Il Meridione: da terra di conquista a fronte di resistenza

Paolo Graziano

La questione delle scorie radioattive in Basilicata

...e mi avevano guardato con stupore quando io avevo detto che lo Stato, come essi lo intendevano, era invece l’ostacolo fondamentale a che si facesse qualunque cosa.
Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli

 

1. Trent’anni di sfruttamento

A scrutare tra le pieghe di un trentennio di sfruttamento, a frugare attentamente tra gli atti amministrativi e gli indirizzi politici, il decreto che dispone lo stoccaggio delle scorie nucleari prodotte da un’intera nazione in un paesino sperduto sulla costa jonica della Basilicata, altrimenti dimenticato dall’amministrazione centrale, risultava un atto annunciato. Scanzano Jonico è un paese giovane, istituito soltanto nel 1974 sulla base di un insediamento derivato dalla riforma fondiaria che ha prodotto un’agricoltura fiorente - ortaggi, frutta, grano - ma a prezzo di fatiche notevoli e di una dedizione assoluta al lavoro. Qui non c’è alternativa alla terra: è l’unica risorsa che non è sfumata al tramonto di una stagione politica o di un programma d’insediamento industriale. Ma le ipoteche stipulate dagli interessi nazionali e privati sulla Lucania mettono a repentaglio, da troppo tempo, anche la sua sopravvivenza.

A dettare la dottrina dello sviluppo tecnologico e industriale, in questa regione, fu dapprima l’insediamento del centro dell’ENEA nella Trisaia di Rotondella, sullo stesso litorale scanzanese: trent’anni fa sembrava il vascello destinato a traghettare questa terra avara lontano dalle risacche della miseria, finché l’illusione si è lentamente dissolta di fronte ad una lunga fila di incidenti ambientali (ne sono noti 11), soltanto recentemente denunciati. Qualche anno dopo al territorio venne inferta una nuova ferita: cominciarono gli scavi alla ricerca dell’acqua e soprattutto del petrolio, che attira sulla Basilicata gli interessi delle multinazionali degli idrocarburi. Nel corso di una trivellazione condotta dall’AGIP a Terzo Cavone, sul finire degli anni ’60, venne alla luce un’altra ipotesi di sviluppo, sotto forma di prezioso salgemma. Il minerale, da cui si ricava sale purissimo per l’industria farmaceutica, sembrava garantire un prospero avvenire alla regione jonica. Ad un incerto futuro, intanto, si sacrificava il presente: nelle zone delle cave l’agricoltura si bloccò, 120 ettari di terra (poi ridotti a 60) furono desinati all’evaporazione del salgemma. In realtà non era il sale a suscitare il maggiore interesse, ma le enormi cavità sotterranee derivanti dalla sua estrazione. Si attribuiva, così, un’ennesima vocazione alla Basilicata: deposito di idrocarburi, di rifiuti tossici e radioattivi. Un progetto probabilmente non proprio recente, come testimoniano le osservazioni di Nico Perrone su “Liberazione” del 28 dicembre 1999 [1], ma tenuto nel cassetto fino alla firma del decreto del novembre 2003, che designa Scanzano Jonico come sede del deposito unico nazionale per la conservazione delle scorie radioattive. Come altre volte, senza nulla chiedere ai Lucani. Alla delibera calata dall’alto dei palazzi romani, però, risponde stavolta una immediata e spontanea mobilitazione popolare, ricca di simboli e citazioni dalla storia di quella terra eppure radicalmente nuova nella composizione e nelle modalità di espressione. Dopo circa quindici giorni di intensa opposizione popolare, il nome di Scanzano è stato cassato dal testo del provvedimento governativo.

 

2. Il Sud nelle strategie di gestione degli esiti del nucleare

“Abbiamo provocato una sollevazione popolare”. Per una volta Berlusconi ha sintetizzato perfettamente la situazione: con questa lapidaria affermazione - attribuitagli dai giornali all’indomani della revisione del provvedimento legislativo per il deposito della scorie nucleari - il presidente del Consiglio bolla l’affaire Scanzano come un disastro comunicativo. Per una volta, dunque, bisogna dargli ragione poiché il lungo itinerario che porta all’approvazione dello sciagurato decreto-legge n. 314 del 13 novembre 2003 risulta di un’insipienza politica evidente.

Varato in sordina, forse con l’intenzione di aggirare il vaglio dell’opinione pubblica, il testo legislativo, divulgato sulla Gazzetta Ufficiale n. 268 del 18 novembre, è intitolato: “Disposizioni urgenti per la raccolta, lo smaltimento e lo stoccaggio, in condizioni di massima sicurezza, dei rifiuti radioattivi”. Per giunta, il provvedimento si avvale dello strumento del decreto-legge, per sua natura destinato alle procedure impellenti che non possono attendere i tempi dell’iter parlamentare.

Probabilmente un primo macroscopico errore comunicativo è costituito appunto dal carattere d’urgenza che il provvedimento ha acquisito agli occhi della popolazione locale, innescando il detonatore di una violenta e improvvisa contestazione. Tale collegamento si manifesta, con tutta evidenza, nei timori espressi dai manifestanti all’indomani della pubblicazione della notizia. Attorno alla vecchia miniera di Salgemma immediatamente occupata, Antonio Massari de “il manifesto” registra la diffusione di un vero e proprio “effetto panico”, raccogliendo da un cittadino di Scanzano questa allarmata dichiarazione: “Le scorie potrebbero arrivare da un momento all’altro, dobbiamo impedire che questo accada” [2]. Si tratta evidentemente di una preoccupazione sorretta dai segnali pervenuti dal procedimento adottato nell’approvazione del decreto.

D’altro canto, il metodo utilizzato nella fase deliberativa appare soltanto il risultato di una linea d’azione intrapresa anni addietro, che ha attraversato tre tappe principali:

1. Il cambiamento di strategia del decommissioning dei siti nucleari alla fine degli anni ’90: la pratica di conservazione passiva degli impianti ha lasciato il posto alla progettazione di interventi relativamente rapidi di smantellamento e di stoccaggio delle scorie in siti appositi;

2. La creazione nel 1999 della Sogin S.p.a. (Società per la Gestione degli Impianti Nucleari), una società per azioni deputata alla “gestione degli esiti del nucleare”, costituita dall’ENEL e passata nel 2000 sotto il controllo del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. La nascita della società, cui viene successivamente delegato il problema dello smaltimento dei rifiuti, si inserisce nel quadro della liberalizzazione del mercato elettrico sancita dal decreto legislativo n. 79 del 16 marzo 1999, che di fatto apre la strada all’intervento di soggetti diversi dallo Stato nel settore energetico;

3. Il conferimento alla Sogin S.p.a. della delega in materia di trattamento e gestione dei rifiuti radioattivi (Convenzione E.N.E.A.- Sogin S.p.a. del 13/05/2003, eseguito con Ordinanza del Commissario Delegato n. 9 del 29/07/2003) e l’individuazione di tale società come soggetto deputato ad operare scelte strategiche in materia di energia nucleare. È stata più volte segnalata, al proposito, l’inconciliabilità - in via di principio - della carica di presidente della Sogin e di commissario delegato dal governo per la sicurezza dei materiali nucleari, entrambe radunate nella persona del generale Carlo Jean.

Il ruolo svolto dalla Sogin S.p.a. nella definizione delle strategie di smaltimento risulta evidente dal resoconto dell’audizione del generale al Parlamento, avvenuta il 26 febbraio 2003. In tale circostanza, il Presidente della Sogin sottolinea l’impasse nella scelta del sito unico per il deposito delle scorie, dovuto al mancato passaggio delle competenze in materia alla s.p.a.: “La Sogin non è stata incaricata, per adesso, dal Ministero delle attività produttive di individuare possibili siti nazionali. Nessuno ce lo ha chiesto; se qualcuno lo farà, l’approccio che riteniamo migliore è quello di prendere come consulenti coloro che hanno costruito all’estero analoghi siti, perché si tratta di persone che hanno un’esperienza diretta che supera qualsiasi apporto di conoscenza o di elaborazioni teoriche” [i]. Come si può constatare, il metodo indicato dal vertice della Sogin prevede la scelta del sito unico di raccolta delle scorie sulla base delle esperienze condotte da altri paesi e del know-how pratico accumulato dai tecnici che hanno presieduto altrove alla costruzione dei depositi. Al tempo stesso, il generale Jean giudica inutilizzabili gli studi condotti dall’ENEA (Ente Nazionale per l’Energia Atomica) per individuare sicuri siti di raccolta: “I criteri della commissione Bernardini, seguiti dall’ENEA, sono stati fissati alla metà degli anni novanta: si tratta di criteri che escludono non solamente le isole, nel caso particolare italiano, ma anche la possibilità di mettere questi materiali in miniere o in grotte. Le nuove direttive della Comunità europea invece rovesciano completamente i criteri, per cui quegli studi, pur essendo stati effettuati molto accuratamente da scienziati preclari, sono di scarsa utilità pratica” [i]. Trattandosi dell’unica indagine ad ampio raggio disponibile, la liquidazione del lavoro dell’ENEA (pur indiscutibilmente datato) equivale ad avallare un approccio dirigista che ha portato all’individuazione di un sito di raccolta per decreto legge, ignorando la fase delle “ampie consultazioni con le popolazioni locali” previste dal protocollo dell’IAEA (International Atomic Eneregy Agency) per la designazione dei luoghi di stoccaggio delle scorie.

L’esigenza di una maggiore concentrazione di poteri nell’affare dello smaltimento emerge, altresì, nella richiesta dei vertici della Sogin al governo di strumenti legislativi più “agili”, che consentano di snellire il complesso iter autorizzativo necessario a manovrare scorie radioattive: “Mi è stato chiesto se occorra un’altra legge. A mio avviso sì, perché le leggi attuali, come diceva prima l’ingegner Bolognini, ritardano qualsiasi processo decisionale ed impediscono qualsiasi pianificazione, per cui dobbiamo andare avanti alla giornata non sapendo se e quando verranno date le autorizzazioni richieste [...] Per esempio [sarebbe auspicabile] una legge sul one stop licensing. Il fatto di avere l’approvazione dell’intero progetto, anziché pezzo per pezzo, consente di fare una pianificazione” [i].

Alla luce di questa conversazione avvenuta soltanto pochi mesi fa in Parlamento, risulta sorprendente constatare come il decreto novembrino sintetizzi la filosofia d’azione proposta da Carlo Jean, individuando senza previe consultazioni un sito di stoccaggio in una zona già più volte sacrificata sull’altare dell’interesse nazionale e prevedendo ampi margini di azione rispetto alle normative vigenti per il commissario straordinario addetto alle operazioni di “messa in sicurezza” dei rifiuti. L’articolo 2 del decreto n. 314, infatti, prevede la nomina di un commissario che - in deroga alla normativa - provveda alla validazione del sito individuato, all’allestimento di strutture temporanee da realizzare sullo stesso sito dei rifiuti radioattivi ora distribuiti sul territorio nazionale, rilasciando le relative licenze, all’approvazione del piano economico finanziario, all’affidamento degli incarichi di progettazione e di costruzione del deposito nazionale, alle procedure espropriative.

Nelle sue linee di fondo, la strategia politica rintracciabile dietro questa vicenda appare simile a quella adottata, cinquant’anni fa, dal governo italiano nella costruzione del primo impianto nucleare italiano, sul Garigliano. Secondo la ricostruzione degli storici, nella primavera del 1956 la Birs (Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo) propose al governo italiano uno studio sui vantaggi derivanti dall’installazione di una centrale nucleare in Italia. Dopo una serie di riunioni bilaterali, si giunse alla costituzione di una società (la Senn, una costola dell’Iri) deputata alla costruzione dell’impianto sotto la guida di una diarchia composta da Ippolito e Allardice. “L’accordo
 chiosa Melania Cavalli - fu firmato segretamente il 27 luglio 1957 ed annunciato con molto scalpore in agosto. Prima nessuno ne aveva saputo niente: né il Parlamento, né il Paese”
 [3]. Sul “Globo” di quei giorni (15 novembre 1957), lo stesso Felice Ippolito precisava che era stata proprio l’Italia ad imporre la condizione che l’impianto fosse costruito nel Meridione. Un secondo accordo, quello tra la General Electric americana e la Senn, prevedeva una prova di collaudo dell’impianto limitata a cento ore di attività a pieno carico, quando invece la prassi ne consigliava alcune migliaia.

È facile individuare, nella vicenda odierna, gli stessi vizi procedurali di allora: decisioni dall’alto, accordi preliminari e poco trasparenti che escludono il coinvolgimento della popolazione, insufficiente approfondimento delle questioni tecniche e delle problematiche ad esse connesse e - non ultimo - la scelta del Meridione come territorio destinato a sopportare i costi maggiori di uno sviluppo industriale ed economico distorto e fallimentare. Tuttavia la storia difficilmente si ripete: e qualcuno ha osservato che, quando ciò avviene, se la prima volta è finita in tragedia (si veda il dissesto ambientale e gli infiniti incidenti provocati dalla centrale del Garigliano) la seconda finirà in farsa.

 

3. “Giù le mani dalla mia terra”: l’opposizione della popolazione locale

Sono scesi in piazza i “nuovi briganti” [4], ammoniva uno dei cartelli utilizzati durante la protesta dai cittadini di Scanzano, che ha vanificato il tentativo di deputare un’intera regione al ruolo di pattumiera d’Italia. La citazione, soprattutto perché effettuata dai contadini lucani, non va interpretata come un semplice elemento folkloristico della reazione popolare al decreto: al contrario, essa può fornirci alcune indicazioni per comprendere la natura della mobilitazione di Scanzano e le ragioni del suo successo sulla strategia del governo.

All’indomani della pubblicazione del decreto, le prime manifestazioni di rabbia e delusione dei contadini della lucania jonica vedevano la pubblica distruzione delle tessere di partito da parte dei militanti. Si tratta di un primo segnale di uno stato d’animo condiviso - la sensazione del “tradimento della politica” - che prefigura una peculiarità della protesta: la mobilitazione spontanea e partecipata, senza mediazioni di partiti o sindacati [5]. L’iniziativa popolare, infatti, si è sviluppata attraverso l’immediato presidio del territorio: è stata attuata l’occupazione delle zone limitrofe al pozzo numero tre della miniera di Salgemma e, successivamente, di alcuni luoghi istituzionali come l’aula del Consiglio comunale. Nei giorni seguenti, la Basilicata risultava pressoché isolata dal resto d’Italia per l’occupazione delle arterie di collegamento principali con il resto del paese: dal 18 novembre erano impediti i collegamenti ferroviari tra Puglia e Calabria, mentre restava occupata la statale 106 Jonica e la Basentana che congiunge Taranto e Salerno. Il giorno successivo, i cronisti registravano l’occupazione di un tratto di venti chilometri circa dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, tra Lauria e Lagonegro [6]. Ad un osservatore attento di quelle vicende, non poteva sfuggire il significato assolutamente eccezionale di quei presidi spontanei: non una semplice manifestazione di protesta, ma il segnale di una volontà di riappropriazione del territorio, l’affermazione dell’esistenza di un legame con la terra più antico di quello sancito dalla giurisprudenza delle relazioni internazionali. A rappresentare visibilmente questo temporaneo “passaggio di competenze”, sono stati eretti in quei giorni improvvisati posti di dogana che potevano essere valicati soltanto previo superamento di un test (16 domande per un totale minimo di 30 punti) utile a dimostrare la conoscenza dei termini della questione delle scorie [7].

Ora, il controllo e l’occupazione del territorio è un gesto che assume una carica simbolica particolare in alcune zone del meridione e si afferma, come manifestazione di dissenso, contemporaneamente al sorgere di un’autorità statale centrale a seguito del processo di unificazione d’Italia. Secondo Salvatore Scarpino, i primi fuochi del brigantaggio si manifestarono già nell’autunno del 1860, in Calabria e in Abruzzo, “per difendere gli antichi usi civici” legati appunto allo sfruttamento del territorio, come “far legna, seminare, pascolare sui terreni demaniali” [8]. La mancata quotizzazione delle terre demaniali del sud Italia, da cui si attendeva un allargamento del ceto dei piccoli proprietari, è in effetti considerata una delle principali cause del malcontento nei confronti dell’autorità nazionale e del nuovo ordine sociale che essa rappresentava: “Per i cafoni era una situazione senza uscita: erano espulsi dall’universo feudale - che tuttavia garantiva qualche possibilità di sopravvivenza - e non potevano entrare nel mondo capitalistico, moderno, in qualità di proprietari [...] è documentato che, ogni qual volta la questione dei fondi si riacutizzava, si registrava nelle campagne un aumento del brigantaggio” [i].

Ottant’anni più tardi, nelle stesse zone, la questione agraria non ancora risolta scatenava il vasto movimento di lotte per la terra del Mezzogiorno d’Italia, sviluppatosi nel decennio compreso tra il 1943 e il 1953. Questa volta, le pratiche di riappropriazione del territorio da parte dei contadini meridionali assunsero risvolti tragici proprio in Lucania, con l’eccidio della popolazione di Montescaglioso. Il luogo in cui esercitare la massima violenza repressiva non fu probabilmente scelto a caso. Nel suo saggio sull’occupazione delle terre, Paolo Cinanni rileva che “a cominciare dalla seconda metà di novembre [del 1949] tutte le regioni meridionale vedono scendere in lotta le masse contadine. Fra le prime c’è la Basilicata, e più precisamente i contadini dei paesi jonici, che da secoli condividono con i contadini calabresi la stessa sorte, le stesse angherie, le stesse usurpazioni” [9].

La fascia jonica della Basilicata conserva, dunque, memoria di un rapporto conflittuale con l’apparato centrale dello Stato, espresso soprattutto nella contesa per il possesso e la gestione del territorio. Una lunga tradizione di studi di antropologia politica sottolinea l’importanza della rappresentazione di legami tra persone e territorio nella costruzione della coesione sociale, di un comune senso di appartenenza: l’esibizione di simboli che incarnano tali relazioni - la linea della frontiera, l’occupazione del suolo - rinvia soprattutto al concetto di proprietà del territorio, poiché
 scrive Raymond Firth - “la terra è la base del potere e della libertà”  [10]. L’adozione di questi simboli da parte della gente di Scanzano, in esplicita concorrenza con l’esclusività con cui lo Stato li amministra, apre dunque un contenzioso tra l’autorità centrale (e i suoi rappresentanti locali, in palese difficoltà nel definire la propria collocazione nella geografia della lotta) e la popolazione locale, che risulta radicale e violento sul piano dell’immaginario anche quando evita radicalità e violenza nelle pratiche della protesta e della repressione. I termini dello scontro, infatti, non prevedono negoziazioni: da un lato, i lucani esibiscono il proprio ancestrale rapporto con la terra che abitano, contestandone gli usi catastrofici disposti dal Governo; dall’altro, lo Stato rivendica il diritto, garantito dal patto costituzionale, a gestire il territorio in funzione del superiore interesse nazionale. Eppure, nel conflitto delle rappresentazioni, il diritto dei contadini lucani a disporre del territorio su cui vivono è apparso, durante la protesta, di gran lunga più trasparente di quello dell’autorità centrale, per quanto quest’ultimo risulti legittimato dalle norme sulla potestà del territorio, implicitamente richiamate anche nel testo revisionato del decreto [11]. Probabilmente tale percezione deriva dall’efficacia simbolica dei gesti e delle azioni che hanno articolato la protesta di Scanzano. Se la forza comunicativa di un simbolo si misura dalla sua trasparenza, ovvero dalla capacità di esibire un “legame motivato” [12] tra simboleggiante e simboleggiato, non si può evitare di riconoscere nei volti dei contadini bruciati dal sole e nei trattori parcheggiati di traverso sulla strada delle icone eccezionalmente appropriate per descrivere un millenario rapporto con un territorio avaro, cui è stato strappato ogni grammo di benessere e di agio. Nel rilevare l’immediata riconoscibilità dei simboli di questa mobilitazione, Sandro Medici scriveva: “si rappresentavano da sé, quelle anziane signore, non avevano bisogno d’altro. Avevano tuttavia una forza interiore che si è subito capito sarebbe stata invincibile. E gli stessi municipi, così come l’estesa rete solidale delle varie rappresentanze politiche locali, hanno fatto lo stesso: si sono mostrati per quello che sono. Per contrapporsi al deposito nucleare hanno usato gli argomenti che trattano quotidianamente, la campagna, il mare, la frutta, gli ortaggi, il pesce. Arcaismi? Non è così, si ricredano i molti che pensano ancora a un sud bisognoso di fabbriche o peggio. Seminare un campo di fragole è una scelta strategica, garantisce economie e redditi, oltreché salute e benessere. Salvaguarda uomini e cose e, alla lunga, assicura ricchezze” [13].

 

4. La linea di fuoco. Nuovi fronti e protagonisti della lotta

Il successo della protesta della “piccola patria” lucana, che ha opposto la limpidezza dei simboli di una tradizionale empatia con la terra al cupo atteggiamento neocolonialista dell’apparato statale, segnala certamente i limiti della strategia politica del governo nella gestione del post-nucleare, ma anche l’insorgenza di ulteriori fronti di lotta, di cui la galassia antagonista non può non tener conto.

Un primo punto da considerare riguarda la geografia del conflitto: all’attacco ormai sistematicamente condotto contro le periferie, deputate dalle pratiche della globalizzazione alla fornitura di risorse umane ed ambientali a basso costo, corrisponde l’emersione di nuovi soggetti antagonisti, estranei o marginali rispetto alla tradizione della sinistra europea. Con loro, entrano spesso nell’agone inedite modalità di lotta, suggerite alla prassi politica da mentalità e stili di vita locali, talvolta apparentemente arcaici ma senz’altro caratterizzati da valori riconoscibili e condivisibili. I contadini di Scanzano e i contenuti della loro reazione ben rappresentano - come prima e con ben altra risonanza mediatica ha fatto Jose Bove in Francia - questa moltiplicazione delle linee di fuoco, ciò che Rusconi chiama “il ritrovato interesse della gente a praticare la propria cittadinanza politica nell’orizzonte locale o regionale” [14]. Non appare peraltro una chiusura - e siamo alla seconda rilevante novità rappresentata in Italia dalla protesta lucana - la focalizzazione della protesta sulle questioni insorte in una piccola area geografica, poiché le popolazioni locali già sviluppano gli anticorpi alle strategie globali e cominciano ad individuare con chiarezza, nei problemi concreti di gruppi lontani, la prefigurazione di eventuali questioni che diventeranno pericolosamente vicine in un futuro prossimo. Per questo motivo le istanze della protesta di Scanzano sono state immediatamente percepite e appoggiate dentro e fuori d’Italia, persino dalle categorie e dalle popolazioni più colpite dalla contestazione lucana: dopo il blocco delle strade, il consorzio locale degli autotrasportatori ha deciso di appoggiare la piattaforma della protesta e i cittadini pugliesi e calabresi castigati dal blocco ferroviario e viario hanno sfilato con i lucani, scandendo lo slogan: “Scanzano siamo anche noi” [15].

Sta d’altronde in questa capacità di percepire l’ingiustizia commessa contro le vittime designate della macina globalizzatrice, sta nella possibilità di intervenire a riparo delle ferite aperte dalla strategia neocoloniale la chance della sinistra antagonista internazionale per negoziare uno sviluppo rispettoso delle esigenze e degli interessi della gente comune.


[1] “Sottovoce si parla anche dello stivaggio di rifiuti tossici nelle caverne del salgemma, sfruttando il naturale e forte isolamento, costituito dalle residue pareti di sale rispetto all’esterno”.

[2] A. Massari, La rivolta di Scanzano, in “il manifesto”, 15 novembre 2003.

[i] Audizione di Jean (Sogin S.p.a.) al Parlamento, seduta del 26 febbraio 2003.

[i] Ibidem.

[i] Ibidem.

[3] M. Cavalli, Il veleno nella coda. Il problema dello smantellamento delle centrali nucleari, in “WWF Quaderni”, n. 8, 1987, p. 5. Per i dettagli di tale passaggio politico cfr. anche M. Silvestri, Il costo della menzogna, Einaudi, Torino 1968.

[4] Cfr. S. Medici, La vittoria dei nuovi”briganti”, in “il manifesto”, 28 novembre 2003.

[5] A ben vedere, è una situazione analoga a quella registrata nel corso dei recenti scioperi dei trasporti, in cui i lavoratori hanno dettato il passo ai partiti e ai sindacati confederali. Lo sviluppo di queste azioni, a poca distanza l’una dall’altra, segnala senz’altro l’insufficienza dell’attuale proposta dei rappresentanti istituzionali della sinistra e del mondo del lavoro, che determina una ripresa diffusa dell’azione di base.

[6] Cfr. A. Massari, La lunga notte di Scanzano, in “il manifesto”, 19 novembre 2003.

[7] Cfr. A. Massari, La rabbia di Scanzano verso l’assedio finale, in “il manifesto”, 23 novembre 2003.

[8] S. Scarpino, Il brigantaggio dopo l’unità d’Italia, Fenice 2000, Milano 1993, p. 50.

[i] Ivi, p. 52.

[9] P. Cinanni, Lotte per la terra nel Mezzogiorno 1943-1953, Marsilio, Venezia 1979, p. 65.

[10] R. Firth, I simboli e le mode [1972], Laterza, Bari 1977, p. 324.

[11] Nel testo emendato, le valutazioni tecniche non saranno più attribuite solo alla Sogin ma a una commissione tecnico-scientifica composta da 14 esperti nominati dal governo e dalla conferenza dei presidenti delle regioni che supporterà l’agenzia nucleare. Il gruppo valuterà le eventuali proposte dei rappresentanti delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, per poi designare una rosa di soluzioni tra cui scegliere. Il consenso delle amministrazioni locali non è vincolante.

[12] Cfr. S. Briosi, Il simbolo, La Nuova Italia, Firenze 1998, pp. 7-9.

[13] S. Medici, La vittoria dei nuovi”briganti”, cit.

[14] G. E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, il Mulino, Bologna 1993, p. 11.

[15] Cfr. A. Massari, Scanzano si ferma contro le scorie, in “il manifesto”, 16 novembre 2003.