Da un punto di vista economico, l’imperialismo è l’appropriazione sistematica di valore internazionale. Cioè, le imprese capitalistiche nei paesi imperialisti si appropriano sistematicamente del valore prodotto dalle imprese (ma anche dai produttori indipendenti) nei paesi dominati. Tale appropriazione richiede sia condizioni economiche (per esempio, una certa struttura delle economie dei paesi dominati, come vedremo più sotto) che condizioni non-economiche (politiche, militari, giuridiche, istituzionali, ecc.). Tuttavia, in quanto segue, ci si concentrerà soprattutto sulle condizioni economiche.
L’appropriazione di valore che caratterizza l’imperialismo economico odierno avviene in almeno quattro modi: (a) il rimpatrio di interessi e profitti su investimenti diretti e indiretti esteri; (b) il pagamento di interessi sui debiti esteri; (c) lo scambio diseguale inerente al commercio internazionale [1]; e (d) il signoraggio [2].
Ciascuna di queste forme di appropriazione meriterebbe un trattamento approfondito a parte che però non è possibile fare in questa sede, in quanto l’angolatura di questo articolo è diversa: gli aspetti transnazionali dell’imperialismo (in questa sezione) al fine di avanzare alcune ipotesi sulle caratteristiche delle odierne classi transnazionali (nella prossima sezione).
Oggigiorno vi sono due caratteristiche che contraddistinguono l’imperialismo odierno da quello più tradizionale. La prima è che, accanto all’estensione da parte delle singole potenze imperialiste del loro dominio su altre nazioni, vi sono anche relazioni imperialiste tra due blocchi di nazioni. Uno è chiamato il blocco dominante o imperialista perché si appropria sistematicamente di valore dall’altro blocco, che è chiamato quindi il blocco dominato. L’attenzione in quanto segue sarà sui flussi (appropriazione) sistematici di valore internazionale che sono dovuti all’esistenza di blocchi piuttosto che di nazioni singole. Naturalmente, tale ultimo aspetto ha la sua importanza, ma il focus qui è sul primo aspetto e sulle sue conseguenze per la formazione delle classi transnazionali.
Tale appropriazione è resa possibile da una serie di organismi internazionali: l’FMI e la Banca Mondiale regolano il credito internazionale, l’OMC regola il commercio internazionale e le patenti, la NATO controlla le risorse naturali (il petrolio, per esempio) con la minaccia o l’uso effettivo della forza militare, e l’ONU le contraddizioni tra gli stati, a vantaggio delle nazioni imperialiste nel loro insieme, e della nazione egemonica in particolare. Tutto ciò avviene in maniera estremamente contraddittoria, come gli ultimi avvenimenti attorno all’aggressione contro l’Iraq hanno dimostrato.
L’attenzione prestata alle relazioni inter-imperialiste tra blocchi non nega che gli stati nazionali abbiano le loro relazioni inter-imperialiste fianco a fianco quelle tra i blocchi e non nega neppure che gli stati nazionali abbiano ancora una grande importanza. [3] Al contrario, ciascuna nazione imperialista ha le sue proprie relazioni imperialiste con altre nazioni, quelle dominate, e ciascuno Stato ha ancora un ruolo economico, politico, ideologico e militare indispensabile per la riproduzione delle relazioni imperialiste sia tra nazioni che tra blocchi. Tuttavia, accanto alle relazioni imperialiste incentrate sulle singole nazioni vi sono anche relazioni imperialiste incentrate sui blocchi. Quanto segue si concentrerà su tali ultime relazioni.
La seconda caratteristica è che questo sistema struttura non solo le relazioni tra i due blocchi ma anche la composizione interna dei due blocchi. Incominciamo con il blocco dominante. Mentre tutte le nazioni di questo blocco partecipano, in misure differenti, all’appropriazione di plusvalore internazionale, non tutte sono imperialiste. Tre categorie possono essere individuate in questo blocco. La prima è data dagli Stati Uniti, il paese egemone. Essi, come tutte le nazioni imperialiste, si appropriano sistematicamente di plusvalore internazionale (in una varietà di modi) ma essi, come nazione egemone, si differenziano dalle altre nazioni imperialiste per due motivi interconnessi. Dato il loro maggiore potere economico, essi sia appropriano sistematicamente dalle altre potenze imperialiste del plusvalore che esse hanno sia creato o di cui si sono appropriate a loro volta. Il signoraggio è d’importanza cruciale in questo contesto. Inoltre, gli USA possono imporre sulle altre nazioni le condizioni sia economiche che non economiche per la (riproduzione della) loro egemonia. La più importante di tali condizioni è l’imposizione su altre nazioni di una struttura economica funzionale per gli interessi Statunitensi. Le condizioni non-economiche includono: (a) la preponderanza politica, cioè gli USA sono il punto di riferimento costante di ogni alleanza all’interno del blocco dominante (e oltre); la superiorità militare, compresa la loro dominazione all’interno di organizzazioni militari con altre importanti nazioni; (c) il potere ideologico, per mezzo del quale altre nazioni accettano (ciascuna a modo suo, in misure diverse, e con diversi gradi di resistenza, secondo le circostanze) alcune delle caratteristiche cultural funzionali per il dominio economico Statunitense. Di importanza vitale in questo contesto è il controllo delle istituzioni di insegnamento e culturali e dei mezzi di comunicazione (di massa). L’egemonia in un’area, per esempio quella militare, può essere più forte che in un’altra (per esempio, quella ideologica). L’egemonia in un’area (per esempio quella economica) può essere sfidata più che in un’altra (per esempio quella militare). Ma è l’insieme di queste condizioni non-economiche che rende possibile la riproduzione del dominio economico. Questo insieme non è soltanto differenziato internamente ma è anche soggetto ad un movimento e cambiamenti costanti. [4]
La seconda categoria del blocco dominante è data dalle altre nazioni imperialiste. Da una parte, esse sono sullo stesso livello degli USA e competono sia tra di loro che con gli USA, sia economicamente (per esempio investendo nei loro reciproci territori o facendosi prestiti reciproci e quindi appropriandosi vicendevolmente di plusvalore degli altri sotto forma di profitti o interessi) che tecnologicamente (e quindi appropriandosi reciprocamente di plusvalore attraverso lo scambio diseguale a seconda di quale paese si trovano i settori più avanzati). Esse si appropriano anche di plusvalore internazionale dalle nazioni dominate a causa della loro maggiore potenza economica e possono imporre alle nazioni dominate le condizioni per la riproduzione di tale appropriazione. Queste condizioni possono essere sia economiche (come lo scarico di rifiuti industriali e del danno ecologico e dell’inquinamento sui paesi dominati) che non-economiche (come per gli esempi di cui sopra). D’altra parte, solo gli USA sono egemonici, cioè solo essi hanno i mezzi per l’appropriazione sistematica di plusvalore sia dalle altre nazioni imperialiste che dalle nazioni dipendenti. Queste nazioni possono concentrarsi in un blocco alternativo al paese egemone ma ancora dipendente da esso, o possibilmente in una fase di transizione, come nel caso della UE. Nella fase attuale, per la UE la dipendenza non è più tanto economica quanto principalmente militare.
La terza categoria comprende le nazioni dominate, non-imperialiste, all’interno del blocco dominante. Esse partecipano, a causa della loro appartenenza a tale blocco, all’appropriazione di plusvalore internazionale senza essere esse stesse nazioni imperialiste. Esse non potrebbero appropriarsi sistematicamente di plusvalore internazionale se non fossero membri del blocco dominante. Ma la loro appartenenza a tale blocco è complessa. Alcune vi appartengono pienamente ed altre solo parzialmente, nel senso che esse non traggono beneficio da tutti gli aspetti su cui tale dominio è basato. In che misura esse traggano beneficio dalla loro appartenenza al blocco dominante, è una questione empirica da risolvere attraverso una analisi di ciascun caso specifico. Questo approccio è utile per un’analisi della UE. La Germania, la Francia e l’Inghilterra appartengono al nucleo centrale imperialista della UE e del blocco dominante mentre le altre nazioni della UE appartengono al blocco dominante senza essere esse stesse nazioni imperialiste. Queste ultime si beneficiano in misura diversa dalla loro appartenenza alla UE e sono dipendenti dalle nazioni del nucleo centrale. Vi è quindi una gerarchia interna che riflette le relazioni imperialiste all’interno della UE. [5]
I blocchi dominanti e quelli dominati possono essere inoltre suddivisi secondo un numero di criteri quali lo sviluppo economico, la differenziazione strutturale, ecc. Essi possono essere anche suddivisi in un numero di blocchi minori, per esempio in termini di flussi commerciali, cooperazione o integrazione economica, ecc. Essi possono essere suddivisi in aree geografiche nelle quali una o anche due nazioni sono predominanti (la Russia nell’Eurasia, il Giappone e la Cina nell’Asia Orientale, il Brasile nell’America Latina, ecc.). Ma per quanto riguarda un’analisi dell’imperialismo, un’analisi empirica dovrebbe cominciare dalle suddette categorie. Bisogna altresì tenere conto che la distinzione tra i due blocchi è analitica. In realtà, non solo una nazione può passare da un blocco all’altro, ma anche per alcune nazioni può essere non chiaro se esse appartengano o no al gruppo imperialista o a quale delle tre categorie all’interno di tale blocco.
Consideriamo ora il blocco dominato. La sua struttura economica è il risultato sia della appropriazione sistematica di plusvalore nel passato che della più importante condizione economica per la continuazione di tale appropriazione. Oggigiorno, vi sono tre possibili realtà che definiscono questo blocco, secondo l’abilità delle nazioni dominate di resistere al dominio imperialista. Primo, il centro cresce alle spese della nazione dominata a tal punto che l’industria locale di quest’ultima non si sviluppa o è perfino distrutta. Questo è il colonialismo classico. Oppure, alcune nazioni del blocco dominato possono resistere tale dominio e avviarsi su una strada di sviluppo dipendente. Oppure, in via eccezionale, una nazione dominata può rompere le relazioni di dominio e diventare parte del blocco imperialista. Questo cambiamento influisce sulla composizione interna dei due blocchi ma non cancella né la loro esistenza né le loro differenze. Anche qui la differenza è analitica. Nella realtà, le nazioni possono essere ibridi o forme in transizione in cui alcune caratteristiche sono più pronunciate di altre.
Nel colonialismo, le colonie devono fornire le materie prime al centro e importare i prodotti finiti da esso. La nazione imperialista ruba alle colonie le materie prime e usa i loro mercati come sbocco per i propri prodotti (industriali). Le risorse delle colonie sono spremute e l’industria locale (nel caso che esista) è attaccata fino a quando stagna o sparisce. A questo punto la capacità delle colonie di assorbire l’output del centro è distrutta ed esse sono abbandonate al loro destino. Anche se l’industria locale sopravvive, non vi è alcun rilevante processo di industrializzazione, di sviluppo capitalistico, e di diversificazione strutturale.
Nel tipo di imperialismo a sviluppo dipendente, le nazioni dipendenti possono raggiungere un certo grado di sviluppo economico capitalista e di diversificazione. Tuttavia il capitale nelle nazioni dipendenti adatta la propria produzione e più in generale la propria attività economica ai mercati del centro (è volto alla esportazione) e diversifica la sua struttura interna conformemente. Per di più, il centro esporta nelle nazioni dipendenti ciò che queste ultime richiedono (includendo il capitale come aiuti e infrastrutture) affinché il processo di dipendenza possa continuare. E infine le nazioni dipendenti producono ciò di cui il centro ha bisogno usando tecniche a più alta intensità di lavoro cosicché possa continuare il trasferimento di valore attraverso lo scambio diseguale e la dipendenza tecnologica.
Quanto detto sopra, anche se in forma estremamente succinta, ha importanti ramificazioni per la struttura di classe emergente dall’imperialismo contemporaneo. Proprio come la sezione precedente si è focalizzata su alcuni aspetti dell’imperialismo sopranazionale (piuttosto che sull’imperialismo nazionale), questa sezione si concentra su solo alcuni aspetti delle due classi fondamentali nelle loro manifestazioni sopranazionali. [6] Incominciamo con la borghesia.
Prima di tutto, vi è accanto alla borghesia nazionale, una borghesia mondiale. Questa è data dalle borghesie nazionali non come tali ma nella misura in cui esse (1) condividono interessi comuni nei confronti di altre classi (2) sono coscienti di tali comuni interessi e (3) dispongono di strumenti (legali, istituzionali, ecc.) per perseguire tali interessi e per limitarne la natura contraddittoria. Queste borghesie si relazionano tra di loro in una maniera gerarchica, e cioè le borghesie delle nazioni imperialiste sono dominanti nei confronti di quelle degli altri paesi, con la borghesia statunitense che ha il ruolo dominante. Sono gli interessi delle prime di cui si prendono cura fondamentalmente istituzioni internazionali come l’ONU, la NATO, il FMI, la Banca Mondiale, e il l’OCM. Queste istituzioni da una parte mediano gli interessi delle borghesie nazionali (per incominciare, quelli delle borghesie delle potenze imperialiste) al fine di facilitare l’emergere di interessi comuni sopranazionali e dall’altra impongono tali interessi più o meno apertamente su altre classi e nazioni.
Il termine ‘borghesia nazionale’ deve essere chiarito. Contrariamente alla nozione che le borghesie sono nazionali perché sono esterne l’una all’altra e separate l’una dall’altra, Poulantzas (1974) ha sottolineato con forza che esse sono il risultato di una mutua interpenetrazione di capitali, ciascuno con la sua base nazionale. Su questo Poulantzas ha ragione. Tuttavia, Poulantzas pone l’accento sulla penetrazione da parte del capitale USA di altri capitali e quindi sulla sua riproduzione all’interno di quelle realtà nazionali. Questa è una descrizione parziale che corrispondeva alla realtà dei primi anni 70 quando la penetrazione USA in Europa poteva essere vista come la ‘nuova’ struttura della dipendenza Europea.-----
Ma oggigiorno anche l’opposto è vero. Anche i capitali delle altre nazioni imperialiste penetrano i capitali statunitensi. Questo vale non solo per il capitale produttivo (il centro dell’attenzione di Poulantzas) ma anche, e ancor di più, per il capitale finanziario e speculativo. Il ruolo dominante del capitale (e della borghesia) statunitense, quindi, non si basa su una riproduzione a senso unico del capitale USA all’interno di altre realtà socio-economiche (con le conseguenze politiche e ideologiche che ne conseguono). Anzi, la tesi di questo scritto è che la riproduzione di un capitale nazionale all’interno di un’altra nazione è solo un aspetto delle questione della dominazione di classe a livello internazionale. Come implicito nella sezione precedente, tale dominazione si basa non tanto sul peso relativo della reciproca interpenetrazione dei capitali quanto sulle ragioni menzionate nella sezione precedente e cioè sulla appropriazione da parte degli USA del plusvalore degli altri paesi imperialisti e sulla imposizione su questi paesi delle condizioni economiche e non-economiche per la continuazione di questa appropriazione. Nella fase in cui la UE sta emergendo come un temibile concorrente degli USA sul piano economico, tale imposizione si basa sempre più sullo strapotere militare USA. Per di più, Poulantzas nega troppo facilmente quei capitali che continuano ad avere solamente o principalmente una base nazionale per il loro processo di accumulazione. Ne consegue che la borghesia nazionale è composta sia da quegli agenti che rappresentano capitali con base nazionale sia da quegli agenti che rappresentano il risultato della mutua interpenetrazione dei capitali nazionali. Sono gli interessi di queste due frazioni delle borghesie internazionali (nella loro interrelazione) che sono trasformati dalle istituzioni internazionali negli interessi comuni della borghesia mondiale nei confronti di altre classi (nazioni) e sotto l’egemonia della borghesia statunitense.
In secondo luogo, oggigiorno si sostiene di sovente che il capitale finanziario è dominante nei confronti del capitale industriale e più in generale del capitale produttivo. Anche questo punto deve essere chiarito. Dato che il capitale finanziario vive a spese del plusvalore prodotto dal capitale produttivo, è il secondo che è la condizione di esistenza (il fattore determinante) del primo. Il capitale finanziario, a sua volta, è la condizione di riproduzione del (è determinato dal) capitale industriale. [7] Questo è un esempio di una relazione dialettica.
Questo può significare che il capitale finanziario pone le sue proprie regole, che possono comprendere la distruzione di unità di capitale industriale, al fine di assicurare la riproduzione di quest’ultimo e quindi del sistema nel suo insieme. Il modo appariscente in cui il capitale finanziario adempie a questo compito viene percepito erroneamente come la sua dominazione sul capitale industriale. L’enorme dimensione dei capitali finanziari e speculativi che si muovono giornalmente sui mercati mondiali rafforza ulteriormente questa illusione. Tuttavia, la frazione dominante all’interno della borghesia mondiale è quella produttiva (che include anche quella industriale) anche se in certe circostanze può delegare il compito di assicurare la propria riproduzione (e quella del sistema) ad altre frazioni.
In terzo luogo, gli stati nazionali assicurano la riproduzione (anche su scala allargata) degli oligopoli a base nazionale attraverso politiche economiche e di altra natura che sono in definitiva nell’interesse del settore oligopolistico. Questo è valido sia che l’oligopolio abbia la propria base in una nazione (la regola) che in più di una (l’eccezione). Quindi, la frazione dominante all’interno della borghesia internazionale è quella oligopolistica mentre le borghesie nazionali, includendo le elite politiche nazionali, rendono la sua riproduzione possibile. Sulla base di quanto detto nella sezione precedente, all’interno della borghesia mondiale è ancora la borghesia statunitense che è dominante. In breve, la frazione dominante all’interno della borghesia mondiale è quella dei capitalisti oligopolistici del settore produttivo statunitense.
Ma stiamo assistendo all’emergere anche di una borghesia Europea. Essa è composta delle varie borghesie nazionali europee nella misura in cui esse hanno interessi comuni, sono coscienti di tali interessi, e hanno a loro disposizione (si danno) strumenti comuni per perseguire tali interessi. Di massima importanza per esprimere questi interessi sono i Summit Europei, il Consiglio dei Ministri, la Commissione Europea, il Parlamento Europeo, e la Banca Centrale Europea. [8] Queste istituzioni sono gli strumenti attraverso cui si manifesta la borghesia Europea. Essi sono anche l’arena in cui si promuovono interessi puramente nazionali (e quindi opposti) e interessi sopranazionali (e quindi comuni). Talvolta la differenza è puramente analitica ma talvolta le differenze sono molto chiare. Se si pone l’accento solo sulla mediazione degli interessi nazionali, si nega la dimensione Europea della borghesia. La specificità di queste istituzioni, in relazione a quelle a disposizione della borghesia mondiale, è che esse formulano politiche in un modo relativamente autonomo dato che alcune aree decisionali sono state trasferite ad esse dagli stati nazionali. La borghesia Europea è quindi una formazione di classe più unificata della borghesia mondiale, a causa delle istituzione che rendono possibile alla prima di perseguire le sue politiche di classe, ma è meno unificata delle borghesie nazionali. L’emergere di classi (sopranazionali) è un processo graduale. All’interno della borghesia Europea le frazioni dominanti sono gli oligopoli industriali tedeschi seguiti da quelli Francesi e Inglesi. Quindi, queste sono le frazioni che hanno un accesso privilegiato ai centri decisionali Europei.
La borghesia Europea si trova in una fase in cui, pur non potendo rimpiazzare quella statunitense come classe egemone mondiale, ha incominciato a gettare le basi per tale sfida. La sfida è principalmente sul terreno economico, commerciale e, dall’avvento dell’Euro, finanziario. Ma il tallone di Achille della UE è il piano militare, su cui gli USA dominano incontrastati. Ed è attraverso il loro strapotere militare che gli USA possono assicurarsi la condizione per la sistematica appropriazione di plusvalore internazionale, non tanto dagli altri paesi imperialisti che sono già i molti campi temibili concorrenti, quanto dai paesi del Terzo Mondo (ricchi di materie prime), a scapito degli altri paesi imperialisti (UE inclusa). Proprio come l’emergere di una classe (transnazionale) è un processo graduale ma grandemente contraddittorio e conflittuale, così lo è l’emergere di una classe egemone o il rimpiazzo di una classe egemone da un’altra.
La situazione è notevolmente meno favorevole per il proletariato e le classi lavoratrici Europee, per non menzionare il proletariato e le classi lavoratrici mondiali.
Mentre è chiaro che vi sono interessi comuni [9], i lavoratori Europei non ne sono coscienti. Ovviamente, non ci si riferisce a individui singoli ma ad una coscienza collettiva capace di individuare ed elaborare tali interessi e di darsi gli strumenti per perseguirli. In genere, nella misura in cui i proletariati nazionali difendono i propri interessi sul piano internazionale, lo fanno solo come classi nazionali e quindi in reciproca opposizione. Le ragioni di tale debolezza sono molte, sia congiunturale che non. Qui se ne possono considerare solo tre.
Primo, una classe emerge come un agente attivo di lotta di classe nella misura in cui sia aggrega attraverso e attorno ai suoi mezzi, sia istituzionali che non, di dominazione su altre classi. [10] I mezzi di dominazione della borghesia Europea (che includono le istituzioni Europee) sono allo stesso tempo i mezzi attraverso cui si impedisce l’emergere delle classi lavoratrici Europee come agenti attivi della lotta di classe (o attraverso cui si promuove la loro disgregazione) attraverso il ricatto, la cooptazione individuale, il fuoco di fila ideologico, e la creazione di divisioni tra di loro e all’interno di ciascuna di loro. Per esempio, l’influenza degli oligopoli europei, attraverso i loro gruppi di pressione, come la Tavola Rotonda degli Industriali, sulle istituzioni europee è molto maggiore di quella delle altre classi. [11] Ma la questione non è soltanto del come queste istituzioni sono usate e da chi. È la loro stessa natura che è inerentemente anti-lavoro. Come sottolinea Accattatis, esse hanno preso come modello istituzionale quello Francese, Bonapartista, che è caratterizzato dalla concentrazione del potere nell’esecutivo, da una democrazia passiva, e da un attivo paternalismo, tutti elementi il cui scopo è quello di favorire gli interessi degli entrepreneur. [12] Le classi lavoratrici europee non solo non hanno le loro proprie istituzioni che permetterebbero loro di unificarsi e emergere come un agente attivo. A loro è anche negata una influenza significativa nelle istituzioni esistenti.
Secondo, per quanto riguarda il proletariato, le nuove tecnologie causano una tendenza verso la proletarizzazione e dequalificazione (e una contro-tendenza nella direzione opposta).
Mentre verso la fine degli anni ’70, a causa di un movimento dei lavoratori molto forte, una ricomposizione dei compiti in nuove mansioni in genere indicava una riqualificazione della mansione (imposta dai lavoratori), questo non è più il caso oggigiorno. Oggigiorno, a causa delle debolezza del movimento operaio, il capitale, specialmente nei settori tecnologicamente dinamici, può imporre la ‘flessibilità’ ai lavoratori, che passano da una mansione dequalificata ad un’altra mansione dequalificata, e un riassemblaggio di compiti dequalificati che sfocia non in nuove mansioni riqualificate ma nel loro opposto (nonostante le versioni ufficiali promosse dal capitale, dai sociologi del lavoro, ecc. che mantengono la tesi esattamente contraria). Per di più, queste nuove mansioni possono contenere, di nuovo, aspetti della funzione del capitale (che spesso e volentieri viene confusa con un elemento della funzione del lavoro, la coordinazione del processo lavorativo). Nell’attuale congiuntura ideologica, e in parte a causa della reintroduzione della funzione del capitale in molte mansioni, ‘flessibilità’ e dequalificazione possono essere contrabbandate nella coscienza dei lavoratori come riqualificazione, maggiore responsabilità, indipendenza, opportunità per la crescita personale, e infine come la ‘fuga’ dalla condizione proletaria. Un ruolo importante qui è giocato dall’uso del computer e tecnologie connesse per compiti che, anche se dequalificati, sono considerati, proprio a causa del suo uso, come qualificati. Tanto maggiore è questa mistificazione, tanto minore è la coscienza di classe del lavoratore collettivo.
L’imperialismo rafforza questa falsa percezione, e quindi la debolezza del proletariato europeo, in almeno tre modi. Primo, in termini molto generali validi per localizzare una tendenza, nella misura in cui i processi lavorativi materiali vengono esportati nei paesi dipendenti e i processi lavorativi mentali rimangono nei paesi tecnologicamente avanzati, imperialisti, si crea la percezione che la condizione operaia sia esportata in quei paesi. Ciò è falso sia perché i processi lavorativi mentali possono implicare, e in genere implicano, lavoro mentale dequalificato, sia perché la identificazione delle classi dipende da criteri diversi dal lavoro mentale o materiale, siano essi qualificati o non. [13] Secondo, questa mistificazione si basa su una ridistribuzione di una parte del plusvalore dai paesi dipendenti ai lavoratori dei paesi imperialisti. Questi alti standard di vita (alti cioè relativamente a quelli dei lavoratori dei paesi dipendenti) causa la percezione sbagliata (abilmente coltivata dal capitale) che i lavoratori non sono più lavoratori ma ‘classi medie’. Ciò, assieme alla debolezza politica della Sinistra (la Sinistra basa la sua strategia su questa fesseria, sul “siamo tutti classi medie”, il che spiega almeno parzialmente la sua predisposizione a scimmiottare la politica della Destra e quindi la propria debolezza) spiega in buona parte la caduta della coscienza di classe dei lavoratori negli anni 1990.
Il terzo fattore che spiega questa debolezza è il ricatto a cui sono soggette le classi lavoratrici europee, e cioè la grande mobilità del capitale e quindi la minaccia di trasferimento delle attività produttive in caso le domande dei lavoratori diventino ‘eccessive’. Allo stesso tempo, l’afflusso di lavoratori ‘stranieri’ nei paesi imperialisti della UE è usato per diminuire i salari e per minacciare con serrate. Mentre è vero che il lavoratore collettivo Europeo ‘si approfitta’ delle briciole dell’imperialismo (la ridistribuzione di valore sopramenzionata) è anche vero che molti settori sono soggetti ad una pauperizzazione crescente (in relazione al livello di vita europeo socialmente determinato). Una volta di più l’insicurezza per quanto riguarda il lavoro e il salario è un potente alleato del capitale.
Per di più, vengono anche creati falsi conflitti di interesse tra lavoratori autoctoni e lavoratori stranieri. Gli ideologi del capitale giocano un ruolo importante in questo caso. Se, come sostengono gli economisti neo-classici, la riduzione dei salari fosse la via per uscire dalla crisi e quindi per aumentare l’occupazione, avrebbe senso espellere i lavoratori stranieri al fine di ridurre il salario ‘sociale’ (pensioni di anzianità, spese per la salute, per l’educazione, ecc.) e quindi per aumentare i profitti che, investiti, daranno un nuovo impulso all’economia. Se, come sostengono gli economisti Keynesiani, si dovrebbero aumentare i salari al fine di uscire dalla crisi e quindi per aumentare l’occupazione (maggiori salari implicano un maggior potere d’acquisto da parte dei lavoratori e quindi una maggior produzione per far fronte alla maggiore domanda), avrebbe senso aumentare i salari attraverso un maggior potere contrattuale derivante dall’espulsione dei lavoratori stranieri. Ma entrambe queste vedute sono anti-lavoro ed entrambe sono sbagliate.
Le crisi e la disoccupazione non sono causate né da salari troppo alti né da salari troppo bassi. È vero che salari più bassi aumentano subito i profitti ma essi aumentano susseguentemente le difficoltà di realizzazione (cioè di vendere i prodotti) a causa del minore potere d’acquisto. Maggiori salari riducono le difficoltà di realizzazione ma allo stesso tempo diminuiscono i profitti. Il livello salariale può modificare la forma del ciclo, ma non può eliminarlo. Se questo è il caso, una politica di porte chiuse può avere solo un effetto temporaneo e marginale sulla disoccupazione. Non esistono interessi economici inerentemente contradditori tra questi due settori del lavoratore collettivo Europeo. Questa contraddizione emerge solo se il lavoro è visto come un costo invece di una delle due fonti di ricchezza (assieme alla natura). Ma questo è il punto di vista del capitale, non del lavoro. E questa è una reale debolezza delle classi lavoratrici europee, la tendenza dei suoi leader ad accettare il punto di vista del nemico di classe. Come sempre, la Destra vince non perché la Destra è forte ma perché la Sinistra è debole.
ACCATTATIS, V. (2000), Quale Europa?, Edizioni Punto Rosso, Milano
CARCHEDI, G. (1977), On The Economic Identification Of Social Classes, Routledge and Kegan Paul, London
CARCHEDI, G. (1983), Problems In Class Analysis. Production, Knowledge And The Function Of Capital, Routledge and Kegan Paul, London
CARCHEDI, G. (1991), Frontiers of Political Economy, Verso, London
CARCHEDI, G. (2000), Imperialism, dollarization and the Euro, The Socialist Register, 2002
CARCHEDI, G. (2001), For Another Europe. A Class Analysis of European Economic Integration, Verso, London
EMMANUEL, A. (1972), Unequal Exchange, Monthly Review Press
KWAN, C.H. (1999), ’A Yen Bloc in Asia?’, Euro, 46, p. 64.
POULANTZAS, N. (1974), Les Classes Sociales dans le Capitalisme Aujourd’hui, Éditions du Seuil, Paris, ch. 1, part II.
SABHASRI, C. (1999), ’Euro and Asia: Hope and Fear’, Euro, 46, p. 58
[1] Questa nozione di scambio diseguale non ha nulla a che vedere con quella di Emmanuel (si veda Emmanuel, 1972). Come ho sottolineato in Carchedi, 1991, “anche senza tener conto degli errori di calcolo (che rivelano errori concettuali) ... [la nozione di scambio diseguale di Emmanuel, G.C.] significa un trasferimento di valore dai capitalisti “e” i lavoratori di un paese ai capitalisti e lavoratori di un altro paese. E questo è il punto fondamentale di critica: Emmanuel sostituisce i capitali con i paesi”.
[2] Per una discussione del signoraggio statunitense nell’America Latina, si veda Carchedi, 2000.
[3] Come sottolinea giustamente Leo Panitch, 2000.
[4] Persino un aspetto apparentemente innocuo come le modalità per fare un resoconto possono nascondere relazioni imperialiste. Per esempio la Bank of International Settlements (BIS) richiede che il tasso tra il capitale di una banca e i suoi ’primary loans’ (prestiti primari), chiamato il ’tasso di adeguatezza del capitale’, non sia inferiore al 8%. Si consideri il Giappone. Visto che il Giappone denomina i propri prestiti in dollari mentre il suo capitale è denominato in yen, per rendere compatibili il numeratore e il denominatore del tasso di adeguatezza del capitale, il capitale denominato in yen deve essere convertito in dollari. Ora, in caso di un deprezzamento dello yen, il valore convertito in dollari del capitale in yen si riduce e con esso è ridotto questo tasso e quindi anche la capacità delle banche giapponesi di fare prestiti. Ma si supponga che si renda necessario il deprezzamento dello yen al fine di rivitalizzare l’economia. In tal caso, il credito deve essere ridotto proprio quando dovrebbe essere aumentato. Questo vincolo potrebbe essere evitato se il tasso fosse espresso in yen, cioè se i crediti fossero espressi in yen. Siccome la BIS richiede che il tasso sia espresso in dollari, non solo il Giappone ma tutte le altre nazioni sono svantaggiate, eccetto gli USA. Si veda Kwan, 1999.
[5] Contrariamente alla UE, il Giappone non può essere considerato come un reale competitore degli USA. Il suo peso internazionale non è paragonabile a quello della UE. Immediatamente prima dell’introduzione dell’Euro, la UE aveva un PIL più o meno uguale a quello degli USA mentre quello del Giappone era solo la metà. Il dollaro statunitense era usato per quasi la metà delle transazioni internazionali mentre le monete dei paesi della UE erano usate per circa il 30% e lo Yen giapponese per solo il 5% (Sabhasri, 1999). Per quanto riguarda le sue relazioni con gli altri paesi asiatici, il Giappone non ha nulla che assomigli anche lontanamente alle istituzioni Europee di prima della UEM.
[6] Non si considerano quindi le classi medie, sia vecchie che nuove, i contadini, ecc. Sulle vecchie e nuove classi medie si veda Carchedi, 1977. Sul lavoro manuale e mentale, si veda Carchedi, 1883, 1991.
[7] Ciò deriva da una nozione di relazione dialettica sviluppata in altra sede: (Carchedi, 1991, Appendix). Marx, come si sa, non ha mai scritto un trattato sulla dialettica e tanto meno sulla dialettica come metodo di ricerca nelle scienze sociali. La mia tesi è che la nozione qui sopra è implicita nelle opere di Marx da cui è stata estratta.
[8] Per una discussione del processo decisionale (la cui complessità aumenta nella misura che aumenta l’importanza delle decisioni) si veda Carchedi, 1991, capitolo 1.
[9] Si veda Carchedi, 2001, capitolo 8.
[10] In questo contesto, la differenza tra classe in sé e classe per sé è insufficiente.
[11] La Tavola Rotonda Europea degli Industriali fu fondata nel 1983 da Umberto Agnelli della Fiat, Wisse Dekker della Philips, e Pehr Gyllenhammer della Volvo.
[12] Accattatis, 2000.
[13] Per una teoria del lavoro mentale e materiale si veda Carchedi, 1983, 1991.