L’ALCA: più che un’area di libero commercio, una ridefinizione del progetto egemonico degli Stati Uniti d’America

Marcos Costa Lima

Introduzione

Non si può, oggi, capire con chiarezza il processo di consolidamento dell’ALCA, senza osservare il suo sviluppo storico, che si inserisce nel contesto dei sostanziali mutamenti che ci sono stati nell’economia politica dell’ultimo decennio del secolo XX. È quindi fondamentale comprenderlo come articolazione di uno dei più importanti fenomeni della mondializzazione, che altera radicalmente le relazioni di produzione, del commercio e degli investimenti internazionali, nella misura in cui si impone come forza che condiziona tutto un sistema.

L’intenso sviluppo della mondializzazione, ha fatto in modo che il contesto nel quale è stata decisa la realizzazione del NAFTA, all’inizio del 1990, si sia profondamente alterato in questo principio di secolo. Da un lato, la disputa commerciale tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea ha una parte di rilievo, ma anche le differenze che si sono accumulate tra gli interessi geopolitici nordamericani e gli sforzi di maggior autonomia dell’Unione Europea, le quali caratterizzano la disputa per un’egemonia politica mondiale, fino a ora guidata dalla supremazia militare nordamericana (anche se questa oggi non può dare, in nessuna ipotesi, garanzie di pace per i prossimi venti anni). Dall’altro lato - in relazione al continente americano - abbiamo il fallimento, durante gli anni ‘90, delle politiche macro economiche di aggiustamento imposte dall’FMI e dalla Banca Mondiale, sfociato nelle crisi ricorrenti dei cosiddetti paesi emergenti e culminato nel violento disfacimento argentino. L’aggiustamento fiscale, la privatizzazione e la liberalizzazione del mercato, ovvero i tre pilastri della riforma, hanno acutizzato le disuguaglianze sociali e la povertà, motivo importante di un “mea culpa” fatto da uno dei promotori di questa politica, il quale, piuttosto ingenuamente, ha affermato di avere sempre saputo che tanto la promozione della crescita quanto la guerra contro la povertà erano delle questioni difficili da affrontare, ma che mai avrebbe immaginato che “uno dei principali ostacoli che le nazioni in via di sviluppo dovevano affrontare fosse stato creato dall’uomo e si trovasse dall’altro lato della strada -nella mia istituzione “sorella”
 l’FMI”
 [1].

Il 7 febbraio 1992, venne firmato il Trattato di Maastricht, raggiungendo l’obiettivo iniziale della Comunità Europea, che era quello di realizzare un mercato comune e di attribuirgli una vocazione politica con ampie implicazioni. Il Trattato ha segnato una nuova tappa nel processo di unificazione sempre più forte tra i popoli d’Europa: al momento della sua entrata in vigore nel gennaio 1993, l’Unione Europea era una comunità formata da 12 Stati Membri, che sono passati ad essere 15 nel 1995. Questo Trattato ha permesso di aggregare tre elementi basilari, conosciuti come i “3 pilastri” dell’Unione:

- La Comunità Europea - che ha sostituito la Comunità Economica Europea - ha acquistato competenze sovranazionali ampliate;

- la cooperazione in materia di politica estera e di sicurezza comune;

- la cooperazione in materia di affari interni e di giustizia.

Tra le altre attribuzioni, il Trattato [2] riconosce una cittadinanza europea, il diritto di circolare e risiedere liberamente nei paesi della comunità, la protezione degli stranieri da parte di ambasciate e consolati di qualsiasi stato membro, il diritto di votare e di essere votato tramite elezioni europee; il diritto di petizione davanti al Parlamento Europeo, il diritto di reclamare, di fronte a un mediatore europeo prescelto, per il funzionamento inadeguato della amministrazione comunitaria. Ancora, stabilisce la decisione di creare, a partire dal 1 gennaio 1999, una moneta unica sotto la garanzia della Banca Centrale Europea.

Nel 1990, l’allora presidente degli Stati Uniti, G. Bush, lanciò l”Iniziativa per le Americhe”, che, nella scacchiera delle relazioni internazionali, significava una risposta all’avanzamento e al consolidamento del processo regionale europeo. In quel periodo si sviluppavano l’egemonia liberale e il NTIC, le nuove tecnologie di informazione e di comunicazione, l’avanzamento della finanziarizzazione del capitale (soprattutto attraverso i fondi di investimento istituzionali, come i fondi pensione, fondi mutui e d’assicurazione, che, nel 1996, erano pari al 138% del PIL nordamericano [3]), con effetto deleterio sull’economia mondiale fino alla recente crisi del 2000 [4], della quale parleremo brevemente in seguito.

L’embrione del ALCA, pertanto, si distacca dalle vecchie politiche estere degli Stati Uniti verso l’America Latina; non tende più all’azione paternalista dell’”aiuto” alimentare; non ci sono più l’”Alleanza per il Progresso” dei vecchi Kennedy, e le azioni militari “anti insurrezionali” del periodo reaganomics. Ora si tratta di realizzare “affari”, di liberalizzare il commercio come meccanismo assoluto di promozione dello sviluppo regionale [5]. La dottrina liberale spiega dunque, con pretese di universalità, che non esiste altra economia all’infuori di quella di mercato, e che questa condizione è nella natura della società e, pertanto, un ordine naturale. Un nuovo orientamento è stato formalmente seguito da W. Clinton quando invitò al Vertice di Miami (1994), tutti i 34 paesi dell’America Continentale e del Caraibico, ad eccezione di Cuba. Evidentemente, questa nuova iniziativa riguardava un insieme di misure macro economiche, che dovevano essere adottate dai paesi latino-americani inglobati nel “ Consenso di Washington”  [6], e che, da una parte, sostenevano un’ampia deregolamentazione del sistema finanziario e di quello del lavoro; dall’altra agivano sotto forma di stretto controllo monetario e di riduzione sistematica dell’interferenza dello Stato nell’economia, attraverso un considerevole processo di privatizzazione degli attivi pubblici.

È stato in questo contesto di ultra liberalismo economico, che sono state progettate le nuove frontiere di espansione del capitale nordamericano, e l’ALCA è una parte importante di questo nuovo ordine, soprattutto ora, nell’attuale momento di crisi, che non vede la sua origine solo nel grande crollo di Wall Street, iniziato nel marzo 2000, ma, e, forse, soprattutto nell’attentato terrorista dell’11 settembre 2001, che ha posto il pianeta in una grande instabilità e incertezza, con la cosiddetta “guerra infinita” annunciata dagli Stati Uniti con le invasioni dell’Afganistan e dell’Irak.

E, sebbene non abbiamo intenzione di approfondire la dimensione militare, è importante sottolineare che si tratta di un aspetto fondamentale del contesto delle relazioni internazionali. Come afferma Anatol Lieven, “ il progetto di base generalmente accettato, è la dominazione del mondo da parte di una superiorità militare assoluta” [7]. La conferma della frase di Lieven ci avvicina, attraverso il PNAC [8], a un documento intitolato Progetto per il Nuovo Secolo Americano (Project for the New American Century), elaborato da Dick Cheney e Rumsfeld, ancora prima che Bush figlio venisse eletto presidente, o che venisse giustificato l’intervento militare in Irak come risposta all’11 settembre.

Questo nazionalismo conservatore che impregna il governo Bush, strutturato a partire dalla potente lobby petrolifera nordamericana, pregiudica le ancora timide misure prese dalla comunità internazionale, per realizzare investimenti in fonti rinnovabili di energia, contraddette dal disprezzo del governo USA nei confronti del Trattato di Kyoto. Come segnala Lieven, “questa guerra è inscritta nella straregia di lasciare al mondo i costi ecologici dell’economia nordamericana, senza nessuna contropartita per gli Stati Uniti” [9].

Il presidente Bush giustifica il carattere indispensabile del dominio nordamericano, con un vecchio discorso missionario, e facendo passare il suo paese come “Nazione Morale”, che esercita il suo potere senza volontà di conquista, come un sacrificio, in nome della libertà delle altre nazioni. Gli interventi militari sono stati definiti “indispensabili”. In verità, pratica la “guerra preventiva”, il che giustifica la presenza, oggi, di quaranta basi militari nordamericane all’estero, alle quali si sommano decine di accordi di cooperazione, dando agli Stati Uniti facilitazioni militari in tutti i continenti.

Soprattutto la posizione divergente di Francia e Germania, al momento dell’attacco all’Iraq, ci porta al problema di consolidamento di uno “spazio europeo di difesa” (che si sovrapponga alla Nato) che, prima o poi, dovrà essere affrontato dai paesi dell’Unione Europea [10].

Concluso questo sforzo di contestualizzazione, necessario a comprendere l’ambiente all’interno del quale si va strutturando l’ALCA, dividiamo questa nostra riflessione in tre parti: in primo luogo, faremo una breve caratterizzazione dell’attuale momento di mondializzazione, dominato dal settore finanziario, dove l’America Latina, tanto dal punto di vista continentale quanto in termini di riserva di mercato, di provviste di alimenti basici, di mano d’opera a basso costo e di biodiversità, è una componente fondamentale dell’ALCA, che è una delle espressioni della nuova politica regionale condotta dagli USA. In secondo luogo, analizzaremo i principali contenuti del Progetto ALCA, che implicano aspetti che oltrepassano, di molto, il campo di un accordo commerciale, e ne evidenziano altri di lesa sovranità, clausole abusive relative agli investimenti, alle proprietà intellettuali e alla spesa pubblica, che di fatto favoriscono gli interessi nordamericani. In tutti i punti della discussione, esiste una costante che ci porta ad avanzare l’ipotesi che questa è un’area di libero commercio priva di reciprocità e con un forte carattere impositivo. E, in terzo luogo, presenteremo la possibilità di costruire l’ alternativa di un MERCOSUL rafforzato, che sia capace di incorporare il Patto Andino, di consolidare un’Area di Libero Commercio dell’America del Sud (ALCSA) e di verificare le intenzioni dei nuovi governi dell’Argentina e, soprattutto, del Brasile su questi temi, o, anche, di verificare se ci sono spazi di manovra per ritirarsi dall’ALCA.

Infine, osservando le reazioni dei paesi e dei gruppi sociali in concreto, al gennaio 2005, faremo due indagini centrate: i) sulla possibilità di costruire, con i nuovi governi eletti, un modello di sviluppo per l’America del Sud nel suo insieme differente dal neoliberalismo e, ii) sulla misura in cui il progetto dell’ALCA dipende dalla ripresa della crescita economica nordamericana, il che permetterebbe agli USA di fare concessioni importanti ai paesi della regione.

1. Una mondializzazione disuguale

Non è un compito facile stabilire in poche righe lo stato attuale della mondializzazione, soprattutto perché si corre il rischio di trattare con leggerezza questioni rilevanti. Tenteremo quindi di riparare alle omissioni, seguendo le indicazioni dei lavori essenziali scritti sull’argomento [11].

Il processo di mondializzazione si basa su tre forti vettori nei quali siamo implicati: i) un’internazionalizzazione ampliata dalle imprese multinazionali, realizzata a partire dall’apertura delle economie nazionali alle transazioni esogene e all’ampliamento del commercio mondiale dei beni e dei servizi (Tabelle 1 e 2); ii) le trasformazioni prodotte dalle nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, che alterano profondamente e radicalmente i processi di produzione delle imprese [12] che passano a produrre in rete, riducendo il tempo di produzione e la durata di vita dei prodotti e alterando le relazioni di lavoro, nel senso dell’innovazione e della flessibilità delle regole lavorative; e iii) la globalizzazione finanziaria, che può essere definita come un processo di interconnessione dei mercati di capitale a livelli nazionali e internazionali, che porta alla conformazione di un mercato unificato dei capitali su scala planetaria [13]. L’aspetto distintivo di questa evoluzione, avvenuta negli anni 90, è il modello di leadership assunto dal sistema finanziario, che è passato a condurre e a determinare la dinamica e il ritmo delle aziende e dell’innovazione tecnologica, inaugurando, come chiarisce il lavoro di François Chesnais, un regime di accumulazione a dominazione finanziaria [14], e posteriormente definito da Aglietta come “economia dei mercati finanziari liberalizzati” [15].

Senza entrare nei dettagli di questo processo, che inizia nel 1979 con il mutamento dell’andamento della politica monetaria degli Stati Uniti, si può individuare nel debito pubblico un motore di propulsione della finanziarizzazione, fenomeno generalizzato dovuto a una riduzione del ritmo della crescita economica e al concomitante rialzo dei tassi di interesse. Secondo Phlion, il debito pubblico dei principali paesi industrializzati, che rappresentava in media il 20,5% del PIL nel 1980, è passato al 31,7% nel decennio successivo, e ha infine raggiunto il 44,6% nel 1995. Gli alti indebitamenti statali, che non possono più essere affrontati con le risorse interne, hanno fatto ricorrere agli investitori internazionali, specialmente a quelli istituzionali. In questo modo, i principali paesi industrializzati intraprendono delle politiche di deregolamentazione e liberalizzazione finanziaria. A partire da quì si consolida un mercato finanziario mondiale, alterando la ragione primaria della sua esistenza che era quella di salvaguardare il commercio mondiale e le bilance dei pagamenti. I flussi finanziari hanno una crescita esplosiva, e ignorano ciò che già venne stabilito da molto tempo, tanto da Marx quanto da Keynes, sugli effetti nocivi della speculazione economica, e arriveranno a raggiungere 50 volte i valori relativi al commercio internazionale.

È importante segnalare che nel suo sviluppo, il capitale finanziario inverte il suo ruolo e mira ad una nuova gestione dell’impresa [16], capace di remunerare, in breve tempo, gli investitori istituzionali [17], e esigendo tassi di interesse reali (non contando l’inflazione) del 10%. Questi fondi scoraggiano gli investimenti produttivi delle ditte, che preferiscono collocare i propri liquidi nella speculazione. Oltre a ciò, si è verificato il cosiddetto fenomeno della palla di neve, che altro non è che la crescita del debito pubblico, che, per essere pagato, esige tassi sempre più alti. Il fenomeno è perverso, poiché il carico del debito pubblico aumenta più dell’incasso fiscale dello Stato. Il risultato è stato una forte riduzione dei consumi delle famiglie e degli investimenti produttivi.

La “cultura” dell’investimento in Borsa, secondo Plihon [18], si è propagata nel primo mondo, e ha messo in risalto la Francia, dove una famiglia su tre detiene attivi finanziari e dove c’è chi destina più della metà del proprio patrimonio, che è costituito da attivi istituzionali, alla Borsa; nel 1970 nessuno investiva più di 1/3 del proprio patrimonio. Allo stesso tempo, l’ultima relazione delle Nazioni Unite, intitolata “La sfida delle bidonvilles: relazione Globale sull’Abitazione Umana” [19], ci informa che senza cambiamenti radicali nell’attuale tasso di crescita delle bidonvilles, il loro numero duplicherà entro il 2030, passando da una popolazione di 1 miliardo nel 2003, a 2 miliardi. La popolazione globale degli abitanti del pianeta sarà dunque costituita da 8 miliardi di essere umani. Quanto alla distribuzione geografica degli abitanti delle bidonvilles, oggigiorno, il 60% si trova in Asia - principalmente in India, Pakistan e Bangladesh. In Africa si trova il 24% degli abitanti delle bidonvilles e in America Latina il 14%, dove il primato lo detiene il Brasile [20]. Dominique Phlion introduce alcuni dati statistici, che seguono la stessa direzione dei numeri scioccanti riportati dall’ONU, e che riportano a una questione importante, ovvero all’approfondimento delle disuguaglianze tra i paesi industrializzati e le classi sociali, lungo l’egemonia della dottrina: a parte due paesi, secondo la Banca Mondiale, la presenza dei paesi in via di sviluppo sui mercati finanziari internazionali è passata dal 9,7% del totale nel 1991, al 5,5% nel 2000, nonostante rappresentassero l’85% della popolazione mondiale in questo ultimo anno. Allo stesso tempo, gli investimenti produttivi diretti alla costruzione di fabbriche e, soprattutto, all’acquisto di imprese locali, si sono ridotti dal 22,3% nel 1991, al 15,9% nel 2000 [21].-----

Per concludere questa parte, presentiamo un insieme di tabelle, con le quali si può verificare l’evoluzione dei flussi degli Investimenti Diretti Esteri (IDE) dei principali paesi dell’OCDE e del mondo; la partecipazione percentuale del commercio mondiale tra il 1980 e il 2001 e, infine, la struttura mondiale dei flussi commerciali, per quanto riguarda la destinazione e l’origine dei prodotti.

La Tabella 1 evidenzia la crescita vertiginosa dei flussi d’investimento esteri diretti a partire dalla seconda metà degli anni ‘90, e che si esprimono sia tramite la dislocazione delle imprese, sia tramite fusioni e acquisti, che, sebbene vincolate alla produzione, sono anche legate alla finanziarizzazione. Mettiamo in risalto, in rosso, l’accentuata caduta di questi valori a partire dal 2000, soprattutto in funzione al crack dell’”e-commerce”, posteriormente ampliato a tutta l’economia, che ha ridotto della metà i flussi mondiali dell’IDE, che nell’Unione Europea raggiungevano il 60%, e che negli Stati Uniti ha portato a una riduzione di questi investimenti del 75,8% [22].

In termini di commercio internazionale (Tabella 2), si verifica, in primo luogo, una forte concentrazione tra i paesi industrializzati, che attingono all’auge degli anni ‘90, quando questi paesi realizzavano in media il 71,8% degli scambi internazionali, che si sono successivamente ridotti al 67,0% nel 1996, e al 67,1% nel 2001.

La disgregazione a livello regionale, merita un’attenzione particolare: la crescita sistematica del deficit commerciale nordamericano; un miglioramento del commercio europeo, che si chiude in attivo già nel 1990 e che cresce ancora nel 2001; un’America in via di sviluppo che aumenta il proprio deficit commerciale a partire dagli anni ‘90, e che riduce la sua partecipazione al commercio mondiale, già al 3,2% nel 1980, per arrivare al 2,5% nel 2001, con una tendenza esattamente opposta a quella dell’Asia, che ha incrementato in maniera sostanziale la sua partecipazione al commercio mondiale, salendo da un valore medio del 15,5% del totale nel 1980, al 22,35% nel 2001, e che pur vedendo ridurre i propri surplus commerciali, evidenzia una maggiore integrazione nell’economia mondiale.

Analizzando le due tabelle, si nota che la sorprendente crescita dei flussi di investimento produttivi non ha implicato un corrispondente aumento degli scambi internazionali. Ora, se si osserva la situazione del commercio mondiale, a partire dalla struttura delle esportazioni dei principali paesi dell’OCSE e di due paesi in via di sviluppo (Tabella 3), Cina e Brasile, per regione di destinazione dei prodotti, si notano alcune importanti specificità. In primo luogo, Germania, Francia e Regno Unito, esportano soprattutto in Europa, con valori percentuali equivalenti, rispettivamente 60,5%, 64,6% e 57,7%. In più, se prendiamo come misura il totale delle esportazioni di questi tre paesi verso i paesi in via di sviluppo, abbiamo, nel 2001, un 75,7% per la Germania, un 76,9% per la Francia e un 80,3% per il Regno Unito, il che evidenzia un accumulo di commercio concentrato all’interno della Triade. Dei tre paesi in questione, il Regno Unito è quello che maggiormente esporta verso gli Stati Uniti e il Canada, ossia il 17,7% delle sue esportazioni totali, seguito dalla Germania con l’11,4%, e dalla Francia con il 9,5%, nel 2001.

Gli Stati uniti hanno una struttura di esportazioni più diversificata, essendo per il 57,0% dirette verso i paesi sviluppati, soprattutto perché mantengono una forte relazione commerciale con le regioni in via di sviluppo dell’Asia Orientale (16,9%) e dell’America Latina (21,8%). Qui ci interessano particolarmente le esportazioni verso i paesi implicati nell’ALCA. Se sommiamo le esportazioni degli Stati Uniti verso l’America Latina con quelli destinati al Canada, non verifichiamo solo l’importanza del mercato delle esportazioni statunitense all’interno dell’ALCA, ma anche la sua crescita nel tempo, dato che è passato dal 33,4% del 1980 al 44,2% del 2001 delle esportazioni mondiali.

Il volume del mercato europeo (23,5%) equivale praticamente a quello del mercato canadese (22,4%) (in relazione all’andamento del flusso commerciale di questo paese). Un simile commento si può fare in relazione alla struttura dell’ esportazione del Giappone, con la differenza che il maggior flusso delle esportazioni di quest’ultimo si dirige verso i paesi dell’Asia Orientale (40,3%), seguiti da Stati Uniti e Canada (32,0%), essendo minore il suo commercio con l’Europa (16,8%).

Il mercato sudamericano, invece, è divenuto, rispetto alle esportazioni provenienti dai paesi dell’OCSE, via via meno importante, al contrario dei flussi provenienti dagli Stati Uniti, per i quali esiste una relazione inversa. La Francia, che esportava il 3,6% del totale delle sue esportazioni in America Latina, le ha ridotte al 3,0% nel 2001; la Germania dal 3,3% al 2,6%, il Regno Unito dal 3,1% all’1,7%, e il Giappone, con una caduta ancora più accentuata, dal 6,55 al 4,0%, il che, in altri termini, vuol dire che gli Stati Uniti sono il maggior fornitore della regione.

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Tra i paesi in via di sviluppo, la Cina è quella che vanta il cambiamento più netto per quanto riguarda la struttura delle esportazioni, dato che negli anni ‘80 era praticamente chiusa alle esportazioni estere, con un valore di 18,139 milioni di dollari, per poi passare, nel 2001, a 266,140 milioni di dollari. In quest’anno, i suoi maggiori compratori sono stati l’Asia Orientale (33,3%), gli Stati Uniti e il Canada (21,7%), seguiti, a livello minore, dall’Europa (15,8%).

È impressionante il fatto che, nel 1985, la Cina e il Brasile esportavano nel mercato americano circa 7 miliardi di dollari all’anno, e che 17 anni dopo, il Brasile esporta 16 miliardi di dollari e la Cina 142 miliardi, senza contare che, solo recentemente, sono stati recuperati i surplus commerciali del Brasile dovuti alla svalutazione della moneta brasiliana. Secondo l’ambasciatore Rubens Barbosa, i cinesi subiscono barriere simili a quelle imposte al Brasile, ma comunque, riusciranno ad aumentare le vendite del 2.500% in questo periodo [23].

Per quanto riguarda le importazioni [24] (Tabella 4), la Germania, la Francia e il Regno Unito hanno concentrato nel 2001, nei paesi in via di sviluppo, rispettivamente il 73,3%, il 66,5% e il 74,8% del valore totale. In relazione ai paesi di provenienza, la Germania e la Francia, ricevono rispettivamente il 58,0% e il 57,7% dall’Europa, mentre il Regno Unito, soprattutto a causa del legame prioritario che ha con gli Stati Uniti, riceve dal mercato europeo il 52,1% delle sue importazioni. Il mercato dell’Asia Orientale è cresciuto, come origine delle importazioni, soprattutto per la Germania (10,1%) e per il Regno Unito (13,3%), e meno per la Francia (6,0%). La prossimità geografica dei paesi dell’Europa Orientale gioca un ruolo importante per la Germania, che infatti importa da questi paesi l’11,7% dei prodotti.

In America Latina, sempre a proposito della struttura delle importazioni, la presenza di questi paesi è decresciuta tra il 1980 e il 2001, in particolar modo quella della Germania che è passata, in questo periodo, dal 4,0% all’1,8%. Lo stesso vale per il Giappone. Per quanto riguarda le importazioni degli Stati Uniti dai paesi provenienti dall’ALCA, sebbene la percentuale sia minore se comparata alle esportazioni, esse sono considerevoli e sono aumentate tra il 1980 e il 2001. Questo paese importava dal Canada il 16,6% del totale dei suoi acquisti internazionali, passando al 18,7% nel 2001. Quindi, le importazioni degli Stati Uniti dalla regione dell’ALCA, rappresentavano il 31,7% nel 1980 e il 30,0% nel 2001 delle importazioni totali, tanto più che al che le importazioni provenienti dall’Europa raggiungevano appena il 20,5% nel 2001.

La Cina ha una relazione privilegiata, nel commercio delle importazioni, soprattutto con l’Asia Orientale, da dove, nel 2001, proveniva il 43,4% delle importazioni cinesi, seguito dall’Europa con il 19,0%, e da Stati Uniti e Canada, con il 15,1%

2. Il processo di costituzione dell’ALCA e le interferenze del NAFTA

Nel 1994, al Vertice di Miami, i 34 paesi del continente, ad eccezione di Cuba, hanno firmato un documento che pretendeva di creare l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), a partire dal gennaio 2005 [25]. Dall’inizio degli anni ‘80, la politica estera degli Stati Uniti si è tradotta nell’imposizione della liberalizzazione del mercato mondiale. Alla fine dell’Uruguay Round, sull’Accordo Generale delle Tariffe e del Commercio, nel 1994, le tariffe doganali vennero ridotte con un ritmo accelerato in tutto il mondo, e venne realizzata una notevole apertura commerciale nei paesi periferici.

Con l’OMC che fungeva da pilastro della mondializzazione, attraverso il commercio e le sue nuove esigenze, vennero aperte nuove frontiere per le grandi corporazioni multinazionali, dove le stesse aree tematiche che precedentemente venivano considerate dei tabù, ed erano protette dalle legislazioni nazionali, vale a dire la spesa pubblica, le assicurazioni, l’educazione, la salute e la previdenza sociale, divennero oggetto dei capitali internazionali e di commercializzazione, includendo la proprietà intellettuale e il patrimonio genetico. L’OMC non si è limitato a ridurre o ad abolire le barriere doganali, ma ha preteso la flessibilità delle leggi nazionali, nel senso di facilitare il dislocamento dei flussi dei capitali esteri con il fine di massimizzare le loro redditività e di ampliare le proprie aree di controllo.

L’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (AMI), elaborato dall’OCDE nel 1995, e che è rimasto sigillato fino al 1997, perseguiva soprattutto due obiettivi, che prevedevano il trasferimento della negoziazione sull’investimento all’OMC, e la creazione di un ‘ampia zona di libero commercio’ tra gli USA e l’Unione Europea, battezzata Paternariato Economico Transatlantico (PET). La proposta dell’AMI è stata definitivamente accantonata nel dicembre 1998 [26], ma molte delle sue intenzioni sono presenti nella legislazione del NAFTA e nelle proposte dell’ALCA. Questa liberalizzazione allargata degli investimenti, in termini regionali, significa la concessione del “trattamento nazionale” e del “trattamento della nazione più favorita” per gli investitori stranieri, per tutto ciò che riguarda lo stabilimento, l’acquisizione, l’espansione, l’amministrazione, la conduzione, l’operazione e la vendita degli investimenti stranieri. Ciò include la proibizione delle espropriazioni, la previsione di indennizzi, specie in caso di ribellioni, convulsioni sociali, etc., e in caso di limitazioni a un qualsiasi requisito di sviluppo o di profitto per gli investitori stranieri(ad esempio: l’imposizione di un livello di componenti nazionali in un prodotto,il trasferimento della tecnologia, generazione dell’impiego, etc.).

Il contenuto dell’AMI [27], è stato quasi interamente trascritto nell’Articolo 11 sugli investimenti del NAFTA (TLCAN)  [28]. Uno studio dell’Alleanza Sociale Continentale [29], ha constatato che tale capitolo 11 del NAFTA, va oltre qualsiasi altro accordo o trattato internazionale nel prevedere una serie di diritti e di protezioni per gli investitori internazionali, con il conseguente deterioramento delle strutture di sovranità dei paesi. Come era stato previsto dall’AMI, è proibita qualsiasi misura di disimpegno dalle imprese straniere, in quanto a volume delle esportazioni, catene di produzione interne, saldo positivo della bilancia commerciale, trasferimento della tecnologia [30], localizzazione geografica e ampliamento degli impieghi.

Oggi troviamo l’agenda dell’ALCA in fase avanzata, a partire dall’ottenimento da parte del governo Bush, dopo l’11 settembre, dell’avvallo del Congresso per stabilire l’Accordo per un “fast track” dell’impasse interna che non era stato superata da Clinton.

In buona misura, il processo ALCA contrasta, nell’America del Sud, gli sforzi per un consolidamento del Mercato Comune del Sud, in una relazione di forte asimmetria con gli USA, che non hanno mostrato volontà di reciprocità, tanto rispetto alla forma della Trade Promotion Authority (TPA) e della Bill Farm, consolidate da questo governo, quanto agli innumerevoli espedienti di rappresaglia commerciale - doganale - che colpiscono gli interessi di paesi come il Brasile, che ha una complessa realtà industriale di cui occuparsi. L’avanzamento dell’agenda dell’ALCA, ci spinge a fare maggiore chiarezza sul Progetto MERCOSUL, e a una definizione senza sofismi politici, che impedisca la dissoluzione del Blocco nella configurazione dell’ALCA. Si deve mettere in risalto, in questo contesto, la dimensione delle asimmetrie in gioco, dal momento che è noto che l’88% del PIL delle Americhe corrisponde all’insieme dei paesi del NAFTA. Il restante 12%, appartiene a paesi con gravi crisi sociali, economiche e politiche, con ridotte possibilità di poter influire nel processo, ad eccezione del Brasile, dell’Argentina e del Venezuela. Per questo motivo, si avverte l’ALCA come se fosse un “NAFTA plus”, con regole ancora più favorevoli agli USA.

Nel capitolo sugli investimenti, il NAFTA include il “diritto di stabilimento”, che è una garanzia per le compagnie straniere di avere il diritto di realizzare investimenti non solo nell’ambito della produzione, ma anche in terre, moneta, e azioni in borsa. È altresì garantito allo straniero l’accesso al mercato al dettaglio, il che significa mettere in difficoltà i fabbricanti messicani di beni di consumo, come scarpe, giocattoli, prodotti alimentari. Oggigiorno, in Messico, la K-Mart e la Wal-Mart sono i grandi venditori al dettaglio, che comprano, per esempio, in Cina, per rivendere in Messico, danneggiando i produttori locali. Le maquilas, secondo stime ufficiali, hanno creato, dal gennaio 1994, 800mila posti di lavoro, ma, allo stesso tempo, sempre dal gennaio 1994, i posti di lavoro persi nel mercato al dettaglio e nelle piccole industrie, sono stati all’incirca 2 milioni. Negli ultimi dieci mesi, il Messico ha perso una gran parte delle sue imprese “maquilladoras”, ed è molto remota la possibilità di poter inviare i lavoratori messicani a lavorare negli USA, visto il recente indurimento della legislazione statunitense in materia di immigrazione [31]

Gli effetti perversi dell’apertura del commercio tra paesi con struttura industriale, finanziaria e sociale così diversi, erano già stati annunciati da alcuni casi esemplari messicani. Nel 2002, nello Stato di Guajanauto, i piccoli agricoltori e allevatori sono scesi in strada per protestare contro la riduzione delle tariffe del NAFTA, che già minaccia il settore agricolo del paese. Per i messicani, il settore della piccola produzione agricola corrisponde al 4% del PIL, e, cosa ancora più importante, la sorte di 10 milioni di persone, circa un quarto della forza lavoro messicana, che ancora vive della terra. Secondo il Consiglio Nazionale dell’Agricoltura del Messico (CNA), l’agricoltore messicano riceve 722 dollari annuali di sussidio, mentre gli agricoltori americani possono ottenere 20.800 dollari all’anno, come parte della legge che concede 180 miliardi di dollari di sussidio all’agricoltura, stabilita dalla Bill Farm [32], e approvata all’inizio dell’anno passato. I grandi produttori nordamericani, avvantaggiati dall’intensa meccanizzazione, dalle tecnologie e dalle infrastrutture di gran lunga superiori, già hanno stabilito per il Messico un deficit nel commercio dei prodotti agricoli, che ha raggiunto i 4,1 miliardi di dollari nel 2001. Questo è solo un esempio dei tipi di minacce che riguardano paesi tradizionalmente esportatori di commodities agricole.-----

Il tanto proclamato miracolo messicano e la rapida triplicazione del valore esportato dal paese, nascondono il fatto che la concentrazione del reddito e della ricchezza si è aggravata in Messico, che il salario medio reale dei lavoratori è caduto dal 1994, e che la questione sociale è gravissima, secondo le dichiarazioni dello stesso presidente Fox. L’economia si è denazionalizzata e il paese è regredito in termini industriali. Infine, in virtù dell’ “hard landing” dell’economia nordamericana, le industrie maquiladoras hanno abbandonato il Messico per l’Asia.

Nel NAFTA, come nell’ALCA, esiste una clausola che obbliga il settore pubblico a rispettare i diritti dell’iniziativa privata, in materie che colpiscono la sovranità, come, per esempio, quella di permettere alle multinazionali e agli investitori stranieri di salvaguardare i propri diritti nei “tribunali” del NAFTA o dell’ALCA. I governi sono impossibilitati a processare le imprese mentre queste possono far pagare gli indennizzi.

Questo accordo prevede regole che permettono alle imprese transnazionali di richiedere compensazioni per qualsiasi misura che minacci una riduzione dei loro lucri. Sotto il NAFTA, le imprese possono sfidare le proibizioni contro l’uso di prodotti chimici tossici, o versare rifiuti tossici in località ad alto rischio di inquinamento dell’acqua potabile [33]. Questo potere, senza precedenti, conferito alle multinazionali, non permette ai governi di proteggere i diritti sociali e l’ambiente, e svincola questi investimenti da qualsiasi strategia di sviluppo. E per quei casi nei quali le regole contenute nell’articolo 11, non vengono severamente osservate, il NAFTA prevede sanzioni e indennizzi che sono stabiliti per le strutture autonome degli Stati, “meccanismi di soluzione delle controversie” che, nella forma nella quale sono stabiliti, proteggono gli interessi degli investitori internazionali, non considerando le leggi nazionali e il potere giuridico dei paesi che accolgono l’investimento straniero. È evidente che sono soprattutto le multinazionali nordamericane che vengono beneficiate, poiché basta comparare il basso grado di internazionalizzazione delle imprese latinoamericane con quelle nordamericane o canadesi [34].

Sempre in relazione alla questione degli investimenti, le garanzie eccezionali date agli investitori stranieri possono impedire, nella pratica, che il paese ospitante porti avanti qualsiasi politica di sviluppo industriale. Il capitolo 11 del NAFTA che, come abbiamo visto, trasferisce ai tribunali esterni le dispute tra investitori e governi, oltre a eliminare la protezione ai produttori locali, limita la sovranità e impedisce l’applicazione delle leggi nazionali, anche in campo ambientale. Anche le forme di indennizzo a un proprietario straniero, in caso di espropriazione, sono diverse da quelle stabilite a livello nazionale [35].

L’utilizzo discrezionale dei tribunali internazionali che non godono di legittimità democratica nei paesi nei quali ha luogo il conflitto, riduce la sovranità degli stessi, dequalifica la democrazia, e pregiudica gravemente la società e l’ambiente. Così, per esempio, il Canada ha dovuto indennizzare l’impresa statunitense Ethyl Corporation, compagnia chimica con sede in Virginia (produttrice dell’MMT, additivo per la benzina, considerato cancerogeno), per aver proibito l’uso sul proprio territorio dell’additivo MMT, un prodotto che pregiudica la salute, e, in più, ha dovuto revocare la legislazione che proibiva la vendita oltre frontiera dell’MMT [36].

Gli estratti degli arbitraggi internazionali, informano che c’è stata una violazione nell’articolo 11 del NAFTA/tlcan, riguardo a decisioni sovrane come la mancata autorizzazione alla Metalclad Corporation ad installare un deposito di residui tossici nello Stato di San Luis de Potosì, in Messico (i cittadini di San Luis De Potosì saranno costretti a pagare 16,7 milioni in compensazioni, per il diritto a non essere contaminati). Restano pendenti molti casi, come, per esempio, quello della canadese Methanex, la più grande produttrice al mondo di metanolo, un additivo per la benzina, che rivendica un indennizzo, da parte dello Stato della California, di circa 1 miliardo di dollari, a causa della proibizione dell’uso di questa sostanza che sta contaminando le fonti di acqua [37]. In un altro caso, l’americana United Parcel Service (UPS), sta usando questa norma contro le Poste canadesi, per il monopolio delle consegne delle lettere. In più, le poste canadesi consegnano anche le commissioni. E la UPS argomenta che si tratta di un sussidio incrociato, perché lo stesso camion della compagnia che consegna le lettere con il beneficio del monopolio, trasporta pure i pacchi.

È possibile prevedere che alcuni paesi [38] minori, avranno dei vantaggi settoriali, ma saranno sempre più dipendenti da un trade off disuguale rispetto ai prodotti industrializzati e con maggior valore aggregato provenienti dagli USA, fenomeno, questo, che ha le stesse dimensioni del Trattato di Methuen, tra Portogallo e Inghilterra. Inoltre, un paese come il Brasile ha molto da perdere, a causa della complessità della sua realtà industriale. Pochi settori esportatori che acquisteranno competitività e sviluppo tecnologico, come il settore dell’abbigliamento, avranno grossi vantaggi con l’apertura del grande mercato nordamericano. Nell’insieme, per quanto riguarda l’industria e il moderno settore industriale, e viste le fragilità macro economiche nelle quali ci troviamo, sarà un disastro.

Altre clausole presenti nel NAFTA, coerenti coi principi di non discriminazione, permettono la riscossione degli indennizzi pubblici nel caso in cui un governo adotti misure di politica economica che mirino alla riduzione dei lucri. Simili misure, prese a beneficio del settore pubblico, come le espropriazioni motivate da interesse pubblico, e misure equivalenti a una espropriazione (in pratica, tutte le modalità di regolamentazione statale), sono vietate dal citato articolo 11 del NAFTA. Se questo principio fosse stato in vigore in tutta l’America Latina, la Bechtel Corporation avrebbe ottenuto un notevole ritorno economico nella sua “Guerra dell’Acqua”, che ha visto protagonista il movimento popolare di Cochabamba [39], che rivendicava l’acqua come bene pubblico. Nel NAFTA, le corporazioni ottengono la protezione per quanto riguarda la riduzione dei lucri nei casi di regolamentazione statale di alcuni settori, situazione diventata urgente nel caso del collasso delle privatizzazioni nel settore energetico (particolarmente grave nel caso brasiliano) e nei sistemi di previdenza (soprattutto in Argentina e in Cile).

Esattamente come è successo per il NAFTA, il capitolo sugli investimenti nell’ALCA rappresenta la maggior parte dell’accordo. E il principale bersaglio sarà il Brasile, perché la maggioranza degli altri paesi della regione ha ceduto a quasi tutte le esigenze dell’FMI. Hanno ceduto riguardo questioni come l’”uso della terra” e l’”uso delle acque”, hanno reso flessibile la legislazione del lavoro e deregolato le proprie economie in favore degli investitori stranieri, alcuni hanno adottato il dollaro come moneta ufficiale, pur non avendo una politica industriale. Il Brasile ha varato leggi sui limiti minimi di componenti nazionali nella produzione industriale, e leggi che esigono il trasferimento della tecnologia come condizione per permettere un investimento. Il principale obiettivo degli Stati Uniti è quello di ridurre il Brasile a una grande riserva di manodopera a buon mercato e di risorse naturali strategiche (biodiversità compresa), e di incorporare 175 milioni di persone al mercato industriale e al servizio degli Usa.

D’altra parte, la struttura industriale e agricola del paese non è complementare a quella degli Stati Uniti e ha livelli di integrazione produttiva, di sviluppo tecnologico e di scale di produzione sensibilmente inferiori, che rendono il paese poco competitivo nei confronti dell’industria nord-americana. Una liberalizzazione del commercio emisferico, anche prima di giungere all’eliminazione totale delle tariffe (comprese le tariffe “invisibili”), anche considerando che per alcuni settori tale eliminazione entrerà in vigore tra cinque anni, l’impatto per l’industria brasiliana sarà altamente distruttivo. Secondo l’economista Conceiçao Tavares [40], anche quelle industrie nazionali che cercheranno di adeguarsi a un regime di maggiore concorrenza nell’ambito delle importazioni stimolate dalla politica di liberalizzazione, incluse quelle che operano nell’ambito del Mercosur, non riusciranno a sostenere l’abbattimento dei dazi.

Non è stato un caso che, nell’Aprile del 2001, ventinove corporazioni degli Stati Uniti dei settori petrolchimico e faramaceutico, tra gli altri, hanno firmato un documento diretto alle alte autorità del governo, manifestando il proprio sostegno all’utilizzazione del modello del NAFTA per la regolamentazione dell’ALCA [41]. E, nonostante le critiche rivolte al NAFTA, l’ALCA ha lo stesso suo orientamento, sia per quel che riguarda gli investimenti quanto la proprietà intellettuale, quest’ultima rafforzata da una raccomandazione dell’OMC relativa al TRIPS-Trade Related with Intelectual Properties- che consente il brevetto per gli esseri viventi (piante, animali, micro-organismi e materia biologica o geni), che è molto severa nel proteggere gli interessi delle corporazioni.

In altri importanti capitoli, come quello sull’agribusinnes, gli interessi delle grandi corporazioni nord-americane si scontrano, soprattutto, con la proibizione dei prodotti transgenici (OGM). Recentemente, multinazionali come la Monsanto hanno esercitato forti pressioni facendo sì che il presidente Lula permettese la produzione di soya transgenica, scatenando la reazione delle forze sociali organizzate e all’interno dello stesso Partido dos Trabalhadores [42].

Le aspettative brasiliane sul trattamento senza rappresaglie di acciaio, limoni, soja, carne, alluminio, calzature, etanolo, zucchero, tra gli altri, che sono state sistematicamente ignorate nelle relazioni commerciali con gli USA, sono state disattese. Sulle aperture commerciali necessarie al Brasile, il governo Bush non può cedere, perché il 2004 sarà l’anno delle elezioni e il presidente degli USA dipende dai voti dello Stato della Florida, che ha problemi riguardo alla produzione di limoni e di carne bovina;degli Stati della Dakota del Sud e del Nord; dello Stato del Montana, con problemi legati all’alluminio, alla soja e alla carne bovina; degli Stati dell’Ohio, della Pensilvania, dell’Illinois, dell’Indiana e del West Virginia, dove il problema centrale è quello dell’acciaio. Dall’altra parte, il Partito Democratico potrebbe cedere su queste questioni e in altri contenziosi col Brasile, perché non dipende dall’appoggio delle lobbyes dei laboratori farmaceutici, delle Banche e delle Compagnie di Assicurazione, tutte in mano ai Repubblicani.

Nella XII Riunione del Comitato per le Negoziazioni Commerciali e nella VII Riunione dei Ministri dell’ALCA, che si è tenuta a Quito, nell’Ecuador, tra il 28 Ottobre e il 1° Novembre 2002, si sono svolte attività decisive, tra le quali la presentazione della 2° bozza di Accordo Generale, l’inizio delle negoziazioni sull’accesso ai mercati, la presentazione, da parte dei paesi coinvolti, delle liste dell’offerta nazionali o regionali dei prodotti agricoli e industriali, dei servizi, degli investimenti e della spesa pubblica. Basti segnalare, riguardo questo ultimo capitolo, il fatto che il governo Nord-Americano esige, da parte degli stati contraenti, un’apertura alla svendita del settore pubblico che vada oltre il livello federale, contemplando anche i singoli stati brasiliani e gli stessi municipi [43]. Dà da pensare il fatto che grandi aziende di servizi di New York o di Chicago, capitalizzate e avanzate tecnologicamente, che lavorano nella rete mondiale, con tassi di interessi estremamente favorevoli, passeranno a competere con le analoghe aziende nazionali. È un processo estremamente iniquo, che provocherà una razzìa tra le medie aziende di servizi in settori come quello ingegneristico, informatico, di telecomunicazioni, pubblicità, salute, urbanizzazione, costruzioni civili, per limitarci solo ad alcuni. La migliore via d’uscita è, in questo momento, quella di garantire il single undertaking, che deve essere lo strumento dell’Itamaraty, vale a dire di non negoziare sulle singole tematiche, e di concludere le trattative solo quando tutte le questioni pendenti saranno risolte. Questa strategia, probabilmente prolungherà le negoziazioni sull’ALCA.

Nel settore dei servizi, le corporazioni Nord-Americane pretendono di introdursi nelle attività finanziarie e assicurative, e in quelle di distribuzione dell’acqua, come anche nell’educazione e nella sanità. Queste ultime sono particolarmente redditizie, la classe medio alta della Regione tende a ricorrere a prestazioni private, data la precarietà dei servizi offerti dal governo. Per quel che riguarda gli investimenti, la legislazione concederà alle compagnie straniere il diritto di ricorrere ai tribunali internazionali, a cui verranno attribuite competenze maggiori di quelle dei tribunali nazionali, come già avviene nel NAFTA, dove vengono dati indennizzi in favore delle imprese che hanno contenziosi col Messico o col Canada.

Nella Riunione di Quito fu fissato il termine del 15 Febbraio 2003 per la presentazione, da parte delle delegazioni nazionali, delle proprie proposte (con le eccezioni del Mercosur, del Caricom-Comunidade de Caraibe e della Comunità Andina, che hanno scadenze differenti) per comunicare le quote di base rispetto ai seguenti temi: accesso ai mercati; agricoltura, servizi, investimenti e spesa pubblica. Le discussioni, che punteranno a un alleggerimento tariffario, si terranno nell’ambito di un programma che prevede quattro fasi di abbattimento delle barriere doganali: i) immediata; ii) entro cinque anni; iii) entro dieci anni; iv) periodi superiori: oltre a ciò saranno trattati, tra gli altri, i temi delle certificazioni di origine, della salvaguardia, delle norme tecniche e delle barriere.

Altra questione fondamentale, dato che in una struttura industriale la conoscenza è privilegiata, è quella della proprietà intellettuale, per la quale abbiamo ricevuto forti pressioni dai nord-americani, sia nell’ambito dell’ALCA, sia nell’ambito dell’OMC. Obiettivi come quelli del “Codice per il Trasferimento delle Tecnologie” previsti nel Nuovo Ordine Economico Internazionale (UNCTAD), che, per lo meno, potrebbero essere messi nell’agenda delle negoziazioni, non saranno considerati nel contesto dell’ALCA. Le restrizioni alla libera circolazione dei capitali, una definizione dei settori nei quali permettere gli investimenti stranieri e di “requisiti di disimpegno”, espedienti ora utilizzati da alcuni paesi come misure di politica economica, saranno considerati degli “ostacoli” e saranno radicalmente rimossi, sotto la pena di severe sanzioni.

Dall’altro lato, è deplorevole che non siano stati proposti articoli sul modello europeo, o che limitino il potere della realpolitik nord-americana. Possiamo finora rimarcare il forte protezionismo degli Stati Uniti rispetto a prodotti provenienti dal Brasile che hanno vantaggi competitivi e per i quali non si è parlato di una maggiore apertura, come nel caso della soja brasiliana (prodotta per 40$ a tonnellata, prezzo molto più basso di quello nord-americano), oltre a quelli del succo d’arancia, etonolo, grande acciaieria, calzature.-----

Nel testo preliminare dell’ALCA il controllo del libero movimento finanziario è espressamente proibito, anche nel caso di controlli poco restrittivi come in Cile (dove, tra il 1991 e il 1998, si sono attuate leggi cosiddette di incasso [44]) e in Argentina (2003), e nonostante l’assenza di controlli sia fonte di gravi instabilità nell’economia mondiale (vedi le crisi in Argentina, Brasile e Messico) tanto che, a causa di esse, lo stesso FMI ha ammesso che si possano esercitare controlli sui capitali per limitare i danni della crisi in Russia. Il testo proibisce, inoltre, requisiti di disimpegno (integrazione nazionale delle catene produttive, grado o percentuale di contenuto nazionale, trasferimento di tecnologia e di conoscenze riservate, bilancio equilibrato tra esportazioni e importazioni, occupazione, sviluppo regionale, miglioramento della qualità della vita, ecc.), obbligando i governi a rinunciare alla propria sovranità in alcuni settori e ad alcuni progetti di sviluppo economico e sociale per i propri popoli.Il recente accordo di libero commercio firmato nel 2003 tra il Cile e gli Usa [45] è un’ulteriore dimostrazione del fatto che il modello del NAFTA è in pieno vigore. Si tratta, come affermato dall’economista Paulo Nogueira Batista [46] di un contratto di adesione formulato secondo le priorità degli USA e gli interessi delle sue corporazioni. L’accordo è vantaggioso e strategico per i negoziatori dell’”Impero”, perché serve da esempio e da principale referenza per la negoziazione continentale. Non per niente Bush ha insistito per stabilire il maggior numero possibile di accordi bilaterali, ognuno dei quali consente di ampliare le concessioni, e di stabilire priorità e precedenti [47].

Nell’accordo, il Cile concede ampie possibilità di accesso a tutto il mercato dei servizi, in particolare nei settori finanziario, delle telecomunicazioni, audiovisivi, edilizia e ingegneristica, turismo, pubblicità, trasporti, servizi professionali (architetti, ingegneri, contabili), servizi di distribuzione (ingrosso, vendita al minuto, poste), servizi ambientali, educazione per gli adulti, ecc.

Anche per quel che riguarda gli investimenti l’accordo è totalizzante. Stabilisce un meccanismo di soluzione delle controversie tra gli investitori e lo stato che, come abbiamo visto, permette il ricorso all’arbitraggio internazionale, surclassando la legislazione e il sistema giuridico del paese ospitante. Inoltre, tutti gli investimenti USA sono protetti, sia in relazione alle imprese, agli utili e alle concessioni, sia in relazione alla proprietà intellettuale. Su questo aspetto in particolare, l’accordo amplia la protezione per mezzo di brevetti, copyrights e marche, rispetto a quella già concessa grazie ad accordi simili. Si prevede quest’ampliamento delle protezioni (che, di fatto, porta a un rafforzamento del monopolio), per compensare carenze amministrative o di regolamenti sulle concessioni. Nondimeno si considera questo accordo come un modello.

Rispetto alle vendite all’asta di beni pubblici, oltre alle priorità che si pretende di stabilire nell’ALCA per le tre sfere del potere, nel caso Cileno queste riguardano 10 porti del paese e tutti gli aeroporti statali. Evidentemente il Cile non potrà concedere la priorità alle sue imprese in crisi, come ad esempio la Grande Irmão.

L’ALCA, pertanto, rappresenta una nuova tappa nel processo di deregolamentazione e di liberalizzazione degli investimenti stranieri su scala mondiale. Per la sua estensione e complessità, configura un cambiamento sistematico nelle relazioni tra gli USA e i paesi in via di sviluppo. Quest’accordo è coetaneo a un processo di approfondimento delle riforme neoliberali del FMI e della Banca Mondiale, che intendono avviare una cosiddetta seconda generazione di riforme neoliberali, flessibilizzando i diritti dei lavoratori, assicurando l’autonomia delle Banche Centrali rispetto allo Stato, promuovendo i fondi pensione. Questi ultimi, in via pionieristica, sono già stati introdotti in Cile, in seguito allo smantellamento del sistema previdenziale pubblico da parte della dittatura e degli economisti di Chicago. Tutto ciò implica un estendersi delle privatizzazioni dei beni pubblici a settori come l’educazione, la salute, l’acqua, l’energia, la biodiversità, ecc. In un periodo di crisi strutturale e di rinata competizione intercapitalista, l’Area di Libero Commercio amplierà significativamente il mercato degli Stati Uniti e, allo stesso tempo, intaccherà la sovranità dei popoli latino-americani.

Recentemente si è recato in Brasile il Sig. Peter Allgeiger, co-presidente nord-americano dell’ALCA, il quale ha affermato che gli USA non accetteranno modifiche alla struttura dell’Accordo ALCA [48], il che rafforza la nostra opinione sul carattere impositivo e senza reciprocità dell’accordo. Tocca al presidente Lula dimostrarsi all’altezza del suo ruolo, salvaguardando gli interessi sovrani del paese.

Di fatto, le competenze dell’ALCA vanno molto al di là di quelle di un’area di libero commercio, poiché è un accordo che incide sulle relazioni tra il settore dei servizi, il sistema finanziario, la spesa pubblica e gli investimenti. Riconosce, inoltre, un trattamento molto favorevole alle imprese che detengono brevetti e regole privilegiate sulla soluzione delle controversie tra Stato Nazionale e investitore straniero. Si intensifica il processo di deregolamentazione economico-finanziaria che tanti effetti perversi ha provocato nella regione lungo gli anni ‘90.

3. Il Brasile tra il Mercosur e l’ALCA

Alla fine degli anni ‘90 la strategia che si prospettava per il Brasile e per la sua agenda del commercio estero, era, dato il consolidamento del Mercosur nel 1998, di fare avanzare il Blocco Regionale nella direzione di un’Area di Libero Commercio dell’America del Sud. Parallelamente, insieme all’Organizzazione Mondiale del Commercio, cercare la liberalizzazione dei prodotti agricoli e agroindustriali. Si poteva anche pensare di dare il via all’ALCA, ma solo dopo aver oltrepassato queste due fasi concomitanti e, inoltre, con l’avvio di un processo correlato di accordo di libero commercio con l’Unione Europea. La crisi economico e finanziaria asiatica del 1997, che si propagò su scala mondiale, pregiudicò la strategia brasiliana, attaccando, con un colpo solo, le iniziative del Mercosur e dell’OMC e ostacolando l’avanzata dello stesso Mercosur. La pressione esercitata dagli Stati Uniti per far avanzare l’ALCA ad ogni costo, ha reso critica la posizione brasiliana all’interno del Mercosur, colpito pesantemente dalla crisi Argentina, che avrà bisogno di tempo per rimarginarsi.

Il dialogo tra Mercosur e Unione Europea si sta svolgendo su due fronti: il primo, dettato dall’orientamento dell’ALCA e dalla politica di allargamento nel mercato europeo, riduce notevolmente le aspettative di successo delle negoziazioni. Sandra Polonia Rios [49] afferma che “il Mercosur vede nell’avvicinamento all’Europa una forma compensatoria delle negoziazioni con l’ALCA”. Sul secondo fronte, si cerca di stabilire meccanismi capaci di ridurre le barriere in relazione alle esportazioni delle proprie commodities agricole nel continente europeo, poiché, se osserviamo la composizione delle esportazioni brasiliane verso il Mercosur, l’ALCA e l’Unione Europea, quest’ultima riceve la maggioranza dei prodotti basici.

Il Brasile è il paese che più interessa gli Stati Uniti per il consolidamento dell’ALCA: il governo Lula precisa che non intende tener conto delle pressioni esercitate dagli USA tramite l’accelerazione di accordi con i paesi più piccoli [50], pressioni a cui ha accennato, con una frase a effetto, il Segretario del Commercio Nord-americano, che recentemente ha affermato che l’alternativa per il Brasile al di fuori dell’ALCA è di “commerciare con l’Antartide”.

Il paese si trova davanti a tre prospettive centrali nel processo di costruzione dell’ALCA:i) non firmare l’Accordo; ii) negoziare un nuovo trattato; iii) accettare l’ALCA nella sua forma attuale - il che rappresenterebbe grandi perdite per la nazione e soprattutto per i lavoratori.

L’attuale vice-cancelliere brasiliano, ambasciator Samuel Pinheiro Guimarães [51] ha fatto delle interessanti riflessioni, minimizzando il possibile impatto negativo di una non adesione del Brasile all’ALCA. Secondo lui l’eventuale celebrazione di un “ALCA senza Brasile” o di accordi di libero commercio bilaterali tra Stati Uniti e ognuno dei paesi latino-americani non devono turbare il Brasile circa le nostre relazioni economiche con il Nord-America e rispetto alla nostra posizione nel mercato dei paesi latino-americani. Un esempio è il caso del Messico che, integrato nel NAFTA dal 1994, non ha ridotto le importazioni dal Brasile, anzi, le ha accresciute. Il Brasile potrebbe celebrare con ognuno degli altri paesi un accordo di libero commercio in condizioni simili a quelle ottenute dagli Stati Uniti e preservare la propria posizione competitiva.

Per Pinheiro Gutarrães sono tanto vari e importanti i vincoli e gli interessi degli USA in Brasile (occasione e luogo per opportunità di investimento e di lucro molto significative per le macroimprese nord-americane), che non hanno interesse a stabilire sanzioni nei nostri confronti, anche nel caso che ci ritirassimo dall’ALCA, né hanno il diritto di farlo, perché non c’è nessuna norma del Diritto Internazionale che obblighi un paese a negoziare o a partecipare a un progetto di integrazione economica. Ma,date le attuali correlazioni tra forze mondiali e volontà imperiale che agiscono su questo paese, è prematuro pensare che non ci sarà una rappresaglia. In ogni caso, il Brasile è un paese “global trader”, e, se si seguirà il modello generale dell’Accordo, soffrirà una riduzione delle esportazioni.

Guimarães dice inoltre che nel caso di qualche misura di boicottaggio da parte americana, questa sarà facilmente dirottata all’OMC, dove avremmo l’appoggio di tutti i paesi membri, talmente evidenti sono l’illegalità e l’arbitrio. Ma anche qui dipendiamo dall’andamento degli umori, poiché gli USA non rivendicano la Super 301. Le nostre relazioni con gli Stati Uniti possono essere condotte attraverso negoziazioni dirette bilaterali per rimuovere gli ostacoli specifici al commercio, o multilateralmente in seno all’OMC, dove la posizione negoziale del Brasile è molto più forte che nell’ambito dell’ALCA, grazie agli interessi e al peso politico degli altri paesi membri con i quali possiamo allearci. In questo senso, sembra coerente un’approfondimento dei rapporti con l’India, la Cina, la Russia e l’Africa del Sud, e, ovviamente, con l’Argentina e il Venezuela, per dar luogo a un “fronte emergente”.

Sarebbe possibile aprire al mercato americano, in modo adeguato, quei prodotti che ci interessano, attraverso negoziazioni bilaterali o nell’ambito di negoziazioni nell’OMC, dice ancora Guimarães. Molti prodotti brasiliani già entrano liberamente negli Stati Uniti, ciò è dovuto esclusivamente all’interesse americano (nel caso dei prodotti primari come il caffè) e, inoltre, non ci interessa ottenere libero accesso permanente per tutti i prodotti della lista, perché molti di quelli semplicemente non li fabbrichiamo. Gli ostacoli affrontati dagli esportatori brasiliani sono localizzati, specifici, aggravati dalla legislazione di difesa commerciale americana, che secondo la legge della Trade Promotion Authority (TPA), non può essere oggetto di negoziazione. Nel caso dei prodotti agropecuari, gli interessi americani e la loro rappresentazione politica nel Congresso e le difficili relazioni commerciali in questo settore con l’Unione Europea, che ha emanato leggi per mantenere e ampliare i sussidi all’agricoltura, complicano o impediscono le negoziazioni su numerosi prodotti di interesse brasiliano, come lo zucchero, il tabacco, la carne bovina tra gli altri, e indicano chiaramente che l’ALCA non è, e non può essere, una strategia adeguata per un’espansione del commercio estero brasiliano.

Lo sforzo di preservare spazi per un’applicazione di politiche industriali più incisive fu uno dei fattori principali nella decisione del governo brasiliano di ritardare l’invio delle sue proposte di apertura alle negoziazioni sull’ALCA, riguardo il settore della spesa pubblica, i Servizi e gli Investimenti (si stima che solo la spesa pubblica raggiunge, appena al livello federale, i 20 miliardi di Reali), posticipando così il termine stabilito da 34 paesi [52].

In quanto al Mercosur, i quattro soci hanno presentato all’ALCA una proposta comune sulla liberalizzazione del commercio di beni industriali e agricoli.

La proposta di consolidamento dell’Area di Libero Commercio delle Americhe-ALCA rappresenta, viste le argomentazioni qui riportate e la forma in cui è proposta dal governo statunitense, un’imposizione e non una ricerca di reciprocità. E neanche abbiamo considerato i dettagli sugli aspetti giuridici [53] coinvolti, che non sono meno importanti e che aggiungono altre difficoltà all’implementazione dell’ALCA, data la loro rilevanza rispetto alla limitazione della sovranità nazionale.

Si tratta, pertanto, di un progetto strategico del governo degli Stati Uniti, con l’obiettivo di consolidare il proprio dominio sulla regione, attraverso nuovi meccanismi di conquista commerciale, maggiori controlli sugli investimenti e sofisticate forme di supervisione dei flussi finanziari. A differenza dei mercati di Asia e Europa, l’America Latina è una sicurezza per le esportazioni delle compagnie nord-americane e una riserva strategica di manodopera, di materia prima e di biodiversità, oltre a un grande mercato. Il consolidamento di un modello economico e sociale che subordina le necessità delle persone agli interessi delle multinazionali e del capitale finanziario, oggi, affermandosi a livello planetario, avviene in una forma immensamente più perversa nelle regioni povere, o in via di sviluppo, con sistemi di benessere sociale precari e con élites compromesse con gli interessi esterni, regioni dipendenti e sottomesse ai processi di indebitamento, che asfissiano e riducono le possibilità di investimento in infrastrutture e nei progetti sociali più urgenti.

Una riflessione elaborata dallo scienziato sociale Claudio Katz [54], che parte da un’analisi macrosociale e politica, ammette l’incapacità della classe dominante latino-americana di realizzare un progetto di integrazione (utilizzando gli esempi dei progetti falliti del Patto Andino e Centro Americano) che pesa oggi sul Mercosur:”Se durante il secolo XX le borghesie regionali non hanno potuto sviluppare il programma bolivariano, oggi hanno perso l’interesse in questo obiettivo perché i loro legami col capitale metropolitano è notevolmente maggiore”.

Con lucidità, parla, inoltre, del problema della deregolamentazione del mercato del lavoro che, lungo gli anni ‘90, ha visto l’approfondirsi della precarizzazione e l’aumento della disoccupazione. Un progetto d’integrazione degno di questo nome dovrebbe, in primo luogo, stabilire le condizioni per rispondere alle esigenze di base dei paesi coinvolti: combattere la miseria, l’aumento del salario minimo e le possibilità di accesso al mercato del lavoro formale, l’educazione e la sanità gratuite. Il principio di base dovrebbe essere il miglioramento della qualità della vita e non, come succede, esclusivamente l’efficienza degli affari e delle politiche monetarie, che peggiorano la crisi sociale e di governabilità. L’approfondimento della politica neoliberale, come la storia latino-americana ha dimostrato negli ultimi vent’anni, si interessa solo a un piccolo gruppo di corporazioni multinazionali, al settore finanziario e a piccola parte delle borghesie nazionali, al settore delle esportazioni, alle oligarchie e ai professionisti dagli alti redditi impiegati in questo settore.-----

L’ALCA merita valutazioni più dettagliate e segmentate, ma nell’ambito di ampi forum democratici di discussione tra i paesi coinvolti, soprattutto per l’importanza di ciò che è in gioco per il futuro delle nostre società [55]. In questo senso, è da elogiare il plebiscito realizzato e promosso dalla Commissione dei Vescovi del Brasile (09/2002), pur tenendo presente le accuse di eccessiva semplificazione, dovuta all’utilizzo di domande a cui si poteva rispondere solo sì o no. Quella iniziativa mise in luce la necessità di fare in modo che gli argomenti trattati nei nostri forum economici e tra le élites professionali, possano essere divulgati, dibattuti e analizzati dalla popolazione brasiliana. Senza stabilire paragoni troppo generici, basti segnalare le forti critiche che furono indirizzate al processo di consolidamento dell’Unione Europea, sintetizzate nel concetto di deficit democratico, quando gruppi di tecnocrati hanno deciso sistematicamente tra alternative che definiscono i destini di molti paesi, tanto che sono stati provocati movimenti di ritirata, come fu il caso della Danimarca, o poche definizioni plebiscitarie, come quella in Francia e, nel 2003, quella svedese, che ha rimandato l’adesione del paese alla sfera dell’Euro.

Il presidente Bush si trova oggi in una posizione molto curiosa e simile a un racconto antico. Sta cercando di fare in modo che il Brasile si senta escluso, sventagliando il liberalismo pur attuando pratiche fortemente protezioniste. Le rivendicazioni del Brasile tanto nell’ALCA quanto nell’OMC sono esattamente quelle che Bush non può concedere, se vuole essere rieletto nel 2004.

Come afferma chiaramente lo scienziato sociale José Luis Fiori, la maggioranza dei paesi latino-americani non dà più fiducia, visti i precedenti, a un’opzione che, come negli anni ‘90, privilegi politiche neoliberali, e oggi cerca -con difficoltà- di intraprendere nuovi percorsi economici. “Ma non esiste ancora una coscienza chiara né un consenso che questo mutamento di rotta comporti necessariamente una ridefinizione della politica estera del continente”.

Le nuove politiche estere di Brasile e Argentina [56] dimostrano di essere coscienti di ciò che rappresenta per la regione questa nuova “diplomazia della globalizzazione impositiva” del presidente Bush. Di certo non si tratta di un confronto facile. Ciononostante, il costo di non affrontarlo è molto maggiore, perché l’approfondirsi di un modello che ha provocato regresso sociale, industriale e instabilità crescente
 e l’Argentina, su questo, è esemplare [57]- non è un’alternativa ma un’aggravante: da ciò è in gioco la sovranità di questi paesi.

Se, come dice Fiori [58], “ciò che si vede è un’affermazione di una nuova politica estera, attiva, presente, basata sull’interesse nazionale brasiliano, sull’affinità storica e territoriale del Brasile col resto dell’America del Sud, e sulla sua affinità di interessi con i “grandi” paesi in via di sviluppo”, tuttavia, riguardo alla politica interna, il governo Lula è ampiamente in debito, perché ha dato seguito all’eredità maledetta [59] dell’FHC, approfondendo le politiche monetarie e le misure macroeconomiche di stampo neoliberale.

Concordiamo con Fiori anche quando afferma che il terreno delle prossime dispute e divergenze economiche tra gli Stati Uniti e il Brasile sarà soprattutto nell’ambito delle negoziazioni dell’OMC, del FMI e dell’ALCA. Chiariamo, d’altra parte, che né il Brasile né il Mercosur riusciranno a uscire dall’impasse che le proprie politiche neoliberali hanno creato, senza rivedere concetti astrusi introdotti dal FMI, come, ad esempio, la normativa che impedisce a questi paesi di realizzare investimenti pubblici nel settore energetico, nel settore edilizio e delle infrastrutture, impedendo la realizzazione di un surplus primario. Non è difficile immaginare che dall’azione congiunta del Brasile con, soprattutto, Argentina e Venezuela, saranno decise le sorti dell’America del Sud per i prossimi vent’anni:sarà una regione con un progetto di civilizzazione o, al contrario, una regione delle barbarie.

Vale la pena di sottolineare che il Brasile è un paese che si differenzia dagli altri paesi della regione per dimensioni, popolazione, struttura industriale, grado di urbanizzazione, e dove, allo stesso tempo, si approfondiscono le disuguaglianze al crescere delle politiche neoliberali, anche se si riducono i livelli di pratiche politiche oligarchiche tradizionali, si amplia l’alfabetizzazione e, pertanto, i livelli di rivendicazione. In questo senso, una volontà politica nazionale di realizzare attivamente una politica industriale, non sarà una contraddizione per una realtà così complessa come quella brasiliana, che può galvanizzare tutto l’emisfero Sud dell’America. Poiché, come dice pertinentemente Fiori [60], è anche all’interno delle frontiere che si generano e si accumulano le risorse capaci di alterare la distribuzione del reddito, della ricchezza e della correlata distribuzione del potere tra le classi. A parere di questo scienziato sociale, può essere utile esaminare l’ipotesi secondo la quale il governo Lula potrebbe varare, in luogo del concetto vago di “post-neoliberalismo”, un progetto di recupero e di ridefinizione di una “via nazionale allo sviluppo”, senza quell’autoritarismo politico e anti-sociale che ha marcato la maggior parte della storia brasiliana. Il problema, ora visto da una prospettiva mercosuriana che si fortifica, è che se, da un lato, questa via è stata già tentata ed è fallita, dall’altro il capitalismo non viveva, all’epoca, la sua “esuberanza finanziaria”.

La crescente defezione in seguito al cammino tracciato dal governo Lula nel 2003 ha provocato un intenso e proficuo dibattito all’interno della sinistra brasiliana, che sta cercando di decifrare l’enigma simbolizzato con il paragone tra la sinistra e un ornitorinco, formulato da Francisco Oliveira [61] che imputa ai dirigenti del PT l’abbandono di una prospettiva socialista e un’adesione al sistema capitalista, attraverso la grande esperienza di dirigere i Fondi Pensione pubblici del Petrobràs, Eletrobràs o del Banco do Brasil.

Secondo Emir Sader [62], il PT, nella sua strategia, soffre per non aver costruito una sua propria teoria e per non aver progettato una via d’uscita dal liberlasimo: gli manca una produzione teorica capace di elaborare una società post-neoliberale. José Luis Fiori ribatte che questa non è una questione che riguarda solo il PT, e neanche la sinistra latino- americana, ma la sinistra mondiale. In ogni modo il PT è oggi un partito che si appoggia a forze considerate “post-captaliste”(?), “post-moderne”(?), adeguandosi al gruppo degli “ornitorinchi”. Ma, per attraente che sia la tentazione di restare al potere, alcune posizioni interne al Partito, già ipotizzano una scissione, perché un partito che costruisce la sua immagine nella lotta per le riforme sociali e per l’emancipazione dei lavoratori non potrà, al cristallizzarsi della pratica di governo, mantenere per lungo tempo una tale dissociazione dai propri principi costitutivi.

Ma, secondo Fiori [63], questa è una questione che attraversa la storia dei movimenti socialisti e della storia mondiale su ciò che vuole essere una “gestione di sinistra” o socialista del capitalismo che mai è stata consensuale. Le risposte date dai governi di sinistra sono state diverse nel corso del XX secolo. Il fallimento politico delle esperienze di Allende e di Mitterand, la graduale adesione dei socialisti ad una gestione neoliberale del capitalismo e l’abbandono progressivo delle tesi su un “capitalismo organizzato”, hanno contribuito allo sconcerto generale e alle defezioni politiche. Avanza una critica, formulata a sinistra, secondo la quale i tentativi di conquista degli stati nazionali sono inutili, poiché, al livello avanzato che si incontra nella mondializzazione, sarà impossibile conciliare una prospettiva di gestione progressista del capitalismo67. In questa vacua produzione di sinistra, sorgono, come fatto nuovo, i movimenti alter-mondialisti che, condividendo una pluralità teorica prepondetemente anti-capitalista, non ha solo incorporato nuovi temi all’agenda di sinistra, ma, soprattutto, ha rilevato nuove critiche allo status-quo.

Concludendo, queste considerazioni evidenziano soltanto la necessità di approfondire teoricamente le alternative che si collocano nell’ambito della sinistra, tanto quella latino-americana quanto quella mondiale. Nello spazio della politica economica dell’America Latina, falliscono i modelli derivati da Bretton Woods e dall’egemonia nord-americana sulla regione, tanto più che da tempo si è affermata una nuova dinamica, nuove condizioni che si presentano, di fatto, vantaggiose per il congiunto della popolazione latino-americana e caraibica che vive del suo lavoro, contro la pratica corrente (sia di governi autoritari che di governi pretestuosamente democratici) di compromettersi con il grande capitale e di sottomettersi ai capricci e ai dettami di Washington.

APPENDICE 1

Caso ETHYL vs. Governo del Canada

Un caso recente che evidenzia la gravità di questa clausola (a pag. 10, N.d.T.) è quello dell’impresa ETHYL vs. Canada. L’ETHYL è una compagnia chimica con sede in Virginia che ha una lunga e controversa storia, poiché dal 1922 cominciò a produrre piombo di tetraetile, un additivo usato per arricchire col piombo la benzina, in modo da aumentare l’efficienza del motore. Poco dopo aver cominciato la produzione, molti lavoratori della fabbrica del New Jersey hanno cominciato ad avere allucinazioni e convulsioni acute. Più tardi, cinque di questi lavoratori morirono. Solo 50’anni più tardi il governo degli Stati Uniti ha deciso di eliminare il piombo dalla benzina. Numerosi studi dimostrarono che le fughe e la diffusione del piombo da benzina stavano contaminando il suolo e le acque e che stavano penetrando nella catena alimentare. Il piombo da tubo di scappamento delle automobili provocava danni allo sviluppo neurologico.

Negli anni ‘50, la ETHYL Corporation sviluppò un nuovo additivo per la benzina, chiamato ethylcyclopentadyenilmanganese tricarbonile (MMT), anche questo per migliorare le prestazioni del motore. L’MMT contiene manganese, che provoca danni neurologici. Una formula concentrata dell’MMT è prodotta negli Stati Uniti, viene poi importata nel Canada da una sussidiaria canadese della ETHYL, viene diluita in una fabbrica in Ontario e venduta alle raffinerie di benzina canadese.

Nel 1997, l’MMT fu bandito dall’uso nella benzina senza piombo in California, che ha leggi proprie in materia, e dall’Agenzia Americana di Protezione ambientale (EPA) a causa di preoccupazioni ambientali e di salute pubblica. Per quanto si sapesse poco sui pericoli specifici dovuti alle particelle di manganese emesse dai tubi di scappamento delle automobili che usavano MMT, i pericoli dovuti all’inalazione del manganese già erano conosciuti dal XIX secolo. Il manganese trasportato dall’aria fu individuato come causa di danni neurologici che danno luogo a sintomi simili a quelli del morbo di Parkinson, nei lavoratori delle miniere di manganese. Una serie di studi occupazionali sugli operai di una fabbrica di batterie, lavoratori nel settore siderurgico e altri lavoratori, condotta negli anni ‘90, fu caratterizzata per la rilevanza di una “ineguale evidenza di livelli di neurotossicità” associata all’esposizione al manganese disperso nell’aria. Di conseguenza il Parlamento Canadese impose un’interdizione sull’importazione e sul trasporto inter-statale di MMT, nell’Aprile del 1997. Siccome l’MMT era prodotto soltanto negli Stati Uniti, tale interdizione, di fatto, portò al ritiro totale dell’MMT dalla benzina canadese. Il Canada aveva adottato questa misura per varie ragioni sia perché stava lavorando per diminuire i livelli di emissioni inquinanti delle autovetture, e sia perché secondo i fabbricanti di automobili, che potevano raccomandare o meno l’uso dell’MMT, il prodotto pregiudicava il funzionamento appropriato dei catalizzatori (catalytic converters) e di altri equipaggiamenti che aiutano a controllare le emissioni dei motori. Il governo canadese era cosciente del fatto che un uso continuativo dell’MMT poteva pregiudicare i suoi sforzi per controllare la pulizia dell’aria e che, per di più, poteva contribuire alla formazione dei gas serra, causa del surriscaldamento globale. Inoltre, era convinto dei potenziali effetti sulla salute causati dall’esposizione dei lavoratori e della popolazione a particelle di manganese disperse nell’aria, via MMT. Anche se i pericoli potenziali per la salute umana non sono del tutto conosciuti, il Canada ha agito preventivamente, come hanno agito la California e l’EPA negli Stati Uniti, in attesa di avere maggiori informazioni a disposizione.

Il 10 Settembre 1996, mentre il provvedimento di interdizione veniva dibattuto nel parlamento canadese, la ETHYL Corporation notificò al governo del Canada che, se quest’ultimo avesse varato restrizioni alla circolazione dell’MMT, avrebbe avviato un processo di indennizzazione, facendo riferimento al capitolo sugli investimenti del NAFTA. Il Parlamento ignorò queste minacce e approvò l’interdizione nell’Aprile del 1997. Nello stesso mese, l’ETHYL aprì il processo, basandosi sul Capitolo 11 del NAFTA (investor-to-state), contro il governo canadese, chiedendo un indennizzo di 251 milioni di dollari per danni. L’ETHYL argomentò che il NAFTA garantiva i suoi diritti e privilegi di fronte al governo canadese e che l’interdizione dell’MMT risultava essere un’espropriazione dei suoi attivi, il che è proibito dall’Art. 1110 del Trattato di Libero Commercio. Inoltre, l’ETHYL argomentò che l’interdizione era una violazione dell’Art. 1102, che riguarda il “trattamento nazionale” per gli investitori stranieri, per il quale possono essere bloccate le importazioni ma non la produzione locale di MMT. Infine, l’impresa argomentò che l’interdizione violava l’Art. 1106 del NAFTA, per il quale si richiedeva alla ETHYL di costruire una fabbrica in ogni provincia del Canada per adeguarsi all’interdizione dei trasporti e per fare investimenti di MMT in Canada.

Fu costituito un tribunale del NAFTA per aprire il caso ETHYL. Inizialmente, il governo canadese contestò la legittimità del processo 68: Il 24 Giugno 1998 il tribunale del NAFTA respinse la mozione canadese aprendo la strada alla continuazione del processo. Dopo questa fase iniziale, il governo del Canada decise di patteggiare un accordo con la ETHYL.Il 20 Giugno 1998 il Canada revocò l’interdizione del MMT, pagò 13 milioni di dollari per spese legali e danni alla ETHYL Corporation, ed ebbe l’obbligo di fare una dichiarazione in cui si affermava che “l’informazione scientifica corrente” non dimostra la tossicità del MMT né che l’MMT pregiudica il funzionamento dei sistemi diagnostici delle automobili.

L’argomentazione della ETHYL per la quale le restrizioni al MMT “espropriavano” gli investimenti della compagnia e la decisione del tribunale del NAFTA di non accettare il ricorso del Canada e di proseguire sul merito della questione, ha costituito un nuovo limite significativo e potenzialmente pericoloso all’esercizio di funzioni di base del governo. I governi devono poter regolare la commercializzazione di un prodotto per ragioni di protezione ambientale e di salute pubblica senza dover pagare una compagnia che importa quella sostanza. Effettivamente il caso stabilisce un’ulteriore tutela nei confronti degli investitori nel NAFTA, oltre a quelle già riconosciute dalle leggi degli Stati Uniti.

Minacciando di intentare un processo in ambito NAFTA prima che la legge fosse approvata e burlandosi delle procedure per contestare una legge o un regolamento, la ETHYL ha perpetrato una minaccia di danni monetari futuri sulla testa dei legislatori. Da quando il Parlamento Canadese ha ceduto alle pressioni, il numero delle minacce di contestazioni commerciali da parte delle imprese stanno aumentando. Il registro di minacce simili in ambito OMC mostra che queste possono avere un effetto deleterio sulle future politiche di interesse pubblico che stanno per essere studiate dal governo, e frequentemente risultano atti di difesa anticipati da parte dei governi, che cambiano una politica per evitare una contestazione commerciale, come ha fatto il Canada in questo caso.-----

Nel caso in questione il NAFTA è stato usato per ridurre una forte protezione domestica di interesse pubblico. Consapevole dell’affinità tra il piombo di tetratile e MMT e non volendo una ripetizione della storia devastatrice del piombo da benzine, il governo canadese agì in accordo col Principio di Precauzione. Il Principio di Precauzione è generalmente inteso nel senso che, nei processi in cui c’è rischio per la salute pubblica o per l’ambiente, ma per i quali i dati correnti sono insufficienti per quantificare o valutare esattamente un rischio, il governo ha il diritto e la responsabilità di operare per la sicurezza. Il principio è basato sul fatto che la scienza non sempre fornisce opportunamente le informazioni necessarie alle autorità per fronteggiare le minacce alla salute pubblica e all’ambiente. Come per l’esempio della benzina col piombo, a volte sono necessari molti anni e numerosi studi di lunga durata per comprendere in modo approfondito i pericoli di un nuovo prodotto. Le regole del NAFTA e dell’OMC, che seguono una logica a breve termine e pragmatica, stravolgono il Principio di Precauzione esigendo prove dei danni causati da un prodotto prima che un’azione restrittiva possa essere intrapresa. Tanto il governo canadese che quello degli Stati Uniti stanno realizzando questi studi.

APPENDICE 2

Informazioni estratte dal reportage di Public Citizen sul Capitolo 11 del NAFTA relativo ai diritti

degli investitori, che il governo Bush intende estendere all’ALCA. Investitori e nuovi diritti e privilegi in ambito NAFTA.

Secondo le nuove regole del NAFTA, un “investitore” che ha il potere di fare ricorso al sistema di sanzioni previsto nel Capitolo 11 del NAFTA è chiunque faccia un investimento in ambito NAFTA. Una lunga lista di attività commerciali costituisce un investimento secondo la definizione dell’Accordo.

Il Capitolo in questione contiene un ampio numero di nuovi diritti e protezioni relativo agli investimenti.

L’Art. 1110 di questo capitolo garantisce agli investitori risarcimenti da parte delle casse pubbliche (ovvero dei contribuenti) dei governi del NAFTA, in seguito ad espropriazioni dei medesimi (nazionalizzazioni) o altre azioni “equivalenti” all’esproprio o espropriazioni indirette.

L’Art. 1102, include un provvedimento di “trattamento nazionale” che richiede ai governi di di riservare agli investitori stranieri firmatari un trattamento non meno favorevole degli investitori interni, nel rispetto di tutte le fasi e gli aspetti dell’investimento, dall’inizio alla liquidazione dello stesso.

L’Art. 1103 prevede un “trattamento della nazione più favorita”, una clausola che esige dai governi di riservare per gli investitori stranieri firmatari un trattamento non meno favorevole del miglior trattamento riservato agli investitori in altra nazione firmataria o anche non firmataria, nel caso in cui questo trattamento sia migliore di quello dato agli investitori interni.

L’Art. 1105 contiene una clausola di “trattamento standard minimo” che prevede che gli investitori debbano ricevere un trattamento “in accordo con le leggi internazionali”, incluso un “trattamento giusto e equo, e protezione e sicurezza totali”. Questa vaga affermazione è stata usata in vari processi di investitori contro lo stato per espandere drammaticamente le tutele nei confronti dell’imprese del NAFTA.

L’Art. 1106 proibisce l’uso di “misure di disimpegno”, tanto all’interno di uno stato che a livello internazionale, mirate a limitare gli investimenti per salvaguardare l’ambiente o per assicurare benefici economici alle imprese locali.

Se un’impresa rileva che un governo viola questi diritti e protezioni, questa può intentare un processo di “risoluzione obbligatoria della disputa” e richiedere un indennizzo al di fuori del sistema giuridico del paese. Queste contese tra investitori e Stato, vengono arbitrate da gruppi di specialisti di commercio internazionale, e sono banditi la partecipazione, l’osservazione e l’intervento popolari. L’emissione di una sentenza da parte di questi arbitri, che non ammette il ricorso in appello, è obbligatoria. Due corpi di arbitri sono previsti nel Capitolo 11, che hanno giurisdizione sulle sanzioni private in ambito NAFTA: la Commissione delle Nazioni Unite sulle Leggi del Commercio Estero (UNCITRAL) e il Centro Internazionale della Banca Mondiale per la Risoluzione di Dispute sugli investimenti (ICSID). Queste due giurisdizioni non permettono l’accesso pubblico ai processi né alle loro documentazioni, come è, invece, garantito dalle corti nazionali. Prima di ricorrere a queste istanze, un tribunale composto da tre arbitri professionali si riunisce a porte chiuse, per aprire le pratiche delle due parti. Nella veste di conciliatori, i membri di questo tribunale possono ordinare che una nazione membro del NAFTA debba pagare una quantità determinata di dollari, come indennizzo per l’impresa i cui diritti, secondo la conclusione dei tre arbitri, sarebbero pregiudicati.

Questi diritti ampliati per gli investitori e queste restrizioni delle funzioni normali di un governo non esistono negli accordi dell’OMC o in qualsiasi altro grande accordo multilaterale. Appaiono soltanto nel NAFTA e in un numero crescente di accordi bilaterali firmati dagli Stati Uniti.

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[1] STIGLITZ, Joseph E. (2002)

[2] Il Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997, entrato in vigore nel 1999, ha realizzato una revisione, già prevista a Maastricht, che aveva come scopo principale quello di assicurare una maggiore efficacia delle istituzioni comunitarie, tenendo di vista la futura politica di allargamento.

[3] Negli Stati Uniti, gli attivi dei Fondi di Pensione raggiunsero i 4.752 miliardi di dollari, ovvero il 62% del PIL nel 1996. I Fondi Mutui, 3.539 miliardi di dollari, equivalenti al 46% del PIL, e le Compagnie di Assicurazione , 3.052 miliardi di dollari, cioè il 30% del PIL. In: IMBERT, P. (1999), p.44

[4] CHESNAIS, François e Dominique PLIHON (2003),La trampa e Gadrey, Jean

[5] GIRAULT (2003)

[6] WILLIAMSON, J (1990)

[7] LIEVEN, Anatol (2003)

[8] Il documento PNAC sostiene il “predominio globale degli USA, precludendo il sorgere di una grande potenza rivale,così da creare un ordine di sicurezza internazionale,in linea con i principi e gli interessi americani”. Secondo il documento, questa “grande strategia americana” deve essere proiettata nel “futuro il prima possibile”. C’è inoltre un appello agli USA per “lottare e vincere multipli e simultanei teatri di guerra”. Il rapporto descrive l’esercito americano come “la cavalleria della nuova frontiera americana”. Il documento PNAC sostiene un precedente documento scritto da Wolfwitz e Libby, che afferma che si deve “scoraggiare l’avanzamento industriale delle nazioni che sfidano la nostra leadership o addirittura aspirano a un ruolo regionale o globale più ampio”.

[9] LIEVEN, op. cit. p. 7

[10] Laurent ZECCHINI (2003).

[11] CHESNAIS, François, 1994, 1997; PLIHON, Dominique (2003), VELTZ P. ; ADDA, Jaques (2002)

[12] Si veda, per esempio, le trasformazione della Eriksson, della Sueca o della Alcatel, francese, che chiudono le loro filiali sparse per il mondo, assumendo ditte in sub-appalto, per concentrare gli sforzi nelle attività di alta tecnologia e di forte valore aggregato, come la concezione, il marketing e le vendite.

[13] PLIHON, Dominique (2003), p.20

[14] CHESNAIS, François (1997)

[15] AGLIETTA (2000)

[16] PLIHON, idem, p.30

[17] in: Agencia Carta Maior, 7/10/2003; “Un sesto della popolazione mondiale vive nelle bidonvilles, a detta dell’ONU”

[18] Allo stesso modo, il rappresentante dell’ONU per il Diritto all’Alimentazione, Jean Zigler, ha affermato che “ogni 7 secondi, in qualche parte del mondo, muore un bambino di meno di 10 anni, direttamente o indirettamente, di fame”. In: 5/10/2003, Fhola on line.

[19] Banque Mondiale. Rapport sur le financement du développement, 2001. In: PLIHON. P.29

[20] Cf. COSTA LIMA (2001), pp.202, 204

[21] Cf. ROMERO (2002)

[22] UNCTAD, Handbook of Statistics, 2002.

[23] Cf. RIOS (1999). TAVARES (1998). GUIMARES (2002). DE ALMEIDA (2001)

[24] GERGE (1999): tanto la Francia quanto il Canada hanno abbandonato le negoziazioni, vedi tb. LEHER (2003)

[25] Vedere Appendice 2

[26] North American Free Trade Agreement (NAFTA) o Tratado de Livre Comercio da America do Norte (TLCAN).

[27] ASC. Il progetto dell’ALCA e i diritti degli investitori nel “TCLAN plus”. In: Estudios sobre el ALCA , Santiago, Cile:Friedrich Ebert Stiftung n. 14, Giugno 2003

[28] L’Art. 7 del capitolo sugli investimenti vieta espressamente requisiti di disimpegno, incluso quello che si riferisce al trasferimento delle conoscenze: “ quando si trasferisce a una persona nel suo territorio,la tecnologia, un processo produttivo o un’altra conoscenza della sua proprietà, salvo quando il requisito è imposto da un tribunale giudiziario o amministrativo, o da un’autorità competente, per riparare a una supposta violazione della legge in materia di competenza, o per attuare in una maniera che non sia incompatibile con altre disposizioni di questo Trattato, nessuna parte può esigere (...) generazione d’impiego, capacità di mano d’opera, o realizzazione di attività in materia di ricerca e sviluppo”(J.Estay. Op. cit., p.77)

[29] Cf. COSTA LIMA (2001)

[30] Cf. SMITH, (2002)

[31] Vedere il caso dell’impresa nordamericana Ethyl Corporation contro il governo canadese, nell’Appendice1.

[32] Tra le maggiori 500 imprese brasiliane, solo 19 hanno investimenti all’estero.

[33] L’impresa nordamericana BECHTEL, sta processando la Bolivia nel tribunale di arbitraggio della Banca Mondiale. Reclama un indennizzo di 25 milioni di dollari per la cancellazione, nel 2000, della concessione del servizio dell’acqua a Cochabamba, dopo la protesta per l’aumento delle tariffe, occasione nella quale ci furono nove morti, e che portò il governo a decretare lo stato d’assedio. Il governo boliviano argomenta che l’impresa non ha investito più di 500 mila dollari. Esiste al momento una campagna internazionale per fare pressione sulla Betchel perché desista dall’azione.

[34] Vedere il caso in maniera dettagliata nell’Appendice1.

[35] In: Public Citizen’s World Watch.

[36] Cf. Piano Puebla-Panama, che coinvolge una grande area che va da Puebla, Messico, a Panama. In: Le Monde Diplomatique, Déc 2002, pp.14:15

[37] CHAVEZ, (2003).

[38] Op. cit.

[39] ASC., op. cit., p.2

[40] Queste pressioni vengono attribuite alle grandi corporazioni dell’agribusinnes biotech come la Del Monte, la Green Giant, la Cargill, la Monsanto e la Archer-Daniels Midland.

[41] Per questa clausola, i governi saranno obbligati a dare luogo a gare d’appalto internazionali per l’acquisto di beni e servizi, purché i contratti superino i $50.000 (per beni e servizi) e $6.5 milioni per gli edifici, se il referente è il governo centrale; $250 mila per beni e servizi $8 milioni per gli edifici, se il referente è uno dei singoli stati brasiliani. Per i municipi vanno applicate tariffe in proporzione.

[42] Il Cile utilizzò questo sistema tra il 1978 e il 1982 e tra il 1991 e il 1998. Nel secondo periodo, questo strumento ha limitato l’ingresso dei capitali e ha permesso di migliorare la composizione del conto capitale, sostituendo i flussi finanziari a breve termine, che si sono ridotti dal 96,3% del totale ad appena il 2,8% nel 1997, con flussi a lungo termine. In:PUDWELL (2003), p. 143

[43] www.ustr.gov :United States Trade Representative

[44] NOGUEIRA BATISTA (2003)

[45] “Per creare occupazione nel nostro paese, dobbiamo continuare a firmare accordi di libero commercio che aprano i mercati stranieri ai prodotti Nord-Americani”; discorso di Bush tenuto alla fine di Ottobre in California, così commentato da Robert Zoelick : “Quanto più estenderemo i nostre rapporti commerciali con le altre nazioni, tanto più favoriremo la crescita in casa”

[46] NOGUEIRA BATISTA, op. cit.

[47] RIOS (2000)

[48] GIRAULT (2003)

[49] Cf. GUIMARRAES (2002)

[50] La spesa pubblica negli Stati Uniti si limita quasi esclusivamente all’acquisto di armi ed equipaggiamenti militari,limitatatamente, per legge, a fornitori locali. Nel caso brasiliano, la spesa pubblica, in maggioranza, è rivolta all’area civile e, pertanto, è esposta alla concorrenza generalizzata.

[51] LACOMBE, Masset (2002)

[52] Katz, Claudio (2002)

[53] Cf. GIRAULD (2003)

[54] in FIORI (2003): “Da qui, il governo si dedica a esporre il suo punto di vista e comincia a muovere le sue pedine sulla scacchiera, a partire dall’opzione per la priorità sud-americana e del Mercosur. Stabilirà in seguito una serie di ponti e alleanze possibili in Africa e in Asia, come successo per il G21, nella riunione di Cancun dell’OMC, e come sta avvenendo per le negoziazioni del G3, con l’Africa del Sud e con l’India. O, ancora, come sta avvenendo per le compagnie tecnologiche in Ucraina, Russia e Cina, o per i progetti di infrastrutture di Venezuela, Bolivia, Perù e Argentina.”

Cf. inoltre SADER (2003) riguardo all’Accordo di Buenos Aires, documento firmato il 16 Ottobre da Lula e Kirchner, visto come una “via d’uscita dal neoliberismo”. Qui si afferma che l’integrazione sud-americana ha come obiettivo “la costituzione di un nuovo modello di sviluppo, nel quale alla crescita siano associate giustizia sociale e dignità ai cittadini”

[55] “In un anno il Prodotto Interno Lordo è calato del 6,13%. Nel corso del primo semestre 2002, l’attività del settore manifatturiero (tutti i beni inclusi) è ribassata del 22,8% e quella dell’edilizia del 41,5%. Un organismo ufficiale, l’IPC, fece la previsione che la quota dei salari sarebbe cresciuta del 25% nel 2002. (...) Al Giugno 2002, fu riconosciuto che il 52% degli argentini vivevano sotto la soglia della povertà e, poco meno della metà di questi, in stato di indigenza.” In CHESNAIS, F. e DIVES , J.P. (2002), p. 196

[56] In FIORI (2003a)

[57] COSTA LIMA (2003a) A herança maldita de FHC.Testo presentato nel marzo 2003 al Center for Development Studies dell’Università di Wales-Swansea, Gran Bretagna

[58] FIORI (2003a)

[59] In: CARIELO (2003)

[60] In FIORI (2003a)

[61] FIORI (2003a)

[62] Così si può intendere il fenomeno della “radicalizzazione” francese nelle ultime elezioni presidenziali (2002), con l’eliminazione al primo turno di Leonel Jospin, candidato socialista, e del gran risultato ottenuto dalla candidata trotskista Arlette Laguilier.

[63] Reclamando che l’interdizione non era una “misura” coperta dal Capitolo 11 del NAFTA, e che la ETHYL non aveva aspettato i sei mesi dal momento dell’approvazione e dell’implementazione della legge, richiesti per aprire una contestazione giuridica. In: Public Citizen’s Trade Watch.