Europa: si naviga a vista

Arturo Salerni

1. A Bruxelles il 13 dicembre la Conferenza Intergovernativa dell’Unione Europea ha sancito la mancata ratifica da parte dei venticinque paesi (già membri o prossimi componenti) dell’Unione del trattato costituzionale predisposto dalla Convenzione presieduta dall’ex Presidente della Repubblica francese Valery Giscard d’Estaing (e che vedeva come vice presidente l’ex Presidente del Consiglio italiano Giuliano Amato).

Il testo è stato difeso a spada trattata dallo stesso Giscard e presentato come immodificabile: si diceva che quel lavoro rappresentava la più alta mediazione possibile e che senza di esso sarebbe stato impossibile andare avanti nel percorso di costituzionalizzazione del nuovo gigante continentale.

Sappiamo invece che quel percorso e quel testo si sono arenati di fronte alle difficoltà ed in primo luogo di fronte alla accesa opposizione da parte di Spagna e Polonia (ovvero del quinto tra gli attuali quindici paesi dell’Unione e del paese più grande tra i paesi coinvolti nel cosiddetto allargamento).

Si è chiuso così il semestre di presidenza italiana dell’Unione, un semestre segnato peraltro (e per altri versi) da violentissime polemiche, che certamente non hanno favorito la positiva conclusione del percorso costituzionale europeo; un semestre peraltro che ha seguito quello segnato dall’accesissimo confronto e dalle aspre divisioni sulla politica americana della guerra preventiva.

La domanda - a due mesi di distanza dal fallimento della Conferenza intergovernativa - su quale sarà d’ora in avanti il processo politico europeo resta allo stato senza risposta.

Andrà in crisi il progetto stesso dell’Unione, l’Unione è destinata a restare soltanto un grande spazio economico, o invece il grande progetto istituzionale che - tra difficoltà e contraddizioni - è comunque avanzato in questi anni andrà ancora avanti, sia pure con tempi e modalità diverse da quelle definite a Laeken?

Sotto questi ed altri interrogativi è cominciato il semestre di presidenza irlandese, un semestre caratterizzato dalla competizione elettorale in primavera per il rinnovo del Parlamento europeo, una grande consultazione cui per la prima volta parteciperanno gli elettori dei dieci Stati che dal primo maggio entreranno nell’Unione1.

Molti considerano più saggio un semestre di riflessione per poi passare la mano nella seconda metà del 2004 alla presidenza olandese, molto più avvezza a chiudere importanti trattati (come è avvenuto a Maastricht e ad Amsterdam).

Nel corso del primo semestre di quest’anno sono appunto previste le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo, ma anche le elezioni politiche in Spagna, ovvero in uno dei due paesi che più si sono opposti al sistema di voto della doppia maggioranza caldeggiato principalmente da Francia e Germania.

Questa esigenza di riflessione costringe anche noi a modificare i tempi di lavoro che ci eravamo proposti, e che prevedevano in questo numero di Proteo l’esame della terza parte del trattato costituzionale, la parte più voluminosa, più dettagliata ed anche la più criticata e criticabile. Rinviamo quindi necessariamente una analisi attenta del testo - se ci sarà un testo da esaminare, ovvero se il processo iniziato a Laeken andrà in porto - ad un momento successivo alla sua approvazione. Ora converrà analizzare alcune questioni di carattere generale che - nonostante gli esiti del semestre di presidenza italiano - si impongono alla nostra attenzione, con uno sguardo anche a quale potrebbe essere l’atteggiamento della sinistra, dei movimenti, del mondo del lavoro rispetto al percorso costituzionale europeo. Sino ad ora questi attori del dibattito politico-sociale sono stati i grandi assenti nella scena del dibattito sul futuro dell’Unione Europea.

2. Torniamo alla vicenda elettorale. Il 13 giugno si va al voto per un Parlamento europeo che muta fortemente nella sua composizione.

Per fare spazio ai rappresentanti dei dieci nuovi stati membri (che entreranno formalmente nell’Unione il primo maggio 2004) il numero dei deputati aumenta da 626 a 732 e per i quindici paesi attuali componenti dell’Unione i seggi vedranno una diminuzione, con l’eccezione della Germania che manterrà i suoi novantanove seggi. Nel 2007 quando faranno il loro ingresso nell’Unione la Bulgaria e la Romania i seggi diventeranno 786 e tale numero di parlamentari permarrà sino alla fine della legislatura, ovvero sino al 2009. A meno di nuovi ingressi il numero dei parlamentari - con la nuova legislatura - dovrebbe tornare a 732, con un nuovo ridimensionamento del numero di parlamentari previsto per ogni gruppo nazionale.

Va considerato ancora che i venticinque dovranno - nel vertice di dicembre 2004 - decidere cosa fare della richiesta di Ankara, e cioè dovranno definire se iniziare le trattative per la adesione della Turchia all’Unione. Sulla decisione, come è ovvio, pesano molti fattori e molte incognite (rese ancora più pesanti dalla vicenda del ruolo giocato dai paesi nuovi entranti, in primis la Polonia, in questa fase della vita politica dell’Unione). Tornerà anche con riguardo alla Turchia, e con maggiore vigore, la polemica in ordine alla ripartizione dei voti nel Consiglio e sulla proposta giscardiana della doppia maggioranza (ovvero il cinquanta per cento degli stati che rappresentino almeno il sessanta per cento della popolazione dell’Unione): la Turchia - unico paese musulmano - avrebbe il peso demografico maggiore.

Intorno alla vicenda turca si colloca, tra le altre questioni, il problema di Cipro. L’isola entra dal primo maggio nell’Unione, ma solo con la sua componente greco-cipriota: certamente una soluzione rapida del conflitto con la parte turco-cipriota faciliterebbe il cammino di Ankara verso l’Europa.

Oltre alla questione turca, la presidenza irlandese dovrà anche seguire l’evoluzione del rapporto con gli stati balcanici, ed innanzitutto con la Croazia, che appare tra i paesi di quell’area la candidata più probabile all’ingresso nell’Europa.

Accanto al problema del rapporto tra gli Stati si pone evidentemente quello del rapporto tra i grandi schieramenti politici dell’Europa: la lotta è innanzitutto tra socialisti e popolari per ottenere la maggioranza a Strasburgo e con essa la presidenza del Parlamento (e perché no, anche della Commissione).

Si lavora per affiliare politicamente i partiti dei dieci nuovi stati con tentativi di accorpamenti sempre più spregiudicati (si leggano anche sotto tale profilo, ad esempio, alcune delle scelte più recenti assunte da Fini e da Alleanza Nazionale).

Il primo novembre 2004 terminerà il mandato della Commissione presieduta da Romano Prodi. E dal primo maggio ognuno dei dieci stati membri avrà un suo commissario, senza portafoglio ma con il potere di voto.

Questo elemento rimanda ad un altro: nei prossimi mesi la battaglia forse più dura in Europa sarà quella intorno al bilancio comunitario. La Commissione sta presentando le proposte per l’esercizio 2007/2013, e quindi per definire obiettivi e priorità dell’Unione, con l’assegnazione delle relative risorse. Quindi inizierà lo scontro vero e proprio, ma le pressioni si fanno già sentire.

Va considerato che all’indomani dell’interruzione del processo di adozione del trattazione costituzionale europeo, alcuni paesi forti (Francia, Germania, Regno Unito, Svezia, Olanda e Austria) hanno chiesto di diminuire il tetto del bilancio comunitario, che è attualmente fissato allo 0,2 del Prodotto Interno Lordo dell’Unione Europea. Si tratta naturalmente di una mossa in danno di Spagna e Polonia, un attacco principalmente rivolto cioè ai due paesi riottosi sulla questione del calcolo dei voti. Questo avviene nel momento in cui entrano in Europa settantacinque milioni di nuovi cittadini, con nuove esigenze ed un grande divario da colmare rispetto ai quindici, e mentre il PIL cresce a stento.

3. Accanto a questo quadro fatto di incertezze, di scontri palesi e meno palesi, di tensioni che si sommano a quelle già prodottesi nel corso dell’anno passato specie intorno al rapporto con gli Stati Uniti d’America nella vicenda irakena, riprende forza e fiato la questione e la prospettiva - rispetto alla quale abbiamo già avuto modo di soffermarci - dell’Europa a due velocità.

Di fronte al quadro di insieme fatto di posizioni difficilmente conciliabili tra loro, di intrecci e di incroci non governabili e sino ad ora non governati, di alleanze a schemi variabili, riprende forza la prospettiva di una sorta di direttorio, ovvero due o tre locomotive che in qualche modo possano guidare questo variopinto convoglio di oltre venti vagoni.

La novità - rispetto a qualche mese fa - è che accanto al duo ormai consolidato ed affiatato costituito da Francia e Germania (la Framania di Schroeder e Chirac) si affianca in modo abbastanza stabile ed organico la Gran Bretagna di Blair, ovvero la grande avversaria sul versante del rapporto con gli U.S.A. di Bush di non più di pochi mesi fa.

Con un paradosso: mentre la tendenza europeista di Francia e Germania è nota ed indiscutibile, e questi paesi - nel sistema a cerchi concentrici che caratterizza l’Unione - costituiscono il nucleo duro dei processi di integrazione, l’Inghilterra è culturalmente, storicamente, strategicamente, geograficamente euroscettica se non, in alcuni momenti, euro-ostile.

Si rifletta, tanto per fare un esempio, sul fatto che la Gran Bretagna non ha adottato l’euro e non è assolutamente certo (anzi non è neanche probabile) che in tempi medi la sterlina possa essere abbandonata.

E quindi la collocazione stessa di questo direttorio appare sicuramente diversa rispetto alla situazione in cui il duo Francia-Germania guidava il processo di integrazione, spingendo verso l’adozione di un trattato costituzionale, verso una difesa comune, una politica estera autonoma, un sempre maggior grado di indipendenza nei confronti dell’altra sponda dell’Atlantico.

Sembra quasi che l’intesa tra i tre grandi paesi dell’Unione (il quarto paese, l’escluso, pur facendo anch’esso parte del G8, è l’Italia) nella costruzione di un tavolo comune sia fatta, più che per rilanciare il percorso unitario (federale o unionista che sia), per evitare che la situazione di stallo determini complicazioni irrisolvibili, e che nel caos tutto vada a pezzi divorato dalla logica del particulare e del contingente.

È probabile che di fronte alla posizione unitaria dei tre grandi - nonostante gli inevitabili mugugni di Italia, Spagna e Polonia - nessun altro paese abbia la forza di creare ostacoli; ma è altrettanto probabile che si tratti piuttosto di una alleanza finalizzata alla tenuta e non alla creazione, perlomeno in tempi brevi, di un nuovo impulso per uscire dallo stagno in cui ci si è cacciati.

4. Comunque, qualora i Governi dovessero trovare un accordo, il 9 maggio 2004 è la data prevista per l’eventuale firma a Roma del trattato costituzionale.

Certo è che da parte delle forze sociali, delle correnti democratiche, dei movimenti non è ancora nato neanche l’avvio di un percorso comune per giungere ad un progetto unitario sull’Europa, sul suo processo di costituzionalizzazione, né vi sono state ancora vere riflessioni e mobilitazioni comuni dei diversi attori sociali, sindacali e politici nella direzione di una sfida per un’Europa pacifista, democratica, federalista e sociale.

Ancora una volta questo grande ed inedito percorso storico è stato (ed è, con le sue contraddizioni, i suoi limiti, le incertezze che esso determina) un fatto di gruppi ristretti, di poche persone, di circoli limitati.

È ancora una volta un Trattato a definire competenze ed ambito di azione dell’Unione, saranno ancora dei Trattati (nell’impostazione che viene data nella parte IV del testo redatto dalla Convenzione presieduta da Giscard) a regolare la revisione costituzionale, in un percorso in cui gli Stati (signori dei trattati) restano l’elemento determinante dei processi decisionali, legislativi, politici e costituzionali.

L’Unione - dotata di un sistema di norme che ha il primato, con diverse modalità, sul diritto statale - non è più un’associazione di Stati ma non è ancora una federazione, né si è creato un sistema fatto di una pluralità di forme di partecipazione democratica (municipale, regionale, nazionale, europea) in un fecondo rapporto di sussidiarietà verticale.

È evidente che solo attraverso una modifica della parte IV della proposta di trattato (precisamente dell’art.7) la competenza in ordine alla procedura di revisione costituzionale può essere attribuita - con procedure rafforzate - al Parlamento europeo, e non più agli Stati membri. Una tale innovazione porrebbe evidentemente fine all’epoca dei trattati, aprendo la via ad una Unione effettivamente sopranazionale.

5. Non si è affermato a livello continentale un movimento di lotta per la democrazia costituzionale europea, per limitare attraverso la fissazione di principi, valori, competenze il primato del mercato, per uno sviluppo veramente democratico e sociale dell’Unione.

Né ancora si espressa con forza una critica alla parte III del trattato costituzionale: essa non fa che recepire, con semplici adattamenti lessicali, a volte peggiorativi, l’intero testo dell’attuale Trattato CE.

Non si è espresso, ad esempio, un orientamento di dissenso netto e forte in relazione al modo in cui vengono trattate (nel progetto elaborato dalla Convenzione) le politiche economiche. Il progetto di trattato costituzionale rende da un lato la Banca Centrale responsabile della politica monetaria ma non prevede (neanche per i paesi dell’area dell’euro) l’introduzione di una comune politica fiscale e di bilancio e quindi la possibilità stessa di avviare e concretizzare vere politiche sociali.

È evidente che non si è avviato a livello europeo ed a livello dei singoli paesi un movimento per rivendicare che la procedura legislativa debba essere democratizzata e che il Parlamento europeo democraticamente eletto dai popoli dell’Unione debba divenire la sede competente per l’adozione delle leggi europee, superando le forme della codecisione che danno al Parlamento solo un diritto di veto e per di più solo su una serie definita e circoscritta di materie (sia pure di rilievo); che il diritto di iniziativa legislativa non debba essere monopolizzato dalla Commissione europea, ma che esso deve essere condiviso dal Parlamento; che occorre introdurre forme di iniziativa legislativa popolare; che il Consiglio europeo si trasformi in una seconda camera, tale da rappresentare le diverse realtà territoriali in modo da strutturare un vero e proprio sistema federale sovranazionale ed in maniera tale da superare la commistione tra potere esecutivo e legislativo che caratterizza attualmente il Consiglio (anche nella forma prevista dall’art.23 della I parte della proposta di trattato costituzionale); che sollevi la necessità che la Commissione venga sottoposta al voto di fiducia del Parlamento (anzi delle due Camere).

Insomma non si è aperta una battaglia democratica europea per rivendicare la costruzione vera e partecipata di istituzioni pienamente democratiche, specie con riferimento alla procedura di adozione e di revisione del testo costituzionale e di approvazione delle leggi, pur essendo ormai evidenti (nonostante il fallimento della Conferenza intergovernativa dello scorso dicembre) che molte delle decisioni che condizionano la vita dei singoli stati membri dell’Unione sono adottate in sede europea. La vita democratica interna dei singoli stati è cioè fortemente condizionata dalle scelte adottate da organismi la cui legittimazione democratica appare insufficiente.

Lo stesso pratico superamento dei parametri di Maastrich avrebbe dovuto condurre ad una riflessione sui limiti imposti allo sviluppo economico e sociale dell’Europa da politiche economiche miopi e di corto respiro: ma la situazione venutasi a creare sotto la spinta dei disavanzi pubblici di Francia e Germania non ha condotta ad un dibattito complessivo, ad un ripensamento, all’indicazione di nuove linee strategiche. Si è avviata invece una fase confusa di recriminazioni, dentro la quale le forze più avanzate non hanno saputo inserire elementi critici e propositivi tali da rilanciare politiche innovative e socialmente sostenibili.

6. La democrazia non è solo metodo decisionale (ovvero non si tratta soltanto di individuare chi decide e come decide), è anche affermazione di valori validi per tutti, che siano vincolo e limite per l’azione di tutte le istituzioni e gli organismi politici.

Si tratta di cioè di adottare principi e valori che siano sottratti alla disponibilità della maggioranza, valori che vengono posti a garanzia dei diritti e delle libertà delle persone, che devono essere poste nelle condizioni di esercitare la propria autonomia e di sviluppare il proprio progetto di vita senza intrusioni arbitrarie.

Conseguentemente la questione della determinazione di questi valori, e la loro declinazione anche nel senso dei diritti sociali, è questione essenziale nel processo di determinazione di un nuovo ordinamento costituzionale.

Così come assume grande importanza il fatto che la pace non viene assunta come valore fondante della società europea.

Pace non concepita soltanto per i popoli dell’Europa ma come elemento centrale dell’ordinamento mondiale, delle relazioni tra i popoli: ovvero manca un riferimento all’obiettivo che la guerra venga ripudiata come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

Il movimento pacifista può far pesare nel processo di costruzione della costituzione europea - a partire dalla sua vocazione e dalla sua natura di realtà non confinata nell’ambito degli angusti limiti dei vecchi stati nazionali - la propria estensione e la propria forza, quella che nel suo punto più alto - ed a livello mondiale - si è espressa nelle grandi manifestazioni del 15 febbraio 2003.

La richiesta di eliminazione della formulazione contenuta nell’art.40 della parte I della proposta di trattato costituzionale potrebbe in tal senso divenire elemento politico unificante sul piano continentale dei movimenti contro la guerra.

7. Il primo comma dell’art.1 della prima parte della proposta di trattato costituzionale lega ancora la cittadinanza dell’Unione alla cittadinanza di uno Stato nazionale membro, e nella parte III della proposta si delineano le politiche securitarie nei confronti dell’immigrazione. Si concepisce in tal modo una “democrazia europea” dimezzata ed anche razzista, che definisce chi è cittadino e chi no: non può essere considerata democratica una società che attribuisce uno status inferiore a milioni di persone che vivono e lavorano in Europa.

A tutti i migranti dovrebbero essere garantiti i diritti civili e sociali fondamentali.

Il diritto di asilo andrebbe garantito ampliando la tipologia dei casi in cui esso va riconosciuto (dall’oppressione politica alle situazioni di guerra, di calamità e di disastri ambientali, alle persecuzioni causate dalle scelte sessuali, alle violazioni dei diritti della persone).

E quindi l’obiettivo di una Europa multietnica e multiculturale, rispettosa dei diritti delle minoranze passa attraverso una attenta lettura del testo in discussione ed è attraverso la battaglia sul contenuto del trattato costituzionale che può concrettizarsi ed avanzare il percorso verso un’Europa quale laboratorio della cittadinanza in netta antitesi con le previsioni contenute nella parte III della proposta della Convenzione., la cui seconda sezione è dedicata alle “politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione”.

8. Il diritto del lavoro è stato profondamente ridimensionato se non sovvertito dalle politiche liberistiche sviluppatesi negli ultimi venti anni, l’occupabilità è divenuta la parola magica per spezzare la solidarietà del lavoro e far diventare il lavoratore imprenditore di sé stesso.

Siamo alla piena mercificazione della persona: il migrante può restare nel paese di arrivo solo fin quando ha un contratto di lavoro, il lavoratore diventa un precario a vita. L’insicurezza diventa la condizione per accettare qualsivoglia condizione normativa e salariale. L’individualizzazione del rapporto di lavoro diventa l’obiettivo delle riforme del mercato del lavoro con la moltiplicazione delle forme contrattuali che frammenta il mondo del lavoro e rende sempre più difficile la difesa e la crescita del salario, così come la qualità della vita e del lavoro (è quello cui abbiamo assistito in Italia da ultimo con la legge 30 del 2003 ma che è possibile vedere anche - sia pure con strumenti diversificati - nei diversi paesi dell’Europa).

È nel quadro costituzionale della nuova Unione, che andrebbero previsti diritti e garanzie per il lavoro, con riguardo all’intreccio di lavoro e non lavoro, di formazione e lavoro, così come ai nuovi modi in cui si andranno ad articolare la rappresentanza e la democrazia sindacale.

È nel quadro costituzionale dell’Europa che può essere inserito l’obiettivo del reddito sociale, reso sempre più necessario dalle trasformazioni profonde che attraversano il mondo del lavoro, dal dilagare della precarietà e del disagio sociale, dall’emergere di nuove e diffuse povertà che rischiano di innescare (e sempre più attivano) processi viziosi di stagnazione economica e di abbassamento dei livelli complessivi di vita.

9. Il mercato non è una forza di integrazione né sociale né politica.

Il disegno dei padri fondatori di gestire in termini sovranazionali settori economici chiave - il carbone e l’acciaio, il mercato comune, l’energia nucleare e poi il mercato unico con i vincoli del Patto di stabilità - ha sempre sofferto di un deficit politico e di legittimità democratica che la Carta di Nizza sui diritti fondamentali dell’Unione Europea, adottata nel 2001 (ed ora trasfusa nella parte II del progetto di trattato costituzionale), non poteva certamente sanare.

L’Unione europea è divenuta paladina dell’impresa e della competitività.

All’inizio del processo di integrazione europea la Comunità europea del carbone e dell’acciaio ed il Trattato di Roma salvaguardavano le competenze sociali degli stati, e dunque i processi di stampo keynesiano e di inclusione sociale marciavano in parallelo con i processi di integrazione sovranazionale basati sulla supremazia del mercato: alla fine degli anni ottanta - sotto l’egemonia del pensiero neoliberista - impresa, moneta e mercato si sono affermati quali forze unificatrici della società, ed in particolare della società europea.

Il processo costituente viziato da un deficit democratico (così come pensato a Laeken, con una convenzione formata da persone nominate innanzitutto dai governi dei paesi membri) non ha prodotto - e probabilmente non poteva produrre - una costituzione democraticamente legittimata ma anche - almeno per ora - ha fallito come momento di compromesso tra gli Stati in una fase di profonda divisione europea (e dentro la quale ha agito in senso distruttivo la pressione statunitense).

Sono così mancati ad un tempo legittimità democratica e realismo politico; si volevano tenere insieme sovranità nazionali e poteri sopranazionali senza comuni prospettive politiche; si è puntato sulla forza unificante e progressiva del mercato mentre i risultati delle politiche neoliberiste ne svelano con drammatica acutezza i limiti e le contraddizioni, e determinano tensioni e visioni critiche non circoscritte a settori limitati della popolazione.

Il nuovo avvio di un percorso costituzionale europeo non potrà che partire dall’analisi di questi limiti e dovrà necessariamente essere segnato dal confronto che oggi riappare in Europa tra i sostenitori di un mercato senza limiti e le rappresentanze politiche e sociali di settori sempre più vasti emarginati ed impoveriti nell’era del trionfo del liberismo.