Convegno CESTES PROTEO-ACUNI

Riforma Berlinguer tra innovazione e subalternità economico-culturale

Estratti degli atti del convegno

Di seguito si riporta, per motivi legati alle disponibilità di spazio sulla rivista, soltanto una sintesi degli interventi del Prof. G.Alvaro e del Prof. F.Pitocco, in quanto rappresentando le relazioni introduttive al dibattito delineano i caratteri giuda e i contenuti che CESTES-PROTEO e l’ACUNI hanno, di comune intesa, voluto evidenziare come elementi di analisi critica e di riflessione sulla riforma proposta dal Ministro dell’Università, Ricerca Scientifica e Tecnologica, L. Berlinguer.

Intervento del Prof. G.Alvaro

 

Innanzitutto mi si permetta di esprimere i miei più affettuosi auguri per l’inaugurazione di questo Centro Studi.

Auguri di successi, auguri che nel tempo ampi saranno i dibattiti che si terranno in questa sede sui vari aspetti della vita politica, economica e sociale del Paese.

Un’inaugurazione di un Centro Studi è e deve essere sempre considerata un momento di crescita per tutti noi, perché quando, attraverso la sua attività, alimenta il dibattito, la vita del Centro Studi ha come ultimo effetto quello di stimolare il processo di aggregazione, di partecipazione di ciascuno di noi al consolidamento e alla crescita della democrazia.

Mi si permetta ancora di ricordare che questo Centro Studi viene inaugurato a distanza di qualche mese dalla costituzione di questa nostra associazione ACUNI, che, con la presidenza del Prof. Tecce, abbiamo sentito il bisogno di attivare, in quanto molti di noi avvertivano che si stava e si sta registrando nel Paese un pericoloso calo di tensione nel dibattito relativo alle questioni più delicate della vita del Paese, tra cui lo sviluppo della cultura e l’autonomia dell’Università assumono un ruolo di fondamentale importanza, giacché investono i pilastri su cui si deve reggere lo sviluppo della società.

Dobbiamo vigilare perché vengano assicurate alla cultura e all’Università le più oggettive condizioni di autonomia e di crescita. Misure o comportamenti che possono condizionare l’autonomia della cultura e dell’Università o, in termini più generali, dei luoghi in cui si produce e si diffonde cultura possono determinare motivi di soddisfacimento in chi quei comportamenti persegue e attua al più nella prospettiva del breve periodo. Nel lungo periodo, il condizionamento della cultura e dell’Università non paga, perché si traduce, perché si sostanzia in un condizionamento delle potenzialità di crescita della professionalità.

In questo senso, ogni politica d’intervento nei luoghi in cui si produce cultura è, nel contempo, estremamente complessa e delicata. Complessa, perché definita per innovare, per ammodernare il modo di produrre cultura, per renderla coerente alle esigenze del cambiamento, ogni politica d’intervento dev’essere attuata in modo e termini tali da non rompere con il passato. Se rompe con il passato, se nella produzione di cultura viene a mancare la dimensione della continuità nel tempo, alto è il rischio che la produzione di cultura si traduca in indottrinamento.

In queste condizioni, il risultato ultimo sarà quello di non produrre più sapere critico, ma conoscenze di contenuto nozionistico; di non produrre più professionalità e professionisti ma tecnicalità e tecnici.

Ogni politica d’intervento nei luoghi in cui si produce cultura oltre ad essere complessa è anche estremamente delicata perché, ove generi motivi di tensioni e di distorsione, gli effetti perversi si manifesteranno nel tempo e le conseguenze negative non potranno mai più essere appianate e recuperate.

Poniamoci la domanda: in quale direzione si muovono le decisioni assunte in questi ultimi tempi in ordine allo sviluppo, in ordine alla difesa dell’autonomia della cultura e dell’Università? In quale strategia devono e si possono collocare tali interventi?

Verrebbe in verità voglia di allargare il dibattito e porre questi interrogativi anche con riferimento alle recentissime decisioni di allungare a 16 anni la scuola dell’obbligo. Non intendo farlo per mantenere nei tempi concessimi la durata del mio intervento.

E’ stato evidenziato che in questi ultimi anni è stata prodotta una varietà di documenti volti a definire, ciascuno, linee di intervento ora in uno ora in un altro settore della vita universitaria. Ogni documento appare chiuso in sé, risulta in verità in sé coerente e sembra voler raggiungere come risultato soltanto quello di apportare modifiche limitate ai singoli settori di riferimento.

Se, però, i documenti si mettono l’uno accanto all’altro, si trova che un collegamento tra loro esiste e, anche se le linee di intervento in essi definite sono attuate singolarmente, finiscono nel loro insieme a delineare una Università molto diversa da quella fin qui conosciuta, da quella nella quale oggi ci troviamo ad operare.

Tra i vari documenti prodotti dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica uno è specificamente dedicato all’autonomia didattica nelle Università e in esso sono indicate le linee di intervento che il Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica ritiene valide per garantire l’autonomia universitaria.

Mi pongo subito la domanda: le linee di intervento definite in questo documento risultano in grado di assicurare l’autonomia della didattica universitaria? Sono cioè in grado di condurre nel tempo alla costruzione di una Università in cui risultino semplificati gli attuali, complessi rapporti tra studenti, docenti e istituzione universitaria in modo da rendere più partecipata l’attività dello studente, più diretta e finalizzata quella del docente, meno burocratizzata quella delle strutture universitarie.

Anticipando la conclusione, debbo con franchezza ammettere che, a questi interrogativi, non mi sento di dare risposte positive. E vediamo perché.

Il documento sull’autonomia didattica nelle Università si articola in tre punti: a) filosofia degli interventi; b) principi organizzativi generali; c) principali linee di intervento.

Secondo il documento fornito dal Ministero dell’Università, il grado di complessità raggiunto nel nostro sistema accademico è tale da rendere improponibile una proposta di riforma organica. Di qui, nella scelta degli interventi, la necessità di seguire “la strada di una pluralità di interventi-strumenti parziali, da attivare contestualmente in funzione di obiettivi determinati, comunque riconducibili a un disegno generale di riforma...(mediante) l’adozione di una strategia a mosaico, che punta ad accrescere ulteriormente l’autonomia con l’obiettivo di ampliare la possibilità di azioni delle forze innovative”.

Mi domando: come si fa ad ammettere che il grado di complessità raggiunto dal nostro sistema accademico è tale da rendere improponibile una proposta di riforma organica e nel contempo ammettere che la scelta della pluralità degli interventi, che viene effettuata mediante una strategia a mosaico, risulti nei fatti riconducibile ad un disegno generale di riforma? Personalmente ritengo che, per poterla definire strategia di intervento a mosaico, occorra conoscere il mosaico che si vuole costruire; occorra cioè conoscere il disegno dell’Università che si vuole realizzare.

Esiste questo disegno generale? In termini espliciti e ufficiali, no.

Ed è proprio la mancanza di questo disegno organico di riforma unitamente alla scelta effettuata dalla Commissione che ha elaborato il documento sull’autonomia didattica nelle Università, scelta che è stata quella di proporre un insieme di interventi, individuati adottando una strategia a mosaico, che deve spingerci ad essere molto attenti sulle singole proposte di intervento per cercare di capire la portata delle loro conseguenze sul piano operativo.

Dobbiamo essere molto attenti e vigili se vogliamo evitare che gli interventi proposti, definiti al di fuori di un esplicito coerente modello dell’assetto organizzativo, tendano a rendere ancor più complessi, incerti, confusi i rapporti tra studenti, docenti e strutture universitarie. Perché, in questa prospettiva, le proposte, anziché essere i tasselli di un mosaico ben determinato, si verrebbero a configurare come scombinate toppe arlecchinesche, accelerando così il passaggio del nostro sistema universitario dalla crisi attuale al suo definivo e irreversibile collasso.

 

Quanto ai principi organizzativi generali, nel documento distribuito dal Ministero dell’Università vengono individuate dieci scelte strategiche che vanno dalla contrattualità del rapporto studenti-ateneo all’adozione del sistema dei crediti, all’adozione di sistemi di valutazione.

Non è possibile esaminare qui il significato o il contenuto di ciascuna delle dieci scelte strategiche.

E’ doveroso, però, soffermarsi su qualcuna di tali scelte. Cominciamo da quella che riguarda l’adozione di un principio di flessibilità curriculare e di mobilità delle risorse tale da condurre “alla graduale sostituzione di un valore formale del titolo di studio - assegnato a priori, una volta per tutte, in base ad un elenco di titoli di corsi - con un sistema di certificazioni a posteriori o accreditamento basato su tre criteri: valore culturale del titolo proposto; sua rispondenza a esigenze sociali o economiche; adeguatezza delle risorse messe a disposizione degli Atenei”.

Dalla lettura del contenuto di tale scelta sorgono immediate le domande: che significa, come si definisce e si quantifica la sua rispondenza a esigenze sociali o economiche? A quali esigenze sociali? E a quali esigenze economiche?

Ancora: che significa adeguatezza delle risorse messe a disposizione degli Atenei? Adeguatezza rispetto a che cosa? Come si oggettivizza la misura dell’adeguatezza delle risorse?

E veniamo all’adozione del sistema dei crediti. Per il Ministero dell’Università il contenuto del credito è chiaro. I crediti infatti “devono riflettere la quantità di lavoro che ciascuna unità di corso richiede in relazione alla quantità totale di lavoro necessario nell’istituzione per completare un anno accademico di studio, comprese le lezioni, il lavoro sperimentale e pratico, i seminari, i tutorial, gli elaborati, i tirocini, gli stages, lo studio individuale, le tesi, gli esami e le altre attività di valutazione. I crediti, si ammette nel documento, si basano sul lavoro degli studenti e non si limitano a valutare unicamente le ore di didattica impartita.”

Dalla lettura della definizione e del contenuto di un titolo di credito, così come riportato nel documento elaborato dal Ministero dell’Università, sorge spontanea la domanda: che significa che il valore di un credito debba essere basato sul lavoro totale degli studenti?

Così come viene proposta, tale definizione ricorda da vicino quella del valore di un bene basato sulla quantità di lavoro in esso incorporata, definizione fornita da Marx e da molto, molto tempo ritenuta inidonea ad esprimere il valore di un bene.

Qualche breve considerazione ancora su un altro principio organizzativo generale, quello relativo alla contrattualità del rapporto studente-ateneo.

Secondo la Commissione l’attuale rapporto è di natura quasi-fiscale ed in quanto tale genera la passiva iscrizione dello studente all’Università. Di qui la necessità di sostituirlo con un rapporto con il quale gli studenti ” definiscono contrattualmente, cioè in base ad un accordo bilaterale con prestazioni corrispettive, con il singolo Ateneo le condizioni di svolgimento degli studi.”

Non voglio entrare nel merito se nell’attuale rapporto la condizione dello studente sia passiva nel momento della sua iscrizione ad una Università. A mio parere non lo è, e lo preciserò, se necessario, in sede di dibattito. Qui mi voglio soffermare sulla proposta avanzata dalla Commissione di sostituire l’attuale rapporto con un esplicito accordo bilaterale, grazie al quale lo studente definisce gli standards delle prestazioni da parte dell’Ateneo.

Traduciamo in termini operativi questa proposta. Che significa? Che lo studente pattuisce il programma, le modalità di partecipazione alle relazioni di studio e di ricerca della facoltà? Che lo studente definisce e pattuisce gli standards qualitativi e quantitativi della didattica? Ed in caso di risposta positiva, come fa lo studente a definirli? E come si fa a stabilire che sono rispettati? Chi si erge a terzietà per stabilire che sono rispettati? E, una volta che oggettivamente si sia riusciti a stabilire che non sono rispettati, come si fa a definire il danno subito? E chi lo risarcisce?

La mia sensazione è che se ci si muove lungo questa strada non si procede alla costruzione di un rapporto in cui le esperienze del docente e le esigenze dello studente si integrano e reciprocamente si vivificano, ma si viene a costruire un rapporto che contiene in sé tutti gli elementi che tendono ad intensificare e ad esasperare i motivi di conflittualità tra lo studente e il docente.

Chiudo con una breve considerazione. Molti sono i problemi da risolvere, al di là dei semplici principi elencati nel documento sull’autonomia della didattica proposto dalla Commissione nominata dal Ministro dell’Università.

Su tutto si può, si deve ed è giusto discutere per trovare le soluzioni più idonee. Ma un aspetto credo non debba essere messo in discussione: quello della parcellizzazione del sapere.

In una società che tende a divenire sempre più complessa, perché sempre più terziarizzata, il capitale umano diviene un fattore fondamentale per la crescita e il governo della società. Ed il capitale umano acquista tanto più valore quanto più è dotato di sapere, di sapere critico.

In una società che tende sempre più a internazionalizzarsi, a globalizzarsi c’è sempre più bisogno di capacità professionali in grado di comprendere i complessi meccanismi economici e sociali, le complesse interrelazioni che continuamente sorgono e mutano in un tale contesto. E queste capacità professionali si formano e sono alimentate solo da una scuola che educa alla comprensione dei problemi, che educa alla concettualizzazione, che educa alla logica generalizzante della realtà di riferimento.

In una società in cui si prevede che il sistema produttivo e i processi sociali registreranno mutamenti continui, quanto intensi, occorre che gli individui siano dotati di un retroterra culturale che permette loro di adattarsi a tali mutamenti. E per muoversi in questa prospettiva occorre una scuola che produca sapere, che produca sapere critico, che umanizzi il sapere e non già di una scuola che produca solo e semplici nozioni di prevalente o, peggio ancora di esclusivo carattere tecnicistico.

Di una scuola cioè si muova in direzione opposta a quella che sembra derivare dal disegno emergente dai documenti di Governo fin qui predisposti.

-----

 

Intervento del Prof. Pitocco

 

Il Ministro ci invita a discutere della relazione Martinotti. Il governo non si è mai preoccupato di esplicitare, in un documento conciso, e a questo fine costruito, i principi e gli obiettivi del suo progetto. E certamente in assenza di un trasparente “disegno organico”, come si usa dire, non è facile orientarsi dietro il suo frenetico attivismo sul terreno “formativo”. E ciò che più imbarazza è che questa situazione non appare come casuale. Al contrario: essa è voluta, ricercata, intenzionale. La relazione Martinotti lo confessa apertamente: “non si è adottata la prospettiva di una “riforma organica” o ordinamentale dell’intero sistema universitario. Si è invece scelta la strada di una pluralità di interventi/strumenti parziali, da attivare contestualmente, in funzione di obiettivi determinati, comunque riconducibili a un disegno generale di riforma”.

Una scelta “pragmatica”, dunque, come si usa dire, o forse solo inutilmente “furbesca”, visto che comunque si afferma esistere un “disegno generale di riforma”: intenzionalmente esso non viene esplicitato, viene tenuto nascosto. Perché non esporre alla luce del sole questo “disegno generale”? Come discuterne se non viene portato a conoscenza di chi è invitato a discuterne?

Comunque quella sua affermazione rivela un tatticismo che a me non pare degno della lealtà intellettuale che dovrebbe caratterizzare il costume accademico e la pratica politica di un paese democratico. Essa rivela la volontà di sottrarsi ad un confronto sereno ed esplicito: si invita al confronto ma si nascondono intenzionalmente gli elementi per discutere.

Quell’affermazione è grave anche per un altro motivo. Essa fa riferimento a “interessi costituiti”, “celati dietro principi obsoleti”, e che sarebbero addirittura all’origine delle “diffuse illegalità tollerate” nelle nostre università. Di fronte a una tale realtà non mi sarei aspettato, da una commissione ministeriale, una scelta puramente “pragmatica”.

Ho sempre pensato che la matrice di quelle difficoltà, e delle diffuse illegalità che esse facilitano all’interno dell’Università, derivino dalla vicinanza, troppo lascamente regolata e controllata, di parte consistente del mondo accademico con il “mondo politico” e con il “sistema produttivo”. L’interferenza della politica nella vita universitaria; la tendenza a fare della carriera universitaria il trampolino per la carriera politica, e viceversa; la tendenza a trascurare i doveri del lavoro universitario per dedicarsi a più proficue attività professionali e private, sono state, e sono, ampiamente diffuse nell’università italiana. Sono certamente comportamenti illegittimi, e a volte forieri di altre e più gravi illegalità. Ma sono stati finora considerati, appunto, come comportamenti illegittimi, clandestini, condannabili.

Ora io temo vivamente che quei comportamenti, finora giudicati illegittimi, possano diventare non solo legittimi, ma anche modelli da imitare. Non vedo come questo si possa evitare con una riforma dell’università che tende esplicitamente a instaurare un “rapporto organico” tra università e sistema produttivo, e ciò sotto l’orientamento e il controllo diretto della “programmazione” politica. Non è forse inquietante il “rapporto organico” tra mondo produttivo, mondo politico e mondo universitario che sembra comparire dietro certe inchieste di questi giorni in una università siciliana?

Per la prima volta nella storia della repubblica abbiamo visto il parlamento spogliarsi delle sue prerogative per affidare deleghe al governo in materia scolastica e universitaria, anche per gli aspetti più delicati, costituzionalmente definiti. Nelle mani del governo e del ministro si sono così concentrati poteri discrezionali quali mai in precedenza. Tanto ampi, comunque, da svuotare di senso reale qualsiasi “autonomia”, e ciò proprio nel momento in cui si dichiara di esaltare questa autonomia.

Ma i “segni dei tempi” sono quelli che sono. Il confuso democraticismo che aveva regolato la vita universitaria degli ultimi trent’anni, mescolato a caparbi corporativismi che hanno drammaticamente indebolito la capacità di reazione dell’università, lascia ora il posto a un dirigismo e a una discrezionalità ministeriale quantomeno imbarazzanti per chiunque abbia il senso della dignità della “libertà accademica”. Ne sono testimonianza l’inquietudine, e l’irritazione, con la quale molti professori hanno assistito ad alcuni atti del ministro: designazione diretta di commissioni per la riforma universitaria culturalmente omogenee e politicamente unilaterali, ciò che non consente il confronto con la pluralità delle posizioni presenti sul terreno nel processo stesso di formazione delle decisioni; la designazione diretta di organismi di valutazione chiamati a valutare sulla base di criteri non sottoposti a discussione preventiva, e dunque non condivisi; la designazione diretta di commissioni per la valutazione dei progetti scientifici da finanziare, che operano nella più totale opacità.

Il timore sui rischi che a me paiono minacciare la qualità “politica” della vita universitaria, mi nasce infatti da quel “disegno generale di riforma” che la relazione Martinotti non esplicita, ma che pur dice esistere. E in realtà quel progetto esiste, ma inutilmente lo cerchereste nei documenti tecnicamente dedicati, finora, alla riforma dell’università. Esso vive di una vita per il momento ancora “nicodemitica”, ma che già traluce qua e là, un po’ ovunque, e che si alimenta a una cultura animata da un esprit de conquête inconsueto nella tradizione universitaria italiana e europea. E’ un progetto serio, sostenuto da un impianto politico e sociale di grande peso, e che è destinato a sconvolgere radicalmente la natura dell’Università.

E’ un progetto che potremmo definire sinteticamente “liberistico”, che ha la sua matrice culturale in una concezione che considera la scienza e la cultura “merci” come le altre merci, e che sta acquistando un consenso ampio nello stesso mondo universitario e che viene alimentata da una serie cospicua di articoli di giornali, di articoli di riviste sociologiche, di libri ponderosi e pieni di tabelle. E’ questa concezione che spinge Martinotti ad auspicare la futura istituzione di un “mercato accademico”. E’ in nome del “mercato universitario” che oggi, diversamente dal passato, si auspica l’abolizione del valore legale del titolo di studio, l’abolizione della titolarità della cattedra, la “mobilità” dei professori: sarebbero le premesse indispensabili per la sua istituzione.

Ma questo progetto, questo “disegno generale”, dove cercarlo. Qua e là appunto, sbriciolato in mille documenti, in mille proposte, in mille dichiarazioni. Non consegnato a nessun documento dedicato, esso è vivo e diffusamente vitale. E tuttavia in realtà esiste davvero un documento che più di ogni altro a me pare in grado di rivelarlo. E’ un documento totalmente estraneo al mondo universitario, totalmente estraneo a qualsiasi preoccupazione culturale e scientifica. Parlo dell’ “Accordo tra governo e parti sociali” siglato nel settembre 1996 quale ripresa del “patto sul lavoro” del 1993. Non a caso Martinotti vi fa riferimento, e non a caso, nel suo invito a discutere del 23-1-1998, il ministro Berlinguer ha chiesto un “contributo di osservazioni e di suggerimenti” alle “Organizzazioni Sindacali, alla Confcommercio, alla Confagricoltura, alla Confindustria, alla Confartigianato, alla CNA”.

E non ci si meravigli di questo indirizzario. In fondo, a ben vedere, la richiesta rivolta alle università di discutere è solo pleonastica: il ministro sa che quale che sia il parere del mondo universitario questa “riforma si farà, e il governo andrà avanti, fino in fondo”, come egli dice. E ciò perché l’università non è il soggetto, ma l’oggetto di questa riforma. Sono infatti “le parti sociali”, come dice quel documento, che debbono avere il “ruolo determinante” nella politica formativa del governo e dunque nella riforma universitaria. Si tratta infatti di un progetto economico-sociale elaborato all’interno della concertazione tra governo e parti sociali; un progetto di “modernizzazione” del paese, come si usa dire, di cui la riforma dell’università, e della scuola nel suo complesso, è solo un tassello.

Di fatto non si tratta di un progetto che miri all’ammodernamento dell’università italiana, ma di un progetto di vera e propria dissoluzione del modello di università che per due secoli ha fatto grande la cultura europea e nella cui storia l’università italiana ha avuto un ruolo non secondario. Si tratta di un progetto che non si pone il compito di riattivare le sorgenti culturali e scientifiche dell’università italiana da troppi anni insabbiate e offuscate. Il suo obiettivo fondamentale è trovare “la connessione” giusta, come viene detto, “tra i temi relativi all’istruzione, alla formazione professionale, alla ricerca scientifica e tecnologica”.

Schiacciare la cultura e la scienza sui “fabbisogni” del sistema produttivo è una forma di totalitarismo culturale che annulla totalmente l’autonomia che deve sostenere le diverse funzioni di cui una società vive; quell’autonomia che è il risultato faticoso di secolari battaglie per la “libertà”, il prodotto forse più prezioso della civiltà liberale europea.

Ordinata esclusivamente alla formazione per il lavoro, è l’autonomia della funzione culturale e scientifica dell’università che viene cavallerescamente sacrificata. E tutto ciò non ha nulla di “europeo”, anche se fosse esplicitamente imposta da un qualche governo europeo.

L’autonomia viene sacrificata nella sostanza, al di là di ogni proclama, quando, nel tentativo di porre rimedio a problemi seri come quello del “controllo” e della “verifica” dell’attività dei professori, si propongono riforme dello stato giuridico che avviano la docenza universitaria verso un insegnamento sempre più dequalificato e generico, puramente quantitativo, che non è più necessariamente sostenuto da una organica attività di ricerca. La separazione tra ricerca scientifica e formazione appare minacciosa all’orizzonte.

E qui sta il nocciolo della questione. Ogni attenuazione del rapporto tra ricerca e didattica conduce a conseguenze incalcolabili non solo sulla qualità dell’Università. Non solo ha conseguenze sulla qualità della ricerca e dell’insegnamento, come è avvenuto finora, per la condizione residuale a cui molti docenti hanno ritenuto di riservare al loro impegno universitario rispetto alla loro attività professionale privata, rispetto al loro rapporto con il “mondo produttivo”. Essa può avere conseguenze più gravi e più ampie sulla qualità della vita democratica e civile, nell’università e nella società, quando venga affermata esplicitamente come principio di “innovazione”, di “modernizzazione”, principio ispiratore della riforma.

La riduzione della ricerca scientifica a ricerca applicata, non può che spingere la più gran parte della ricerca e dei ricercatori lontano dall’Università; la residualità della ricerca di base, e il sostanziale annientamento della ricerca umanistica (ormai neppure più considerata “ricerca scientifica”), anche all’interno delle mura universitarie, impongono, necessariamente, una rifondazione dello statuto della cultura e della scienza nel contesto complessivo della società. Con una trasformazione di questo tipo ciò che diventa residuale è nient’altro che l’autonomia della scienza e della cultura. E con essa diventa necessariamente residuale l’autonomia dell’università; e dunque anche della organizzazione democratica dell’università.

Io temo l’esercizio del potere delle maggioranze su questo terreno: è la stessa libertà intellettuale che può essere messa in gioco, è la discriminazione politica e culturale contro le minoranze gli individui che può trovarvi legittimazione. Non vediamo già oggi questa discriminazione fin troppo praticata nelle nostre università, in nome di scuole e di orientamenti politici? E non è essa stata condannata dall’ “opinione pubblica” come una degenerazione del costume universitario? Forse è opportuno ricordare che la “titolarità della cattedra”, come la cosiddetta “inamovibilità” dei professori, come che siano state di fatto esercitate, saranno anche “privilegi”, ma sono soprattutto garanzie giuridiche inventate all’interno della tradizione dello stato liberale, proprio per mettere al riparo da qualsiasi manomissione politica e culturale il libero esercizio della ricerca e dell’insegnamento. E’ per questo che l’uno e l’altro sono, in Italia, costituzionalmente protetti, affidati all’ordinamento dell’università pubblica, statale.

Schiacciata dal peso della formazione professionale a cui la si vorrebbe essenzialmente ricondurre, l’università smarrisce la sua identità, perde i suoi confini. Viene meno la sua stessa “necessità” o “legittimità” sociale, si scioglie in un contesto “formativo” generico e generalizzato. Il sistema dei crediti proposti dalla relazione Martinotti rivela la sua funzionalità solo all’interno di una concezione di questo tipo, che in termini culturali sembrerebbe ispirata dai principi della “educazione degli adulti”. L’ “educazione degli adulti” deve essere “insegnata” nell’università, ma non si “fa” nell’università: si pratica nella società, quotidianamente, in ogni rapporto, in ogni contatto che gli individui instaurano con il contesto sociale.

In un recentissimo convegno organizzato dalla LUISS (intitolato, per l’appunto, “Università e alta formazione: autonomia al servizio dello sviluppo” (la Confindustria non sente la contraddizione che separa “autonomia” e “servizio” all’impresa) il nostro ministro, si legge nei giornali, ha sentito il dovere di dichiarare che “la formazione si fa ovunque”, ciò che è ovvio, ma dovrebbe essere anche ovvio che la formazione universitaria si fa nell’università. Ma ciò che conta è che il presidente Fossa ne ha tratto la sua legittima conseguenza: egli chiede alla riforma dell’Università di “garantire le condizioni di un rapporto strutturale tra imprese e atenei”: “L’impresa, egli ha detto, deve candidarsi come luogo di formazione continua”, dove gli studenti possono acquisire crediti da far valere all’interno dell’università. Fossa fa gli interessi dell’azienda, il ministro dell’Università non fa meno bene quelli della sua università. Ma forse sbaglia anche Fossa. E’ vero che la formazione professionale si fa, efficacemente, solo sul luogo di lavoro, come sapevano benissimo i nostri “obsoleti” artigiani; ma proprio per questo egli sbaglia quando pensa di poter piegare una istituzione pubblica alle esigenze della formazione professionale. Se non altro per ragioni di struttura delle relative “temporalità”: l’istituzione è qualcosa che, appunto, “sta”, sta stabile nel tempo; che evolve con una relativa lentezza, con una lentezza comunque insopportabile per i ritmi delle trasformazioni economiche e professionali. Fossa potrebbe forse chiedere, con qualche legittimità, che la formazione professionale venga in parte finanziata dallo Stato presso le “aziende”; ma meglio ancora farebbe a stimolare le aziende a “investire” in proprio, molto più di quanto abitualmente facciano, nella “formazione”, a non accontentarsi di “succhiare le ruote” della scuola statale. La LUISS, ad esempio, ha tutto il diritto di vantare i suoi “buoni conti”. Ma il suo orgoglio “privatistico”, mi si perdoni questa piccola battuta polemica, sarebbe più onesto e giustificato se essa non dimenticasse che quei conti sono “buoni” anche perché può imporre ai suoi studenti tasse incomparabilmente superiori a quelle consentite alle università pubbliche; e perché le è consentito di fruire abbondantemente, persino clandestinamente, del lavoro di professori dell’università statale, naturalmente pagati dallo Stato, e sottopagati dalla LUISS.

Voi capite le conseguenze per la natura dell’università: la “ricerca di base” passa in secondo piano, a malapena tollerata, a tutto vantaggio della star del momento, la “ricerca applicata”; la formazione libera, fondata sull’acquisizione degli strumenti critici della metodologia scientifica, tesa all’acquisizione della capacità di costruire in proprio nuove conoscenze, di passare da una conoscenza all’altra, e dunque propedeutica ad una alta qualificazione professionale, cede direttamente il posto alla stessa formazione professionale, fondata sull’acquisizione di conoscenze limitate, pre-confezionate, spendibili solo in circostanze e contesti determinati. Ma in un mondo in rapidissima e perpetua trasformazione, una formazione professionale di questo tipo ha un futuro? ha una qualche efficacia? Essa si brucia in un lampo, e appare del tutto incapace a collocare gli individui in un contesto “globale”, “mondiale”. Si pensa forse che basti conoscere un po’ di inglese strumentale per “comunicare” con l’universo mondo? O non è forse necessario che qualsiasi professionalità, per lo meno l’alta professionalità, abbia una cultura adeguata a comprendere le realtà straordinariamente diverse, storicamente diverse, dei vari contesti in cui deve esercitare le sue conoscenze “tecniche”?

Senza cultura, senza formazione all’analisi scientifica, ogni formazione professionale ha inevitabilmente il fiato corto. Costretta e reinventarsi, giorno per giorno, ogni volta che lo sviluppo tecnologico imponga le sue variazioni. Di fronte a questa rapidità dei “tempi moderni”, il sistema formativo si trova di fronte a una scelta. Si può creare formazione rapida, limitata, accorciando l’iter formativo, accontentandosi di una formazione “usa e getta”. Ma bisogna allora mettere nel conto gli inevitabili conflitti sociali, e la conseguente instabilità politica, che si stagliano all’orizzonte; e aver coscienza che insieme a quella formazione si “usano” e si “gettano” gli uomini che ne sono stati plasmati! Oppure si sceglie una via più faticosa, una formazione mirata a costruire negli stessi soggetti in formazione l’autonoma capacità, intellettuale e culturale, di riciclarsi secondo i movimenti dello sviluppo: una via inizialmente più lenta, ma che consente di recuperare tempo strada facendo, e di usufruire dell’esperienza e della finezza professionale che si accumula nella permanenza. Quest’ultima scelta, scelta sociale e culturale, che ha in se stessa le risorse della “flessibilità”, può oggi essere sostenuta dall’università europea, meglio, forse, che dall’Università americana; e può essere davvero un elemento importante nella competizione internazionale, se per competizione si intende sfida tra diversi, ricerca del “prodotto” diverso, e non semplice omologazione e imitazione. Per essa la nostra università è pronta, può contare sul patrimonio di una tradizione culturale lunga, incomparabile, e capace di alimentare una creatività di tutto rispetto; basta riformarla questa università, restituire respiro alle sue risorse culturali. Per una competitività che pretenda invece di fondarsi sulla imitazione, destinata a rivelarsi prima o poi per quello che davvero è, subalternità culturale e economica, e non competizione, le università italiane e europee non possono che essere “obsolete”. Per questa scelta bisognerebbe semplicemente rinunciare alla nostra università; bisognerebbe inventare qualcosa di totalmente nuovo, e che comunque non potrebbe più chiamarsi, legittimamente, università.

Ma voi capite anche la conseguenza più generale, più grave, che incide sul corpo della società, sulla vita civile: la scienza che non è più un “valore in sé”, che ha bisogno di legittimarsi con risultati pratici immediati, economicamente misurabili giorno per giorno; la scienza che non è più “autonoma”, disinteressata, accanto alla funzione conoscitiva perde l’altra sua funzione sociale essenziale. La scienza che non ha più in se stessa la propria legge, è una scienza che perde quel ruolo di “principio di verità” che da oltre due secoli è a fondamento della convivenza civile nella società laica moderna, che legittima il discrimine tra il giusto e l’ingiusto, che legittima il diritto contro la forza.

Un “rapporto strutturale” con le imprese industriali e finanziarie; un rapporto non mediato, non filtrato da un sistema di garanzie che salvaguardino l’autonomia e l’indipendenza della ricerca scientifica universitaria, minaccia alle radici il ruolo culturale e sociale della cosiddetta comunità scientifica: il solo sospetto del suo coinvolgimento negli interessi privati delle aziende, la priva, legittimamente, agli occhi della società, del suo “prestigio”, della sua funzione di garante della verità, di sorgente del “criterio di verità”.

Ciò che insomma qui vorrei sottolineare è che una riforma dell’università, e della scuola, dovrebbe fondarsi su una maggiore sollecitazione della sensibilità storica di tutti; dovrebbe fondarsi sulla consapevolezza che si sta mettendo mano a una materia “storica” per eccellenza, che trascina al proprio interno contenuti sociali e culturali che si sono stratificati nel tempo e che sostengono la vita del presente, dove assumono un valore globale, una funzione per certi aspetti antropologica. A chi ha senso della storia non può sfuggire che con una proposta di questo tenore si incidono le radici di una civiltà intellettuale, della civiltà intellettuale europea. E non mi par poco!

 

L’Associazione per l’Autonomia della Cultura e dell’Università (ACUNI) - presieduta dal Prof.G.Tecce - e il Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES-PROTEO) - diretto dal Prof. L.Vasapollo -, aderiscono alla manifestazione nazionale della scuola del 30 maggio 1998, a Roma, indetta dal Sindacalismo di Base, a difesa della scuola pubblica e dell’alto valore sociale e collettivo della formazione e della cultura.

Le proposte finora avanzate dal Governo in tema di riforma della scuola superiore e di riforma dell’Università (espresse, queste ultime, dal documento Martinotti) sembrano muoversi in direzione di un sistema formativo e culturale subalterno agli interessi di natura privatistica.Riforma basata su una filosofia che contrattualizza e privatizza il rapporto tra Ateneo e studente, mirando ad abbattere nei fatti il valore legale del titolo di studio e subordinando la ricerca a criteri funzionali al sistema d’impresa.

In questa prospettiva si minano le fondamenta dell’autonomia didattica dell’Università e il principio fondamentale che la cultura sia un bene collettivo, essenziale per la crescita della società civile e della democrazia.

Aderiamo, quindi, a questa manifestazione sottolineando l’impegno dell’ACUNI e di CESTES-PROTEO a difendere il ruolo pubblico della scuola, l’autonomia dell’Università, della ricerca e della didattica, per una cultura del cambiamento.

 

Roma, 28 maggio 1998