanta vede una ripresa di attivismo operaio nelle fabbriche, che trova le sue ragioni nei radicali mutamenti che investono il sistema produttivo e la composizione stessa della classe operaia, nonché nell’aggravarsi del disagio sociale proprio dei grandi centri industriali. Questa ripresa è segnata dall’insoddisfazione verso il sindacalismo confederale, la cui politica viene vissuta dai lavoratori come distante dal luogo di lavoro. Le tradizionali strutture rappresentative entrano in crisi. Appaiono inadeguate le s.a.s., perché espressioni di una rigida logica associativa e della divisione sindacale, e le c.i. perché svuotate di poteri. Sulle c.i. pesano anche le modalità di elezione e composizione che non consentono un’articolazione della rappresentanza in grado di riflettere la realtà delle condizioni di lavoro e dunque degli interessi dei lavoratori. Questa situazione spinge verso la ricerca di nuovi canali organizzativi. Da questa spinta nascono sia l’esperienza dei Comitati unitari di base, sia quella dei delegati. Le nuove forme di autorganizzazione si caratterizzano per il loro essere unitarie: l’unità di organizzazione ha il suo fondamento nell’omogeneità degli interessi dei lavoratori, omogeneità che a sua volta discende dalla organizzazione della processo produttivo. Ad una comune collocazione nel processo produttivo corrisponde una comune condizione di lavoro, e dunque un interesse collettivo, che deve trovare nuove forme di organizzazione e tutela. La figura del delegato - nella prima fase della sua esistenza- assolve proprio a tale esigenza: è espressione di un gruppo omogeneo di lavoratori, che lo nomina informalmente in assemblea (presto si afferma il metodo dell’elezione su scheda bianca, con esclusione di liste predeterminate, al di fuori delle indicazioni di vertice); il delegato non è necessariamente sindacalizzato. Riceve un mandato relativamente ad una concreta vertenza e può essere revocato in ogni momento da parte dell’assemblea che lo ha nominato. E’ l’assemblea ,in forza dello stretto rapporto che ha con il delegato, che conduce la contrattazione sugli aspetti del lavoro legati alla realtà del gruppo omogeneo. I delegati, e in ciò sta una delle differenze fondamentali rispetto alla c.i., svolgono il ruolo di agenti contrattuali. La loro attività di contrattazione investe tutti i principali aspetti della condizione di lavoro specifica del gruppo omogeneo, ma anche alcuni aspetti già disciplinati dal contratto nazionale. La contrattazione collettiva di questo periodo disciplina l’attribuzione di diritti sindacali ai delegati (tutela da licenziamenti e trasferimenti, permessi, riunioni). In un secondo momento i delegati si unificano in organismi più ampi, per organizzare un’azione in grado di superare la dimensione specifica del reparto. Nasce il consiglio di fabbrica, organismo unitario e rappresentativo di tutto il personale occupato nell’impresa, costituito dall’insieme di tutti i delegati dell’impresa stessa e in esso si concentrano i poteri contrattuali già direttamente attribuiti ai delegati. Le figure dei delegati e del cdf sono nate come fenomeni di autorganizzazione operaia nel corso delle lotte degli anni 1968-69, a fronte dell’inadeguatezza delle tradizionali strutture rappresentative e, spesso, in polemica con il sindacalismo confederale. Ma le confederazioni riescono a recuperare il ritardo politico e organizzativo che ha portato allo sviluppo di queste esperienze di base, attraverso un processo che non è lineare nè facile da illustrarsi, se non a costo di semplificazioni enormi. Momenti essenziali di questo processo di raccordo tra movimento e organizzazioni sindacali tradizionali - di recupero del movimento in seno al sindacalismo confederale- sono l’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970 e il Patto federativo tra Cgil, Cisl e Uil nel 1972. Con lo Statuto si detta una normativa di sostegno allo svolgimento dell’attività sindacale all’interno dell’impresa. Ma chi gode del sostegno consistente in una serie di diritti sindacali (riunioni, permessi, affissioni, potere di indire i referendum) nonché in importanti garanzie in caso di trasferimenti o licenziamenti dei dirigenti sindacali sono solo le rappresentanze sindacali aziendali che rispondono ai criteri dettati dall’art19. Solo, cioè, quelle costituite nell’ambito del sindacalismo confederale maggiormente rappresentativo sul piano nazionale o di sindacati firmatari di contratti sovraziendali applicati nell’ unità produttiva. Il riconoscimento dell’iniziativa dal basso nella costituzione della rappresentanza sindacale come condizione per l’accesso al sostegno legislativo (art.19) viene così ridimensionato dai criteri selettivi previsti dall’articolo: l’organizzazione spontanea che voglia giovarsi della tutela offerta dallo Statuto è spinta in sostanza a confluire nell’organizzazione sindacale tradizionale.

Con il Patto federativo siglato nel 1972 Cgil ,Cisl e Uil riconoscono i cdf come istanze di base con poteri di contrattazione sui posti di lavoro. Accolgono cioè i cdf nel loro ambito, per usare l’espressione dello Statuto dei lavoratori, ma al tempo stesso si preoccupano di delineare un modello di consiglio di fabbrica nettamente collegato all’organizzazione sindacale esterna.

Leggiamo dal documento del Patto federativo: “in tale organismo [cioè nel cdf] e, ove esiste, nell’Esecutivo, deve essere assicurata la rappresentanza delle forze sindacali che operano nell’azienda stessa e che costituiscono la Federazione.” Per raggiungere quest’obiettivo lo strumento da utilizzare è il sistema elettorale: “A tale fine le Confederazioni si impegnano a concordare un modello elettorale che dovrà garantire l’applicazione del principio suindicato”. Meccanismi adottati saranno per esempio l’allargamento del collegio elettorale oltre il gruppo omogeneo, così da consentire la presenza di più tendenze sindacali, o la previsione di membri del cdf nominati direttamente ad opera del sindacato provinciale. La strategia di riassorbimento delle nuove strutture da parte del sindacalismo confederale non elimina il fatto che attraverso di esse si realizzi un forte allargamento della partecipazione e un effettivo decentramento del potere decisionale dal punto di vista delle politiche contrattuali. Ma la stagione in cui i Consigli svolgono un ruolo di primo piano nelle lotte sindacali non è lunga; già a metà degli anni 70 si innesca una serie di fattori che porteranno alla crisi di questa esperienza.

 

La crisi dei consigli unitari

Un primo fattore sta nel mutamento di ruolo del sindacato, che da attore del conflitto di classe si fa compartecipe e responsabile delle scelte di politica economica. Questo processo, che ha inizio già a metà degli anni ‘70 con la crisi economica conseguente allo shock petrolifero, comporta necessariamente una compressione delle istanze di base, in favore di una rinnovata centralizzazione nella determinazione e nell’attuazione delle politiche sindacali. Un momento “simbolo” di questo percorso di mutamento del sindacalismo italiano è dato dalla c.d. svolta dell’Eur del 1978. Si sostiene che è una necessità nazionale difendere la produzione in sé e si accetta di scambiare una politica di sacrifici con la partecipazione del sindacato a scelte di politica economica che dovrebbero portare ad una ripresa degli investimenti e della produzione. Il primo accordo nella storia della negoziazione trilaterale , il c.d. Protocollo Scotti sul costo del lavoro, siglato nel 1983, dimostra come concertazione e centralizzazione della contrattazione collettiva vadano di pari passo. L’accordo impone infatti forti limitazioni alla contrattazione aziendale, affermando che “la contrattazione a livello aziendale non potrà avere per oggetto materie già definite in altri livelli di contrattazione.” Assistiamo ad una tendenza opposta a quella che a fine anni 60 aveva portato alla fine del sistema di contrattazione articolata e alla affermazione di una contrattazione aziendale che non aveva limiti né rispetto ai temi né con riguardo alle possibilità di carattere economico.

Un altro fattore che accelera la crisi dei c.d.u. è da rinvenirsi nella rottura del Patto federativo, verificatasi in seguito al rifiuto della CGIL di aderire al c.d. accordo di S.Valentino del 1984. In alcuni casi i cdu si scioglieranno per la fuoriuscita di componenti che daranno vita a proprie rsa, in base al diritto loro riconosciuto dall’art.19 dello Statuto dei Lavoratori.

 

La riforma della rappresentanza sindacale di base. Dal mancato accordo sui Cars all’intesa sulle Rsu del 1991. L’accordo del 1993.

I tentativi delle tre confederazioni storiche di intervenire sulla questione della rappresentanza aziendale dettando una disciplina uniforme delle stesse risalgono alla fine degli anni ottanta. E’ del 1989 la bozza di accordo sui Consigli aziendali delle rappresentanze sindacali (Cars), del 1991 l’intesa tra le tre confederazioni sulle Rsu, del dicembre ‘93 l’accordo interconfederale per la disciplina delle Rsu. L’analisi del contenuto dei tre accordi - il primo dei quali non si è concluso, ma costituisce un precedente interessante dell’accordo del ‘93- consente di capire in che modo le stesse questioni che hanno influito sulla crisi dei cdu condizionano la ricerca da parte delle tre confederazioni di nuove forme di rappresentanza a livello aziendale. Nella definizione di nuove regole per la rappresentanza le Confederazioni intendono affrontare e risolvere essenzialmente tre questioni: una interna ai rapporti tra le tre Confederazioni, conseguente alla rottura del patto federativo; una che possiamo riassumere nell’esigenza di individuare un soggetto negoziale all’interno dell’azienda certo e riconoscibile, problema che si pone in relazione al negoziato sull’assetto contrattuale in corso con la Confindustria, un’altra riguardante la definizione del rapporto tra organismi di base e generalità dei lavoratori (questione che origina anche da un’esigenza di recupero di legittimazione da parte del sindacalismo confederale, ma non si esaurisce in questo, come appare evidente dalle soluzioni adottate). La bozza di accordo sui Cars affrontava le questioni sul tappeto in un modo un po’ “grossolano ma chiaro” (come scrive Alleva): l’organo di rappresentanza doveva essere composto per metà da membri eletti dalla generalità dei lavoratori, iscritti o meno al sindacato, e per metà da membri designati pariteticamente dai sindacati di categoria aderenti alle tre Confederazioni. Per poter presentare liste e partecipare alla competizione elettorale i lavoratori non affiliati a C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L. avrebbero dovuto raccogliere un numero di firme elevatissimo: dal 20% al 10% degli aventi diritto al voto, a seconda che la votazione si riferisse a singole aree o all’intera unità produttiva. All’organismo così formato l’accordo riconosceva il potere contrattuale all’interno dell’unità produttiva. In questo modo si sarebbero raggiunti più risultati: la divisione paritetica tra Cigl, Cisl e Uil della quota non elettiva (che avrebbe consentito il rafforzamento delle riemerse tendenze unitarie tra le tre Confederazioni), l’adozione di un criterio di proporzionalità quanto alla ripartizione del monte ore complessivo dei permessi sindacali , la composizione del Consiglio aziendale, per metà elettivo e per metà, come è stato detto, “di nomina regia”, col tentativo quindi di risolvere la questione del rapporto con i lavoratori non iscritti, riconoscendo ad essi un canale di espressione, senza che questo peraltro pregiudicasse un più che saldo controllo delle O.O.S.S. sugli organismi di base. I limiti imposti alla presentazione delle liste avrebbero fortemente limitato la possibilità che l’organismo rappresentasse tendenze sindacali esterne alle Confederazioni firmatarie dell’accordo. Il riconoscimento ad un organismo così composto del potere contrattuale risultava compatibile con l’assetto contrattuale verso il quale ci si avviava, caratterizzato dalla rinnovata imposizione di vincoli alla contrattazione aziendale. L’accordo sui Cars non va comunque in porto. L’intesa tra le tre Confederazioni del 1991 segna da questo punto di vista un passo avanti, perchè in essa è previsto che i membri della Rsu siano tutti elettivi. Resta il Patto interno in base al quale Cgil, Cisl e Uil si ripartiscono in maniera paritaria il 33% dei loro eletti. Viene anche abbassata la soglia di adesioni richiesta per la presentazione delle liste da parte dei lavoratori non affiliati alle tre confederazioni. Va notato comunque che per Cgil ,Cisl e Uil non è prevista alcuna soglia minima per procedere alla presentazione delle liste. L’intesa del 1991 è stipulata tra le Confederazioni in vista di un successivo accordo con la controparte datoriale. L’accordo interverrà due anni dopo, nel dicembre ‘93, preceduto da due intese cruciali, il Protocollo del 31 luglio ‘92 e il Protocollo d’intesa del luglio ‘93. Passaggi cruciali anche per capire perché la disciplina delle Rsu contenuta nell’accordo del dicembre ‘93 si discosti dall’intesa tra le Confederazioni del ‘91 su un punto importante, relativo alla composizione delle Rsu: la presenza del “terzo” riservato alle associazioni stipulanti.

Il Protocollo del luglio ‘92 - nella parte in cui prevede il blocco della contrattazione aziendale- e quello del luglio ‘93 nella parte dedicata agli assetti contrattuali, delineano il nuovo ruolo della contrattazione. Leggiamo nel testo dell’ultima intesa che la contrattazione di secondo livello riguarda le materie oggetto di rinvio da parte del CCNL..E ancora che “la contrattazione aziendale riguarda materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del CCNL”. Si torna in sostanza ad un ruolo puramente integrativo della contrattazione aziendale. Un assetto contrattuale di questo genere richiede necessariamente il controllo sulle strutture di base. E’ in questione la “solvibilità del sindacato”. Lo pensano chiaramente anche i firmatari dell’intesa. Per questo non stupisce che nella parte dell’intesa relativa alla rappresentanza sindacale aziendale si trovi espressamente affermato che “al fine di assicurare il necessario raccordo tra le organizzazioni stipulanti i contratti nazionali e le rappresentanze aziendali titolari delle deleghe assegnate dai medesimi, la composizione delle rappresentanze deriva per 2/3 dall’elezione da parte di tutti i lavoratori, e per 1/3 da designazione da parte delle organizzazioni stipulanti il CCNL, che hanno presentato liste in proporzione ai voti ottenuti.” Formula che è alla base della disciplina delle Rsu dettata con l’accordo interconfederale del dicembre ‘93.

 

 

2. Il ruolo dei Sindacati maggiormente rappresentativi e “minori” durante la fase della contrattazione collettiva. Una visione comparativistica

 

L’ambito europeo

La nascita della CEE nel 1958 ha costituito un punto importante nelle vicende del sindacalismo del vecchio continente. Nel corso di tre decenni l’integrazione europea ha favorito il diffondersi di aziende con produzione di beni e servizi in più di un Paese CEE, ed i paesi europei hanno al contempo sviluppato alcune politiche comuni. Si è arrivati nel 1989 alla formulazione della Carta Sociale Europea che detta precise disposizioni in materia di libertà di associazione, contrattazione collettiva, informazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa in cui prestano la loro opera. All’articolo 11 della Carta Sociale, infatti, si prevede che i datori di lavoro e i lavoratori della Comunità europea hanno il diritto di associarsi liberamente allo scopo di costituire le organizzazioni professionali o sindacali di loro scelta per la difesa dei loro interessi economici e sociali. Ogni datore di lavoro ed ogni lavoratore ha la facoltà di aderire o di non aderire a queste organizzazioni senza che ne possa derivare un danno personale o professionale. I datori di lavoro o le organizzazioni dei datori di lavoro, da un lato, e le organizzazioni dei lavoratori, dall’altro, hanno il diritto, alle condizioni previste dalle legislazioni e dalle prassi nazionali, di negoziare e concludere contratti collettivi. Il dialogo che deve instaurarsi tra le parti sociali a livello europeo può giungere a rapporti contrattuali, soprattutto su scala interprofessionale e settoriale. L’articolo 13 stabilisce, inoltre, che il diritto di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive comprende il diritto di sciopero, fatti salvi gli obblighi risultanti dalle regolamentazioni nazionali e dai contratti collettivi. Per favorire la composizione della vertenza di lavoro occorre incoraggiare, conformemente alle prassi nazionali, l’istituzione e l’impiego, ai livelli appropriati di procedure di conciliazione, mediazione e arbitrato. Per l’articolo 14 l’ordinamento giuridico interno degli Stati membri determina a quali condizioni e in quale misura i diritti previsti agli articoli 11, 12 e 13 siano applicabili all’esercito, alla polizia e al pubblico impiego. Secondo gli articoli 17 e 18 occorre sviluppare l’informazione, la consultazione e la partecipazione dei lavoratori secondo modalità adeguate, tenendo conto delle prassi vigenti nei diversi Stati membri. Ciò vale, in particolare, nelle imprese o nei gruppi che hanno stabilimenti o imprese situati in più Stati membri della Comunità europea. L’informazione, la consultazione e la partecipazione devono essere realizzate tempestivamente e in particolare al momento dell’introduzione nelle imprese di mutamenti tecnologici aventi incidenze notevoli per i lavoratori in ordine alle condizioni di lavoro e all’organizzazione dello stesso ed in occasione di ristrutturazioni o fusioni di imprese che incidono sull’occupazione dei lavoratori, in occasione di procedure di licenziamenti collettivi, ed inoltre quando determinate politiche occupazionali seguite dall’impresa hanno ripercussioni sui lavoratori della stessa, in particolare, su quelli transfrontalieri.

 

La Direttiva 94/45/CE

La Direttiva 94/45/CE adottata dal Consiglio il 22 settembre 1994 istituisce nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie un comitato aziendale europeo o una procedura per l’informazione e la consultazione dei lavoratori. Per impresa di dimensioni comunitarie si intende un’impresa che impiega almeno 1000 lavoratori negli Stati membri e almeno 150 lavoratori per Stato membro in almeno due Stati. Per favorire il più possibile il diritto all’informazione e alla consultazione dei lavoratori la suddetta direttiva stabilisce che la procedura per costituire i comitati possa essere iniziata dalla direzione centrale dell’impresa o attraverso una richiesta scritta presentata da almeno 100 lavoratori di almeno due imprese o stabilimenti situati in non meno di due Stati membri diversi.

 

Il diritto di associazione come fondamentale diritto umano

Il diritto di associazione è un diritto sociale di base riconosciuto in vari documenti internazionali quali la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU e l’accordo n. 87 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) sulla Libertà di Associazione. In ambito europeo, in particolare, va rammentato che la Convenzione europea per i diritti umani stabilisce, all’articolo 11, che ogni individuo ha il diritto di libera e pacifica assemblea e il diritto di associarsi con altri, incluso il diritto di formare e aderire a sindacati per la protezione dei propri interessi. Secondo lo stesso articolo nessuna restrizione potrà essere posta all’esercizio di questi diritti se non quelle prescritte dalla legge in casi ben determinati. Quest’articolo non impedisce l’imposizione di restrizioni di legge sull’esercizio di questi diritti per i membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato. A questo proposito la Corte Europea per i Diritti Umani nel 1982 con la sentenza Young, James and Webster v. UK, stabilisce che vi è violazione della Convenzione Europea dei Diritti Umani nel caso in cui dei dipendenti siano licenziati perché si rifiutano di aderire a un determinato sindacato nell’ambito del sistema anglosassone del closed shop. La Corte non solo decreta che il licenziamento è in contrasto con l’art.11 della Convenzione ma sottolinea che la parola “sindacati” (al plurale) contenuta in questo articolo è una chiara dimostrazione della necessità di una pluralità di sindacati all’interno di una impresa.-----

 

Maastricht ed Amsterdam.

L’Accordo sulla politica sociale di Maastricht all’articolo 3 assegna alla Commissione il compito di promuovere il dialogo tra le parti sociali. In base al Protocollo sociale la Commissione è tenuta a consultare le parti sia in via preventiva rispetto all’adozione di una decisione sia in via consultiva dopo che la Commissione ha deciso di prendere l’iniziativa. In quest’ultimo caso le parti sociali consultate presentano un documento con i loro punti di vista e proposte. Per la prima volta si è quindi assistito alla codificazione di una procedura di consultazione delle parti oggetto di una futura normativa comunitaria; da un sistema di consultazione informale ed eventuale si è giunti ad un sistema maggiormente proceduralizzato e trasparente. Inoltre, l’articolo 3 riconosce alle parti il potere di bloccare temporaneamente (nove mesi) l’iniziativa della Commissione attraverso l’iniziativa contrattuale di disciplina delle varie materie oggetto di interessamento da parte della UE. In questo modo è stata privilegiata, sia pur in modo temporaneo, la fonte normativa negoziale rispetto a quella comunitaria. Con il Trattato di Amsterdam del 2/10/97 è stato riformulato il contenuto degli artt.118 A - B - C. In particolare, l’art.118 B stabilisce che il Consiglio, per i casi previsti dallo stesso articolo, possa, di norma, deliberare a maggioranza qualificata. Nell’art. 118 C, a riprova dell’interesse specifico delle CE in materia di contrattazione collettiva, è altresì previsto che la “Commissione incoraggia la cooperazione tra gli Stati membri e facilita il coordinamento della loro azione in tutti i settori della politica sociale contemplati...., in particolare per le materie riguardanti:.......il diritto di associazione e la contrattazione collettiva tra datori di lavoro e lavoratori”.

 

I singoli Stati europei

Passando ad un rapido esame della legislazione vigente nei singoli Stati europei, è necessario far presente l’ esistenza di alcuni elementi che determinano il formarsi di un particolare diritto sindacale: fattori politici (si pensi, specie con riferimento a talune situazioni nazionali
 per esempio l’ Italia - alla particolare matrice ideologica cui è legata la nascita delle diverse formazioni sindacali), fedi religiose (nei Paesi nord-europei è facile trovare sindacati di matrice cattolica contrapposti a quelli protestanti), differenti etnie di provenienza (si pensi al Belgio, dove si presta molta attenzione alla rappresentanza delle comunità fiamminghe e valloni all’interno dei sindacati).

Un ulteriore elemento di differenziazione tra i diritti sindacali dei paesi europei è quello riguardante l’efficacia dei contratti collettivi di lavoro. Da una parte abbiamo Paesi che riconoscono agli accordi collettivi di lavoro stipulati con i sindacati un’efficacia erga omnes. In questi Stati la trattativa per il rinnovo del contratto viene solitamente portata avanti solo da alcuni sindacati “maggiormente rappresentativi” e non vi è alcun obbligo per il datore di lavoro di intraprendere trattative con i sindacati minori. Per contro vi sono Stati come la Svezia, la Francia, il Portogallo, la Spagna, la Grecia in cui i datori di lavoro sono obbligati a intraprendere trattative con tutti i rappresentanti dei lavoratori. In questi Stati, generalmente, gli accordi conclusi da un sindacato valgono solamente per gli iscritti.

 

La Svezia

In Svezia, in particolare, i datori di lavoro sono obbligati a iniziare una trattativa quando i lavoratori lo richiedano. Secondo gli articoli 10 e seguenti della Legge di riforma del 1977 i datori di lavoro devono negoziare con i sindacati quando vogliono effettuare importanti modifiche alla loro attività o all’impresa, vogliono modificare le condizioni di lavoro o vogliono impiegare dei lavoratori che non appartengono ad un sindacato con cui l’imprenditore è vincolato da un contratto collettivo, oppure vi è una specifica richiesta di un sindacato. I sindacati svedesi presenti nelle singole aziende, inoltre, possono trasferire i poteri di contrattazione ai loro corrispettivi nazionali se ritengono necessaria un’azione più incisiva nei confronti del datore di lavoro.

 

La Spagna e la Repubblica Federale Tedesca

In Spagna, dove il diritto del lavoro trova protezione sia a livello costituzionale (artt. 7, 28, 127, 131 cost.) che nello Estatuto de los Trabajadores e nella Legge Organica (Costituzionale) 11/1985 in materia di sindacati, gli organi di rappresentanza dei lavoratori sono i delegati del personale eletti da tutti i lavoratori nelle imprese con meno di cinquanta lavoratori (c’è bisogno di un minimo di dieci lavoratori per eleggere i delegati del personale. Nelle imprese con almeno sei lavoratori per poter eleggere un delegato del personale è necessario il voto favorevole della maggioranza dei lavoratori), i comitati di impresa (possono essere congiunti se l’impresa ha più fabbriche all’interno della stessa provincia). Il numero dei membri dei comitati di impresa è direttamente proporzionale al numero dei lavoratori impiegati ed è eletto da tutti i lavoratori. Le elezioni sono indette dalle organizzazioni sindacali più rappresentative, dai sindacati che rappresentano almeno il 10% dei lavoratori nell’impresa o dalla maggioranza di tutti i lavoratori. Le assemblee dei lavoratori possono essere richieste dai delegati del personale, dai comitati d’impresa o dal 33% dei lavoratori. Il centro di riunione è il luogo di lavoro. I delegati del personale e i membri dei comitati d’impresa godono delle seguenti garanzie: in caso di presunta colpa grave si aprirà un contraddittorio a cui parteciperanno anche gli altri delegati o i membri del comitato d’impresa, hanno priorità nel rimanere nell’azienda in caso di licenziamenti, immunità da “ritorsioni” durante il mandato e per l’anno successivo (tranne casi particolari), libertà di espressione e diritto di distribuire pubblicazioni riguardanti problematiche del lavoro, diritto ai permessi sindacali.

Al momento del rinnovo del contratto di lavoro sono legittimati a negoziare con i datori:

1) nell’ambito della singola impresa o a livello inferiore: il comitato d’impresa, i delegati del personale, i sindacati.

2) nei contratti di ambito superiore i sindacati maggiormente rappresentativi a livello statale e negli ambiti minori le rappresentanze sindacali a loro collegate, i sindacati maggiormente rappresentativi a livello di Comunità Autonoma per i contratti con effetto su quel territorio, i sindacati che hanno almeno il 10% dei membri dei comitati di impresa o dei delegati del personale.

In base all’articolo 8 della Legge Organica i lavoratori iscritti ad un sindacato, nell’ambito dell’impresa o del luogo di lavoro, possono costituire Sezioni Sindacali in conformità a quanto stabilito dallo statuto del sindacato, tenere riunioni, previa notifica all’imprenditore, raccogliere le quote sindacali, fornire informazioni ai sindacati, al di fuori delle ore di lavoro e senza turbare la normale attività dell’azienda, ricevere l’informazione che invia loro il proprio sindacato. Fermo restando quanto stabilito dal contratto collettivo, le Sezioni Sindacali dei sindacati maggiormente rappresentativi e di quelli rappresentati nei comitati di impresa e negli organismi rappresentativi stabiliti nelle Amministrazioni pubbliche, o che abbiano delegati del personale, hanno i seguenti diritti: diffondere informazioni che possano interessare gli iscritti al sindacato e i lavoratori in genere (l’azienda metterà a disposizione una bacheca sul luogo di lavoro e situata in modo da garantire un adeguato accesso alla stessa da parte dei lavoratori), partecipare alla contrattazione collettiva, con le modalità indicate nella specifica legislazione, disporre di un locale adeguato nel quale svolgere le proprie attività, nelle aziende o luoghi di lavoro con più di 250 lavoratori.

La maggior rappresentatività sindacale, riconosciuta a determinati sindacati, conferisce a questi una posizione giuridica singolare agli effetti tanto della partecipazione a livello istituzionale quanto dell’azione sindacale. I sindacati maggiormente rappresentativi a livello nazionale sono quelli che hanno una particolare diffusione (almeno il 10% dei delegati del personale) dei membri dei Comitati di impresa e dei corrispettivi organismi delle amministrazioni pubbliche ed i sindacati e gli enti sindacali aderenti, federati o confederati ad un’organizzazione sindacale di ambito nazionale che sia considerata come maggiormente rappresentativa secondo quanto prima indicato. I sindacati maggiormente rappresentativi hanno capacità rappresentativa a tutti i livelli territoriali e funzionali ai fini di vantare la rappresentanza istituzionale dinanzi alle amministrazioni pubbliche o agli altri enti o organismi statali o di Comunità autonoma, della contrattazione collettiva secondo quanto previsto dallo Statuto dei lavoratori, di intervenire in qualità di interlocutori nella determinazione delle condizioni di lavoro nelle Amministrazioni pubbliche, attraverso le opportune procedure di consultazione e negoziato, di intervenire nei sistemi non giurisdizionali di soluzione delle controversie di lavoro, di indire le elezioni per i delegati del personale e i Comitati di impresa e per gli organismi corrispondenti nelle Amministrazioni pubbliche, di ottenere la cessione in uso di immobili del patrimonio nazionale, secondo le modalità stabilite dalla legge.

L’ordinamento spagnolo, nel rispetto delle autonomie locali, garantisce la maggior rappresentatività, nell’ambito delle singole Comunità Autonome a quelle organizzazioni sindacali che abbiano una particolare diffusione, espressa attraverso la presenza di almeno il 15% dei delegati del personale e dei rappresentanti dei lavoratori nei Comitati di impresa e nei corrispondenti organismi delle Amministrazioni pubbliche, sempre che abbiano almeno 1500 rappresentanti e che non siano federati o confederati con organizzazioni sindacali di ambito statale. Una serie di diritti analoghi a quelli riconosciuti per i sindacati maggiormente rappresentativi sono garantiti alle organizzazioni sindacali che, pur non essendo qualificate come maggiormente rappresentative, abbiano ottenuto, in un ambito territoriale specifico, almeno il 10% dei delegati del personale e dei membri dei Comitati d’impresa e dei corrispondenti organismi delle Amministrazioni pubbliche.

Il diritto del lavoro spagnolo presenta un particolare e importante istituto in comune con il diritto tedesco. In Spagna, in caso di contratto di lavoro collettivo negoziato in una determinata impresa, il Ministro del Lavoro e della sicurezza sociale può estendere le disposizioni dell’accordo anche in altre imprese dove oggettive difficoltà dovute a circostanze sociali e economiche impediscono il raggiungimento di un accordo. In Spagna il Ministro deve ottenere un preventivo parere di una commissione paritaria formata dai rappresentanti dei datori e dei lavoratori. In Germania, invece, un contratto può essere esteso anche a lavoratori di un’altra azienda attraverso una dichiarazione di applicazione generale compiuta dallo Stato. La dichiarazione di generale applicazione di un contratto collettivo viene compiuta dal Ministro Federale del lavoro e degli Affari Sociali dietro previo specifico avvertimento rivolto alle parti attraverso la pubblicazione di un documento sulla Gazzetta Federale. Perché vi possa essere una dichiarazione di applicazione generale il diritto tedesco prevede la necessità che il contratto collettivo già siglato rappresenti almeno il 50% dei lavoratori e che la dichiarazione sia motivata da un pubblico interesse. L’ordinamento tedesco prevede, inoltre, la possibilità di un arbitrato sotto l’egida statale a richiesta delle parti.

 

Il Belgio

In Belgio i sindacati si devono confrontare con la realtà politica di un Paese in cui le due etnie maggioritarie desiderano mantenere la propria identità all’interno di qualsiasi organismo o istituzione. Per questo motivo i membri del sindacato eleggono direttamente o indirettamente (a seconda dello Statuto del sindacato cui appartengono), i membri delle sezioni di impresa e delle sezioni professionali locali, i comitati regionali, speciali organismi regionali e interregionali che garantiscono all’interno della confederazione nazionale una partecipazione dei fiamminghi e dei valloni proporzionale alla loro consistenza numerica. In Belgio, la rappresentanza e la partecipazione dei lavoratori alla vita dell’azienda è garantita dai consigli di impresa (nelle imprese con almeno 100 lavoratori) eletti da tutti i lavoratori, con funzioni principalmente consultive, dai comitati di sicurezza, d’igiene e di controllo sull’applicazione delle leggi sul lavoro (nelle aziende con almeno 50 dipendenti), dalle delegazioni sindacali con compiti di rivendicazione e negoziazione con il datore di lavoro. Le Commissioni paritarie, formate da rappresentanti dei datori e dei lavoratori, hanno il compito di definire gli accordi collettivi di lavoro per le imprese in esse rappresentate ed il Consiglio nazionale del lavoro, infine, stipula i contratti collettivi di lavoro che si applicano alla totalità dei settori d’attività.

 

Il Portogallo

In Portogallo le Commissioni interne (organi di primo grado per la partecipazione dei lavoratori alla vita dell’azienda) devono, per legge, essere consultate in caso di licenziamenti individuali e collettivi, di sospensione del contratto di lavoro , di riduzione del periodo normale del lavoro e per la approvazione del bilancio aziendale.

 

La Francia

In Francia la negoziazione dei testi contrattuali può aver luogo a livello intercategoriale, di settore e di impresa. Indipendentemente dal livello della contrattazione soltanto le organizzazioni sindacali rappresentative hanno la facoltà di negoziare. Le organizzazioni sindacali possono dirsi rappresentative quando sono affiliate a una delle cinque confederazioni nazionali riconosciute (CFDT, CFTC, CGC-FE, CGT, CGT-FO) o quando abbiano dimostrato di essere rappresentative al livello cui ha luogo la contrattazione. Nel modello francese, nelle imprese con almeno 50 dipendenti esistono i delegati sindacali con compiti di negoziazione con il datore di lavoro e i comitati d’impresa con quelli di controllo sull’applicazione dei contratti. Nelle aziende con almeno 11 lavoratori operano i delegati del personale con scopi analoghi a quelli dei comitati d’impresa.

 

Il Regno Unito

Nel Regno Unito, dove sta lentamente declinando il sistema del closed shop, si registra una crescente tendenza verso accordi singoli tra datori di lavoro e lavoratori. Il governo britannico applica una politica attraverso cui la definizione dei contratti collettivi è lasciata alla volontà delle parti interessate. Sempre meno lavoratori hanno la retribuzione determinata dalle tariffe nazionali, nel 1992 solo il 34% dei lavoratori aveva il salario stabilito da un accordo collettivo di lavoro. Rispetto a dieci anni prima si è assistito ad una diminuzione di circa il 14%. L’azionariato operaio e la partecipazione ai profitti legata alla produttività dei lavoratori si sta diffondendo velocemente. Oggi più del 50% delle imprese con almeno 25 dipendenti utilizzano queste particolari forme di retribuzione. Nel Regno Unito, inoltre, accanto ai rappresentanti dei sindacati shop-steward vi sono dei rappresentanti di tutti i lavoratori (sistema della joint consultation) con compiti di controllo e informazione all’interno dell’azienda.

 

Gli USA

Negli USA la contrattazione avviene per larga parte a livello di singola industria. Il sindacato che attraverso una votazione (a voto non palese) si è assicurato il favore della maggioranza dei lavoratori all’interno di un’unità produttiva, acquista il diritto esclusivo di rappresentare tutti i lavoratori di quell’impresa. E’ questo il sistema dei closed shop presente anche nel Regno Unito. Il datore di lavoro non può, per legge, negoziare con qualsiasi altro sindacato che non sia quello di maggioranza. Il sindacato dell’unità produttiva può comunque delegare il suo referente nazionale a contrattare con il datore di lavoro.

Il National Labor Relations Act garantisce ai lavoratori il diritto di indire scioperi pacifici. Talvolta uno sciopero è indetto dopo una votazione tra i lavoratori, altre volte è il sindacato nazionale che ordina direttamente lo sciopero. L’arbitrato volontario è molto diffuso per risolvere le controversie del lavoro. Secondo la US Supreme Court l’arbitrato del lavoro è la via alternativa allo sciopero.-----

 

Le ex-colonie e i Paesi che hanno avuto palesi influenze occidentali

In molti Paesi extraeuropei il passato storico politico di ogni singolo Stato ha influito sulla nascita e lo sviluppo del diritto sindacale. E’ il caso di tutti quei Paesi che, usciti dal colonialismo europeo, hanno elaborato un proprio diritto sulla base delle leggi dei colonizzatori. Talvolta questi Paesi (come la Nuova Zelanda) sono stati in grado di evolvere il diritto fino a superare la stessa madrepatria, altre volte vi è stato un mero adattamento alla situazione locale. Nell’America Latina il sindacalismo di stampo spagnolo ha subito, in teoria, palesi influenze della dottrina marxista; in realtà, molti evoluti principi costituzionali sono tuttora scarsamente applicati o sono divenuti mere formule per dimostrare la presunta democraticità dello Stato.

 

Il Giappone

Secondo l’art.6 della Trade Union Law i sindacati giapponesi hanno il potere di negoziare solo in rappresentanza dei loro associati. Nell’ordinamento giuridico nipponico esiste, oltre alla normale contrattazione compiuta dai sindacati, la possibilità del Mass Bargaining. In quest’ultimo caso, se non è stato designato un comitato di contrattazione o anche se quest’ultimo è stato regolarmente costituito, molti lavoratori partecipano direttamente alla negoziazione sedendo al tavolo delle trattative. Vi sono livelli di contrattazione limitati all’impresa (il più diffuso) e al reparto di lavoro (all’interno di una fabbrica). Il sindacato locale ha la facoltà di rimettere la contrattazione al sindacato nazionale di cui è parte (è il cosiddetto “trasferimento dei tre poteri”: negoziare, accordarsi, scioperare). In questo modo il potere contrattuale dei lavoratori si accresce. Dal 1955 a oggi i sindacati giapponesi cominciano le loro campagne per il rinnovo dei contratti durante lo Shunto (Spring Wage Offensive), periodo particolare dell’anno che va da marzo ad aprile. Secondo la Trade Union Law ogni sindacato minoritario ha il diritto di contrattare per i suoi iscritti e può essere una delle parti del contratto collettivo. Un datore di lavoro non può rifiutare di negoziare con un sindacato di minoranza se questo è legalmente costituito. Il datore, inoltre, deve negoziare anche in caso abbia iniziato le trattative con un altro sindacato. Anche i lavoratori che non sono iscritti ad alcun sindacato hanno il diritto di negoziare collettivamente con i datori di lavoro. I datori che si rifiutano di negoziare con un sindacato o un gruppo di lavoratori sono soggetti a sanzioni amministrative e l’Alta Corte di Tokyo ha riconosciuto il diritto ai danni civili da liquidarsi a favore dei lavoratori in sede di Tribunale civile. L’art.28 della costituzione, inoltre, assicura l’immunità per discorsi e comportamenti tenuti durante la fase pre-negoziale e negoziale. I lavoratori hanno il diritto di sciopero, le ore di sciopero sono trattenute dalla busta paga e il datore può rifiutarsi, attraverso la serrata, di accettare la disponibilità a lavorare di una parte non scioperante dei lavoratori se ritiene che lo sciopero abbia bloccato settori vitali per il funzionamento della sua azienda. In Giappone, infine, vige il principio dell’ ”Obbligo alla pace”. Nel periodo di validità del contratto le parti non possono iniziare una controversia che abbia ad oggetto il contratto stesso.

 

La Nuova Zelanda

Con l’Employment Act del 1991 è stato accordato ai lavoratori neozelandesi il diritto di aderire volontariamente ad un sindacato e il diritto di scegliere se farsi e chi li deve rappresentare nelle controversie con i datori di lavoro. Al contrario di quanto avviene in questi anni nel Regno Unito, il legislatore neozelandese ha cercato, attraverso questa legge, di evitare che i datori firmino separati accordi per il contratto di lavoro con ognuno dei loro dipendenti (anche se è ancora legittimo stipulare accordi separati con ognuno dei propri dipendenti). Le regole per la contrattazione sono negoziate tra i datori e i lavoratori. In particolare: ogni datore ha un contratto di lavoro, sia esso individuale o collettivo, con ogni lavoratore; i datori e i lavoratori hanno il diritto di farsi rappresentare durante le trattative contrattuali da una persona, da un gruppo o da un’organizzazione da loro scelti. I lavoratori devono ratificare il contratto collettivo negoziato con l’altra parte. I rappresentanti autorizzati hanno il diritto di accedere, ad ore ragionevoli, al luogo di lavoro per portare avanti il loro compito di negoziazione. Gli scioperi indetti quando il contratto di lavoro è scaduto e non è ancora stato rinnovato sono ritenuti legali. Sono, invece, ritenuti illegali gli scioperi indetti durante il periodo in cui il contratto è ancora valido o per cercare di risolvere una controversia di interpretazione sorta sul contratto stesso. E’ inoltre vietato lo sciopero per i lavoratori dei servizi cosiddetti essenziali. La legislazione accorda determinati poteri ai datori di lavoro che possono, in alcuni casi, far sospendere lo sciopero rivolgendosi alla Corte del lavoro.

In Nuova Zelanda il contratto di lavoro può essere singolo o collettivo. I contratti collettivi vincolano solo i lavoratori che accettano di esservi inclusi. Le parti possono accordarsi affinché il contratto una volta stipulato rimanga “aperto” all’adesione di ogni lavoratore che decida in seguito di farne parte. I contratti di lavoro devono contenere delle disposizioni per agevolare la soluzione di eventuali controversie che dovessero insorgere riguardo la loro applicazione o interpretazione. Il Minimum Code of Employment contiene i requisiti minimi di un contratto di lavoro.

 

L’India

In India il diritto sindacale è garantito a livello costituzionale. Il governo ha il potere di riconoscere le associazioni. Dopo aver ottenuto il riconoscimento governativo il sindacato deve ottenere il riconoscimento del Commissario del Lavoro prima di poter rappresentare i lavoratori durante il rinnovo del contratto. La domanda per questo riconoscimento può essere inoltrata solo dopo due anni dalla nascita dell’associazione sindacale e il Commissario del Lavoro gode di assoluta discrezionalità nel prendere la decisione. I pubblici dipendenti non possono prender parte ad alcuna associazione non riconosciuta dal governo. Questo sistema limita la libertà dei cittadini ed è stato sottoposto a severe critiche negli anni passati. Il Bombay Act stabilisce che un sindacato “maggiormente rappresentativo” può rappresentare tutti i lavoratori di un’industria o di un area geografica nei rapporti con il datore di lavoro. Per essere “maggiormente rappresentativo” un sindacato deve poter rappresentare almeno il 15% di tutti i lavoratori di un’industria o di un’area geografica. La Corte Costituzionale ha dichiarato il Bombay Act non contrario al diritto di associazione dei lavoratori.

 

L’Argentina

In Argentina i datori di lavoro hanno piena libertà di chiamare al tavolo delle trattative i sindacati che preferiscono. In questo modo la CGT (sindacato peronista) negli ultimi anni ha potuto intraprendere una politica accomodante nei confronti dei datori di lavoro per appoggiare la linea liberista del governo Menem. Ad esempio i pubblici dipendenti hanno subito un taglio del 20% ai propri salari per cercare di contenere l’inflazione. La politica liberista e la lotta all’inflazione hanno provocato un aumento della disoccupazione (17,1%) e sono nati nuovi sindacati di centro-sinistra che hanno cominciato una politica di opposizione sociale al governo. I sindacati della sinistra hanno un grande seguito solo in alcuni settori (per esempio, i trasporti) e solo in alcuni casi (dove non sarebbe possibile raggiungere un accordo altrimenti) vengono chiamati a partecipare alle trattative per il rinnovo del contratto di lavoro. I sindacati compreso quello peronista hanno indetto degli scioperi e l’8 agosto 1996. C’è stato il primo sciopero generale a cui hanno aderito tutti i sindacati. Il governo Menem ha risentito politicamente degli effetti dello sciopero. Dopo alcune ulteriori forme di protesta molto eclatanti dei sindacati di sinistra (black-out nazionale), la CGT, nel settembre 1996, ha indetto uno sciopero generale.

 

La Bolivia

La Costituzione boliviana garantisce, quantomeno sulla carta, l’esistenza di associazioni sindacali (sia dei lavoratori che dei datori). Il Sindacato deve rappresentare, assistere e elevare la cultura e l’educazione dei lavoratori. Le disposizioni in favore dei sindacati stabiliscono che i rappresentanti sindacali, nell’esercizio delle proprie funzioni, non possano essere perseguitati né imprigionati. La Costituzione stabilisce la necessità di un intervento statale per garantire il diritto del lavoro che costituisce la base dell’ordine sociale e economico. In particolare viene accordata protezione ai contratti individuali e collettivi di lavoro, all’ammontare del salario minimo, alla durata massima della giornata lavorativa (che per il codice del lavoro non può superare le 48 ore lavorative settimanali per gli uomini e le 40 per le donne). Vengono garantiti, a livello costituzionale, anche il diritto ad un giorno di riposo settimanale, ad un periodo di ferie, alla partecipazione agli utili dell’impresa dove il lavoratore presta la propria opera, ai cosiddetti benefici sociali.

 

La Svizzera

Un discorso particolare merita la Svizzera, Paese in cui lo Stato non ha facoltà di intervenire nelle questioni tra datori e lavoratori. Dopo la prima guerra mondiale la Svizzera visse un periodo di instabilità sociale causata dalle difficoltà economiche. Il pericolo dell’inasprirsi delle crisi sociali portò alla stipulazione di un accordo denominato “La pace del lavoro” (1937) in cui si stabilisce che i datori di lavoro e i lavoratori cercheranno, in futuro, di raggiungere accordi non ricorrendo a forme di lotta ma attraverso un confronto pacato. Questo sistema di soluzione delle controversie del lavoro fondato sul negoziato diretto (a livello locale), senza alcun intervento da parte dello Stato, ha funzionato fino ad oggi anche se cominciano a delinearsi dei cedimenti. E’ sempre più difficile, infatti, giungere ad una soluzione pacifica tra datori e i sindacati che rappresentano i lavoratori. Il raggiungimento di un accordo all’interno di una fabbrica dipende, in buona parte dalla buona volontà dell’imprenditore (paternalismo).

 

 

3. Sindacati, contrattazione collettiva e legislazione dell’ emergenza

 

Con la legislazione della crisi (1977-83) e successivamente con la legislazione sul mercato del lavoro (1984-94) si rileva un vasto fenomeno di “delegificazione” per rinvio al sistema sindacale attraverso la delega ai contratti collettivi (o anche ad organi amministrativi, nei quali però si prolungano le relazioni negoziali, dato che l’accordo tra i rappresentanti delle parti sociali è condizione sufficiente per deliberare a maggioranza come peraltro avviene nelle commissioni regionali per l’impiego). Le politiche dell’occupazione degli anni ‘80 trovano nella rete di relazioni negoziali tra sindacati e imprenditori un loro fondamentale snodo in termini tecnico-politico. La legislazione più recente sul mercato del lavoro offre esempi diversificati di integrazione della contrattazione collettiva nella elaborazione politica statuale: dai contratti di solidarietà, ai contratti di formazione, alla cassa integrazione guadagni, ai contratti a termine, fino alla mobilità. La partecipazione istituzionale dei sindacati maggiormente rappresentativi a funzioni pubbliche risulta quindi da riferimenti normativi assai numerosi. Tali ultimi riguardano sia il formale inserimento di rappresentanti sindacali in organi collegiali pubblici, sia la partecipazione esterna a carattere consultivo di sindacati all’attività decisionale di organismi pubblici, sia la delega legislativa al sindacato del potere di regolamentazione di determinati istituti giuslavoristici sia il potere di introdurre deroghe alla disciplina legale.

La legge 19/12/1986 n.936 disciplina la partecipazione sindacale alla composizione ed all’attività del CNEL prevista dall’art. 99 Cost. Il citato organismo ha funzioni di consulenza delle camere e del governo, è dotato di poteri di iniziativa legislativa ed è formato da “esperti e da rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa”. L’art.4 della legge n.936 dell’86 di riforma del CNEL fa riferimento, per la composizione dell’organo all’organizzazione sindacale maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Il legislatore indica espressamente i seguenti indici di rappresentatività: l’ampiezza e la diffusione delle strutture organizzative, la consistenza numerica, la partecipazione alla formazione e alla stipulazione dei contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro. Compiti obbligatori del CNEL sono la formulazione di valutazioni e proposte sulla congiuntura economica e sulle politiche comunitarie, la periodica presentazione alle camere e al governo di rapporti sugli andamenti generali di settore e locali del mercato del lavoro, sugli assetti normativi e retributivi espressi dalla contrattazione collettiva. In realtà il ricorso alla funzione di consulenza del CNEL è stato assai modesto. Governo e parlamento hanno preferito ricorrere ad accordi trilateri neocorporativi fra governo, associazioni dei datori di lavoro e associazioni dei lavoratori, frequentissime sono anche le vicende di legislazione contrattata.

L’art.47, comma III, della legge 29/12/1990 n.428 riconosce l’interesse collettivo coinvolto nella vicenda modificativa e costitutiva del trasferimento d’azienda. Si tratta di un riconoscimento di precisi obblighi di informazione e consultazione che introducono una proceduralizzazione dei meccanismi decisionali dell’imprenditore alienante, di quello acquirente con l’intervento dei sindacati maggiormente rappresentativi. Stabilisce il primo comma dell’art.2112 del codice civile che in caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con l’acquirente ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano; l’art.47 della legge 428/90 prevede in tali casi la necessità della consultazione sindacale, ovvero delle associazioni maggiormente rappresentative.

Con la legge 223/91 si assiste ad un processo che si basa fondamentalmente sulla distinzione delle funzioni degli istituti: Cassa Integrazione Guadagni per risolvere problemi aziendali gravi ma superabili e messa in mobilità, e cioè i licenziamenti, quanto questi problemi si fossero subito mostrati irresolubili o difficilmente risolvibili. Si tende in tal modo a due risultati: da una parte riaprire la possibilità di licenziamenti facili e numerosi, dall’altra sdrammatizzare i licenziamenti mediante una mobilità esterna al rapporto di lavoro. La legge riserva ai sindacati maggiormente rappresentativi il compito di partecipare alla determinazione dei criteri di scelta del personale da collocare in mobilità.

Con la conversione in legge del d.l. 30 ottobre 1984 n.726 viene stabilmente introdotto nel vigente ordinamento il contratti di solidarietà recepito e proposto con l’accordo 22 gennaio ’83 sul costo del lavoro. I contratti di solidarietà tipizzati nella legge sono di due diverse fattispecie, hanno in comune la caratteristica di prevedere una riduzione dell’orario di lavoro mentre si diversificano profondamente per quanto attiene alla finalità perseguite. I contratti del primo tipo vengono definiti “difensivi” in quanto finalizzati ad una difesa dei livelli occupazionali in alto, mirando a distribuire su un maggior numero di lavoratori i sacrifici connessi ad una situazione di esubero organico, e hanno quindi lo scopo di evitare l’espulsione di alcuni dipendenti dal processo produttivo, mediante la distribuzione su larga parte dei lavoratori della riduzione del lavoro. La riduzione dell’orario di lavoro comporta la conseguente riduzione di retribuzione. Compito dei sindacati maggiormente rappresentativi è quello di partecipe attivo nella formazione di tali contratti e quindi dei processi di ristrutturazione. I contratti di solidarietà assumono la veste di accordi collettivi aziendali, alla cui stipulazione sono legittimati solo i sindacati aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative. sul piano nazionale. La formula utilizzata sembrerebbe escludere una legittimazione a stipulare dei (soli) organismi sindacali (RSA). Si può affermare però che il consenso delle RSA costituisce un presupposto di fatto generalmente indispensabile, mentre non è necessario, né sufficiente perché si verifichi la fattispecie tipica prevista dalla legge. I contratti di solidarietà “espansivi” tendono ad un incremento del numero degli occupati e della quantità di ore lavorate. Lo schema di questi contratti di solidarietà è piuttosto complesso: viene concordata una riduzione dell’orario di lavoro e viene contestualmente prevista l’assunzione di nuovo personale. L’intervento dello stato diretto ad incentivare la stipulazione di detti contratti consiste nella concessione alle aziende di un contributo a carico della gestione dell’assicurazione per la disoccupazione involontaria. Le assunzioni devono essere a tempo indeterminato con richiesta nominativa (scardinandosi in questo modo la disciplina del collocamento). I contratti di solidarietà si collocano nella tendenza volta ad attribuire alla contrattazione collettiva un ruolo derogatorio nei confronti di limiti o vincoli previsti da disposizioni di leggi non derogabili mediante accordi individuali.

Nell’impianto normativo della legge 230/62 si istituisce un rapporto regola (lavoro a tempo pieno) - eccezione (lavoro a tempo definito). Tale schema, costantemente eroso dalla legislazione a cavallo degli anni ’80, tende a dissolversi per effetto dell’affermarsi delle ipotesi a tempo “contrattato” (attraverso la legge 56/87) a favore di una tendenziale fungibilità tra contratti a tempo pieno e a tempo definito. In base alle ipotesi tassativamente determinate dalla legge n.230/62 il contratto a termine poteva servire ad integrare in via straordinaria l’organico aziendale. La legislazione successiva ha moltiplicato le possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro.

L’art.23 della legge 56/87 traccia una linea importante: contratti a termine leciti divengono quelli autorizzati dalla contrattazione collettiva; agenti contrattuali sono i sindacati nazionali, il legislatore fa riferimento esplicitamente ai “contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.

Alla vicenda dei contratti a termine è strettamente legata o collegata quella di contratti di formazione lavoro, introdotti dall’art.3 della legge n.836 del 1984, con flessibilità per le imprese e creazione di occupazione precaria con impiego delle risorse pubbliche. Da ultimo con la legge 489 del ’94 il regime delle incentivazioni è approdato anche sul versante tributario.

 

-----

4. Effetti del referendum del giugno 1995.

 

Affrontando il problema dell’ammissione alle trattative per i sindacati maggiormente rappresentativi, bisogna soffermarsi sul concetto di maggiore rappresentatività così come si è venuto a definire dopo i referendum del giugno 1995. Il referendum ha abrogato la lettera A) dell’art.19 dello statuto, escludendo il criterio della maggiore rappresentatività per la formazione di R.S.A., e ha lasciato come unico requisito per la formazione di queste l’essere costituite nell’ambito di sindacati firmatari di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva.

Il concetto di maggiore rappresentatività comunque è andato mutando nel corso degli anni, attraverso varie pronunzie giurisprudenziali. Inizialmente si voleva privilegiare i sindacati confederali e nazionali, che si pensava avessero da una parte il consenso della maggior parte dei lavoratori e dall’altra fossero comunque ritenuti affidabili dalle controparti datoriali; affidabilità che si rafforzava con il sempre maggiore riconoscimento del ruolo istituzionale che andavano acquisendo. Secondo parte della dottrina, gli indici elaborati dalla giurisprudenza, per stabilire la rappresentatività di un sindacato (intercategorialità, pluricategorialità, nazionalità) in realtà non servono a misurare la rappresentanza effettiva delle organizzazioni sindacali, ma a verificare soprattutto l’esistenza del requisito confederale delle stesse. Comunque la Corte Costituzionale con la sentenza n. 54/74 ha precisato che il criterio di m.r. può essere raggiunto da qualsiasi formazione politica: queste interpretazioni giurisprudenziali e soprattutto l’entrata in crisi della politica unitaria delle tre confederazioni maggiori, portarono all’incrinarsi della “diga” della m.r.. Con la crescita sempre maggiore di nuove realtà sindacali, numerosi giudici del lavoro presero atto che molte di queste formazioni ormai rispondevano ai criteri di m.r., togliendo così il monopolio alla “triplice”.

Uno dei parametri più significativi dovuto alla giurisprudenza di legittimità è quello “dell’attività di autotutela condotta con continuità, sistematicità ed equilibrata diffusione” per provare il quale erano sufficienti la sottoscrizione per adesione dei contratti collettivi, il consistente numero degli affiliati o il ricorso ad azioni di tutela e di lotta sindacale. Quindi dagli anni ‘80, diverse formazioni sindacali extraconfederali si videro riconoscere la possibilità di accedere alla legislazione di sostegno, prevista dal Titolo III dello statuto dei lavoratori, poichè ritenute in possesso dei requisiti necessari. Dopo il voto referendario si è posto il problema se il concetto di m.r. fosse stato completamente cancellato, lasciando come unico criterio di selezione la firma di un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva. Nel precedente numero abbiamo richiamato la sentenza della Corte Costituzionale del dicembre 1995 n. 492, che ha ribadito l’importanza del concetto di m.r. . Ma da quando si è cominciata ad attuare la nuova disciplina dell’art.19, c’è stata una netta prevalenza dell’interpretazione restrittiva. Questo ha fatto si che molte R.S.A., costituitesi prima del referendum, fossero disconosciute dalle aziende. Dopo la richiamata evoluzione giurisprudenziali, essendosi formate numerose R.S.A. non controllate dai sindacati confederali, la nuova formulazione dell’art.19 è stata vista come un’ottima possibilità di “ricostruire la diga”.

 

Il potere di accreditamento del datore di lavoro

Le perplessità più forti sollevate dalla nuova formulazione dell’art.19 riguardano il potere di accreditamento attribuito alle parti datoriali nei confronti delle organizzazioni sindacali. Visto che ora l’unico criterio certo per la formazione di R.S.A. è l’aver negoziato e firmato un contratto collettivo applicato in azienda, la parte padronale, potendo scegliere con chi stare al tavolo delle trattative, implicitamente sarà decisiva nell’attribuire patenti di m.r. a un’organizzazione piuttosto che ad un’altra. L’accesso alla legislazione di sostegno non è più fondato su valutazioni degli indici di m.r. da parte di un giudice neutrale, ma al contrario la stessa possibilità di reale esistenza all’interno dell’unità produttiva è diventata oggetto della contrattazione. Non ci vuole molto a capire a che tipo di disparità, soprattutto nelle aziende più piccole, possa portare una disciplina tutta basata sui rapporti di forza esistenti nello specifico contesto aziendale. La dottrina dominante non sembra condividere le preoccupazioni di chi vede un pericoloso sbilanciamento tra le parti, tutto a favore dell’imprenditore, nei casi in cui un sindacato può ottenere la sua legittimazione solo attraverso la sottoscrizione di un contratto aziendale. Anzi viene esaltato il libero gioco tra le parti.

 

I dubbi di costituzionalità della nuova disciplina dell’art.19 e la sentenza n. 244/1996 della Corte Costituzionale.

Alcuni Pretori hanno ritenuto che il nuovo testo dell’art.19 potesse essere anticostituzionale. Per il Pretore di Milano esiste una netta discrepanza tra il nuovo art.19 e quanto affermato con la sentenza n. 30 del 1990, con la quale la Corte Costituzionale ribadiva il necessario completarsi dei due requisiti per avere un modello conforme alla Costituzione e che un eventuale correttivo legislativo, non potesse essere certo trovato nell’espansione del potere di accreditamento del datore di lavoro. Quindi considera intaccata la libertà sindacale alla luce dell’art.39 Cost., in quanto “un sindacato, per essere veramente libero e per poter svolgere la sua funzione non deve essere gravato dalla necessità di stipulare accordi e di ricercare un consenso non solo dei lavoratori, ma anche dei datori di lavoro”. Per dare risposta ai quesiti posti dai Pretori, la Corte Costituzionale con la sentenza del luglio 1996, n. 244, ha affermato che la questione della costituzionalità del nuovo testo dell’art.19 è priva di fondamento e ha negato, in contrasto con altre precedenti pronunzie, che con la nuova normativa si priverebbe il sindacato dell’autonomia del proprio riconoscimento. Non c’è per la Corte violazione dell’art.39 Cost., in quanto le norme di sostegno all’attività sindacale, sono qualcosa di diverso dalle norme sulla libertà sindacale (garantita dall’art.14 dello statuto); per accedere ad esse sono leciti “criteri scelti discrezionalmente nei limiti della razionalità”.

 

 

5. Le proposte di riforma

 

Delle implicazioni derivanti dalla richiamata pronunzia della Corte e della inderogabile necessità di un intervento legislativo abbiamo già parlato nel precedente numero di Proteo. Vogliamo soltanto richiamare l’esistenza nelle passate legislature di proposte e disegni di legge in materia di rappresentanza sindacale. Tra esse giova richiamare la proposta del deputato Ghezzi del Partito Democratico della Sinistra, che contiene la definizione di Sindacati nazionali rappresentativi sia nel settore privato che nel pubblico impiego (lo sono quei sindacati che abbiano ricevuto adesioni complessivamente superiori al 10% dei votanti nelle elezioni delle rappresentanze sindacali riferite all’intera categoria individuata dal contratto collettivo o riferite all’intero comparto di contrattazione collettiva nel pubblico impiego). Si prevede che rappresentanze sindacali possono essere costituite in ogni impresa (o sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo) che occupi più di 15 dipendenti, come anche in ogni unità amministrativa. Si dettano norme in tema di permessi da ripartire fra le rappresentanze sindacali in proporzione ai voti ricevuti, ripartizione cui partecipano anche le rappresentanze sindacali non aderenti ai sindacati nazionali rappresentativi che abbiano conseguito almeno il 10% dei voti.

Anche significativa è la proposta del Partito della Rifondazione Comunista (Garavini ed altri) per cui sono considerati sindacati nazionali rappresentativi le coalizioni di lavoratori che abbiano ricevuto nelle elezioni dei Consigli Unitari dei Delegati (CUD) l’adesione di almeno il 3% dei votanti nella categoria o nel comparto di contrattazione collettiva, che siano firmatari di contratti nazionali di categoria di accordi sindacali di comparto nel pubblico impiego. Si prevede l’elezione di un CUD in ciascuna unità produttiva o amministrativa senza alcun riferimento ai limiti numerici per quanto riguarda i dipendenti occupati. L’elezione del CUD viene effettuata con il sistema proporzionale e la durata del CUD è prevista in 24 mesi. I diritti precedentemente riconosciuti dalla RSA vengono attribuiti ai lavoratori del CUD. I CUD possono stipulare accordi e contratti collettivi aventi validità per l’insieme dei lavoratori nell’ambito dell’unità lavorativa. Composizione delle delegazioni sindacali che trattano i contratti collettivi nazionali o territoriali : vi partecipano tutti i sindacati rappresentativi che ne facciano richiesta nonché una delegazione eletta dai CUD interessata al contratto.

La proposta della Lega Nord (A. Magri ed altri) prevedeva accanto alle tipologie, di cui all’art.19 Statuto dei lavoratori pre-referendum, delle associazioni che possono costituire RSA, quella delle associazioni sindacali sufficientemente rappresentative a livello regionale o provinciale.

Proposta significativa è quella elaborata dal Forum Diritti Lavoro (Russo Spena ed altri) i cui dati significativi sono stati ripresi nella proposta presentata in questa legislatura dall’On. Giorgio Gardiol e che abbiamo integralmente riportato nella prima parte di questo dossier (n. 1 Proteo). Elemento caratterizzante la proposta è la previsione di rappresentanze unitarie delle lavoratrici e dei lavoratori (R.U.L.L.) e di rappresentanze sindacali di categoria (R.S.U.C.).

La proposta di legge Giugni (P.S.I.) detta criteri per la formazione delle r.s.a. - con modifica dell’art.19 della legge 300/70, prevede la costituzione di rappresentanze unitarie, enuovi criteri di misurazione della maggiore rappresentatività delle confederazioni sindacali e dei sindacati nazionali di categoria.

Prima del referendum sono state avanzate anche alcune proposte di legge di iniziativa popolare (ovvero quella dei consigli unitari dei delegati CGIL - CISL - UIL e quella dello S.L.A.I. - Cobas).