Tassazione dei capitali e reddito sociale minimo

Luciano Vasapollo

Il presente intervento è stato presentato nei mesi di Marzo e Aprile 1999 in diverse assemblee, riunioni e convegni dell’associazionismo e del sindacalismo di base

1. Alcuni parametri macroeconomici

Stiamo attraversando ormai da circa venti anni un intenso processo di finanziarizzazione dell’economia spiega-bile non soltanto da fenomeni di ristrutturazione e riconversione che interessano l’industria ma che sta mutando lo stesso modo di presentarsi del modello di sviluppo capitalistico. Tali processi di globalizzazione a connotati finanziari perseguono semplicemente la loro logica interna tendente alla massimizzazione dei profitti complessivi, attraverso incrementi di dividendi, interessi e capital gain.

Allo stesso tempo oggi viene generalmente riconosciuto, soprattutto dopo il rapporto Delors sullo stato del-l’occupazione nell’Unione europea e sulle effettive possibilità politiche a suo sostegno, che la disoccupazione è un male strutturale delle società più avanzate e che neppure una accelerazione della crescita economica in questi paesi potrà attenuare sensibilmente gli effetti. L’evolversi del-lo stato di disoccupazione che stiamo vivendo è diverso e più complesso dei periodi di non occupazione sporadici avuti in passato per vari motivi.

Sinteticamente si possono presentare alcuni dati che caratterizzano l’attuale crisi del lavoro in modo tale da poter comprendere più chiaramente il fenomeno che stiamo vivendo (e le sue possibili soluzioni).

Si riportano di seguito i dati riepilogativi al 1996 di alcuni paesi a capitalismo avanzato, potendo così confrontare l’andamento di alcuni parametri macroeconomici tra i singoli paesi e il dato complessivo dell’Europa dei 15.

Come si può osservare dalla Fig.1 la crescita del PIL del 1996 in tutti i paesi europei è molto contenuta, tanto è vero che il dato complessivo dell’Europa dei 15 segna una crescita annua dell’1,6% nettamente inferiore a quel-la degli Stati Uniti (2,4%) e del Giappone (3,6%). A fronte di tali livelli di crescita i dati della disoccupazione ufficiale, sempre per il 1996, evidenziano per l’Europa dei 15 oltre 18 milioni di disoccupati ufficiali contro gli oltre 7 milioni degli Stati Uniti e i 2.259.000 del Giappone, con rispettivamente un tasso di disoccupazione del 10,9% per l’Europa dei 15, il 5,4% per gli USA e il 3,4% per il Giappone (si ricorda che nelle rilevazioni USA e giapponesi qualsiasi forma di occupazione anche a pochissime ore di lavoro mensili fasi che il lavoratore sia considerato un occupato). Anche tutti gli altri parametri macroeconomici presenti nella Figura 1 rispecchiano l’andamento dei primi anni ’90 con in generale tassi di disoccupazione maschile e femminile che aumentano fortemente in tutti i paesi europei e retribuzioni dirette e indirette, (in termini salariali e di prestazioni sociali), che si incrementano in modo assai lento senza assolutamente rispondere ad una equa redistribuzione ai fattori produttivi capitale e lavoro degli incrementi di valore aggiunto e di produttività, segnando. infatti, una forte carenza redistributiva verso le forme di remunerazione al fattore lavoro.

Ciò è anche confermato con l’andamento dei pararnetri macroeconomici per il 1997 che segnano un incremento del PIL sull’anno precedente del 3,8% per gli USA, dello 0,9% per il Giappone, del 2,2% per la Germania, del 2,3% per la Francia, del 3,3% per il Regno Unito e infine dell’1,5% per l’Italia; rispettivamente negli stessi paesi si hanno variazioni percentuali sull’anno precedente del-l’occupazione del 2,3%. 1,1%, -1.4% 0,3%, 1,7% e valori anche estremamente bassi per l’Italia.

Nel 1997 si hanno tassi di disoccupazione del 5% per gli USA, del 3,4% per il Giappone, dell’11,5% per la Germania, del 12,5% per la Francia, del 5,6% per il Regno Unito e del 12,3% per l’Italia. Per gli stessi paesi è infine importante riferire gli indicatori economici relativi al costo del lavoro per unità di prodotto che realizza rispettivamente incrementi dello 0,9% in USA, del -2,8% in Giappone, del -5,8% in Germania, del - 3% in Francia, del 3,3% nel Regno Unito e del 2% in Italia.

Laggravarsi della situazione occupazionale è evidenziata anche attraverso i dati del 1998. L’ultima rilevazione delle forze di lavoro effettuata in Italia ad ottobre 1998 registra circa 3 milioni di persone in cerca di occupazione con un tasso di disoccupazione del 12,6% (con una variazione dello 0,2% rispetto alla rilevazione di ottobre 1997); in particolare il tasso di disoccupazione è del 7,6% per il Centro-Nord e del 23,2% nel Mezzogiorno ed inoltre si registra un tasso del 9,6% per i maschi e di ben il 17,3% per le femmine.

Per lo stesso periodo di riferimento (settembre-ottobre 1998) si evidenzia un tasso di disoccupazione per il Belgio dell’8,8%, del 4,3% per la Danimarca, in Germania del 9,5%, in Spagna del 18,5%, in Francia del 12%, in Ir-landa dell’8,8%. Negli USA risulta per lo stesso periodo un tasso di disoccupazione totale del 4,7% ed infine si può rilevare per il Giappone un incremento del tasso di disoccupazione che si attesta all’incirca intorno al 4,2%.

2. . Ristrutturazione del modello capitalistico e nuovo mercato del lavoro

Oggi viviamo nell’era informatica e della comunicazione virtuale, della rivoluzione post-indutriale basata sulle risorse immateriali, sul capitale intangibile. Tale in-novazione a differenza del boom industriale non fornisce nuovi settori ma soprattutto nuovi posti di lavoro, anzi si realizza una grande flessibilità, nella quale orari e diritti del lavoratore hanno sempre meno importanza. Sembra paradossale, ma benché ci voglia sempre meno tempo per svolgere un lavoro, i lavoratori versano in situazioni di assoluta tirannia nella quale le ore di straordinario vengono considerate ore di lavoro normale. Il lavoratore dunque non ha più orari, è sempre meno tutelato, e sopporta spesso passivamente perché il mercato del lavoro è chiuso, ed essendo cosciente che rientrarvi è un impresa quasi impossibile tende a non opporsi in alcuna maniera a tale situazione per paura di perdere il posto di lavoro.

Per la prima volta la crisi del lavoro, dunque, incombe su disoccupati e su lavoratori. In diverso modo occupati.

Tuttavia i contratti atipici e la stessa forma di impresa a rete mantengono ancora, sia pure per relazione o per contrasto, un riferimento agli standard passati: nei primi la misura continua a rimanere il tempo della prestazione, la seconda resta pur sempre un’organizzazione, anche se particolarmente snella e duttile, con propri dipendenti.

Nella terza fase della modernizzazione capitalistica è l’idea di un tempo e di un luogo di lavoro a essere messa in discussione, si fa attenzione alla stessa misurabilità, in termini di durata, dell’attività lavorativa, così come alla sua localizzazione.

Ad esempio nel lavoro interinale non si svolge più la propria prestazione esclusivamente per un soggetto di cui si è dipendenti, ma per una pluralità di individui che possono servirsene solo per il tempo strettamente necessario; si è invece, formalmente, assunti da un datore di lavoro che ha il compito di affittare ad altri i propri dipendenti. Non c’è quindi più, in senso stretto, un luogo di lavoro e il tempo di lavoro si biforca tra il tempo dell’attesa e quel-lo dell’effettiva prestazione. L’aspetto territoriale assume un ruolo sempre più determinante con il passaggio da una produzione di massa, concentrata, ad una di tipo flessibile e diffusa basata nel contempo sulla mobilità, flessibilità e precarizzazione della forza lavoro.

Il superamento dell’era fordista pone il nostro Paese in una fase di ridefinizione del capitalismo con caratteri post-industriali superando nei fatti le logiche interpretative di tipo industrialista ed "operaista", per passare ad una gerarchizzazione dei modelli dello sviluppo basata principalmente sulle modalità di trasformazione sociale ed economica che vedono emergere sempre più nuove soggettualità non garantite. Si evidenzia quindi un terziario che interagisce e si integra sempre più con le altre attività produttive, soprattutto quelle industriali, determinando un nuovo modello organizzativo di sviluppo definito come "tessuto a multilivello di irradiazione terziaria". Si tratta in sostanza di un terziario implicito ed esplicito, esternalizzato, che ha assunto un ruolo sempre più propulsivo e trainante del modello di sviluppo economico, non spiegabile soltanto da semplici processi di deindustrializzazione o di ristrutturazione e riconversione industriale, ma dalle esigenze di ristrutturazione e diversificazione del modello di capitalismo italiano.

In tale contesto socio-economico e produttivo i soggetti delle classi intermedie esercitano ancora un ruolo molto rilevante nelle dinamiche di regolazione e di comando della vita delle specifiche aree locali a caratterizzazione socio-economica. Sulla mobilità e le determinanti qualitative del ciclo di vita delle varie aree economiche, nazionali o anche regionali, si registra una tendenza diffusa al consolidamento sociale delle leadership locali, basate su effetti imitativi e di status particolarmente efficaci su una parte del ceto medio. Una visione delle economie locali e nazionali sempre più classista ed intollerante che assume le modalità relazionali socio-economiche rappresentate dal rafforzamento e trasmissione forzata comportamentale di alcune imprese locali, o gruppi di imprese; gruppi economici nazionali che in alcuni paesi, come ad esempio l’Italia, nonostante la globalizzazione stanno assumendo un ruolo guida nell’influenzare le azioni economiche e sociali dei soggetti economici locali che avevano in passato fortemente caratterizzato l’evoluzione dei di-stretti.

E’ in tale chiave che vanno lette le relazioni di coercizione comportamentale complessiva che si instaurano tra impresa capitalistica, lavoratori come l’insieme di occupati e disoccupati, e popolazione direttamente o indiretta-mente legata alla fabbrica sociale generalizzata, cioè una nuova impresa a diffusione sociale nel territorio, determinando una specifica forzata capacità autocontenitiva in relazione a domanda e offerta di lavoro realizzata tramite marginalizzazione, precarizzazione ed espulsione dei soggetti economici e produttivi non compatibili. Si tratta nella maggior parte dei casi di disoccupati nuovi e di ex lavoratori dipendenti di fatto precarizzati, non più garantiti nella continuità del lavoro, espulsi dall’impresa madre e assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, lavoro atipico e parasubordinato fuori dalle garanzie normative e retribuite del lavoro dipendente.

La realtà economica è, quindi, in rapida e ineluttabile evoluzione, ma tende a rendere sempre più evidente la linea di demarcazione fra proprietà - capitale e una classe dei lavoratori che non può accettare quelle compatibilità funzionali alla crisi quantitativa di accumulazione che il capitale sta attraversando. Gli stessi incrementi di imprenditorialità che emergono dai dati ufficiali sono causa-ti soprattutto dallo spropositato aumento di "partite IVA", che ormai superano ampiamente i sette milioni di iscrizioni, e che altro non sono che "ditte individuali", le qua-li rappresentano il cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione. Si tratta nella maggior parte dei casi di ex lavoratori dipendenti di fatto precarizzati, non più garantiti nella continuità del lavoro , espulsi dall’impresa madre e assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, fuori dalle garanzie normative e retribuite del lavoro di-pendente. Dietro l’illusione del "fai da te", dell"’autoimprenditorialità", della libertà economico-sociale derivante dell’autocelebrazione del farsi "imprenditori di se stessi", troviamo sempre una nuova forma di lavoro subordinato privo di normativa, un supersfruttamento a cottimo, con la mancanza assoluta di garanzie sociali a causa della mancanza di coperture assicurative (sanità, pensione, infortunistica, assistenza varia). Ma dietro il tanto decantato sviluppo dell’imprenditorialità locale, l’esplosione del "popolo degli imprenditori", che è semplicemente lavoro parasubordinato, cioè lavoro autonomo di seconda gene-razione, altro non c’è che un capitalismo selvaggio che crea falsi miti al fine di nascondere le proprie contraddizioni che provocano incrementi notevoli di disoccupazione palese e invisibile, precarizzazione del lavoro, negazione delle garanzie sociali e delle regole elementari del di-ritto del lavoro, in un territorio che si fa fabbrica sociale in quanto luogo di sperimentazione e affermazione delle compatibilità d’impresa.

E’ allora il territorio il centro verso il quale far convergere una parte rilevante degli interessi della collettività, della classe, delle nuove soggettualità che operano in un’impresa diffusa socialmente nel sistema territoriale, in una fabbrica sociale generalizzata in cui si generano nuovi soggetti che si devono ricomporre ad unità come corpo organizzato, come una totalità di parti interagenti, che si danno una certa caratterizzazione sociale perché derivano da una certa caratterizzazione produttiva della riconversione neoliberista, del modo di produrre e di pro-porre socialmente la centralità dell’impresa, del profitto, del mercato.

E’ in tale contesto di trasformazione globale e di ristrutturazione complessiva capitalistica che anche lo Stato Sociale si trasforma in Stato-Impresa, in Profit-State che assume come centrale la logica di mercato, la salva-guardia e l’incremento del profitto, trasforma i diritti sociali in elargizioni di beneficenza, effettua comunicazione sociale che fa assumere il profitto, la flessibilità, la produttività come nuove forme di "divinità sociale", come filosofia ispiratrice dell’unico modello di sviluppo possibile.

A questa logica risponde anche la visione e il ruolo che si vuole dare alla cooperazione sociale, al cosiddetto "Terzo settore", e si badi bene che tale importanza strategica attribuita al non-profit in generale proviene da riconoscimenti effettuati nientemeno che dalla Banca d’Italia, dai vertici della Chiesa Cattolica, dal mondo delle fondazioni bancarie e finanziarie. La tendenza sembra essere quella di una economia dai due volti: nel primo si persegue esclusivamente il profitto con i conseguenti costi sociali in termini di esclusione ed emarginazione; esclusione che dovrebbe venir recuperata dalla logica solidaristica del no profit, del volontariato. Un’imprenditorialità sociale spesso in mano alle fondazioni bancarie, in maniera diretta o indiretta, che a partire dalla tensione etica viene utilizzato dal consociativismo neo-liberista per precarizzare e flessibilizzare il lavoro diminuendone nel contempo la forza contrattuale e calmierando così le tensioni e gli incrementi salariali; realizzando indirettamente pro-fitto attraverso il controllo dell’impresa e della cooperazione sociale, sfruttando anche in termini fiscali le donazioni a fini solidaristici; allargando le possibilità di finanziamento e di distribuzione dei trasferimenti pubblici su quelle imprese sociali legate al mondo politico-affaristico. Si tratta quindi di un uso strumentale della cooperazione sociale, dell’azionariato dei lavoratori, delle false forme partecipative e di democrazia economica del Terzo setto re finalizzato alle regole dell’efficienza capitalistica con l’utilizzo dell’economia non profit che si sostituisce al ruolo dello Stato sociale, comprimendo e canalizzando i conflitti nell’ottica di uno Stato basato esclusivamente sulle regole dell’economia del profitto affiancate da elargizioni caritatevoli compatibili con il sistema.

In tale contesto anche le stesse varie nuove forme di collaborazione a connotato cooperativo e concertativo, portano soltanto alla compressione dei diritti sindacali acquisiti con lunghe stagioni di lotte operaie, acutizzando, peraltro, gli svantaggi sociali dello sviluppo e realizzando un blocco sociale fondato su un nuovo modello consociativo incentrato su relazioni industriali esclusivamente finalizzate alla performance d’impresa e alla rottura della solidarietà ed unità dei lavoratori; modello consociativo che trova la sua realizzazione attraverso modelli comunicazionali che attraversano e condizionano i comporta-menti dell’intero corpo sociale.

3. Un nuovo modellodi sviluppo per un’Europa delle socio-compatibilità solidali

Oggi è possibile voltare pagina definitivamente nelle scelte di politica economica e di politica industriale, per-ché le innovazioni tecnologiche permettono una più alta produttività di impresa che deriva esclusivamente dall’incremento di produttività del lavoro. Incrementi di produttività che sono quindi ricchezza sociale nel suo complesso, e perciò tali incrementi devono essere finalizzati al miglioramento della qualità del lavoro, della qualità della vita, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro a parità di diritti e di salario, e alla redistribuzione degli aumenti di produttività al fattore lavoro, e quindi ai disoccupati, e non solo ai profitti come è avvenuto in particolare in questi ultimi venti anni.

Si tratta di piccoli risultati intermedi derivati semplicemente dagli attuali rapporti di forza tra lavoro e capita-le favorevoli a quest’ultimo, ma utili per aprire una batta-glia di prospettiva e offensiva che in pochi anni può porsi l’obiettivo di riduzione più massiccia e generalizzata del-l’orario di lavoro, innescando processi rivendicativi continui di riduzione di orario, questi si di alto contenuto conflittuale e in gradi di aggredire la disoccupazione, fino a giungere ad imporre in 15-20 anni ad esempio la settimana lavorativa di 15 ore a parità di salario e una redistribuzione non solo del reddito ma dell’accumulazione valoriale realizzata attraverso le varie forme di sfruttamento del lavoro.

Si può partire però da subito con battaglie rivendicative a connotato strategico offensivo, attraverso la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario con forme di tassazione dei capitali per liberare risorse verso un rafforzamento della spesa sociale complessiva. La proposta della riduzione dell’orario di lavoro deve però essere accompagnata da una battaglia offensiva dell’intera classe dei lavoratori, dei garantiti e dei non garantiti con le organizzazioni dei lavoratori che impongano la parità del salario reale, il controllo dei ritmi, della condensazione del lavoro, il mantenimento degli stessi turni, special-mente nelle attività produttive a ciclo continuo e con un reale controllo sul lavoro straordinario e sull’aumento dell’utilizzo degli impianti che può più che compensare l’incremento del salario-orario derivante dalla riduzione dell’orario; la proposta della riduzione dell’orario di lavoro deve essere effettuata considerando l’intero arco di vita del lavoratore legandola alla più ampia battaglia sull’adeguamento del tempo di lavoro a favore del tempo liberato e di una migliore socialità dell’intera collettività; giungendo così a forme di socializzazione dell’accumulazione di ricchezza riconoscendo ad esempio a tutti i non garantiti un REDDITO SOCIALE MINIMO con risorse derivanti dalla tassazione dei capitali, superando così un contesto difensivistico, compatibile con le esigenze di ristrutturazione del modello capitalistico.

Per far ciò bisogna saper coniugare un forte, rinnovato e antagonista sindacalismo del lavoro ad un nuovo, e altrettanto antagonista, sindacalismo del territorio.

Al centro dell’iniziativa politica e sociale devono ritornare le associazioni di base, i comitati di quartiere, le forme organizzate del dissenso nel territorio, il sindacalismo di classe, cioè l’insieme di quelle organizzazioni del lavoro e del lavoro negato che non scelgono il consociativismo, ma che anzi sappiano porre come immediato il problema del potere attraverso la distribuzione sociale del valore e della ricchezza complessivamente prodotta, riassumendo nel contempo i nuovi soggetti della trasformazione sociale, le nuove povertà, le fasce deboli della popolazione, come definizione di una ricca risorsa del-l’antagonismo sociale.

La capacità di analisi scientifica e di iniziativa politica deve partire dal fissare regole di controtendenza rispetto alla società dell’impresa e delle privatizzazioni in cui lo Stato ridiventi non solo garante degli equilibri, controllore, ma uno Stato interventista e occupatore, che crei nuovo e diverso lavoro non mercantile, capace di attuare e regolare l’efficienza del sistema orientato al rafforzamento di un nuovo Welfare State che soddisfi nuovi bisogni, a partire da un nuovo e più moderno sistema della qualità della vita.

La società del terziario avanzato crea nuovi bisogni, ma con l’attuale modello di sviluppo crea nel contempo nuove esclusioni; diventa allora strategico porre al centro del dibattito una progettualità complessiva per un diverso modello di sviluppo, solidale socio-ecocompatibile, in cui strategiche siano le compatibilità ambientali, la qualità della vita, il soddisfacimento dei nuovi bisogni, la centralità del lavoro e la valorizzazione del tempo liberato, la redistribuzione del reddito, del valore e la socializzazione della ricchezza complessivamente prodotta.

4. Tassazione dei capitali, Tobin Tax e Reddito Sociale Minimo

Per iniziare a realizzare tali obiettivi minimi bisogna a questo punto inserire ún altro argomento macroeconomico fondamentale, che è volutamente sorvolato o affrontato in chiave esclusivamente "morale" e, quindi, non risolutiva dai tecnici ed economisti che fanno riferimento al nuovo modello economico-sociale liberista-concertativo. Stiamo parlando dell’evasione e dell’elusione fiscale, e più in generale di una radicale riforma fiscale in grado di prelevare le entrate del bilancio pubblico da una maggio-re e più articolata tassazione dei capitali.

La crisi che stiamo vivendo in questi anni è ben più complessa ed il vecchio Welfare state è ormai obsoleto ed inadeguato alle odierne circostanze.

L’idea socialdemocratica della difesa di un sistema graduato di rimesse secondo i contributi e i redditi ormai non si fonda più sui diritti e doveri di tutti i cittadini ma sui diritti e doveri dei lavoratori, soprattutto i dipendenti. I contributi obbligatori ai sistemi che prevedevano pensioni per la vecchiaia, assicurazione sanitaria e sussidi di disoccupazione pesano fortemente sui redditi da lavoro dipendente, sulle fasce più deboli di lavoro autonomo, sui pensionati, senza che vi sia una seria tassazione dei capi-tali, in particolare di quelli finanziari speculativi ed una decisa lotta alla grande evasione ed elusione fiscale.

Le risorse finanziarie, quindi, ci sono e sono disponibili per il raff dati ad esclusivo vantaggio del capitale e non del lavoro; allora tali risorse finanziarie devono essere preleva-te attraverso una seria e decisa tassazione dei capitali nelle sue diverse forme (tassazione uniforme dei capita-li finanziari e speculativi, tassazione dell’innovazione tecnologica, tassazione del capital gain), lanciando in tal senso, inoltre, una campagna di iniziativa politico-economica internazionale e di civilità che realizzi la cosiddetta Tobin Tax.

James Tobin, premio nobel per l’economia nel 1981, è considerato un forte sostenitore del pensiero keynesiano. La tassa di cui parliamo prende il suo nome proprio perchè fu il primo economista ad evidenziare la diversificazione del rischio come motivo inerente la razionalità de-gli investitori. La Tobin Tax nella sua formulazione originaria prevede una regolamentazione dei cambi e una tassazione di tutte le transazioni di capitale finanziario a carattere speculativo, che però è possibile realizzare soltanto attraverso una mondializzazione delle intese fiscali per non sminuire la sua portata attraverso la fuga dei capitali verso i cosiddetti paradisi fiscali.

Come CESTES-PROTEO abbiamo aderito all’organizzazione internazionale non governativa ATTAC (Azione per una Tobin Tax di aiuto ai cittadini) che si è costituita da poco tempo per imporre ai governi e alle organizzazioni economiche internazionali l’applicazione appunto della Tobin Tax, e ci siamo detti disponibili a stare in que orzamento di un Welfare State non più e non solo della semplice cittadinanza, ma di uno Stato Sociale che oltre a redistribuire reddito socializzi l’accumulazione del capitale, distribuisca cioè ricchezza derivante da incrementi di produttività che sono andati ad esclusivo vantaggio del capitale e non del lavoro; allora tali risorse finanziarie devono essere preleva-te attraverso una seria e decisa tassazione dei capitali nelle sue diverse forme (tassazione uniforme dei capita-li finanziari e speculativi, tassazione dell’innovazione tecnologica, tassazione del capital gain), lanciando in tal senso, inoltre, una campagna di iniziativa politico-economica internazionale e di civilità che realizzi la cosiddetta Tobin Tax.

James Tobin, premio nobel per l’economia nel 1981, è considerato un forte sostenitore del pensiero keynesiano. La tassa di cui parliamo prende il suo nome proprio perchè fu il primo economista ad evidenziare la diversificazione del rischio come motivo inerente la razionalità de-gli investitori. La Tobin Tax nella sua formulazione originaria prevede una regolamentazione dei cambi e una tassazione di tutte le transazioni di capitale finanziario a carattere speculativo, che però è possibile realizzare soltanto attraverso una mondializzazione delle intese fiscali per non sminuire la sua portata attraverso la fuga dei capitali verso i cosiddetti paradisi fiscali.

Come CESTES-PROTEO abbiamo aderito all’organizzazione internazionale non governativa ATTAC (Azione per una Tobin Tax di aiuto ai cittadini) che si è costituita da poco tempo per imporre ai governi e alle organizzazioni economiche internazionali l’applicazione appunto della Tobin Tax, e ci siamo detti disponibili a stare in que sta organizzazione a condizione che le risorse liberate attraverso la tassazione dei trasferimenti di valuta all’estero siano da utilizzare esclusivamente a fini sociali, ambientali, occupazionali e per finanziare forme di Reddito Sociale Minimo per disoccupati, precari e non garantiti.

Nonostante l’idea iniziale di James Tobin fosse di venticinque anni fa, e che si sono detti nel tempo disponibili alla sua attuazione anche personaggi politici, economisti ed istituzioni che spesso hanno avuto seria responsabilità sull’imposizione a livello planetario della globalizzazionefinanziaria neoliberista, noi pensiamo che la tassazione delle transazioni speculative (si pensi che quotidianamente circa 1.500 miliardi di dollari vengono trasferiti con tali modalità e circa il 90% di tali transazioni hanno durata che non supera i quattro, cinque giorni) se avvenisse anche con aliquote differenziate in funzione della durata dell’operazione, disincentivando fortemente gli investimenti di breve periodo, realizzerebbe diverse centinaia di miliardi di dollari l’anno che la comunità internazionale potrebbe gestire a fini sociali, sanitari, ambientali, di lotta alla povertà e di forte incremento occupazionale.

Le ultime valutazioni indicano un ammontare complessivo di 1.600 miliardi di dollari di transazioni speculative annui operato nel mercato dei cambi e delle valute, di cui i quattro quinti con durata inferiore alla settimana, contro i poco più di 15 miliardi di dollari di venticinque anni fa ( per cui si è avuto un incremento di transazioni di cambio a carattere speculativo di oltre 100 volte in 25 anni) che costituiscono un ammontare pari a un terzo del commercio mondiale. Si pensi che anche nel caso in cui venisse applicata una forma di Tobin Tax su solo tali transazioni speculative, ed applicando un prelievo fiscale minimo su ogni transazione pari allo 0,5 per mille, così come proposto inizialmente da Tobin, si realizzerebbero circa ogni anno 130 miliardi di dollari, cioè 200 mila miliardi di lire da destinare alla lotta contro la povertà, la disoccupazione e le disuguaglianza di ogni genere. Se poi la tassazione delle transazioni speculative in cambio considerasse una diversificazione dell’aliquota in funzione del-la durata della transazione colpendo maggiormente quel-le a durata inferiore, ipotizzando, a titolo d’esempio, una tassa media del 2 per mille su ogni transazione , produrrebbe risorse pari a circa a 600 mila miliardi di lire. Se poi si accettasse il punto di vista di CESTES-PROTEO relativamente all’ipotesi di allargare la Tobin Tax ad ogni trasferimento di capitale all’estero riguardante tutte le transazioni internazionali di capitale finanziario a carattere speculativo, cioè tenendo conto dell’ammontare impressionante di migliaia di miliardi di dollari che quotidiana-mente si muovono per finalità speculative in valori mobiliari sui mercati borsistici internazionali uniformando inoltre a livello internazionale ogni tassazione sui capita-li colpendo anche l’innovazione tecnologica che produce decremento di occupazione, si libererebbero risorse di centinaia di migliaia di miliardi in ogni paese a capitalismo avanzato, o meglio dell’area che promuove le logiche della globalizzazione del capitalismo finanziario, da redistribuire ai lavoratori, occupati e non occupati, in forme diverse e comunque a firri di eco-socio compatibilità solidali.

Tutto ciò presuppone un’inversione di rotta, una riforma fiscale a carattere internazionale, una trasformazione completa del sistema di tassazione dei capitali, in particolare di quelli finanziari speculativi, delle rendite di capitale, della lotta alla grande evasione ed elusione fiscale, sanzionando duramente i paradisi fiscali, colpendo inoltre i profitti non reinvestiti e quindi non destinati al-l’investimento produttivo, ed inoltre nei giusti modi anche il capitale circolante come fattore di produzione che crea ricchezza. Non si capisce perché attualmente a livello internazionale è solo il lavoro in quanto fattore produttivo ad essere fortemente colpito dal fisco. In una società terziarizzata in cui il sistema produttivo si basa sempre più sull’innovazione tecnologica che sostituisce il lavoro umano diretto, non si può mantenere l’incongruenza di un sistema fiscale basato fortemente sull’imposizione indiretta e sulla tassazione pesante del fattore lavoro. Per riprendere uno slogan caro a vecchi e saggi economisti socialisti che già facevano questo ragiona-mento oltre venti anni fa, in un sistema di produzione che cambia bisogna passare dalla tassazione delle braccia che lavorano alla tassazione delle braccia dei robot che sostituiscono il lavoro umano. Spostare insomma la pressione fiscale verso il capitale come fattore produttivo circolante, fattore ormai fortemente centrale e propulsivo nella nuova determinazione della ricchezza, indirizzando così le risorse verso investimenti produttivi, al-l’occupazione e la protezione sociale, redistribuendo socialmente l’accumulazione verso il tempo liberato dal lavoro salariato.

Tale battaglia può contribuire ad opporsi ai processi di finanziarizzazione dell’economia, agli accordi multilaterali sugli investimenti (tipo l’AMI) e a combattere le forme di privatizzazione del Welfare (che ad esempio attraverso i fondi pensione e assistenziali contribuiscono alla speculazione finanziaria e all’abbattimento dello Stato Sociale): questa battaglia economica e di civiltà può inoltre essere indirizzata verso principi di giustizia fiscale e distributiva che possano colpire gli enormi profitti accumulati, gli enormi incrementi di produttività, sottraendo-li all’ingordigia dell’accumulazione di capitale.

La Tobin Tax, insieme alle altre modalità di tassazione dei capitali (capital gain uniformato a livello internazionale, innovazione tecnologica, ecc.), diventa così veicolo di risorse fondamentali per finanziare anche un progetto di Reddito Sociale Minimo (RSM), che oltrepassando le frontiere italiane, rappresenti una proposta forte di politica economica che interessa non l’Europa di Maastrich ma un’Europa sociale e del lavoro, assumendo anche caratteristiche internazionali.

Infatti, nasce proprio con questi presupposti la pro-posta del Reddito Sociale Minimo (RSM), una proposta controtendenza portata avanti da oltre due anni dal Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTESPROTEO) e ormai da oltre cinquanta sigle dell’associazionismo di base (centri sociali, comitati di quartiere, circoli e strutture del volontariato). Davanti ai dati statistici che segnalano in tutta Europa una riduzione del reddito complessivo e una compressione del potere d’acquisto salariale anche attraverso il massiccio ricorso al-la flessibilità, alla precarizzazione, alla sottoccupazione, al lavoro nero o sottopagato e all’annullamento totale o parziale dei diritti sindacali acquisiti, la proposta invece realizza la combinazione fra riduzione dell’orario di lavoro e istituzione del RSM. La previsione di un Reddito Sociale Minimo vuole contrapporsi alla dissoluzione del-lo Stato sociale proponendo già da subito la riqualificazione di tutti gli strumenti di protezione sociale e l’au-mento dei livelli delle pensioni sociali e minime. L’articolato legislativo proposto dal CESTES prevede un importo del RSM di lire dodici milioni annui (non soggetti a tassazione); i requisiti per l’accesso prevedono la regolare residenza nel nostro Paese da almeno due anni, l’iscrizione alle liste di collocamento da almeno un anno, reddito imponibile annuo percepito non superiore a 5 milioni, e appartenenza a nucleo familiare con reddito imponibile annuo non superiore a 35 milioni. L’importo sopra indicato va rivalutato annualmente in base agli in-dici ISTAT; è prevista inoltre la riduzione del cinquanta per cento dell’importo nell’ipotesi di svolgimento di attività lavorative che comunque producono un reddito inferiore all’ammontare del Reddito Sociale Minimo e la decadenza dal percepimento dello stesso nell’ipotesi in cui si ottenga un lavoro a tempo pieno; ciò permette di rivolgere tale istituto non solo ai disoccupati ma anche a coloro che svolgono lavoro precario, sottopagato o che hanno forme di sottoccupazione. Il periodo di fruizione del RSM deve essere calcolato ai fini pensionistici e prevede inoltre in favore di soggetti titolari anche forme di reddito indiretto e differito attraverso l’accesso gratuito ai servizi fondamentali (trasporti urbani, servizio sanitario, studi, ecc.) e il dimezzamento dei costi delle utenze relative alle forniture di gas, luce, acqua, telefono, rifiuti, oltre a un canone sociale per l’utilizzo degli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Si è calcolato che le risorse necessarie per le spese conseguenti all’introduzione della nuova normativa ammonteranno a circa cinquantamila miliardi di lire annui che andranno reperite esclusivamente attraverso varie forme di tassazione sui capitali. Un terreno, infatti, immediatamente praticabile è quello di applicare una efficace imposta patrimoniale, di colpire le rendite finanziarie e i grandi patrimoni, di tassare realmente e uniformemente a livello internazionale i guadagni in conto capitale (capital gain), di ridur-re le agevolazioni verso le imprese, per poter così aumentare la spesa pubblica in modo che questo possa rappresentare un investimento ad alta redditività sociale basato su principi di giustizia fiscale e tributaria, e quindi di giustizia sociale.

Si ricorda che attualmente è assente una qualsiasi forma di tassazione sulle transazioni riguardanti prodotti finanziari denominati in valuta estera, senza che siano colpiti in alcun modo i trasferimenti internazionali di capi-tale, neppure quelli a finalità speculativa. Si tratta di re-perire, quindi, le risorse finanziarie per l’istituzione del RSM non dalla fiscalità generale, ma dalla tassazione dei capitali, anche attraverso una Tobin Tax finalizzata alle prestazioni sociali per la povertà, la disoccupazione, per creare nuovi posti di lavoro a pieno salario e pieni diritti. Dal nostro punto di vista, infatti, i proventi derivanti dal-la Tobin Tax dovranno essere utilizzati esclusivamente a fini socio-ambientali, per creare occupazione e da destinare al Reddito Sociale Minimo per disoccupati e precari. Inoltre la gestione di tali fondi derivanti dall’applicazione della Tobin Tax non può essere effettuata da quegli organismi internazionali (come il Fondo Monetario Internazionale) che sono invece proprio i veicolatori di quel modello neoliberista a forti connotati di economia finanziaria che, oltre a rendere sempre più marcato il di vario Nord-Sud sta ulteriormente peggiorando le condizioni di vita delle stesse popolazioni ad industrialismo avanzato.

Tassare finalmente nei modi diversi suddetti il capita-le, fino a giungere anche alla tassazione dell’innovazione tecnologica, effettuare degli appropriati controlli attraverso un’anagrafe patrimoniale ed una efficiente anagrafe tributaria, significa far riappropriare i ceti meno abbienti della popolazione, i lavoratori, composti da occupati e non occupati, di quella ricchezza sociale da loro stessi prodotta e realizzata e che si è sostanziata nel tempo in quegli incrementi di produttività che sono andati fino ad oggi ad esclusivo vantaggio del capitale.

L’obiettivo minimo, praticabile per riverticalizzare il conflitto capitale-lavoro è allora quello di rafforzare la battaglia, l’iniziativa di dibattito e di lotta, che realizzi la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita del lavoratore a parità di salario e con controllo dei ritmi e della condensazione del lavoro realizzando così un milione di posti di lavoro ripartendo anche da produzioni non mercantili e dalla ridefinizione di uno Stato occupatore; recuperare almeno 50 mila miliardi annui dalla tassazione dei capitali da destinare al Reddito Socia-le Minimo per disoccupati e precari.

E’ in ambito di un programma per un’Europa del lavoro e delle eco-socio-compatibilitò solidali che vanno recuperati in termini redistributivi gli immensi incrementi di produttività che si sono realizzati in particolare in questi due ultimi decenni, rivendicando da subito una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario reale, ponendo le basi per creare nuova occupazione a partire da lavori a compatibilità sociale e ambienta-le e di pubblica utilità con pieni diritti e piena retribuzione, rafforzando nel contempo il Welfare State tramite incrementi delle entrate del bilancio pubblico determinate dalla tassazione dei capitali, in modo da poter inserire nella spesa sociale anche un Reddito Sociale Minimo europeo da distribuire ai disoccupati, ai precari, ai marginali.

E’ su tale proposta che CESTES-PROTEO ha lanciato una battaglia culturale, politica e sociale, che vuole ave-re dimensioni europee, a partire da una proposta di legge di iniziativa popolare che solo negli ultimi due mesi ha già raccolto circa 30.000 firme per poter giungere a fine maggio ad oltre 50.000 firme in modo da portare la proposta in Parlamento. Si tratta allora di continuare e rafforzare l’offensiva di quel mondo culturale, politico, sindacale, dell’associazionismo di base, di tutte quelle forze che non accettano le compatibilità e l’omologazione dei principi politico-economici neoliberisti basa-ti sulla cultura delle privatizzazioni del patrimonio pubblico, del welfare,del sociale; un’offensiva politica,sociale ed economica che sappia legare la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, la creazione di nuova occupazione per produzioni non necessariamente a carattere mercantile, la tassazione dei capitali per socializzare la ricchezza complessiva, il riconoscimento del Reddito Sociale Minimo per disoccupati e precari, il rafforzamento di un nuovo Stato Sociale della distribuzione dell’accumulazione, in un nuovo modello di sviluppo a forti connotati di eco-socio-compatibilità fuori-mercato.