Le tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Seconda parte. Ancora sul fattore lavoro e dinamica degli investimenti

Premessa

Nel precedente N.3/98 di Proteo si è affrontata la Pri­ma Parte dell’analisi-inchiesta: "Le tendente macroecono­miche del processo di ristrutturazione capitalistica’", dedicata ad un"`Analisi statistico-economica sull’andamento dei parametri relativi al fattore lavoro", ripercorrendo le tappe dagli anni `70 alla prima metà degli anni ‘90. Ci sembra opportuno, prima di affrontare il seguito dell’ana­lisi tenendo conto di altri parametri che riguardano più da vicino il fattore produttivo capitale, allargare il quadro di riferimento per una più aggiornata e puntuale inter­pretazione dell’andamento del fattore lavoro. E’ possibile che nelle prossime pagine, a volte, ci sia qualche dato o qualche considerazione ripetuta rispetto ai contenuti del numero precedente, ma l’obiettivo principale è quello di aggiornare i dati sul mercato del lavoro fino a tutto il 1998 e i primi mesi del 1999, cogliendo, inoltre alcune tendenze che, seppur già evidenziate negli anni preceden­ti, stanno ora assumendo caratteri più marcati.

Il processo che ha caratterizzato lo sviluppo indu­striale degli ultimi venti anni nei paesi a capitalismo avanzato è contraddistinto da un forte aumento della pro­duttività del lavoro a cui è corrisposto un risparmio di la­voro che eccede decisamente la creazione di nuove op­portunità occupazionali. In effetti gli incrementi massic­ci di produttività dovuta ad intensi processi di innovazio­ne tecnologica e ad una conseguente ridefinizione del mercato del lavoro, hanno fatto si che tali incrementi si traducessero esclusivamente in aumenti vertiginosi dei profitti e delle varie forme di remunerazione del fattore produttivo capitale. Il fattore lavoro non ha avuto alcun tipo di beneficio in termini di redistribuzione reale di tali incrementi di produttività, in quanto come si è visto nel precedente numero di PROTEO e come si vedrà nel se­guito di questo lavoro, non si è realizzato incremento oc­cupazionale, né corrispondenti incrementi nell’anda­mento dei salari reali, né tanto meno relativi andamenti decrescenti nell’orario di lavoro ed infine neppure l’al­largamento, anzi neppure il mantenimento dei preceden­ti livelli di salario indiretto quantificabili attraverso la spesa sociale complessiva. Dal punto di vista degli inve­stimenti si nota altresì un evidente rallentamento, poi-ché in quasi tutti i paesi a capitalismo maturo sono forte-mente diminuiti gli investimenti pubblici (tranne quelli imputabili alle spese militari in genere) ed anche gli inve­stimenti materiali reali privati stentano a crescere, se non in alcuni casi dimostrano una sostanziale staticità.

Ciò a significare che i processi di investimento e di ac­cumulazione capitalistica stanno mutando completa-mente orizzonte; la globalizzazione assume sempre più connotati finanziari, pertanto gli incrementi di produtti­vità che sono andati ad esclusivo vantaggio del profitto e del capitale, si tramutano prevalentemente in investi-menti finanziari, interni od esteri, e in investimenti in ri­sorse immateriali del capitale intangibile rendendo del tutto residuali quegli investimenti produttivi capaci di realizzare occupazione. E’ per tali motivi che subito dopo l’approfondimento e l’aggiornamento dei parametri rela­tivi al fattore lavoro, in questa Seconda parte dell’analisi-inchiesta, ci si soffermerà su una lettura della dinamica degli investimenti, sia di quelli fissi, sia degli investimen­ti diretti esteri (IDE). Ciò per meglio evidenziare che il quadro del capitalismo internazionale nell’era post-fordi­sta-taylorista si caratterizza attraverso incrementi di pro­duttività che non si redistribuiscono in maniera equa che neppure mantengono il livello di salario sociale globale ma che si indirizzano sempre più verso il capitale, capi-tale che determina le sue forme di investimento, e quin­di di accumulazione, attraverso processi di finanziarizza­zione e di incremento delle risorse immateriali del capi-tale intangibile, che trovano nell’informazione e nella co­municazione i loro elementi strategici portanti. Questo è il quadro di riferimento dell’attuale processo internazio­nale di un Profit State globale incentrato sul modello di accumulazione flessibile.

Sarà la Terza parte dell’analisi-inchiesta che verrà svi­luppata nel prossimo numero di Proteo che si occuperà più da vicino dell’analisi dei dati relativi agli altri parame­tri del fattore capitale (come la produttività, i ricavi e i profitti) fino a leggere attraverso i dati i processi di inter-nazionalizzazione, concentrazione e delocalizzazione produttiva.

1.Il mercato del lavoro nella seconda metà. degli anni ’90

Le tendenze macroeconomiche presentate nel nume­ro precedente di PROTEO (si veda anche il Graf.1) sono confermate dall’andamento dei parametri per il 1997 che segnano un incremento del PIL sull’anno precedente del 3,8% per gli USA, dello 0,9% per il Giappone, del 2,2% per la Germania, del 2,3% per la Francia, del 3,3% per il Re­gno Unito e infine dell’1,5% per l’Italia; rispettivamente negli stessi paesi si hanno variazioni percentuali sull’an­no precedente dell’occupazione del 2,3%, 1,1%, -1,4% 0,3%, 1,7% e valori anche estremamente bassi per l’Italia.

Nel 1997 si hanno tassi di disoccupazione del 5% per gli USA, del 3,4% per il Giappone, dell’11,5%, per la Ger­mania, del 12,5% per la Francia, del 5,6% per il Regno Unito e del 12,3% per l’Italia. Per gli stessi paesi è infine importante riferire gli indicatori economici relativi al co­sto del lavoro per unità di prodotto che realizza rispetti­vamente incrementi dello 0,9% in USA, del -2,8% in Giap­pone, del -5,8% in Germania, del - 3% in Francia, del 3,3% nel Regno Unito e del 2% in Italia.

Per effettuare una sintesi dei dati europei sul mercato del lavoro innanzitutto occorre chiarire che per disoccu­pati si intendono tutti coloro che sono in cerca di occu­pazione.4

Va ricordato che la disoccupazione può essere classifi­cata in tre diverse tipologie: disoccupazione strutturale, disoccupazione congiunturale e disoccupazione tecnolo­gica. Una delle cause della disoccupazione strutturale è insita nel fatto che le strutture occupazionali sono ormai superate: ci si riferisce al mercato, alle politiche per l’oc­cupazione, alla legislazione del lavoro, alla concorrenza sempre più sfrenata di nuovi paesi che producono a costi non uguagliabili rispetto a sistemi a capitalismo avanza­to. Se a ciò si aggiunge la mancanza di adeguamento del-le produzioni, che in Italia sono rimaste ancorate ai set-tori tradizionali senza investire in nuove produzioni, si comprende la drammaticità del problema. La disoccupa­zione strutturale infatti, causata dalla sostituzione delle macchine al lavoro umano e la conseguente riduzione della richiesta di lavoro meno qualificato, colpisce soprat­tutto gli immigrati e tutti coloro che non hanno una ade-guata preparazione scolastica o possiedono titoli di studio molto bassi, disoccupazione che ormai si accompagna a quella intellettuale e di lavoratori che anche se specializ­zati vengono espulsi o esternalizzati dal ciclo produttivo a causa di ristrutturazioni e di abbassamento dei costi per mantenere un’adeguata competitività internazionale.

Va poi considerato il fatto che ogni anno aumentano di circa lo 0,50% le risorse di manodopera e quindi ogni decelerazione della crescita comporta un aumento espo­nenziale della disoccupazione (disoccupazione congiun­turale). A questa si accompagna poi la disoccupazione tecnologica che da sempre ha interessato le società indu­striali. E’ chiaro che lo sviluppo tecnologico porta mag­giore plusvalore che però viene raccolto dalle rendite fi­nanziarie; gli imprenditori, infatti, usano le nuove tecno­logie non per ridurre il tempo di lavoro del lavoratore a parità di salario ma per mantenerlo invariato al fine di consentire un aumento della produzione. In sostanza quindi l’impresa con l’introduzione di nuovi impianti si trova ad aver bisogno di un numero inferiore di occupati ai quali mantiene lo stesso salario anche se la loro pro­duttività è molto maggiore. A ciò si aggiunge il fatto che la tanto decantata liberalizzazione degli scambi, la globa­lizzazione dei mercati, unita all’abbattimento della legi­slazione di tutela dei salari, ha fatto sì che le imprese si trovassero nella condizione di scegliere dove produrre, cosa produrre e a quali costi, istituzionalizzando di fatto gli intensi processi di esternalizzazione e di delocalizza­zione produttiva alla ricerca di manodopera sempre a più basso costo, deregolamentata e a forte flessibilità norma­tiva e salariale.

La crescita dei profitti d’impresa, infatti, non è mai ac compagnata da un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori che al contrario si trovano davanti a una ridu­zione sempre più accentuata dei vantaggi e delle protezioni assicurate dal Welfare. La crisi dello Stato sociale si accom­pagna quindi ad un aumento vertiginoso dei tassi di disoc­cupazione in tutti i paesi europei, continuando il trend già evidenziato da diversi anni sia in termini qualitativi che quantitativi (si vedano le Tabb.1, 2,3,4 e i Graff. 2,3,4).

Il tasso di disoccupazione (calcolato dividendo il nu­mero dei disoccupati per la somma dei disoccupati più gli occupati per 100) complessivo destagionalizzato nell’Eu­ropa dei 15 è stato valutato nel gennaio 1998 intorno al 10,5%. Per quanto riguarda i tassi di disoccupazione de­stagionalizzati maschile e femminile (vedi Graff. 5 e 6) si nota a gennaio 1998 una flessione per i maschi relativa-mente al dato totale delll’EUR 15 rispetto alle rilevazioni del novembre 1996 e del gennaio 1997 mentre è stabile il dato femminile superiore al 12% con incrementi in alcu­ni paesi come l’Italia e la Germania.

I tassi di disoccupazione giovanile (si vedano Graff. 7,8) mostrano per gli stessi periodo leggere flessioni sia nel totale che per i singoli paesi, ciò soprattutto grazie ai contratti di formazione e a forme comunque a tempo determinato e a scarsi contenuti di garanzie generali e con bassi livelli salariali.

L’andamento di tali parametri sulla disoccupazione per i 15 paesi dell’EUR15 e per gli Stati Uniti e il Giappo­ne possono essere letti nelle Tabb.5, 6, 7 e 8).

Ma già dagli anni ’70 con l’accentuarsi dei processi di mondializzazione dell’economia e la dura concorrenza tra le imprese (aumento della produttività riducendo i costi) ha portato i salari ed il sistema sociale nella sua totalità ad essere sempre più soggetti alle regole ferree del puro mer­cato e del profitto. Il fenomeno della disoccupazione, ac­centuatosi in Europa e nel mondo dopo lo shock petroli­fero dei primi anni `70, è cresciuto da allora ad un ritmo rapidissimo nei periodi di recessione e non è diminuito durante le fasi di espansione economica (in Europa si è ar­rivati ad un tasso di disoccupazione sei volte superiore a quella registrata negli anni `60, in Italia 2,5 volte più ele­vata rispetto a quegli anni).

L’andamento del tasso di disoccupazione si può sche­matizzare in tre fasi: la prima dagli anni 1983-1986 nella quale si registra una crescita generale del tasso di disoc­cupazione; la seconda che comprende gli anni che vanno dal 1986 al 1990 nei quali si è avuta una leggera diminu­zione della disoccupazione; ed infine la terza fase che va dal 1990 ad oggi nella quale si è avuta una nuova crescita del tasso di disoccupazione.

Oggi la disoccupazione è espressione dell’incapacità della nuova fase di sviluppo capitalistico di perseguire il pieno impiego, è espressione di una scelta politica e so­ciale di mantenere la disoccupazione per poter determi­nante attraverso questa il controllo delle dinamiche sala­riali e della forza lavoro. Il fatto che salario e produttività non siano più collegati tra loro implica che la distribu­zione del reddito a livello nazionale, e di conseguenza la domanda nazionale di consumo, abbiano meno rilevanza nel risolvere il processo di accumulazione. In tale situa­zione non esiste una modernizzazione del consumo. Que­sto modo di produzione capitalistico produce per una po­polazione ridotta, per consumi ridotti e di un certo tipo, mentre stimola la competizione violenta e assoluta per conquistare spazi di mercato in una condizione in cui queste nicchie non sono più segnati dall’ascesa e dall’at­tesa di una crescita ininterrotta della produzione e dei consumi. La disoccupazione non è frutto di arretratezza, ma di una scelta nello sviluppo di una nuova fase del pro-cesso capitalistico.

Se si analizzano i dati riguardanti i giovani si assiste ad un fenomeno analogo a quello del tasso di disoccupa­zione totale; va rilevato però che i giovani risultano esse-re molto più penalizzati rispetto agli adulti.

In Francia, in Lussemburgo e in Belgio il tasso di di­soccupazione giovanile (sotto i 25 anni) è il doppio di quello degli adulti; in Olanda, In Danimarca e in Gran Bretagna i valori sono più elevati di una volta e mezzo, mentre in Italia i disoccupati sotto i 25 anni sono 2,5 vol­te più elevati degli adulti; unica eccezione la Germania nella quale i tassi di disoccupazione totale e giovanile so-no meno distanti.

E’ anche estremamente interessante ricordare che i tassi di disoccupazione variano molto all’interno dei pae­si dell’Unione Europea (si passa dal 3% in Lussemburgo al 22% in Spagna nell’anno 1995). Se si analizzano i dati disaggregati per realtà regionali la situazione è ancora più allarmante: si passa dal 4% nelle regioni centrali del Por­togallo a percentuali del 32% nelle regioni del sud della Spagna. Le regioni a bassa disoccupazione sono rimaste stabili negli ultimi dieci anni ma restano concentrate ad un numero ristretto di aree geografiche: il sud dell’Olan­da, il sud della Germania, il nord dell’Italia le regioni del Nord-Est e del Nord-Ovest della Danimarca, il nord e il centro del Portogallo. Paesi come la Finlandia e la Fran­cia (in particolare Parigi e dintorni) che erano sempre sta-te a basso tasso di disoccupazione hanno avuto un au-mento di disoccupati nei primi anni ’90.

Per comprendere appieno la gravità del problema è sufficiente pensare al calo drammatico che si è avuto già nei primi anni ’90 nel tasso di occupazione industriale ed agricolo. Nel 1996 in Belgio, in Germania e in Grecia il settore occupazionale più rilevante risulta essere quello dei servizi (con valori rispettivamente intorno al 75%, al 65% e al 60%); anche in Spagna ed in Francia ed in Olan­da il settore dei servizi impiega il maggior numero di oc­cupati (rispettivamente circa il 65%, il 70% ed il 70%); il Regno Unito conferma la tendenza degli altri paesi (gli oc­cupati nei servizi sono circa il 70%).

Se è pur vero che l’occupazione nei servizi costituisce la principale porzione di lavoro nei paesi europei, va ri­cordato che questo settore si caratterizza per la presenza di una maggiore frequenza di lavoro precario a tempo parziale (circa il 20% è rappresentato da lavori ad orario ridotto con una partecipazione molto elevata di personale femminile) e per una elevata proporzione di lavoratori au­tonomi (spesso di ultima generazione) e di piccole e me-die imprese (circa il 15% del lavoro in servizi è svolto da prestatori d’opera, collaboratori domestici, lavoratori classificati come autonomi).

La maggiore presenza di occupati nei servizi si ac­compagna, quindi, ad una rilevante partecipazione delle donne (circa il 49,4% degli occupati nei servizi è rappre­sentata dalle donne a fronte di una quota molto inferiore, il 28%, impiegata nell’industria).

Considerato che, in rapporto all’ocApazione totale, la media europea dell’occupazione dipendente è di circa 1’80% a fronte di un valore del 20% di occupazione indi-pendente, emerge che il Lussemburgo, Regno Unito, Ger­mania, Francia, Danimarca si discostano dalla media per una elevata presenza di occupazione dipendente (90% cir­ca) rispetto a quella indipendente. Il contrario si registra invece in Italia con valori di occupazione dipendente del 69% e indipendente del 31%, anche se c’è da considerare che il nostro Paese si caratterizza per una forte compo­nente di "falso" lavoro autonomo (si tratta dell’enorme mondo delle "partite IVA" che spesso configurano forme di lavoro subordinato).

l’aggravarsi della situazione occupazionale è eviden­ziata anche attraverso i dati del 1998.

Per l’Europa dei 15 il tasso di disoccupazione com­plessivo maschile destagionalizzato è intorno al 9% nel gennaio 1998: la Spagna presenta un tasso molto supe­riore alla media (15,3%) mentre la Danimarca e il Lus­semburgo si attestano su valori sensibilmente inferiori (rispettivamente 4,5 e 2,4%). La Francia e l’Italia presen­tano valori superiori alla media (rispettivamente 10,7% e 9,2% nell’ottobre 1997).

Per il complesso dei paesi dell’Europa dei 15 il tasso di disoccupazione femminile destagionalizzato è del 12,4% (genn.1998); la Spagna anche in questo caso presenta va-lori molto alti rispetto alla media (27,8%) mentre il Lus­semburgo registra valori molto inferiori (5,1%). La Fran­cia e l’Italia mostrano valori superiori alla media (rispet­tivamente 14.2% e 16,9% nel genn.1998), confermandosi come paesi con le più forti contraddizioni in termini di ri­cadute economico-sociali relativamente ai processi di ri­strutturazione del capitale che stanno attraversando l’in­tera Europa.

Per l’Europa dei 15 il tasso di disoccupazione giova­nile destagionalizzato complessivo è molto alto (del 20,3%) nel gennaio 1998 ossia quasi il doppio del tasso di disoccupazione totale destagionalizzato (che è del 10,4%). Se si confronta poi il tasso di disoccupazione degli uomi­ni e quello delle donne al di sotto dei 25 anni si nota per le donne la situazione occupazionale nell’intera Europa dei 15 assume ancora percentuali drammatiche.

La Tab.9 analizza il tasso di disoccupazione di lunga durata (ossia di disoccupati per oltre 12 mesi); dai dati emerge chiaramente che l’Italia si attesta sempre su valo­ri più alti rispetto agli altri paesi (nel 1995 il valore è del 63,6%), mentre i paesi con valori più bassi sono la Dani­marca e il Lussemburgo (con valori nel 1995 rispettiva-mente del 28,1% e del 23,3%). Il Belgio invece si avvicina a valori simili a quelli registrati nel nostro Paese (62,4% nel 1995).

Se si analizza da vicino il nostro Paese si evidenziano dati di alta drammaticità che minano alle basi la stessa convivenza sociale e sopravvivenza di larghi strati della popolazione. In Italia siamo di fronte ad un incremento della produttività fra i più alti degli ultimi anni, ma la di­soccupazione non è stata sostanzialmente toccata e nel Mezzogiorno raggiunge quote devastanti.

Per risolvere il problema disoccupazione non è ba­stato, dunque, aumentare la produttività ed il profitto e la ricchezza nazionale, anzi è evidente che tale processo ha portato la società moderna alla crisi occupazionale. Ad esempio alla fine del 1997 a fronte di 2Q.126.000 occupa-ti e 2.486.000 disoccupati i giovani occupati erano 4.743.000 e i disoccupati 1.743.000; in sostanza quindi i giovani costituivano il 24% degli occupati ed il 61% dei disoccupati. Se si disaggregano ulteriormente i dati emerge chiaramente che esiste un forte divario territo­riale fra i tassi di disoccupazione, in quanto al Sud c’è una percentuale doppia rispetto al Centro e al Nord d’Italia (a fronte di una percentuale inferiore al 20% al Nord per giovani in età compresa tra i 15 e i 24 anni, al Sud la percentuale si aggira intorno al 50% tra i giovani in età compresa tra i 15 e i 24 anni, ed arriva la 30% nella fascia di età 25-29 anni). Tendenza che si conferma in tutte le ripartizioni territoriali con il crescere dell’età, dal mo­mento che mentre al Nord i tassi di disoccupazione si ab­bassano dopo i 20 anni (si arriva a circa il 10% nella fa-scia di età compresa tra i 20 e i 29 anni) ciò non accade al Centro e soprattutto al Sud tra i giovani in età com­presa tra i 20 e i 30 anni (i tassi rimangono intorno al 40% fino ai 29 anni e superano il 60% tra le giovani don-ne). Ed ancora: mentre al Nord circa la metà dei giovani ha un lavoro ed un terzo studia nel Mezzogiorno invece solo il 20% è occupato. Si deve osservare che nelle regio­ni del Nord-Est d’Italia si studia meno che al Sud inquanto la struttura produttiva basata sulla piccola e me-dia impresa garantisce una possibilità maggiore di im­piego in lavori manuali; la situazione è un po’ diversa nel Nord-Ovest in quanto essendo queste regioni caratteriz­zate dalla presenza di attività terziarie è richiesto per la­vorare un livello di istruzione medio. L’area comunque nella quale si studia di più è il Centro Italia che ha un li-vello di disoccupazione intermedio; in questa area, carat­terizzata da un’alta presenza di lavoro impiegatizio e bu­rocratico, è richiesto un livello di istruzione di più alto li-vello. Se si analizza il tasso di occupazione per titolo di studio e classe di età emerge chiaramente sempre nel 1997 che l’Italia risulta essere un paese con livelli di istruzione bassi rispetto agli altri paesi europei; la per­centuale degli occupati in possesso di laurea è di circa 1’11% e i lavoratori con un diploma sono circa il 29%; quasi il 38% degli occupati ha la licenza media ed il 15% ha una licenza elementare o nessun titolo di studio. Vi è un dato che merita di essere evidenziato: la maggiore istruzione delle donne rispetto agli uomini; a fronte di un 10% degli occupati laureati vi è quasi il 15% di donne laureate sempre della stessa fascia di età. Ed ancora il 29% dei maschi occupati è in possesso di un diploma di scuola media superiore contro un 37% di donne.

Il modello familistico-patriarcale che caratterizza l’I-talia rispetto agli altri paesi europei privilegia l’accesso al­l’occupazione/rioccupazione dei maschi adulti o comun­que di coloro che ne assumono il modello produttivo e ri­produttivo e che, interagendo con il dualismo economico-territoriale della situazione italiana (il divario Nord-Sud), origina una disoccupazione per lo più giovanile e femmi­nile, particolarmente elevata soprattutto nelle regioni meridionali, colpite da tassi di disoccupazione quadrupli rispetto ai valori delle regioni settentrionali. Va eviden­ziato che questo modello occupazionale favorisce il capo-famiglia maschio adulto sia in termini di opportunità oc­cupazionali, ma anche in termini di assistenza in caso di disoccupazione dovuta ai processi di ristrutturazione del-l’apparato produttivo fordista.

Prediligendo, quindi, i lavoratori adulti sono risultati quasi assenti o particolarmente inefficaci i percorsi di for­mazione e di inserimento al lavoro per i giovani, soprat­tutto se si tiene presente il sistema di formazione profes­sionale e apprendistato vigente in altri paesi del Centro e del Nord Europa. Di conseguenza sono le famiglie che, in Italia, si assumono il compito di assistenza e di manteni­mento dei figli data l’assenza di forme di assistenza o di reddito sociale fornite dal sistema di Welfare. Per il Mez­zogiorno, infatti, livelli elevati di disoccupazione sono una costante storica, ma nell’ultimo decennio, anche a causa della maggiore dinamica demografica, il fenomeno ha registrato un aumento vertiginoso: il tasso di disoccu­pazione è, infatti, passato dall’ll% del 1980 al 20% nei primi anni ’90, mentre per il Centro-Nord si è passati dal 6% al 13%. Questa situazione fa sì che il Mezzogiorno as­sorba, con il 36% della popolazione oltre il 60% dei di­soccupati nazionali, corrispondente ad un tasso di disoc­cupazione pari a due volte e mezzo quello del Centro-Nord. Nel Mezzogiorno il fenomeno è particolarmente sentito per la disoccupazione giovanile che rappresenta la metà della disoccupazione meridionale e oltre un quarto di quella nazionale; nel Centro-Nord, invece, i giovani in cerca di prima occupazione sono poco più di un terzo del la disoccupazione globale.

Il fenomeno della disoccupazione assume caratteristi-che diverse nel nostro Paese con riguardo alle aree di ri­ferimento: nelle regioni meridionali la disoccupazione è conseguenza della cronica carenza di posti di lavoro che interessa soprattutto i giovani a bassa scolarizzazione, le donne e le fasce marginali o comunque deboli e precari del mercato del lavoro, con conseguenze sociali dramma­tiche. Questo tipo di disoccupazione è proprio tipica e strutturale nel modello post-industriale, anche se talvolta è mascherata come forma transitoria di disoccupazione di inserimento. Nelle regioni settentrionali, invece, le favo­revoli condizioni economico-produttive, originando una situazione di quasi piena occupazione, attirando sul mer­cato del lavoro anche le fasce "meno centrali" dell’offerta di lavoro, anche se molto spesso si tratta di occupazione intermittente con alto grado di flessibilità, atipicità e pre­carizzazione.

Nel nostro Paese nel 1963 si è avuto il tasso minimo di disoccupazione (il 3,9% sul totale della forza lavoro); da allora si è avuta una crescita costante di questo tasso fino ad arrivare a raggiungere la soglia del 13%. Nel Mezzo-giorno poi la situazione è ancora peggiore in quanto si hanno valori che oscillano tra il 20 e il 25% con punte di oltre il 30% in Calabria, Sicilia e Basilicata.

Dalla rilevazione campionaria trimestrale sulla forza lavoro dell’ISTAT relativa alla settimana dall’11 gennaio al 17 gennaio 1998 (l’indagine ha interessato circa 200.000 lavoratori di 1.400 comuni di tutte le provincie italiane) risulta che nel periodo di riferimento (Gennaio 1997-Gennaio 1998) si è ulteriormente aggravata la differenza esistente tra le diverse aree territoriali del nostro Paese (vedi Tab.10).

Le persone in cerca di occupazione nel Mezzogiorno hanno rappresentato circa il 58,1% del totale (si registra un aumento del 2,6% rispetto al 1997); il tasso di disoc­cupazione è aumentato al Sud passando dal 21,8 al 22,4% mentre è diminuito al Nord (dal 7,7% al 7,1% nel Nord-ovest e dal 6,2% al 5,7% nel Nord-Est) e al Centro (si è passati dal 10,6% al 10%).

Si deve poi rilevare (si veda Tab.11) che al Centro si è avuto un aumento di occupati nell’agricoltura del 2,6% e nei servizi del 1’1,7% mentre si è registrato un calo di oc­cupazione nell’industria (-2,1%); al Nord nell’agricoltura si è avuto un aumento del 5,6% e nell’industria del 3,3%; nel settore dei servizi si è avuto un calo dello 0,8% ; nel Mezzogiorno gli occupati continuano a diminuire (-0,4%) e a fronte di un lieve incremento nel terziario (+0,4%) la diminuzione dell’occupazione è consistente nell’agricol­tura (-1,8%) e nell’industria( -1,7%).

Va ricordato comunque che la disoccupazione di fasce sempre più ampie di popolazione è un problema comune a tutti i più grandi paesi industrializzati; gli squilibri nel-la distribuzione del reddito e della ricchezza, si sono ac­centuati generando forti situazioni di conflittualità socia-le, anche se non continue a causa di movimenti di oppo­sizione non sempre all’altezza.

Il tasso di disoccupazione maggiore, per il totale della popolazione, si è registrato nel 1997 rispettivamente: in Spagna (20,8%), in Finlandia (14%), in Francia (12,4%), in Italia (12,3%), in Irlanda e Svezia (10,2%) ed in Ger­mania (9,7%). Incide notevolmente sulla disoccupazione totale quella dei giovani tra i 15 e i 24 anni (in Spagna essa è addirittura pari al 38,8%) (cfr. Tab.12).

La disoccupazione giovanile è, comunque il problema principale anche per quei paesi in cui il tasso di disoccu­pazione totale è più basso rispetto alla media europea (ad es. in Lussemburgo è del 9,9%, in Austria del 6,7%, nei Paesi Bassi del 9,2%, in Danimarca dell’8,2%). Il Lussem­burgo risulta essere il paese con il più basso tasso di di­soccupazione, il valore è pari al 3,7%.

Va evidenziato inoltre il diverso tasso di disoccupa­zione esistente tra i due sessi: infatti soprattutto in Grecia, Spagna, Italia, le donne trovano ancora molte diffi­coltà ad inserirsi nel mercato del lavoro. In Spagna, ad esempio, la disoccupazione femminile è pari al 28,3%, quella maschile al 16%; in Grecia la differenza è minore: 14,9% quella femminile, 6,2% quella maschile ed infine in Italia il tasso di disoccupazione femminile è pari al 16,8%, contro quello maschile pari al 9,5% .

Le Tabb.13,14,15,16,17,18,19 analizzano in nume­ro assoluto gli occupati e le forze di lavoro in rapporto al totale della popolazione dei singoli paesi. Va evidenziato che il numero di lavoratori dipendenti è suddiviso nei tre principali comparti dell’occupazione e risulta sempre che continua ad aumentare per il settore dei servizi l’inciden­za rispetto a quella dellindustria e dellagricoltura. Il tas­so di occupazione nel settore terziario ha toccato nel `97, in Olanda, punte del 74,4% rispetto al totale degli occu­pati; del 72,6% in Inghilterra e del 71% in Francia. Il set­tore agricolo, pur avendo una percentuale di occupati mi­nore rispetto agli altri, risulta essere quello di cui le auto­rità europee si occupano maggiormente, incoraggiandone lattività destinando forti finanziamenti; gli aiuti all’agri­coltura, infatti, raggiungono addirittura il 50% del totale dei fondi stanziati a livello europeo. L’agricoltura, in Spa­gna ed in Italia ha la media maggiore di occupati sul to­tale (pari al 3,9% e 3,2%, rispettivamente nel `97), ma che nella maggior parte dei paesi europei ha una percentuale di occupati che si avvicina all’l% (come in Austria, Fran­cia ed Olanda) o addirittura con indici inferiori (0,5% in Belgio e 0,9% nel Regno Unito nel ’97).

La rilevazione delle forze di lavoro effettuata in Italia ad Ottobre 1998 registra circa 3 milioni di persone in cerca di occupazione, con un tasso di disoccupazione del 12,6% (con una variazione dello 0,2% rispetto alla rileva­zione di ottobre 1997); in particolare il tasso di disoccupazione è del 7,6% per il Centro-Nord e del 23,2% nel Mezzogiorno ed inoltre si registra un tasso del 9,6% per il maschi e di ben il 17,3% per le femmine.

A titolo semplicemente di confronto si noti che nel 1993 il tasso di attività maschile era del 63,1%, quello femminile del 33,9% e quello totale del 47,9%; per il 1998 tali tassi di attività segnano una diminuzione passando nel totale al 47,6%, per i maschi al 61% e segnando per le femmine un lieve incremento (circa il 35%). Anche il tas­so di attività giovanile (tra i 15 e i 24 anni) passa dal 39,7% al 37,9% e il tasso di occupazione giovanile passa dal 27,6% al 25,2%, mentre anche il tasso di occupazione totale è in diminuzione passando dal 43% del 1993 al 41,8% del 1998. Se si confrontano i tassi di disoccupazio­ne si notano sensibili incrementi; infatti per il 1993 si ha un tasso di disoccupazione totale del 10,2% che passa nel 1998 al 12,5%, segnando incrementi in ogni anno dell’ar­co temporale considerato ed evidenziando per i maschi un aumento dal 7,6% del 1993 al 9,5% del 1998 e per le fem­mine dal 14,8% al 16,9%. Anche il tasso di disoccupazio­ne giovanile è in sensibile crescita passando dal 30,4% del 1993 al 33,4% del 1998, così come si incrementa signifi­cativamente il tasso di disoccupazione di lunga durata (ol­tre un anno) che passa dal 6,1% del 1993 all’8,5% del 1998 (per i maschi dal 4,4% al 6,1%, per le femmine dal 9% all’11,7%). Si vuole infine ricordare che nel 1993 si avevano 20.467.000 occupati a fronte dei 20.197.000 del 1998.

Prendendo come periodo di riferimento settembre 1998 si evidenzia un tasso di disoccupazione per l’Europa dei 15 pari al 9,9%, per il Belgio dell’8,8%, del 4,3% per la Danimarca, in Germania del 9,5%, in Spagna del 18,5%, in Francia del 12%, in Irlanda dell’8,8%. Sempre a set­tembre 1998 la percentuale di disoccupazione per i ma­schi risulta essere del 1’8,5% per l’Europa dei 15, del 7% per il Belgio, del 3,5% per la Danimarca, dell’8,8% per la Germania, del 13,4% per la Spagna, del 10,1% per la Francia e per 1’8,5% per l’Irlanda. I valori della disoccu­pazione femminile sono rispettivamente dell’11,7% (EUR15), dell’11,4 (Belgio), del 5,2% (Danimarca), del 10,3% (Germania), del 26,4% (Spagna), del 14% (Francia) e del 9,3% (Irlanda).

Le percentuali di disoccupazione sono molto elevate se si analizza la situazione dei giovani disoccupati di età inferiore ai 25 anni; a settembre 1998 si avevano questi valori percentuali: 19,4% (EUR15), 22,4% (Belgio), 6,4 (Danimarca), 10.4% (Germania), 34,5% (Spagna), 26,9% (Francia) e 12,5% (Irlanda).

Se si guarda la suddivisione per sesso dei valori di di­soccupazione risulta evidente che il tasso di disoccupa­zione giovanile (età inferiore a 25 anni) è molto più ele­vato per le femmine; infatti, le percentuali dell’Europa dei 15 a settembre 1998 sono rispettivamente del 18% per i maschi e del 21% per le femmine.

Effettuando una comparazione dei dati fra il 1991 e il 1997, è interessante notare che nel 1991 il tasso di disoc­cupazione risulta essere dell’8,2% per l’Europa dei 15, del 6,6% per il Belgio, del 8,4% per la Danimarca, dell’5,6% per la Germania, del 16,4% per la Spagna, del 9,5% per la Francia e per il 14,8% per l’Irlanda. Nel 1997 questi valo­ri risultavano essere invece del 10,7% per l’Europa dei 15. del 9,2% per il Belgio, del 5,5% per la Danimarca, del 10,0% per la Germania, del 20,8% per la Spagna, del 12,4% per la Francia e del 10,1% per l’Irlanda.

Sempre nel 1991 la percentuale di disoccupazione per i maschi risulta essere del 6,9% per l’Europa dei 15, del 4,3% per il Belgio, del 7,5% per la Danimarca, del 4,6% per la Germania, del 12,3% per la Spagna, del 7,4% per la Francia e del 14,2% per l’Irlanda. Per il 1997 i va-lori sono del 9,3% per l’Europa dei 15, del 7,2% per il Bel­gio, del 4,6% per la Danimarca, del 9,3% per la Germania, del 16,1% per la Spagna, del 10,7% per la Francia e del 10,0% per l’Irlanda.

I valori della disoccupazione femminile per il 1991 sono rispettivamente del 10,0% (EUR15), dell’10% (Bel­gio), del 9,5% (Danimarca),del 7,0% (Germania), del 23,9% (Spagna),del 12,2% (Francia) e del 15,9% (Irlan­da). Per il 1997 i valori sono del 12,4% per l’Europa dei 15, del 11,9% per il Belgio, del 6,6% per la Danimarca, del 10,8% per la Germania, del 28,3% per la Spagna, del 14,4% per la Francia e del 10,3% per l’Irlanda.

E’ interessante confrontare i dati dei valori anche per la disoccupazione dei giovani al di sotto dei 25 anni: si no­ta che nel 1991 si aveva un tasso di disoccupazione del 16,2% per l’Europa dei 15, del 14,9% per il Belgio, dell’11,6% per la Danimarca, del 5,9% per la Germania, del 31,1% per la Spagna, del 21.5% per la Francia e del 22,4% per l’Irlanda. Per il 1997 i valorirsono del 21,2% per l’Europa dei 15, del 23,0% per il Belgio, dell’8,3% per la Danimarca, dell’11,0% per la Germania, del 39,1% per la Spagna. del 29,1% per la Francia e del 15,7% per l’Ir­landa.

I dati sulla disoccupazione dell’Eurostat pubblicati il 4 Febbraio 1999 segnalano che a dicembre 1998 il tasso di disoccupazione era del 9,8% per l’Europa dei 15, del 10,8% per l’Europa degli 11, ed in specifico dell’8,4% per il Belgio, del 4,6% per la Danimarca, del 9,5% per la Ger­mania, del 18,2% per la Spagna, dell’11,7% per la Francia e del 7.3% per l’Irlanda.

I dati dell’Eurostat distinti per sesso evidenziano che, sempre a dicembre 1998, il tasso di disoccupazione ma­schile era dell’8,4% per l’Europa dei 15, dell’8,9% per l’Europa degli 11; per i singoli paesi si ha un tasso di di­soccupazione del 6,7% per il Belgio, del 3,7% per la Dani­marca, del 8,9% per la Germania, del 13,1% per la Spa­gna, del 9,9% per la Francia e del 7,3% per l’Irlanda. Il tasso di disoccupazione femminile si attesta invece all’11,6% per l’Europa dei 15, al 13,3% per l’Europa degli 11, al 10,9% per il Belgio, al 5,8% per la Danimarca, al 10,3% per la Germania, al 26,1% per la Spagna, al 13,8% per la Francia e al 7,2% per l’Irlanda.

Il processo mondiale di ristrutturazione capitalistica ha determinato anche in Europa turbolenze e instabilità che hanno provocato, nel conflitto aspro tra le diverse economie capitalistiche, una crescita dell’inflazione e un aumento del debito pubblico che ha realizzato livelli pa­tologici, a cui si è aggiunta la turbolenza di precari rap­porti monetari. Oggi è il mercato a dettare le regole; la flessibilità e variabilità del mercato hanno operato una condizione che ha proposto una modificazione profonda dell’organizzazione del lavoro, della produzione e quindi dell’occupazione. Tutto questo in un periodo di crescita rallentata. Il potere di controllo sociale sui lavoratori è stato l’oggetto di uno scardinamento prodotto dalla ri­strutturazione e dalla grande offensiva politica al cui cen­tro c’è stato l’attacco al costo del lavoro, a tutte le forme di salario diretto e differito, compresa la sua proiezione sullo Stato sociale, attraverso la ristrutturazione del mer­cato del lavoro.

Tutto ciò ha comportato per la nuova borghesia im­prenditoriale una nuova forma di sviluppo capitalistico, il cosiddetto ciclo post-fordista dell’accumulazione flessibi­le che si è evidenziato negli ultimi venti anni anche attra­verso trasformazioni profonde nell’ambito della società europea. Trasformazioni che hanno generato la nascita di nuove esigenze per l’accumulazione realizzate soprattut­to attraverso forme di flessibilità del lavoro e dei salari im­posta ai nuovi soggetti del lavoro e del lavoro negato, comprimendone il soddisfacimento dei bisogni legati ai diversi modi di vita e alla mutata struttura economico-produttiva.

Anche la nuova ondata di progresso tecnologico in settori come l’elettronica, l’informatica e le telecomuni­cazioni, pur aumentando l’andamento già in crescita del-la produttività totale non è stata accompagnata da una corrispondente crescita dei livelli occupazionali. In effetti le risorse create non sono state riutilizzate e la relazione tra creazione e distruzione di lavoro non poteva essere po­sitiva, né sono state create le condizioni per occupare la crescente forza lavoro e ridurre la disoccupazione.

Negli USA risulta per lo stesso periodo un tasso di di­soccupazione totale del 4,7% ed infine si può rilevare per il Giappone un incremento del tasso di disoccupazione che si attesta all’incirca intorno al 4,2%.

2. La disoccupazione invisibile

Negli anni 1975-1995 a fronte di una crescita di oc­cupati (cioè lavoratori che hanno un qualsiasi tipo di oc­cupazione) negli Stati Uniti di circa il 45%, in Europa si è avuto un incremento del 12,6% e in Italia il livello di oc­cupazione nel 1995 è cresciuto di appena 400.000 unità rispetto a venti anni prima (nel 1997 si è avuto nell’indu­stria in senso stretto un decremento dello 0,6%). A ciò oc-corre aggiungere il fatto che la disoccupazione è diversi­ficata oltre che per categorie di persone anche per l’età e per la collocazione territoriale (In Italia tra il 1975 e il 1995 si è registrato un alto differenziale del tasso di di­soccupazione tra Nord e Sud).

Nello stesso periodo sia in Europa sia negli USA si è manifestato inoltre un crescente divario tra la cosiddetta "economia sommersa" e il lavoro "tutelato". Si registra anche uno sfasamento sempre più marcato tra produzio­ne ed occupazione in quanto se la produzione diminuisce l’occupazione cala mentre non è vero il contrario: ossia ad un amento della produzione non si accompagna un pari aumento di occupazione6. Anche l’elasticità nell’anda­mento della produzione, ossia la misura del prodotto in-terno lordo e andamento dell’occupazione che in passato era in rapporto tre a uno, (cioè ad un incremento pari al 3% del PIL corrispondeva un aumento dell’1%) rimasta stabile per diversi anni è ora decrescente. Inoltre, in nes­sun paese dell’Unione Europea si è riusciti ad assorbire l’aumento di offerta di lavoro femminile e giovanile: in Italia il tasso di disoccupazione femminile è del 16% con­tro il 13% in Europa e il 5,5% negli USA; ed ancora in Ita­lia un terzo della disoccupazione totale è rappresentato da giovani mentre in Europa i giovani senza lavoro sono un quinto e negli USA un ottavo del totale disoccupati.

Va comunque rilevato che la disoccupazione nei paesi dell’Unione Europea è attualmente uno dei problemi di maggiore drammaticità interessando circa 19 milioni di disoccupati ufficiali; è di circa 32 milioni se si considera-no anche gli "invisibili" alle statistiche ufficiali. Si noti che nell’UE negli ultimi 25 anni l’occupazione totale è aumentata di circa il 9% a fronte di un aumento del vo­lume di ricchezza prodotta di oltre il 90%. Oltre ad una sempre maggiore precarietà del lavoro, alla diminuzione dei salari reali si è aggiunto l’attacco sempre più aspro al Welfare, al servizio sanitario, alla previdenza sociale, alla scuola. Pur in presenza di un elevato incremento di pro­duttività non si è realizzata di pari passo una diminuzio­ne del tasso di disoccupazione.

In questa situazione sono nati e proliferati i contratti atipici di lavoro quali il contratto di solidarietà, il con-tratto di formazione lavoro, i contratti di inserimento e il lavoro interinale, ossia il lavoro in affitto’.

Lo stesso aumento dell’occupazione femminile po­ebbe apparire positivamente e come un dato particolar­mente interessante: negli ultimi anni un numero sempre crescente di donne è entrato a far parte del mondo del la­voro ad esempio in Danimarca con oltre il 50% della po­polazione femminile economicamente attiva, in Irlanda oltre il 21%, in Spagna circa il 20%. Ma questi dati appa­rentemente positivi ed incoraggianti devono essere valu­tati attentamente, poiché la presenza femminile nel mer­cato del lavoro è avvenuta senza alcuna specializzazione o con una specializzazione molto bassa, oltre che con sala­ri inferiori a quelli degli uomini e con forte precarizza­zione e flessibilità. Si nota, infatti, come in tutti i paesi europei le donne occupate a tempo parziale riferite al to­tale delle donne occupate siano sempre di gran lunga molto più alte delle percentuali maschili. I settori nei quali la presenza femminile è più elevata restano quelli della sanità, dell’istruzione e dei servizi domestici, mentre i lavori a livello dirigenziale e tecnico e a maggiori retribuzioni e garanzie restano monopolio della popolazione maschile. Ad esempio in Europa nella Pubblica Ammini­strazione circa il 40% della forza lavoro è costituito da donne, ma solo il 10% di queste riveste funzioni manage­riali e non sono quasi rappresentate a livelli superiori. Per quanto riguarda la retribuzione si ha una differenza di sa­lario che va dal 15 al 35% in meno rispetto agli uomini con pari mansioni anche se dichiarati ufficialmente come lavori diversi, e questa differenza si accentua tra le lavo­ratrici non manuali (si arriva al 40%) in quanto di solito le donne hanno soprattutto compiti impiegatizi mentre gli uomini più lavori a carattere dirigenziale. Inoltre la mancanza di politiche per la qualificazione professionale delle donne le porta ad essere maggiormente esposte al problema della disoccupazione e del precariato; infatti ad eccezione della Svezia, del Regno Unito e lla Finlandia in tutti gli altri Paesi dell’Unione Europea il tasso di di­soccupazione femminile è molto più elevato di quello ma­schile. Va poi rilevato che le tendenze verso nuove e mo­derne possibilità occupazionali presentano una elevata concentrazione maschile di nuovi posti di lavoro di me­dio-alto livello formativo. Infatti negli anni 1994-1996 vi è stata una crescita del numero dei dirigenti, funzionari e tecnici di sesso maschile, mentre si è ridotto il numero dei lavoratori maschi in posizioni di lavoro di base. Ciò è dovuto soprattutto ai processi di innovazione tecnologica e alla voluta mancanza di adeguate politiche di formazio­ne, soprattutto femminile; si pensi tra l’altro che nel 1996 circa il 35% dei disoccupati dei paesi della Comunità Eu­ropea di età superiore ai 25 anni non aveva alcun titolo di studio superiore all’istruzione di base.

Lo stesso lavoro part-time sempre più spesso masche­ra forme di forte flessibilità e precarizzazione del lavoro e del salario. La legge 863/1984 ha disciplinato per la prima volta nel nostro Paese il rapporto di lavoro a tempo par­ziale. E’ possibile classificare il lavoro part time in tre ca­tegorie: 1) Part time orizzontale nel quale si svolge un’at­tività tutti i giorni con orario ridotto rispetto al normale; 2) Part time verticale nel quale l’attività lavorativa si svol­ge per qualche giorno della settimana con un orario com­plessivo inferiore a quello ordinario; 3) Part time ciclico nel quale il lavoro è svolto per alcuni mesi o settimane in-frammezzato da periodi di inattività. Negli anni 198E-1990 in Italia (secondo dati dell’Osservatorio Nazionale del Mercato del Lavoro) risultavano stipulati oltre 736.000 contratti di lavoro a tempo parziale; più del 90% di que­sto contratti ha interessato il settore terziario dei servizi nelle regioni del Centro-Nord. I dati ISTAT del 1989 evi­denziano che il lavoro part time costituisce un peso note­vole dell’occupazione femminile, circa il 63,7%; inoltre i lavoratori a tempo parziale hanno rappresentato sempre nel 1989 il 5,7% del totale degli occupati. Per seguire l’e­voluzione temporale, va ricordato che nel 1996 in Italia il 6,4% dell’occupazione totale era rappresentato da lavora-tori part time (oltre 1.295.000) mentre la media europea si attesta intorno al 16% con quasi complessivamente 24 milioni di lavoratori part time.

Una ricerca condotta dall’ISFOL a ottobre 1998 sulla base di analisi relative al periodo ottobre 1997 rileva che in Italia oltre il 16% degli occupati ha un lavoro part ti-me o un contratto a termine. Se si analizzano i nuovi in­gressi nel mercato del lavoro 1’ISFOL evidenzia che quasi 670.000 lavoratori (il 40,4%) ha un lavoro con contratto a tempo parziale, precario o parasubordinato. Va rilevato che si è avuto un aumento di quasi il 4% di questa situa­zione negli ultimi due anni. Il part time ha assorbito nel 1998 oltre 370.000 persone, in pratica il 22,2% dei nuovi lavoratori; il lavoro part time e non permanente rappre­senta attualmente rispettivamente il 7,5% e 1’8,5% del to­tale degli occupati.

Anche per quanto riguarda lo stesso regime di tempo di lavoro va rilevato che in Europa 1’84% della popolazio­ne lavora a tempo pieno a fronte di un restante 16% im­piegato a tempo parziale, e dove la disoccupazione sembra più bassa si ha come in Olanda la percentuale dei lavora-tori a tempo parziale è altissima e arriva al 35%, in Dani­marca al 23% e nel Regno Unito al 24%; mentre Lussem­burgo e Italia si attestano su valori molto bassi (rispetti­vamente il 7% e il 5% dei lavoratori è occupato a tempo parziale).

Una stima effettuata per cercare di quantificare il la­voro sommerso ha rilevato che in Europa nel 1996 il rapporto fra lavoratori sommersi e lavoratori in regola era di 1 a 4. Attraverso il ricorso al lavoro nero in Euro­pa, sempre nel 1996 si realizza oltre il 23,3% della pro­duzione di beni e servizi. Va rilevato però che è molto difficile effettuare delle valutazioni di carattere scientifi­co e quindi ad alta attendibilità su questo tipo di lavoro, in quanto i dati non sono disponibili per tutte le catego­rie e si rischia inoltre di non cogliere la reale dimensio­ne del fenomeno; studi effettuati recentemente hanno messo in risalto che il lavoro nero produce circa il 26% del PIL in Italia.

Se si guardano i dati relativi al tasso di disoccupazio­ne europea ci si trova in una situazione paradossale: in-fatti a fronte di oltre 19 milioni di disoccupati ufficiali (ol­tre il 10% della popolazione attiva) a fine 1997, si hanno circa 13 milioni di disoccupati occulti o "invisibili". Que­sta categoria di "non occupati" comprende i precari, i sot­toccupati, le persone che hanno lavorato solo qualche ora in un mese, oltre ai disoccupati "scoraggiati" che non si iscrivono neppure più al collocamento. Va inoltre ag­giunto che il diverso modo di effettuare la rilevazione sta­tistica dei disoccupati porta spesso a dati sottostimati della disoccupazione reale; infatti, in alcuni paesi euro­pei, e anche negli stessi Stati Uniti, il solo fatto di lavora-re poche ore a settimana, o in un mese, comporta la clas­sificazione di occupati: diversa è anche la determinazione della popolazione attiva e delle forze di lavoro. Si arriva così a oltre 32 milioni di disoccupati nell’Unione Europea e tra questi non vengono contabilizzati i cosiddetti "lavo­ratori in nero" di cui difficilmente si può avere un riferi­mento quantitativo vicino alla realtà.

Qualche esempio: l’Employment Policy Institute dopo accurate indagini effettuate in Gran Bretagna conclude ri­levando che il tasso di disoccupazione dichiarato ufficial­mente del 5% è in realtà un dato molto "ottimista" essen­do invece quello reale molto vicino al 15%. In Francia la situazione non è molto diversa: i dati ufficiali parlano di circa 3,5 milioni di disoccupati, in realtà i dati effettivi portano il numero di disoccupati a circa 8 milioni. L’isti­tuto IAB in Germania calcolando le categorie a carico del-la previdenza sociale segnala oltre 8 milioni di disoccupa-ti a fronte dei 4,5 milioni di disoccupazione ufficiale. U0-landa registra un tasso ufficiale di disoccupazione del 7,4%, la realtà però è molto diversa essendo il tasso reale di disoccupazione intorno al 20%. Anche il nostro Paese si trova in una situazione simile: a fronte di 3 milioni di disoccupati "ufficiali" si hanno in realtà oltre 7 milioni di disoccupati "reali" .

In sostanza la cifra dei 19 milioni di disoccupati uffi­ciali si allontana molto dalla realtà. Considerato che la Germania, la Francia e l’Italia insieme registrano oltre 12 milioni di disoccupati "invisibili", appare chiaro come si arrivi per l’Unione Europea ad un numero di gran lunga superiore ai 32 milioni di persone in cerca di occupazio­ne.

Negli anni ’80, comunque, nel nostro Paese l’occupa­zione irregolare ha impiegato circa il 9,5% della forza la­voro (secondo i dati ufficiali, ma studi più approfonditi da parte dell’ISTAT hanno rilevato che i valori reali vanno dal 20 al 30% della forza lavoro). I lavoratori che più sono esposti al fenomeno sono soprattutto i giovani e le donne; risulta infatti da studi statistici che circa il 70% dei gio­vani in età compresa tra i 19 e i 25 anni svolgono lavoro atipico. Sempre durante gli anni `80, inoltre, già risulta-vano oltre 2 milioni di donne impiegate come collabora­trici domestiche non registrate.

In una relazione del CENSIS del 1997 si rileva che nel 1995 si registravano 3.9 milioni di lavoratori sommersi, tra questi sono compresi pensionati, studenti lavoratori, casalinghe, disoccupati, cassa integrati e stranieri clande­stini. Gli irregolari sono altissimi (oltre 1’80%) tra gli agricoltori, circa il 40% tra i lavoratori dei beni e servizi destinabili alla vendita e il 45% nell’edilizia: il 50% del la­voro sommerso è rilevato al Sud mentre al Nord è il 29,4%.

La Tab.20 mostra che la maggiore parte dei lavora-tori irregolari è riscontrabile nel settore dei servizi ven­dibili, seguita dal settore agricolo; l’industria, le costru­zioni e i servizi non vendibili rappresentano invece i set-tori nei quali la presenza di lavoro nero è meno marcata.

In Italia i settori prevalentemente coinvolti dal lavoro occulto sono l’agricoltura e il terziario (la percentuale della forza lavoro va dal 10 al 35%). Negli USA la percen­tuale della forza-lavoro irregolare va dal 15 al 25% e coin­volge soprattutto i settori dell’abbigliamento, degli alber­ghi. ristoranti, servizi alle famiglie; in Gran Bretagna i va-lori vanno da un minimo del 10% ad un massimo del 25% di occupati irregolari e interessano soprattutto l’edilizia, la meccanica le manutenzioni e i lavori domestici; in Ger­mania tale percentuale va dall’8 al 12% coinvolgendo for­temente l’edilizia, le riparazioni meccaniche, i ristoranti; in Belgio i valori sono compresi tra il 15 e il 20% ed i set-tori più interessati sono il piccolo commercio, l’artigiana to e l’edilizia.

Pur essendo l’Italia il paese che registra il più alto li-vello della cosiddetta "economia sommersa" anche gli al­tri paesi sia europei sia extraeuropei hanno evidenziato, soprattutto dopo la recessione economica degli anni set-tanta, un forte aumento del fenomeno. Nell’Unione Euro­pea circa il 10% della forza-lavoro totale è rappresentato da lavoratori del sommerso.

La Tab.21 mostra chiaramente come un confronto tra gli anni 1994 e 1997 evidenzia la crescita in tutti i paesi europei della quota dell’economia sommersa in rapporto al PIL; si noti che l’Italia risulta essere il paese con la per­centuale più alta ed il valore cresce ulteriormente dal 1994 al 1997.

In questi ultimi anni stanno nascendo sempre nuove figure di lavoratori che non possono essere considerati autonomi né subordinati; e che sono identificati come la­voratori atipici, "autonomi di seconda o ultima genera­zione", o parasubordinati che svolgono attività per l’im­presa ponendosi all’esterno senza rapporto di dipendenza diretta ma in pratica agiscono come nuovi lavoratori su­bordinati, come nuovi salariati, nell’impresa a rete so­cialmente diffusa ed estesa nel mondo della globalizzazio­ne sul territorio.

Si va affermando così nel nostro Paese, in particolare in questi ultimi anni, ma è un fenomeno che riguarda tut­ti i paesi a capitalismo avanzato, il cosiddetto lavoro gri­gio (ossia lavoro interinale, parasubordinato, intermitten­te, il telelavoro e altre forme in genere definite atipiche). Nel 1996 in Italia si sono avuti circa 1.064.000 lavoratori a termine (concentrati nei settori più disagiati) che rap­presentavano il 5,3% dell’occupazione complessiva ed il 7,4% di quella dipendente. In Spagna sempre nel 1996 gli occupati a termine costituivano il 33,7% di quelli dipen­denti, in Olanda il 10,9% ed in Germania il 10%.

Il principale problema di queste nuove forme di lavo­ro è che i nuovi salariati non sono in alcun modo regola­mentate e non hanno riconosciuto alcun diritto sindaca-le, assistenziale e sociale. Per i lavoratori parasubordinati (ossia coloro che prestano attività di collaborazione in forma continuativa) è previsto il versamento di un contri­buto pari al 10%; secondo i dati dell’INPS relativi al 30 settembre 1997 gli occupati iscritti alla gestione del 10% erano 1.204.627.

I motivi che hanno portato alla situazione complessa in precedenza presentata, con le moderne forme dello sfruttamento sul nuovo lavoro salariato mascherato in diversi modi, sono molteplici. Ci troviamo al termine del ciclo taylorista-fordista-keynesiano caratterizzato da pro­duzioni che si imponevano sul mercato e quindi permet­tevano un controllo sull’economia. Oggi è la divinità del mercato a dominare e la disoccupazione di massa, strut­turale, si innesta in questo meccanismo come espressione di una scelta politica del Profit State e una forma econo­mico-produttiva della fabbrica sociale generalizzata, in un contesto post-fordista di accumulazione flessibile che si basa e che consente di controllare i salari e la forza lavo­ro, provoca intensi processi di precarizzazione e flessibi­lità del lavoro e del salario e dello stesso vivere sociale complessivo.

Il fenomeno della deregolamentazione del rapporto di lavoro, la parcellizzazione, la flessibilità e la variabilità dell’occupazione, conseguenza della fase di postfordismo che si sta vivendo, ha portato da un lato alla nascita di la­vori che non permettono di soddisfare a chi li esercita i principali e basilari bisogni ed esigenze umane (con la conseguenza così di accrescere il numero di coloro che vi­vono al di sotto o al limite della soglia di povertà); dall’al­tro lato ci si trova di fronte alla nascita sempre più fre­quente di microimprese (sino ad arrivare ad imprese indi­viduali gestite da lavoratori espulsi dal ciclo produttivo) che, oltre a non garantire alcuna stabilità, sono soggette più di altre al ricatto del grande capitale e che nei fatti so-no spesso la rappresentazione post-fordista delle nuove forme di lavoro subordinato, del salariato moderno fun­zionale ai processi di accumulazione flessibile.

L’aspetto che si evidenzia maggiormente è la preca­rizzazione del lavoro come elemento costitutivo della nuova divisione del lavoro. Ne sono un esempio il con-tratto di prestito delle forze-lavoro, la competizione oriz­zontale mondiale tra i lavoratori, la svalutazione e svalo­rizzazione del vecchio lavoro dipendente salariato, in for­me sempre più servili, l’intermittenza nel lavoro e nel sa­lario, la perdita di autonomia contrattuale del lavoratore dipendente. A tale processo si unisce un attacco al salario diretto, indiretto, differito e sociale; vengono messi in di­scussione il servizio sanitario nazionale con violenti pro-cessi di privatizzazione, la previdenza sociale, la sanità, la scuola, ecc.

3. La dinamica degli investimenti fissi

Prima di esaminare le dinamiche e i mutamenti :le le imprese capitalistiche hanno avuto in questi ultimi dieci anni, al fine di comprendere come e in che modo il pro-cesso di globalizzazione finanziaria e produttiva che ha interessato tutti i paesi occidentali abbia influenzato l’in­tero sistema del vivere economico e sociale, è interessan­te esporre brevemente i concetti stessi di investimento, e le categorie economiche valutative ad esso connesse per meglio capire quali sono i fattori che influenzano mag­giormente i processi produttivi delle imprese e quindi i processi di accumulazione del capitale.

In macroeconomia gli investimenti sono rap­presentati dal complesso di beni prodotti da un sistema economico in un determinato periodo di tempo, i quali configurandosi come beni a fecondità ripetuta e a lungo ciclo di utilizzo non servono direttamente e immediata-mente a soddisfare i bisogni, bensì servono a loro volta a produrre altri beni e servizi; in microeconomia l’investi-mento è dato dall’acquisto o dalla produzione in proprio di beni capitali immobilizzati sul medio-lungo periodo oppure temporaneamente, quali macchinari, mobili, au­tomezzi, impianti, equipaggiamenti, attrezzature o scor­te.

Gli investimenti si possono suddividere in investi-menti reali: hanno lo scopo di incrementare la struttura del patrimonio e il valore dei beni produttivi e le poten­zialità di reddito; investimenti finanziari: sono costituiti da azioni, obbligazioni, titoli di stato, partecipazioni, pro-dotti finanziari vari, ecc. Una seconda distinzione riguar­da gli investimenti fissi: rientrano tra quelli reali e ri­guardano l’acquisto, da parte dell’impresa, di macchinari, attrezzature e impianti, che generalmente hanno un ciclo di utilizzo lungo; investimenti in scorte: sono costituiti dalle variazioni dello stock delle scorte, delle giacenze del-l’impresa e hanno generalmente una vita più breve di quelli fissi, di solito un singolo esercizio contabile, co­munque costituiscono immobilizzazioni temporanee e quindi investimenti di breve periodo.

In primo luogo va sottolineato che gli investimenti e più precisamente, i processi decisori per l’investimento, costituiscono un obiettivo prioritario e strategico per il si­stema azienda e quindi nel loro insieme per il sistema paese. Dal momento che qualsiasi investimento presup­pone impiego di risorse finanziarie al fine di poter pro-durre un utile in futuro, va da subito stabilito che proprio l’incertezza nella realizzazione e nell’ammontare di tale utile fanno si che la decisione di investimento comporti l’assunzione di rischi, dovuti alla divergenza fra rendi-mento effettivo realizzato e rendimento atteso. Una sana ed efficiente gestione di impresa nella logica dell’econo­mia di mercato implica una continua produzione di pro-poste e decisioni di investimento a fronte delle quali van-no quantificati e valutati i relativi flussi di cassa; fatto ciò seguiranno necessariamente altri momenti decisionali re­lativi alla selezione delle proposte di investimento adot­tando degli opportuni criteri di accettazione che potran­no anche necessitare di un riesame critico dell’intera de­cisione di investimento anche dopo la fase di accettazio­ne. Linsieme di tali decisioni porta alla pianificazione strategica dei processi di espansione e di accumulazione del capitale.

I processi decisionali di investimento possono riguar­dare l’espansione di processi produttivi e/o prodotti esi­stenti o la determinazione di nuovi processi e prodotti. La sostituzione e l’espansione di immobilizzazioni materiali, lo sviluppo di risorse intangibili, come la ricerca, la cono­scenza e altro, tutto ciò è parte del processo di accumula­zione del capitale. In ogni caso il problema fondamentale di ogni attività economica di tipo capitalistico è l’adegua-mento della capacità produttiva alle dinamiche evolutive della domanda futura o meglio alle dinamiche future del mercato, tutto ciò in un’ottica di accumulazione continua attraverso previsioni e azioni economiche comunque de­finibili attraverso momenti decisionali che siano in grado necessariamente di legare i programmi di produzione ai programmi di investimento e di accumulazione.

Le decisioni di investimento diventano così a valenza strategica e vanno pertanto pianificati attraverso tecniche di capital budgeting, tecniche in grado di definire regole e procedure in base alle quali si possano predisporre i mez­zi di produzione capaci di fronteggiare le dinamiche evo­lutive del mercato realizzando al contempo il grado mas­simo di economicità e quindi di convenienza finanziaria in base alla quale decidere l’accettazione e la realizzazio­ne dei progetti di investimento (Cfr. Insinga F., "Guida pratica alle decisioni aziendali", Il Sole 24 Ore libri, Milano 1992), compatibili con i piani di sviluppo d’impresa e le necessità di accumulazione del capitale.

Le decisioni di investimento riguardano molteplici aspetti della vita aziendale e dei meccanismi di sviluppo del capitale: dalla sostituzione o ampliamento dei beni d’impianto, agli investimenti di tipo finanziario o a quel-li riguardanti i beni immateriali a tutti i cosiddetti inve­stimenti a forma indiretta basati su continui abbassa-menti dei costi, come, ad esempio, le compressioni sala­riali, l’aumento dei ritmi di lavoro il maggiore tempo e sfruttamento del lavoro, gli incrementi di produttività non redistribuiti al lavoro, il risparmio sui costi relativi alla protezione ambientale e alla salvaguardia dagli infor­tuni. In ogni caso le decisioni di investimento rientrano nei processi di pianificazione strategica aziendale corre-lati all’individuazione e alla valutazione della nuova ca­pacità produttiva che il sistema azienda deve acquisire in funzione delle dinamiche di accumulazione. I modelli decisionali di investimento sono comunque rapportati alla preventivata evoluzione della struttura del mercato e del-la tipologia della domanda futura oltre, ovviamente, alla potenzialità della concorrenza e all’ipotizzato sviluppo tecnologico e al progresso tecnico che è possibile appli­care al proprio processo produttivo. Diversa può essere la tecnologia o la tipologia d’impianto o di risorsa immate­riale da impiegare nel ciclo produttivo, e tra quelle che il progresso tecnico rende disponibili il management è chiamato a scegliere tra quelle economicamente più con­venienti.s

Il processo decisionale può portare alla realizzazione o meno degli investimenti e alla modificazione delle fasi e dei processi dell’accumulazione di capitale in base a crite­ri di economicità, di complementarità e di succedaneità che si realizzano tra gli alternativi progetti di investimen­to. In ogni caso nell’economia capitalistica realizzare un investimento richiede impiego di risorse finanziarie le quali, attraverso il processo produttivo dovranno essere in grado di accrescersi realizzando utilità economica. Nel suo complesso un processo di investimento altro non è che un insieme di operazioni riguardanti il trasferimento di risorse nel tempo e tale iter si compone di più fasi del-le quali quelle iniziali sono a prevalenti uscite monetarie nette mentre le fasi finali vedono prevalere le entrate mo­netarie nette.

In ogni caso i modelli decisori di investimento si di­stinguono a secondo delle condizioni e del grado di cer­tezza di realizzazione dei rispettivi flussi di cassa, oltre al-la predeterminazione degli scopi per i quali il progetto steso di investimento è messo in essere. In base a tale ul­tima specificazione riguardante gli scopi, in dottrina si parla di "investimenti di espansione" quando si ricercano incrementi quantitativi o qualitativi della capacità pro­duttiva; "investimenti di sostituzione" a produttività inva­riata motivati da processi di obsolescenza tecnico-econo­mica dei beni strumentali; "investimenti di razionalizza­zione" tendenti a far diminuire i costi unitari di produ­zione, aumentando la produttività e gli standard qualita­tivi e quantitativi, infine gli "investimenti strategici in ri­sorse immateriali" che hanno corne obiettivo primario quello di aumentare la produttività e di occupare nuovi segmenti di mercato accrescendo complessivamente il ca­pitale intangibile aziendale.

Diversi sono i metodi utilizzati dalle varie discipline economico-aziendali per valutare gli investimenti d’impre­sa e per considerare l’impresa stessa come un ’investi-mento", come un processo continuo di accumulazione.

Attraverso l’insieme delle risorse informative sulle quali poggiano i processi decisionali di investimento di-viene possibile stimare la qualità e la quantità delle ope­razioni da cui partire per realizzare le varie nuove forme di investimento. Al momento della realizzazione di qual­siasi nuovo progetto di investimento deve essere già ab­bastanza chiaro l’iter valutativo della sua redditività e le ricadute potenziali sui processi complessivi dell’accumu­lazione del capitale. La soluzione a tale problema può ave-re degli approcci di natura soggettiva, basati su valutazio­ni di tipo intuitivo che si traducono immediatamente in momenti decisionali, oppure metodologie di carattere obiettivo con stime esplicite quantitative dei costi e bene­fici dell’intero investimento, dei ricavi attesi, in altri ter­mini si tratta di iter attuativi dei processi decisionali di in-vestimento basati sulla misura reale dei processi di accu­mulazione legati alla redditività complessiva dell’investi­mento stesso.

Fino a non molti anni fa i modelli decisionali azien­dali erano essenzialmente derivati dalla contabilità ge­stionale, cioè dai valori iscritti in bilancio ed esisteva una forte correlazione tra dimensione aziendale e capacità di creare valore attraverso processi di accumulazione del ca­pitale basati su investimenti materiali; ne derivavano conseguentemente vantaggi competitivi nei confronti delle piccole imprese. Oggi invece uno dei compiti a mag­gior connotato strategico che investe il management dell’impresa post-fordista è quello di conoscere ed aumenta-re il valore aziendale attraverso processi di accumulazio­ne flessibile basati su risorse immateriali, realizzando percorsi di efficiente gestione a partire dai maggiori con­dizionamenti derivanti da una sfrenata concorrenza. La stessa turbolenza dei mercati e la disintegrazione dei vec­chi modelli di accumulazione e di investimento portano il top management post-fordista a rivedere le decisioni a connotato strategico andando sempre più a influenzare i modelli relativi alla creazione e distribuzione del valore aziendale attraverso forme accumulazione di capitale intangibile.

A differenza del passato si assiste oggi ad una diffusio­ne anche nelle piccole e medie imprese di quegli elemen­ti che maggiormente riescono ad agire ed influenzare le decisioni imprenditoriali a carattere strategico, come la disponibilità e la speculazione su fattori di capitale fi­nanziario, le risorse umane qualificate, i processi di cielo­calizzazione produttiva e la esternalizzazione di fasi del ciclo alla ricerca di sempre più bassi costi del lavoro, la disponibilità di infrastrutture e servizi di alta qualità, la valorizzazione dell’informazione, della comunicazione e di tutte le risorse del capitale immateriale. Si arriva, co­sì, al di là delle dimensioni aziendali, ad un nuovo modo di concepire l’investimento, ad una accumulazione fles­sibile sempre più basata su connotati finanziari e sugli investimenti in immobilizzazioni immateriali.

Se in effetti si assiste ad una diminuzione di impor­tanza della dimensione aziendale si nota però un sempre più intenso processo di globalizzazione dell’economia in senso finanziario e in particolare con forme di accumula­zione macroeconomica e aziendale a carattere flessibile, con importanti e decisive conseguenze sui modelli strate gici, societari e settoriali che vanno adottati per far fron­te alle sempre nuove situazioni che si presentano nella competizione capitalistica internazionale.

Tutto ciò crea delle particolari situazioni che vanno ad influenzare e modificare anche i sistemi di valutazione degli investimenti. In mercati pressoché stabili o comun­que facilmente controllabili bastavano semplici regole di correttezza contabile da cui derivare processi decisionali, ma in un sistema di globalizzazione, di internazionalizza­zione e di finanziarizzazione dell’economia, in un’epoca dominata dai servizi telematici ed informatici, con la pre­senza di continui processi di ristrutturazione e di accu­mulazione flessibile, di scalate, di fusioni e concentrazio­ni con relativi improvvisi mutamenti nei modelli decisio­nali di investimento, diventa più difficile quantificare e monetizzare l’accumulazione del capitale complessiva, così come è più difficile individuare quei modelli decisio­nali capaci di creare e diffondere realmente valore azien­dale.

I processi di globalizzazione dell’economia e loro fi­nanziarizzazione, le nuove forme di accumulazione flessi-bile e la turbolenza dei mercati diventano quindi fattori di estrema importanza e capaci di influenzare fortemente i processi decisori in materia di creazione di valore degli investimenti e dell’accumulazione complessiva.

Considerando l’importanza che gli investimenti han-no nell’andamento del sistema economico è interessante andare ad analizzare brevemente ciò che è avvenuto in Italia, in Europa, negli Stati Uniti e in Giappone.

Per quanto riguarda il periodo che va dal 1970 al 1979, ad un tasso degli investimenti lordi, che negli Sta-ti Uniti era del 4.5%, (notevolmente superiore a quello registrato in Europa), corrispondeva un livello di disoc­cupazione maggiore che nei paesi europei. Il bisogno di una ristrutturazione capitalistica nel suo insieme, e di quella d’impresa in particolare, ha fatto si che anche nel decennio 1986-1996 una fetta notevole (vedi Graf. 9) de-gli investimenti fissi lordi sia stato assorbito dagli USA, ciò comunque si è anche accompagnato ad una "appa­rente" diminuzione della disoccupazione, poiché si è al­largata la schiera dei sottoccupati, dei lavoratori a tempo e con una meno equa redistribuzione al sistema di remu­nerazione al fattore lavoro, che ha favorito l’adeguamen­to del costo del lavoro alla situazione economica contin­gente.

Inoltre l’arco di tempo che va dal 1983 al 1990 è stato caratterizzato da un ciclo di espansione, con un aumento degli investimenti lordi e con un tasso di investimento pa­ri a circa il 4% negli Stati Uniti e in Europa. La stessa co­sa non è accaduta per il tasso di disoccupazione, che nei paesi europei è stato molto superiore a quello americano, ma bisogna tener conto della diversa rilevazione delle for­ze di lavoro negli USA che porta a sottostimare i disoccu­pati ed ad aumentare i tassi di occupazione. Spicca anche la notevole differenza nella progressione del costo del la­voro reale per addetto nell’Unione Europea rispetto agli Stati Uniti; comunque le diverse dinamiche del costo del lavoro per addetto hanno di fatto evidenziato l’aumento del rapporto capitale lavoro in tutti i paesi a capitalismo avanzato, ma con punte particolarmente rilevanti a favo-re del capitale nell’area del capitalismo anglosassone (USA, Gran Bretagna, ecc.).

Per quanto riguarda l’Italia (si veda Tav. 1) nel 1996 ha avuto inizio dopo un biennio di forte crescita, una nuo­va fase caratterizzata da un rallentamento degli investi-menti; questa situazione si è protratta fino alla prima metà del 1997 e solo nella seconda parte dell’anno si è as­sistito ad un modesto miglioramento. Infatti il tasso di crescita degli investimenti fissi lordi a prezzi costanti, ri­cavato dai dati ISTAT, supera solo leggermente il valore dell’anno precedente (+ 0,6 contro lo 0,4). La caduta del tasso di investimento si è accompagnata alla elevata ridu­zione dell’occupazione, in particolare in tutti quei settori che nel 1997 hanno registrato una variazione negativa notevole degli investimenti a prezzi costanti, che segue quella già rilevata nel 1996. Va inoltre evidenziato un al­tro aspetto molto interessante: sempre più in questi ulti-mi anni gli investimenti esteri delle imprese italiane, si indirizzano in altri paesi piuttosto, ad esempio, che nel Sud d’Italia, come meglio si vedrà in seguito.

Per avere un’idea si consideri che nel periodo 1987-1996 il valore degli investimenti fissi lordi a prezzi correnti è sta­to sempre tra i più bassi rispetto a quelli registrati per Stati Uniti, Giappone e per i maggiori paesi europei (vedi Graf. 10); dallo stesso grafico si nota che per l’insieme dei paesi dell’EUR 15 in tutto il periodo considerato gli investimenti fissi lordi sono sempre maggiori di quelli effettuati dagli Stati Uniti e dal Giappone, anche se quest’ultimo continua a diminuire continuamente il suo differenziale rispetto al-l’Europa fino a quasi raggiungere gli stessi valori.

La Tab.22 evidenzia l’andamento degli investimenti suddivisi per branche in un anno del periodo (1992) preso come riferimento; è importante notare come in tutti i paesi considerati la parte prevalente degli investimenti fissi lordi sia destinata al terziario, ed in particolare ai ser­vizi privati. Il Graf.11 per lo stesso anno (1992) evidenzia dei tassi di investimento abbondantemente sotto la media europea per la Francia, la Germania e in particolare per la Gran Bretagna.

4. I processi di internazionalizzazione attraverso l’analisi degli investimenti diretti esteri (IDE)

Sulla base anche di quanto scritto in precedenza è in­teressante ora valutare la situazione dei paesi a capitali­smo avanzato per analizzare in che modo e soprattutto se­guendo quali direttrici i singoli paesi abbiano risposto al processo di globalizzazione e internazionalizzazione dei mercati.

Bisogna innanzitutto evidenziare che il fenomeno del-l’internazionalizzazione si attua attraverso il commercio (internazionale e l’investimento diretto produttivo all’e­stero con il quale una determinata impresa assume le ca­ratteristiche di multinazionale creando o acquistando fi­liali di produzione in diversi paesi .

Gli investimenti diretti all’estero (IDE), che vengono attuati in pratica da quelle imprese vogliono localizzarsi in altri paesi attraverso la creazione di un nuovo stabili-mento produttivo o acquisendo le quote di partecipazioni di società già esistenti.12

Come si può rilevare dalla Tav. 2, nel corso degli an­ni’80 il movimento internazionale dei capitali ha subito un’estensione veloce se rapportata a quella del commer­cio mondiale. Questo processo ha determinato in manie­ra decisa il contesto di globalizzazione finanziaria che og­gi viviamo; tale contesto di finanziarizzazione dell’econo­mia è stato voluto ed agevolato dalle grandi strutture del capitalismo internazionale attraverso i rilevanti cambia-menti strutturali imposti all’interno dei mercati finanzia­ri con una liberalizzazione crescente favorita dall’aboli­zione dei controlli sul mercato dei cambi e sulla derego­lamentazione delle operazioni finanziarie e con tassi di investimenti fissi sempre più ridotti a favore degli investi-menti finanziari, spesso a carattere speculativo. Questi fe­nomeni si sono sviluppati di pari passo con la significati-va partecipazione alla globalizzazione.

Durante gli anni’90, la brusca frenata registratasi nel-la crescita degli investimenti diretti internazionali si è ac­compagnata, in Europa, dalle aspettative sull’Unione Eu­ropea e dai processi di intensa riconversione produttiva orientata verso un terziario implicito ed esplicito e da una riorganizzazione nella struttura del capitale delle impre­se. E’ evidente che dopo il 1990 si è modificata la riparti­zione territoriale degli investimenti: precedentemente quasi tre quarti di quelli effettuati dall’Unione Europea avevano come destinatario gli Stati Uniti d’America; ora l’ammontare complessivo è destinato principalmente ai Paesi in Via di sviluppo, ma in forte crescita sono anche quelli verso le nazioni dell’Europa dell’Est, confermando i processi delocalizzativi in aree a basso costo del lavoro e delle risorse in genere. In entrata si registra una più si­gnificativa presenza dei flussi provenienti dagli USA. Per quanto riguarda gli investimenti intra europei, questi so-no in una fase di crescita notevolmente più rapida rispet­to a quelli effettuati dall’Europa verso l’estero; fenomeno dovuto principalmente al processo di ristrutturazione messo in atto dalle imprese europee, anche in questo ca­so seguendo itinerari verso paesi europei con basso costo del lavoro ma a buon livello di specializzazione.

La nascita del mercato unico dei capitali e dei servizi finanziariin Europa ha provocato anche un rilevante in­cremento degli investimenti esteri attraverso numerosi processi di ristrutturazione dell’impresa con caratteri di internazionalizzazione delocalizzativa, alla ricerca di co­sti più bassi in particolare per quanto attiene al fattore la­voro, e attraverso fusioni e processi di concentrazione orientati ad un’alta competitività concorrenziale rispetto ai poli capitalistici giapponese e statunitense. Lo stesso af­flusso di capitali ha registrato, inoltre, un considerevole aumento rispetto a quello rilevato negli Stati Uniti e in Giappone, mettendo in risalto il crescente potere attratti­vo acquisito dall’Europa nei confronti degli investitori esteri. Infatti, allo stesso tempo l’Europa viene anche con­siderata un’esportatrice importante di capitali destinati agli investimento diretti (più di tre quarti di quelli effet­tuati dalla Unione Europea sono destinati ai paesi indu­strializzati occidentali); infatti nel 1988 il loro ammontare risultava essere molto vicino a quello realizzato in Giappone. Quest’ultimo, già a partire dagli anni’80, si è collocato in vetta alla classifica degli investimenti inter-nazionali (essi si sono quadruplicati tra il 1984 e il 1988) pur essendo un paese a bassa attrattività di capitali.

Nel 1996 nei paesi asiatici si è avuto un sostanziale in­cremento degli investimenti in entrata (29.2%) e in usci­ta (10.3%), mentre nel 1997 non si erano ancora rilevati gli influssi della crisi del Sud Est Asiatico, contrariamen­te a quanto è accaduto agli investimenti finanziari che hanno registrato un rapido decremento. La causa è da ri­cercare nella natura degli investimenti diretti che metto-no in essere rapporti di medio-lungo termine con i paesi beneficiari. Completamente diversa è la situazione della Cina, la quale ha attratto un alto volume di flussi diretti in entrata.13

Nell’Europa dell’Est si sono registrate flessioni negli af­flussi di capitale, soprattutto in Ungheria, nella Repubblica Ceca e nella Federazione Russa; solo la Polonia ha fatto ri­levare un incremento importante nei flussi del 1996.

Per quanto concerne l’industria italiana, questa ha mo­strato una capacità di investimento all’estero inferiore ri­spetto alla sua importanza nel commercio internazionale.

Va subito evidenziato che per quanto riguarda il com­mercio con l’estero negli ultimi dieci anni l’Italia ha qua-si triplicato il valore delle esportazioni di prodotti ed ha raddoppiato le importazioni (cfr. Tab.23); se si considera l’anno 1997 va evidenziato che oltre il 50% delle esporta­zioni del nostro paese è diretto verso i paesi dell’Unione Europea (cfr. Tab.24 e Graf. 12 e 13) così come circa il 60% delle importazioni proviene dagli stessi paesi (è chia­ro che con l’introduzione della moneta unica europea ne-gli anni a venire questi scambi saranno considerati "in-terni"); un 10% del totale degli scambi interessa il Cana­da e gli Stati Uniti mentre è abbastanza elevata la percen­tuale degli scambi effettuati con i Paesi in Via di Sviluppo (nel 1997 si ha il 21,1% in uscita ed il 19,2% in entrata).

Le differenze territoriali esistenti nel nostro Paese anche nel caso degli scambi sono evidenti: risulta infat­ti che, sempre nel 1997, circa il 75% del totale degli scambi con l’estero è effettuato dall’Italia del Nord an­che se si nota un lieve incremento dei valori per l’Italia del Centro-Sud. Infatti gran parte delle esportazioni ita­liane proviene dall’Italia del Nord 174,2%) di cui il 43,8% dal Nord-Occidentale ed il 30,4% dal Nord-Orientale; tra queste le regioni più attive risultano la Lombardia, che con 119.038 miliardi di dollari esporta-ti nel 1997 rappresenta il 29.3% del totale italiano, il Veneto che nel 1997 abbraccia il 13,8% del totale rag­giungendo i 56.190 miliardi di dollari e, a seguire, tro­viamo il Piemonte e l’Emilia Romagna, rispettivamente con il 12,8% e 1’11,5%. L’Italia centrale esporta una quantità di merci pari al 16,1% sul totale di cui 1’8,3% appartiene alla Toscana con 33.847 miliardi di dollari esportati nel 1997 ed il 3,8% al Lazio che nello stesso anno raggiunge i 15.604 miliardi di dollari esportati. L’Italia Settentrionale raggiunge complessivamente il 9,6% sul totale e le regioni di maggior rilievo apparte­nenti a questa area sono la Campania e la Puglia rispet­tivamente con il 2,6% ed il 2.2%. Nel complesso le re­gioni del Centro-Sud conseguono un incremento della propria quota sul totale delle esportazioni di 0.8 punti raggiungendo il 25,7%. Questa situazione può eviden­ziare processi di internazionalizzazione che modificano il modello di specializzazione sia in termini commer­ciali sia in riferimento agli investimenti esteri. Questi ultimi anni si sono rilevati caratterizzanti per l’integra­zione della nostra industria nei mercati internazionali, i quali essendo investiti da un’enorme massa di capitali in investimenti diretti esteri generano trasformazioni strutturali e finanziarie a partire dalla determinazione di nuove opportunità di investimenti per diversi paesi. A metà degli anni ’80, era presente ancora un "differen­ziale di internazionalizzazione", infatti la partecipazio­ne della nostre industria all’estero era poco significati-va se confrontata di quello verso l’investimento diretto estero in Italia e con gli altri paesi a capitalismo avan­zato. A fine anni ’80 si è generata una fase di "insegui-mento veloce all’internazionalizzazione" che ha offerto all’Italia l’opportunità di raggiungere una situazione di equilibrio tra internazionalizzazione attiva e passiva. Infatti tra il 1985 e il 1995 il totale delle partecipazioni è aumentato di oltre due volte e mezzo sia sotto il pun­to di vista del numero di imprese partecipate sia del nu­mero di addetti, inoltre quello degli investitori all’este­ro si è mantenuto stabile per tutti gli anni’80 ed è più che raddoppiato nella prima metà degli anni’90. Le pic­cole e medie imprese italiane hanno molto investito in Spagna, Francia e Portogallo trascurando in parte la Germania, il Regno Unito e tutta l’area dell’Europa Set­tentrionale. Al contempo le nostre multinazionali, se­condo dati Federexport, hanno la loro sede centrale per circa il 46% dalle regioni Nord-Occidentali dell’Italia (il 31% solo dalla Lombardia), il 37% dalle regioni Nord-Orientali (soprattutto Veneto ed Emilia Romagna), il 12% da quelle Centrali (Toscana, Umbria, Marche e La-zio) e solo il 5% dal Meridione.

Le successive Tab. 25 e 26 evidenziano la composizio­ne degli IDE per branche e per i maggiori paesi a capitali­smo avanzato nel 1997, in modo da poter meglio effettuare i confronti con le dinamiche degli IDE da e verso l’Italia.

Se analizziamo gli investimenti dell’Italia negli ultimi decenni appare subito la differenza esistente tra il flusso in uscita che risulta crescente, e quello in entrata invece stabile e attestato su livelli più limitati.

La Tab.27 evidenzia che gli investimenti diretti in uscita, sono cresciuti passando -da appena 1’1,2% dello stock mondiale (all’inizio degli anni settanta) al 3,4% nel 1995 (il valore è vicino a quello registrato in Canada e in Svizzera, anche se inferiore a quello degli altri maggiori industriali). Importante è anche osservare attraverso il Graf.14 il confronto tra gli IDE con origine in Italia e quelli totali dell’Europa dei 15.

Gli investimenti mondiali rivolti verso l’Italia sono in-vece diminuiti, passando dall’iniziale 3,4% (quota prossi­ma a quella francese e doppia di quella spagnola) al 2,3% del 1995 evidenziando la difficoltà dell’Italia nel richia­mare investimenti esteri (Cfr. Tab. 28).

Va messo in risalto che gli investimenti diretti italiani si rivolgono maggiormente verso i paesi dell’Unione Eu­ropea, mentre sono meno indirizzati verso gli Stati Uniti ed il Regno Unito; inoltre in questi anni l’Italia, a diffe­renza di altri paesi, ha evidenziato una sua specializzazio­ne economico-geografica verso il Giappone. Per quanto riguarda gli investimenti nei PVS l’iniziale crescita nella prima metà degli anni ottanta, si è arrestata bruscamente negli ultimi anni; infatti all’aumento complessivo degli investimenti mondiali in questi paesi non ha corrisposto quello degli investimenti italiani.

Per quanto riguarda invece gli investimenti di altri paesi in Italia si è manifestato uno spiccato interesse per il nostro Paese da parte degli investitori statunitensi e giapponesi.

Se si esaminano gli investimenti diretti italiani per settore ci si accorge che in questi ultimi anni la distribu­zione settoriale è mutata qualitativamente (Cfr. Tab.29).

Si nota nel 1995 immediatamente l’aumento degli in-vestimenti in uscita nei servizi (64,3%) a discapito dei prodotti industriali (29%) mentre tale rapporto era nel 1982 di quasi 9 punti percentuali in più per i prodotti in­dustriali rispetto ai servizi. Si rileva quindi che lo svilup­po degli investimenti diretti nel settore dei servizi carat­terizza il nostro Paese negli ultimi anni già a partire dal 1985 anno in cui si inverte il rapporto. In specifi, o, in questo settore assumono rilevanza il credito e le assicurazioni che raggiungono nel 1995, il 40,3% del totale degli investimenti italiani diretti all’estero (Cfr. Graf.15).

La stessa situazione si nota per gli investimenti in en­trata: infatti il settore dei prodotti industriali, diminuisce dal 1982 (anno in cui registrava un valore del 47,3% del totale) al 1995 di oltre il 10%, ciò a vantaggio del settore dei servizi che negli stessi anni consegue 15,7 punti in au-mento raggiungendo, nel 1995, quasi il 60% del totale de-gli investimenti diretti dall’estero (Cfr. Graf. 16), confer­mando un trend iniziato negli ultimi anni ’80.

Se si analizza, invece, la partecipazione delle imprese ita­liane negli investimenti esteri si nota come il trend molto fa­vorevole di fine anni `80-inizio anni `90 ha subito un brusco rallentamento a partire dal 1993, a causa soprattutto di una sfavorevole congiuntura interna (che ha portato anche alla svalutazione della lira) (Cfr. Graf.17) e per la maggiore com­petizione internazionale, passando dalle 235 partecipate del 1992 alle 121 del 1995 (con sole 61 nel 1993).

E’ interessante mostrare quali sono gli orientamenti geografici degli investimenti delle imprese italiane all’e­stero. Desame del Graf.18 evidenzia che nel decennio 1986-1996 la quota maggiore di investimenti si è indiriz­zata verso i paesi dell’Europa occidentale (con valori del 46% nel 1986 e del 47% nel 1996); sempre in questi anni si è avuto invece un calo negli investimenti rivolti verso l’America Latina (si è passati dal 19% nel 1986 all’ll% nel 1996) ed anche verso il Nord America (si passa dal 14% nel 1986 al 9% nel 1996). E’ importante rilevare che nel-lo stesso decennio di riferimento le partecipazioni italia­ne in Europa Orientale passano dall’1% al 17%, ciò a di-mostrare anche forti processi di delocalizzazione produt­tiva verso aree a basso costo del lavoro che però risulta es­sere a buona specializzazione.

Questa situazione è riscontrabile anche esaminando il trend in funzione del numero degli addetti nelle imprese partecipate (cfr. Graf.19); i valori infatti rispecchiano la tendenza registrata nell’analisi delle partecipazioni.

Ancora una volta è interessante notare lo sviluppo che si è registrato negli investimenti italiani verso i paesi del-l’Europa Orientale che dimostra chiaramente, anche nella classificazione per numero di addetti, come il basso costo del lavoro e della manodopera in questi paesi siano la mag­giore attrattiva per gli imprenditori italiani.

Se si analizza la ripartizione territoriale degli investi-tori italiani appare ancora una volta il forte divario fra il Nord e il Sud che caratterizza l’Italia.

I dati della Tab.30 e la visualizzazione nel Graf.20 evi­denziano che 1’82% delle multinazionali italiane che inve­stono all’estero sono imprese collocate nel Nord Italia, so-lo il 12,2% appartengono al Centro Italia ed un 6,1% ap­partiene al Mezzogiorno e alle Isole; quasi il 40% delle im­prese partecipate estere; l’incidenza di tali regioni avviene attraverso case madri situate in Lombardia e l’incidenza delle prime 4 regioni (Lombardia, Piemonte, Emilia Ro­magna, Veneto) raggiunge 1’82,9% delle partecipate estere rappresenta inoltre il 74,9% del totale degli investitori ita­liani con partecipazioni in imprese industriali all’estero.

I dati per il Mezzogiorno e le Isole sono da evidenzia-re: solo il 3,8% delle imprese estere partecipate e poco più del 6% del totale degli investitori. Va evidenziato ancora che in Sicilia vi sono solo 3 imprese multinazionali, in Sardegna 2, in Calabria e Basilicata 1 e il Molise non regi­stra nessun soggetto investitore.

Un esame dei settori che più sono interessati dalle partecipazioni industriali italiane all’estero evidenzia che, sempre nel 1996, oltre il 50% riguarda imprese apparte­nenti a settori con forti economie di scala (es. prodotti ali­mentari derivati, bevande, tabacco, elettrodomestici, au­toveicoli, ecc.), oltre il 25% riguarda i settori tradizionali (prodotti alimentari di base, abbigliamento, tessile legno, editoria, ecc.), circa il 12% i settori specialistici (macchi-ne ed apparecchi meccanici, costruzioni navali e ferrovia-rie, ecc.) e quasi il 10% i settori ad alta intensità tecnolo­gica (farmaceutica, derivarti chimici, informatica, aereo-mobili e veicoli spaziali, ecc.). (cfr. Graf.21).

Va ricordato che tra le imprese multinazionali che inve­stono all’estero una posizione di rilievo assumono il gruppo Ifi-Fiat, il gruppo Cir, la Pirelli e la Compart-Ferruzzi.

Analizzando la situazione della presenza delle im­prese estere in Italia (escludendo gli investimenti di portafoglio, ossia di natura solo finanziaria) va subito rilevato che mentre negli anni `80 si era avuto uno svi­luppo abbastanza elevato di investimenti esteri diretti verso il nostro Paese, a partire dal 1990 si è avuto un rallentamento e una sostanziale riduzione di interesse da parte degli investitori internazionali verso l’Italia (Cfr. Graf.22), si passa ad esempio dalle 149 partecipate del 1989 alle 64 del 1995 (solo 40 nel 1991 e 43 nel 1992).

Se si analizza l’anno 1996 si evidenzia che la percen­tuale più alta dell’investimento diretto dall’estero in Italia proviene da imprese appartenenti all’Europa occidentale (71%), il 24% dal Nord America, il 3% dal Giappone e so-lo il 2% da altri paesi. (Cfr. Graf.23).

E’ interessante notare che le imprese estere investono in Italia soprattutto nei settori con forti economie di sca la (per il 48.7% del totale): vi sono poi i settori ad alta in­tensità tecnologica (21,3%), i settori specialistici (18,8) ed infine i settori tradizionali (11,2%).

Un evento rilevante si è verificato nel biennio 1996-1997 in concomitanza con la crescita degli investimenti diretti all’estero effettuati dalle imprese italiane; un nu­mero crescente di piccoli imprenditori italiani decidono di avviare una nuova attività imprenditoriale all’estero. I principali destinatari di questi progetti sono i paesi del-l’Europa centrale e orientale e quelli dell’area del Medi­terraneo.

Nuove tipologie di microimprenditorialità a caratte­re multinazionale stanno nascendo come esternalizza­zione e delocalizzazione delle piccole e medie imprese, caratterizzate da una ripartizione sull’intero spazio eco­nomico internazionale delle più importanti attività aziendali a forte connotato finanziario e di terziario spesso avanzato: finanza, produzione, commercio, assi­curazione, distribuzione e marketing.

Si registra nel contempo una consistente riduzione del numero delle imprese italiane nei settori dell’alta tecnologia, che si accompagna ad una significativa con-trazione degli investimenti nell’Europa Occidentale e nell’America del Nord, evidenziando la limitata crescita dell’imprenditorialità italiana nei grandi mercati oligo­polistici dell’occidente.

Ancora una volta evidenziando che la traiettoria degli investimenti esteri italiani si indirizza verso quelle aree dell’Europa centro-orientale dove la delocalizzazione pro­duttiva e la esternalizzazione di fasi del processo produt­tivo significano buon livello di specializzazione dei lavo­ratori con basso costo, scarse garanzie sindacali e di dirit­ti, ma anche spesso al ricorso al lavoro nero, al lavoro mi­norile, al lavoro precario, aumento dei ritmi e dell’orario, insomma supersfruttamento di una manodopera alla ri­cerca dei mezzi minimi di sussistenza.