Sinistre: omologazione politica e subalternità mediatica. Dal caso del "terrorismo islamico" al caso del Sudan

Fulvio Grimaldi

“Siamo sempre lì ad inseguire la destra su programmi e leader... La corsa alla conquista del centro? Una risposta pigra al problema. Secondo lo schema seguente: competere sulla fascia di confine, conquistare i moderati con politiche che somigliano a quelle della destra. Ovvero: prendere i temi della destra con una riverniciata. Riveduti e corretti, una spruzzata di equità sociale in più. E si immaginano leader che somigliano a quelli della destra, nella speranza che possano competere e vincere rispetto al modello di partenza... Valorizziamo le nostre diversità... con passione schierandoci... Domando: è ancora il caso di spingere sulle privatizzazioni, sulle liberalizzazioni dei servizi pubblici essenziali... credo che sia arrivato il momento di ripensare ad un intervento pubblico. La logica del pareggio economico nella sanità, quel funzionare solo come azienda, il pensare sempre agli utili, al deficit, e non ai cittadini più deboli, è un mito che si può discutere? Così come non dobbiamo più inseguire Berlusconi sull’immigrazione. Vogliamo dirlo, una buona volta, che il nostro paese può diventare più bello, più colorato, più vivo grazie agli immigrati?... È difficile pensare di poterci presentare, dieci anni dopo, con lo stesso schema di dieci anni prima. Gli stessi linguaggi, le stesse proposte. Lo stesso gruppo dirigente... Il problema è trasmettere la volontà di cambiamento, far crescere in questa chiave i nuovi gruppi dirigenti. Ed è un problema collettivo...”

Scusate la lunga citazione, ma ne valeva la pena. È con soddisfazione, immagino, che abbiate letto la lezioncina impartita con garbo, ma anche con fermezza e, soprattutto, chiarezza di idee, a chi? Ma non ci sono dubbi: il destinatario non può che essere lui, l’uomo dai baffetti, quello con la puzza al naso che non si accorge che è la sua, la quintessenza della kràsis, mescolanza, di sicumera con brevimiranza, di spocchia e toppata, di ego e servilismo inciucista. Se, dunque, è del tutto evidente che ci si rivolge al bipartigiano per vocazione (salvo, contingentemente, in campagna elettorale), Massimo D’Alema (e solamente in seconda battuta a leader-ombra come Fassino), è anche abbastanza probabile che si sospetti per il rabbuffo un’origine di sinistra, più di sinistra, nel caso del destinatario per niente difficile. Tanto poco difficile che, non potendo provenire né dai verdi, né dai cossuttiani, in quanto già partecipi dei propositi e spropositi dalemiani, uno a prima vista sarebbe incline a pensare a Bertinotti. Solo a prima vista, però, perché poi gli sovverrebbe subito la memoria del patto di ferro stretto dal segretario di RC con il presidente dei Democratici detti di sinistra e che nel corso di cinque anni si è già lasciato alle spalle una scia di vittime: il primo Prodi, Cofferati, il Correntone, qualche milione di lavoratori privati dell’articolo 18, gli immigrati falciati dalla legge Turco-Napolitano (legge, è bene ricordarlo, della ministra ufficiale pagatore di Luca Casarini, pugnace difensore degli immigrati)...

Se Bertinotti non può proprio essere (e, a conforto, rileggetevi la morbidissima intervista-tappetorosso che il nom de plume di Bertinotti, Rina Gagliardi, fece a Baffetto all’atto del bertinottiano giuramento di Pontida sulla propria partecipazione ministeriale al prossimo governo ulivista senza se e senza ma), ecco che balza fuori un imbarazzante deus ex machina: la ramanzina ai copioni, ieri di Berlusconi, oggi del tiro a due Follini-Fini, l’ha fatta nientepopodimenoche Dario Franceschini, viceleader dei Popolari (“Repubblica”, 5/7/4). Paradossale? Mica tanto. Il signor Spock avrebbe detto “logico” di un’Enterprise che, vista l’astronave rivale finire in un buco nero, anziché inseguirla, invertisse la rotta. Una logica che il giovane postdemocristiano, depositario di millenarie astuzie ecclesiastiche, magari pratica meno di quanto efficacemente la racconti. Ma tant’è, Franceschini annusa il vento e, dunque, soffia anche lui. Non per nulla la continua rincorsa al centro dei dirigenti DS è stata smentita da un voto di opposizione che spinge verso sinistra, una sinistra comodissimamente a sinistra del Triciclo e che assomma al 13%, per Sartori addirittura al 20 e che, se ci mettiamo anche tutta l’incazzata e frustrata sinistra astensionista, farebbe vacillare l’assunto che sorregge i baffi di D’Alema secondo cui questo è un paese inesorabilmente di centrodestra.

Non è scientifico, né provato, ma qualcuno ha avuto la netta sensazione che quel 6,1% conquistato da Bertinotti, oltre a dover qualcosa alle scintillanti bolle di sapone sinistro-europee - pacifiste, ecologiste, femministe, liberaldemocratiche e mai, diononvoglia, mai socialiste - lanciate proprio alla vigilia del voto, possa essere tale per un 2% circa in più venutogli da figliol prodighi perdutamente unitaristi, evasi all’atto della rottura con Prodi, e da un bell’1% circa in meno di coloro che un rientro nel Prodi Bis, perlopiù ancorato a quell’Europa lì, alla Nato sotto D’Alema espansa all’universo mondo, alle bombe umanitarie, al pacchetto Treu, ai baffi bilaterali del criptorichelieu, alla pseudoistruzione di Luigi Berlinguer, alle mazzate ai manifestanti, lo vedono come un’innovazione (per usare il chiodo fisso di Fausto), nuova quanto la mummia di Similaun. Al di là delle opinabili alchimie elettorali, tante e diverse quanti sono in Italia i facitori di nazionali di calcio, resta solida la constatazione che al chansonnier da crociera, servo di due padroni (i suoi interessi, quelli della massoneria e quelli dei neonazi di Washington), è andata male. L’iperpersonalizzazione non paga più. Se ne sono accorti tutti, salvo Bertinotti, che, mentre addirittura un partitino del 2% come l’UDC esibisce una costellazione di esponenti da giostra televisiva (Follini, Volontè, Bottiglione, Casini...), resta la stella fissa e unica sull’orizzonte di Rifondazione e c’è da chiedersi cosa mai succederà qualora questo fiore del deserto dovesse appassire. Chi spunterebbe? Un Musacchio? Un Ramon Mantovani che nei fondi di bicchiere vedeva agitarsi gli “ipernazionalisti della Grande Serbia”? Un Nunzio D’Erme no, ché quello manco finge di essere comunista.

Cosa ha fatto l’opposizione riformista-radicale quando alla mazzata elettorale al Berlusconi si è aggiunta la dipartita di Tremonti e il premier ha scosso le colonne gridando “muoia Sansone e tutti i filistei” (il Sansone moderno, Sharon, attualizza solo la seconda parte dell’invocazione)? Ha chiesto elezioni anticipate che nessuno si sognava di concedere, ha ventilato un Aventino che ha provocato enormi erezioni in tutto lo schieramento celodurista (va da AN alla Lega a Cicchitto, saltando Bondi), non ha chiamato la gente a scendere in piazza a esigere quelle elezioni, con Epifani ha fatto gli scongiuri contro lo sciopero generale e, come scrive “il manifesto”, né la sinistra moderata, né quella radicale hanno avuto tempo o voglia di parlarsi, di proporre un’analisi e un intervento comune. Il “comune” è annegato tra i rimorsi che hanno lacerato il Triciclo sulla mozione comune per il ritiro degli occupanti italiani in Iraq. E allora, cosa ha proposto l’opposizione? Due terzi di essa ha temuto che Mario Monti accettasse la strumentalissima offerta berlusconiana, poiché lo auspica suo Mister Economia, assieme a Fazio per la bancona e Montezemolo per i padroni. Così, sempre secondo “il manifesto”, si è persa l’occasione della maggior crisi che la Casa delle il-libertà abbia vissuto, nella speranza che Berlusconi svanisca da sé. “Non sarebbe bello se gli italiani, che sono andati ancora al voto come in nessun altro paese europeo fidando che qualcosa possa cambiare, si convincessero che altro non c’è all’orizzonte” se non un governo simile a quello catastrofico e antipopolare del 1996, perlopiù in una situazione economica e istituzionale allo sfascio completo.

In tutto questo la “sinistra radicale”, addobbando lo spaventapasseri dell’alternanza dei due famosi fantini sull’unico cavallo delle élites borghesi, con il papillon eversivo dell’alternativa, termine che ha lo stesso peso della parola “comunista” dopo Rifondazione (tant’è vero che all’ultimo congresso era del tutto sparita, fino a quando un gruppetto di volenterosi non lo dipinse su un lenzuolo e lo appese sotto il naso del segretario orante), fa sostanzialmente da ruota di scorta a un triciclo a rischio di ripetute forature sociali, assicurate dalle lotte spontanee partite quest’anno e alle quali lo sposalizio concertativo CGIL-Confindustria spera di porre rimedio. Non sarà comunque facile per il duo euro-imperialista Amato-Prodi ordinare il “rompete le righe”, neanche con la collaborazione di Epifani. Ogni tentativo in questa direzione si dovrebbe scontrare con nuove e più forti mobilitazioni della classe lavoratrice, ultimamente riemersa con spiccata individualità dal pantano delle “moltitudini”. C’è chi nel vertice di RC, travisando completamente l’obiettivo strategico di Bertinotti, venutosi delineando con coerenza dal 1993 ad oggi, spera ancora di aprire una polemica frontale contro i tentativi di puntellare la linea concertativa, guerracompatibile e ultraliberista dell’Ulivo e della CGIL. Andrà in bianco, a meno che, con tardiva resipiscenza, s’impegni sul terreno politico per rompere un’alleanza che subordina gli interessi dei lavoratori e dei popoli a quelli delle classi dominanti e degli aggregati imperialisti. A questo punto, pare che tutto verrà rinviato al congresso di primavera, cioè di quel tanto che occorre agli inventori della Sinistra Europea per rinfoltire le dimagrite schiere di comunisti nei partiti nazionali d’origine, con un afflusso rigenerante di cattolici, ambientalisti, girotondini, nonviolenti di estrazione varia, riformisti alla buona.

Se l’europeismo capitalista e imperialista prodiano è l’originale, quanto lo è nel nostro paese il golpismo reazionario di Forza Italia, l’Europa “laboratorio della sinistra alternativa”, nientemeno, di Bertinotti, e della banda di burocrati che vi si è acciambellata per sfuggire alle intemperie della propria disgregazione, equivale alla copia corretta, al pari della versione bersaniana e treuiana della governabilità nazionale. E assumendo, in cambio di sonanti eurcontributi finanziari, il riconoscimento delle tavole della legge UE, dal libero mercato alla fortezza anti-immigrati, dallo spazio repressivo al riarmo, il vertice della sinistra “radicale” non poteva non attribuire alla “nuova America” di John Kerry e del similFrattini (l’Uomo Upim) John Edwards, il ritrovato ruolo di “madre di tutte le democrazie”. È tempo di “copie corrette”, di cambio di fantino sulla stessa cavalcatura. Kerry ha auspicato più soldati per l’Iraq di Bush, vuole una Nato sempre più out of area, ha omaggiato il fascistico Patriot Act del 2001 e l’assunzione di pieni arbitri militari da parte del presidente nel 2002, ha giurato ulteriori guerre preventive e permanenti al “terrorismo internazionale”, ha ripetuto i vaniloqui clintoniani sulle fasce deboli e sull’occupazione, ha promesso ferro e fuoco alla rivoluzione bolivariana di Ugo Chavez e ulteriori strette di nodo scorsoio a Cuba, ha assicurato cieca (?) complicità con i macellai al potere a Gerusalemme, non ha detto mezza parola, oltre alle andatissime “mele marce”, sui mattatoi alla Torquemada di Abu Ghraib, Guantanamo, Bagram, Kandahar e tutti gli altri luoghi delle nequizie di Stato statunitensi, e neppure sui serial killer nella magistratura USA, si è inserito nell’ininterrotta serie sanguinaria di presidenti USA, democratici compresi (Roosevelt, Truman, Kennedy, Johnson, Clinton: un bilancio di 60 interventi imperialistici e circa 30 milioni di morti) con coerenza di intenti e solida continuità patriottica.

Ma la “sinistra radicale” ha pensato bene di coniugare i partner riformisti D’Alema-Fassino-Rutelli-frange minori con un possibile partner neoatlantico “liberal” e di rivolgersi ad entrambi con la medesima speranzosa benevolenza. Leggere per credere: da Rossana Rossanda che inveisce contro coloro che mettono a rischio la “nuova America” di Kerry scommettendo su nessuno dei due fantini, o magari rivolgendosi all’unico antiguerra, Nader, a Luciana Castellina che individua tra gli zoccoli del destriero cavalcato da Kerry il ritorno dell’America che amavamo, di quell’intellighenzia progressista che ci ha dato i Kerouac e i Warhol (“Non si tratta di giudicare quanto Kerry sia meglio di Bush, quel che conta è che un presidente democratico è sempre più sensibile ai movimenti”); dal Sandro Curzi, lo pseudonimo borgataro di Bertinotti, che ricorda “le due volte che gli americani vennero in soccorso dell’Europa” (e tutti a chiedersi se si riferisse all’uscita del già collaudato militarismo imperialista USA dal proprio continente nel 1915 e alla mafizzazione e colonizzazione dell’Italia nel secondo conflitto mondiale), al Guido Caldirol, della stessa testata, che passa dal ruolo di fumogeno, denso di persecuzioni antisemite, attorno al terrorismo di Stato israeliano e alla dilagante persecuzione dei musulmani, all’aperta esaltazione della prospettiva Kerry. Senza neanche parlare de “l’Unità”, dove Furio Colombo si commuove alla rimpatriata con i vecchi amici dalle tante mistificazioni “liberal”, o del “Riformista”, che del resto, impaginato da D’Alema, si colloca con soddisfazione all’ultradestra dello schieramento che, per Bertinotti, dovrebbe far vivere “l’alternativa”. Sembrerebbero i tre porcellini che a un Ezechiele, che fuori ulula e soffia, aprono la porta per non sembrare prevenuti, e invece sono tre porcellini geneticamente modificati che, tra le zampe del lupo, sperano di nutrirsi alla stessa greppia.

È lecita, seppure non proprio scientifica, la domanda se sia nata prima la subalternità di queste sinistre di lotta (?) e di governo (!) - e, almeno dal 1944, di compromesso - all’ideologia e alla cultura dei padroni, o alla loro informazione. Essendoci già abbastanza arrovellati su uova e galline, lasciamo perdere, se non per osservare che, ad ogni modo, se continui a prendere per buone categorie valutative, definizioni, paradigmi e notizie dell’informazione-comunicazione imperialista, hai buone chances per finire di pensarla come coloro che la diffondono. Valga per tutti, l’esempio della “globalizzazione neoliberista”, passivamente recepito e entusiasticamente ristrombettato come totalizzante visione del mondo, non solo dal movimento no global, cui molto si può perdonare per trattarsi di spontanea espressione di disagio collettivo, senza storia né progetto, ma addirittura da chi, per storia della propria ascendenza (per quanto rinnegata), dovrebbe saperla più lunga, a partire dalle espansioni commerciali iberiche e dalla Compagnia delle Indie. C’erano in proporzione più scambi, dettati dal modo di produrre e distribuire capitalistico, alla vigilia della prima guerra mondiale, che non all’apice dell’attuale “globalizzazione” che vede ancora un terzo abbondante dell’umanità ad almeno 300 km dal più vicino telefono. Ma “globalizzazione” è parolina inoffensiva, come mi diceva il poeta cubano Victor Luis Lopez, ottima per mimetizzare la massima aggressività imperialista della storia postvittoriana. Come pure “neoliberismo” s’intende meglio allorché lo si denuda come eufemismo per “capitalismo”. Non molto diversamente la “fine dello Stato nazionale” e la nascita del negriano “Impero” - nel quale tutti i gatti sono bigi e danzano tenendosi per mano, le contraddizioni interimperialistiche si sono dissolte in un comune governo planetario astatuale e multinazionale - sono state recepite con passione da antichi disillusi dell’“internazionalismo”, quasi ci fosse da cantare: “Non più nazioni, non più frontiere, ma sui confini rosse bandiere”, quando dalla confusione stava invece emergendo il Leviatano più solido e prevaricatore dagli Asburgo in qua. E tra “piccolo è bello”, il disobbediente e criptoleghista muncipalismo partecipativo e le fantasticherie sovranazionali europee, si è dato un’ulteriore mano sia all’imperialismo, il cui Stato-guida ha per le statualità nazionali altrui la stessa simpatia di un pescatore di palude nei confronti delle zanzare, sia alla borghesie che vedono i soggetti potenzialmente antagonisti deviare le loro lotte dal naturale terreno di confronto nazionale, verso fumose dialettiche nell’Europa dei banchieri e finanzieri, dei boss e dei generali.

Sussumere la non violenza di un Ghandi mitizzato (e del tutto scisso da una realtà che ha visto Londra in ginocchio preferire la consegna dell’India a un digiunatore pacifista, aristocratico e classista, oltrechè castista, piuttosto che alle masse insorte guidate da partiti di sinistra), ha allargato il magnetismo bertinottiano verso le vaste aree che riscattano la cattiva coscienza borghese in luoghi come Emergency, nei facili ma contradditori proclami del papa, o nella vittimofilia della Caritas. Ma, più importante, ha rassicurato i settori violentemente predatori della società sull’accettazione della prima regola di convivenza da loro impartita, da che mondo è mondo, agli sfruttati e oppressi (salvo quando si tratta di guerreggiare per la “patria”), negando a costoro la carta estrema e storicamente decisiva per vincere la partita: l’autodifesa. Alla criminalizzazione della violenza difensiva, biologicamente propria dei proletari, si accoppia naturalmente il senso di colpa nel caso della minima violazione del sacro dogma, da cui la ripetizione del rapporto, esiziale per l’umanità cattolica, confessore-peccatore confessante. Sono qui da trovarsi le “radici cristiane” del Bertinotti rivalutatore delle religioni, perfino del Dalai Lama e sdegnato critico della rimozione del crocefisso “da là dove ormai sta”. Ne consegue anche l’entusiasmo delle sinistre istituzionali tutte per le ricorrenti trovate di settori dirigenti israeliani e palestinesi, finalizzate a fermare l’Intifada attraverso “dialoghi” tra le parti, come il più recente “Accordo di Ginevra”, il cui vero scopo è togliere le castagne dal fuoco a un Israele al collasso economico e sociale in virtù della lotta palestinese e a una borghesia palestinese la cui autorità è stata dissipata nei traffici, nei collaborazionismi, nella repressione. Accordi di Ginevra che ai palestinesi negano i fondamenti costitutivi della sovranità: confini, difesa, sicurezza, ritorno degli espulsi, addirittura l’acqua. Rispetto a Sharon e affini, hanno il merito di lasciargli l’aria.-----

Se sulla non violenza - in cui si è riusciti astutamente ad irretire un da tempo vacillante Pietro Ingrao - ci si è appassionati al dibattito se con il trattino, senza il trattino, o tutt’unito, magari con l’iniziale maiuscola (alla faccia della resistenza “troppo angelizzata”) è uno sbuffo d’incenso, sull’accettazione del concetto “terrorismo”, allargato coscienziosamente a “terrorismo islamico”, c’è stata confluenza immediata e universale, da Storace a Bertinotti, da Giuliano Ferrara a Luisa Morgantini (la quale donna in nero si è spinta anche oltre, fino ad azzardare, da sopra le macerie ancora fumanti della Jugoslavia, un “fascismo serbo” di Milosevic). Dai “terrorismi islamici” si è transitati con allegra disinvoltura ai “terroristi kamikaze” e poi ai “terroristi palestinesi” tout court, con più indirette e imbarazzate estensioni ai lanciatori nostrani di lattine di gazosa, fino alla coincidenza quasi osmotica con gli occupanti sulla natura terroristica di qualsiasi cosa che scoppi in Iraq, si tratti di trasparentissime creazioni Cia-Mossad come i miracolosamente ubiqui Osama e Zarkawi, come certe decapitazioni di sapore israeliano, come gli eccidi di Croce Rossa e moschee, oppure di un popolo sondaggisticamente e con ogni evidenza al 90% in rivolta contro il predatore genocida.

Si può ben dire che il passi definitivo per l’ingresso nella “comunità internazionale” queste sinistre l’abbiano meritato con la bertinottiana “spirale guerra-terrorismo”. È il paradigma della combriccola golpista al potere a Washington, ma anche dei suoi possibili successori e di quasi tutti i galantuomini in voga in Europa, da Chirac a Blair, da Schroeder ad Agnolotto: inizia la spirale il terrorismo, risponde la guerra, cui risponde il terrorismo, cui risponde la guerra, via via spiraleggiando all’infinito. Con una differenza, che peraltro non mette in discussione l’ontologia dell’assunto, per cui i galantuomini inarcano le sopracciglia sull’“errore di una risposta bellica al terrorismo” e concedono a quest’ultimo l’attenuante della provocazione, cosa che non muta il giudizio. Condizione determinante di questa concordia è un punto di partenza assolutamente comune: il terrorismo è islamico, e a volte anche un po’ cristiano (aspettate che i proletari venezuelani si difendano contro l’ennesimo golpe!) ed è comunque e sempre antidemocratico. Con il che si scivola, volenti o nolenti, nello scontro di civiltà di Huntington, premessa ideologica per la conquista imperialista del mondo, e nella demonizzazione di chi mette in discussione l’inesorabilità e bontà della democrazia borghese (in cui già si identificò, a nome di una tradizione ormai consolidata, tale Ugo Pecchioli, ministro di polizia-ombra nel ’68 e seguenti). Ne conseguono scivoloni abbastanza tragici come il famigerato “né con la Nato, né con Milosevic”, che indubbiamente rimosse remore, almeno morali, alla liquidazione di un tentativo non del tutto perduto di democrazia socialista e multietnica, nonché la mostrificazione - perlopiù costruita nei laboratori di Langley, ma sempre recepita senza riserve e senza verifiche - dei vari capistato canaglia che intralciano la marcia degli imperialismi. Le tonnellate di materiale di informazione vera, resa tanto più credibile quanto più le versioni ufficiali venivano polverizzate dalle proprie incongruenze, elaborata soprattutto negli Stati Uniti e in consolidati centri internazionali di controinformazione, anche sulla base di precedenti storici provati, sulla matrice bianca, cristiana, anglosassone e, all’occorrenza, semitica, del terrorismo stragista, da New York al mondo intero, hanno lasciato il tempo che hanno trovato, salvo qualche barbaglio trasparso sul “manifesto”. Sennò che spirale sarebbe stata?... E qui il collateralismo con l’imperialismo è oggettivo e riveste responsabilità di portata epocale. Collateralismo del resto non innaturale, vista la tradizione colonialista sul piano ideologico praticata nei confronti del Sud del mondo in parallelo sia dalla borghesia, sia da una certa ortodossia vuoi trotzkista, vuoi stalinista e che si riassume nel verdetto di Bertinotti sulla resistenza irachena che non meriterebbe ancora la “R” maiuscola, perché non ne è chiaro il progetto politico. Le lotte di liberazione nazionali, o sono politically correct come i Premi Strega di Vespa, o se ne vadano al diavolo. E, comunque, sono tutte antipaticamente poco non violente. Vane le parole di uno dei massimi analisti della geopolitica statunitense sotto la cosca Bush, Michel Chossudovsky, all’indomani dell’inflazione “Al Zarkawi”: “Gli apparati dell’intelligence americana creano le proprie organizzazioni terroristiche. E, allo stesso tempo, creano le proprie minacce e attività terroristiche che vengono imputate alle organizzazioni da loro stessi create. Contemporaneamente sviluppano un programma di antiterrorismo da molti miliardi di dollari per dare la caccia a quelle stesse organizzazioni terroristiche. Antiterrorismo e propaganda di guerra sono dunque interconnessi”. Chossudovsky, economista di fama mondiale e a capo del centro i ricerca “Global Research” di Toronto sa di cosa parla: nessuno meglio del suo gruppo ha fatto a pezzi la versione ufficiale sugli autori, sulle motivazioni e sulle circostanze dell’11 settembre 2001, contribuendo a quello che dovrebbe essere il compito primario di qualsiasi forza anticapitalista ed antimperialista: lo smascheramento e, quindi, la delegittimazione dei criminali al potere.

Finisco con un episodio altamente rappresentativo di quanto sopra. Sudan. Nei caldi giorni di giugno-luglio, che la Resistenza irachena, i contraccolpi in Afghanistan, l’efficace risposta politica di Cuba all’aggressività statunitense con intendenza europea al seguito, e la tenuta di Hugo Chavez in Venezuela, la botta Zapatero, facevano ribollire ulteriormente sotto i piedi dell’establishment imperialista, tutti presero a occuparsi con crescendo da visibilio del Sudan. Un depistaggio salutare per gli occupanti, invasori e cospiratori sotto tiro: via dalle umiliazione di una guerra in via di sconfitta in Iraq come in Afghanistan, via dall’invadenza di Guantanamo, via da Abu Ghraib, via dai sondaggi di un Bush sullo scivolo. Via verso un prodotto tenuto da tempo sullo scaffale, come quel farmaco inventato negli anni ’60 e a cui l’AIDS, scoperto, forse, secondo mezza dozzina di Nobel, fabbricato, vent’anni dopo, offrì il lungamente sospirato mercato. Via verso quell’”umanitarismo” che tanto bene aveva funzionato per la Jugoslavia. Solo pochi giorni prima della fenomenologia Sudan, quel paese era riuscito a comporre una quarantennale guerra civile istigata da forze esterne - statunitensi, israeliani, Vaticano - facendo leva sul solito separatismo etnico-confessionale. Non solo aveva indebolito gli strumenti cospiratori degli destabilizzatori esterni, ma aveva anche stretto - colpa gravissima - rapporti privilegiati di collaborazione economica con la Cina. Il Sud, ricco di risorse petrolifere, idriche e lignee, era stato conteso tra un governo centrale e forze secessioniste che, oltre a tutto, erano ferocemente divise tra loro. L’ONU ha calcolato che la maggioranza dei profughi e delle vittime era dovuta allo scontro tra bande antigovernative. L’accordo, firmato in Kenya, risultò assai vantaggioso per le forze ribelli di John Garang e loro sponsor (comboniani e petrolieri) e assai gravoso per lo Stato. Khartum acconsentì a minare l’unità nazionale concedendo ai leghisti del Sud vaste proporzioni dei redditi petroliferi e un referendum su unità o secessione tra sei anni.

Non si è asciugato l’inchiostro della firma di pace, che nelle regioni occidentali del paese, da sempre a rischio di desertificazione e carestia, spuntano ben due “eserciti di liberazione nazionale”, ai quali si oppone una milizia di autoprotezione degli abitanti chiamata Janjaweed, sostenuta ovviamente dal governo di Omar al Bashir. Agenzie, televisioni e giornali di tutto il mondo si riempirono subitaneamente - seppure tutti privi di inviati sul posto, ma generosamente imbeccati dall’ONG di regime americana UsAid - di cronache raccapriccianti sugli orrori perpetrati... da chi? Ma naturalmente dal governo e dalle sue milizie. Insomma, delinquente diventa non chi cerca di spaccare il paese, ma chi ne difende l’unità, in particolare contro le cospirazioni smembratici dell’imperialismo, come in Jugoslavia, come in Iraq. Il Ciad, paese confinante e, insieme all’Uganda (che sostenne i secessionisti del Sud) massima colonia statunitense nel Centroafrica, dà il suo apporto con incursioni armate nel Darfur, di cui nessuno fa parola, e lamentando l’afflusso in campi profughi dei “fuggiaschi dalle persecuzioni di Khartum”, 10.000? 100.000? Un milione? Gli antipatizzanti del Sudan si sbizzarriscono. Come sul conto delle vittime, da 10mila a qualche milione. Eccelle, naturalmente Radio Radicale, reduce da analoghe operazioni in Cecenia e con i Montagnard cattolici del Vietnam. Repressione governativa? Guerra civile? Massacri dei janjaweed? A tutti libertà di bufala.

Non c’è voce fuori dal coro, da Colin Powell e Kofi Annan, all’ineffabile reperto della “cooperazione” alla Craxi, Margherita Boniver, precipitatisi sul posto, il primo per minacciare “interventi della comunità internazionale”, il secondo per deplorare la catastrofe umanitaria, la terza per berlusconeggiare all’ombra del padrino USA (catastrofe ecologica da cambiamenti climatici, da mancanza d’acqua e, dunque, di pascoli e coltivi, che potei testimoniare già dieci anni fa, senza che nessuno vi desse retta per carenza di peperoncino politico); con il contributo mediatico di prammatica: dal sionista New York Times (e quanto Israele sia coinvolto da 40 anni in Sudan lo sanno i servizi di tutto il mondo) al “manifesto” e a “Liberazione”, passando per “Libero”, la grande stampa, tutti i Tg e, ovviamente, con particolare accanimento, l’agitprop vescovile “L’Avvenire”.

Non un organo della sinistra istituzionale che si ponga qualche dubbio, che condivida la mastodontica impressione del deja vu di tutti i seri esperti di Africa, mondo arabo e imperialismo. Nessuno che vi veda un nodo di quella ragnatela che gli USA e, all’inseguimento, gli europei, stanno tessendo attorno alle risorse e alla sovranità dei paesi africani, petrolio in testa. Interrogo funzionari e tecnici FAO che da quelle parti, a portar cibo, si stanno sbattendo da decenni e, all’unisono, tutti smentiscono la montatura occidentale.

Ricordate la Exodus, col suo carico di “poveri ebrei, donne e bambini, in fuga dall’olocausto, diretti verso la patria dei padri” (?), che viene fatta crudelmente girovagare davanti alle coste del Medio Oriente, con gli spietati inglesi che non li fanno sbarcare dove gli compete? Non era forse uno dei grimaldelli per aprire la porta ai rapinatori della Palestina? Oggi, la campagna per lubrificare un’aggressione colonialista al Sudan si avvale della Cap Anamur, la nave dell’omonima - e fino a ieri sconosciuta - ONG tedesca, presieduta dall’ebreo tedesco Elias Birdel, che per settimane viene lasciata al largo di Porto Empedocle. A bordo, naturalmente, 36 profughi - vittime predestinate sulla cui pelle si gioca una partita oscena, qualunque sia il loro ruolo o la loro consapevolezza - tutti a priori definiti “sudanesi”, ma che poi risulteranno anche di altri paesi in guerra. Profughi “dai massacri governativi, o meglio arabi, nel Darfur, vittime con ancora gli orrori negli occhi, miserabili cui è stato tolto tutto, casa, terra, pozzo, famigliari...” Siamo al diapason, non c’è bollettino, cronaca, speciale che non batta la grancassa della tragedia umana, corredata di immancabili filigrane sul “genocidio” (non è mai quello dei collaudati israeliani, o anglo-italo-americani, è sempre arabo o musulmano). E la sinistra segue con entusiasmo da neofita, come per la sceneggiata dei kosovari albanesi sullo spiedo serbo, come per i bambini kuwaitiani strappati dalle incubatrici dalla soldataglia di Saddam (raccontata dalla figlia lacrimante dell’ambasciatore, travestita da infermiera in finto ospedale dentro l’ambasciata del Kuwait a Washington, ma innesco per la Guerra del Golfo), come per l’11 settembre dei cavernicoli dell’Afghanistan, che poi si lasciano polverizzare il paese e portar via a carrettate verso centri di tortura, senza neppure più lanciare un aeromodellino contro un McDonald’s. E non li sfiora la minima resipiscenza neanche quando Christopher Hein, direttore del Consiglio per i Rifugiati con sede a Roma, denuncia in chiari termini: “Secondo le leggi internazionali la nave è territorio tedesco e il capitano funge da pubblico ufficiale per cui è tenuto ad accogliere la richiesta di asilo degli immigrati e trasmetterla alle autorità tedesche”. Del resto lo stesso comandante Birdel, che ha girovagato per giorni in silenzio tra Malta, e Lampedusa, ammette i propri giochini con le regole di sbarco che lo avrebbero condotto a Malta, chiedendo scusa alle autorità italiane per avere violate. Però ribadisce tignoso, chissà perché, “noi a Malta non ci andiamo!” Intanto rimangono del tutto nebbiose le circostanze del recupero: da dove veniva il gommone, chi lo pilotava, dove sono finiti i responsabili. E fanno impressione anche i “profughi”: gente tra i 17 e i 30 anni, robusti, in gran forma, aria da combattenti, insolitamente senza una donna, un bambino, un vecchio. Sarebbe maligno pensare che sono stati reclutati per la bisogna da qualche “esercito di liberazione”? Aspettate che arrivino a terra, siano abbracciati da Ciampi e un Berlusconi-lacrima-al-ciglio e raccontino le loro agghiaccianti storie. Intanto il Consiglio di Sicurezza intima a Khartum di disarmare le milizie janjaweed, ma nulla dice delle armate secessioniste che dall’inizio dello scorso anno, armatissime, terrorizzano e saccheggiano i villagi. “Human Rights Watch”, immancabilmente presente là dove si svolgono tempeste umanitarie politicamente redditizie, lamenta la “debolezza delle pressioni su Khartum”.

Il capitano filo-israeliano ha atteso 9 giorni prima di comunicare a Porto Empedocle la richiesta di sbarco dei migranti. Gli servivano per allontanarsi da Malta, nelle cui acque i naufraghi sarebbero stati pescati da un gommone, pescaggio tempestivamente ripreso da telecamera tempestivamente sul posto, e al cui governo avrebbe dovuto indirizzare la richiesta. Malta era disposta ad accogliere i 36, ma a Malta la cosa, risolta subito subito, non avrebbe fatto rumore. Ecco quindi il peregrinare davanti alla Sicilia, all’Europa, al modo della Exodus, pronti per un’analoga operazione hollywoodiana, con tutti che fanno la parte in commedia: i tedeschi che non ne vogliono sapere, gli italiani che prolungano l’effetto imponendo il rispetto delle regole di sbarco, i cronisti che saltano sulla nave a raccontare gli orrori del Darfur, l’intervento alla grande di campioni dell’ambiguità non governativa e addirittura di Amnesty International. L’evento si presenta succulento, per i buonafede, per i malafede, per gli esibizionisti: arrivano a stormo Legambiente, Arci, Tavolo Migranti, Comitati a perdere, Cgil, Prc, parlamentari, giuristi, sindaci e, come commissari politici, i frati comboniani. Calogero Micciché e Paolo Cento solidarizzano con sciopero della fame. Compaiono con le fanfare anche quei veri e propri rincalzi delle guerre imperialiste che sono Medecins sans frontieres, l’organizzazione di Bernard Kouchner, governatore del Kosovo e supervisore dell’unica vera pulizia etnica vissuta dalla provincia serba, quella di 300.000 serbi trucidati o cacciati, quella di 135 chiese e monasteri bizantini inceneriti. Eventi passati nel silenzio del “manifesto” e di “Liberazione”, che pure qualche responsabilià nell’accreditare le balle dei guerrafondai ce l’avevano e ora la loro gigantesca coda di paglia la nascondono tra le gambe. Sono quelli di Msf che colmano i migranti di ogni ben di dio, insieme ad altre ONG, mentre nel contempo, silenziosamente, carrette del mare piene di gente poco interessante va a visitare i CPT di Bossi-Fini-Turco-Napolitano, o i pesci. Naturalmente il primato degli interventi umanitari spetta al tabloid di Curzi, che non si perita di ripubblicare con massima enfasi un libello de “L’Avvenire”, dettato da quegli apripista del colonialismo che sono i padri comboniani. Lì, più che altrove, il baricentro ce l’hanno “i criminali al potere a Khartum” e gli abitanti del Darfur, “dove la popolazione è vittima delle incursioni delle truppe di Khartum”. Non una parola sugli “eserciti di liberazione” e il terrorismo che seminano nel nome della secessione filoccidentale. Ciancia, il giornale della Chiesa, di “guerre dimenticate”, di “ennesima campagna di islamizzazione di una regione abitata da cristiani e animisti”. L’intento propagandistico e svergognato dal falso: nel Darfur vivono esclusivamente musulmani, arabi e neri. “L’Avvenire” sbaglia clamorosamente ma consapevolmente: non è nuovo al fiancheggiamento delle guerre (si pensi a Ruini e all’Iraq, a Woytila e alla Croazia cattofascista lanciata contro la Serbia ortodossa e socialista, o alla Bosnia della Sarajevo proclamata “martire” mentre scacciava per sempre metà della popolazione, quella serba), straparla dell’urgenza di “illuminare una tragedia sulla quale i riflettori dell’opinione pubblica e dei massmedia internazionali rimangono regolarmente spenti”. Questo, in un momento in cui i fasci dei riflettori occidentali sul Sudan sono talmente accecanti da farci vedere anche cose che non esistono. A qualcuno è tornato in mente il 1996 allorchè il “democratico” Clinton bombardò a Khartum l’unica fabbrica di farmaci anti-Aids e anti-malaria a basso prezzo di tutta l’Africa, facendola passare per fabbrica di armi chimiche e campo d’addestramento di Al Qaida? Quanto ci volle perché la stampa “alternativa”, quella che con “Liberazione” chiama “assassini” i partigiani iracheni, si accorgesse dell’abbaglio? Ci volle la BBC! E intanto la “roccaforte terrorista” sudanese aveva offerto a Washington la consegna di un Osama bin Laden, passato da quelle parti e arrestato, e si era vista rispondere: “Per carità, non ci interessa, mandatelo in Afghanistan”...

Insomma i vescovi fanno il loro mestiere, come i radicali, come i guerrafondai. Ma “Liberazione”? Bertinotti? Rossanda? Di “l’Unità” o del “Riformista” non mette neanche conto parlare. Ma gli altri non ci volevano convincere della profonda differenza tra alternanza e alternativa, tra riformisti e radicali? Lo scenario internazionale è la più evidente cartina di tornasole di un consociativismo da futuro governo capitalista insieme, barcamenandosi tra l’uno e l’altro imperialismo. E non da oggi. Pensate alla Jugoslavia, letteralmente tradita e mandata al macello con impegno senza eguali nella diffamazione del suo governo e del suo popolo; pensate a Cuba, dove terroristi mercenari dei killer USA diventano democratici dissidenti; all’Iran, dove seduta stante si sposano le ragioni degli “studenti” in marcia contro il governo con tanto di bandiere statunitensi al vento; a Haiti, sbranata dai toton macoute, dai marines e dai francesi e scandalosamente raccontata come episodietto esotico, con quello “strano”, “insufficientemente democratico”, di Aristide, e subito archiviata, alla faccia del prossimo Chavez, o Fidel; allo Zimbabwe di un leader come Mugabe, che si ostina a difendere il proprio popolo dalla voracità dei feudatari bianchi e diventa ovunque un “tiranno sanguinario”; al Tibet, di cui Bertinotti in persona esalta la guida spirituale nella nota figura di provocatore Cia del Dalai Lama, ultimo di una dinastia di tiranni medievali, rapitori di bimbi e pedofili; all’Algeria delle sobillazioni berbere, fatte passare per emancipatrici e democratiche, istigate dalla Francia revanchista; al Venezuela, ai cui golpisti al soldo di Washington Massimo D’Alema, partner di complotto e di governo futuro, offre consenso e plauso; alla Cecenia, per la quale, pur davanti a ospedali, o treni, o teatri fatti saltare con tutti dentro, il “manifesto” non sprecherebbe mai la parola “terroristi”, pur sapendoli addestrati alla bisogna dalla Cia in Afghanistan. Tutti questi falsi avvallati, insieme alla patacca del terrorismo islamico autogeno e alla lobotomizzazione della non violenza, sono stampelle al capitale e alla sua espressione imperialista, pari pari a quelle fornite dal sedicente Partito Comunista Iracheno, collaborazionista, membro del governo Cia di Iyad Allawi, partito più di tutti coccolato dagli USA come splendida copertura a sinistra, alleato del narcotrafficante curdo Jalal Talabani, agente israeliano, delatore della lotta di popolo per la libertà, al quale Gennaro Migliore, responsabile esteri RC dal nome-scherzo, ha voluto gemellare il suo partito.

L’elenco è tragico, raccapricciante. Ricorda il tradimento delle proprie responsabilità verso chi ha lottato e sanguinato prima di te, verso chi ti crede, verso la classe, verso la verità, praticato 14 anni or sono da Achille Occhetto. Attenzione, quell’“innovatore” lì oggi si aggira per loschi cunicoli della politica, alla ricerca disperata di sopravvivenza, per quanto vergognosa. Non è un bel vedere.

In Rifondazione qualcosa pare muoversi. Due donne di prestigio, Lidia Menapace e Ritanna Armeni, hanno di recente pubblicato un attacco feroce al personalismo in politica e nei partiti. Parlavano a suocera perché nuora intenda? Chi più Cesare, più “non avrai altro dio all’infuori di me”, del sub-sub-comandante? Giorgio Cremaschi ha sparato a zero contro il concertazionismo risorgente all’orizzonte del governo D’Alema-Bertinotti e denuncia: “Come in politica, si discute sulla forma degli schieramenti e delle alleanze a prescindere dai loro contenuti (i famosi “punti” flebilmente invocati dall’area dell’“Ernesto”). Questa scelta rischia di depotenziare i movimenti di lotta. Il punto è, se si vuole affrontare la crisi, occorrono politiche alternative al liberismo a tutti i livelli...”.

Giusto Giorgio, ma finchè non si aggiunge, per esempio, che con lo squartatore della Jugoslavia, il falsario della guerra umanitaria, il criminale di guerra che ha bombardato e ucciso migliaia di inermi cittadini, lo sponsor dell’associazione a delinquere “Arcobaleno”, quello che non perde occasione per sputare in faccia a brave gente che marcia per la pace e a cui il “puzza-al-naso” fa ribrezzo da capo a piedi, che con questo soggetto non si prende nemmeno un tè alla buvette e, tanto meno, si comprano pezzi raffermi di governo, hai voglia di ammonire.