La riforma del trasporto pubblico locale

Giuseppe Baldassarri

La spinta riformista nel comparto del trasporto pubblico locale ha radici molto profonde nella tradizione normativa del nostro Paese ed è sintomatica di una evoluzione quasi biologica dei fondamenti costituzionali [1] e delle intuizioni programmatiche delle politiche governative.

Questa nuova e moderna impostazione si realizza snellendo la procedura normativa: la delega [2] che il Parlamento consegna al Governo, implica il trasferimento di poteri amministrativi, patrimoniali e di programmazione [3] alle Regioni ampliandone le attribuzioni costituzionali [4] e coinvolgendole direttamente nei processi decisionali.

1. Il trasporto pubblico locale nei documenti di programmazione.

 

Prima di entrare nel merito della evoluzione normativa che ha interessato questo comparto presentiamo una breve sintesi dei riferimenti al settore che sono contenuti nei documenti programmatici prodotti nel nostro Paese.

 

a) Dallo schema Vanoni al Progetto ’80.

 

La necessità di razionalizzare lo sviluppo urbanistico e di organizzare la geometria delle aree urbane in un piano che fosse coerente e armonico con l’incremento della popolazione delle aree metropolitane, portò, già nel primo dopoguerra, ad affrontare il problema della mobilità all’interno del perimetro cittadino: nel 1955, l’allora Ministro delle Finanze Vanoni presentò in Parlamento un progetto, in senso moderno, di ricostruzione dei sistemi infrastrutturali presenti sul territorio, che veniva finanziato con le risorse messe a disposizione dal Piano Marshall, e che conteneva un abbozzo circa la configurazione della potenziale domanda di trasporto delle categorie deboli.

L’esigenza di condurre in modo ordinato il processo di sviluppo economico si consolida agli inizi degli anni ’60: la nota aggiuntiva al Bilancio del 1962 dell’On. Ugo La Malfa costituisce il primo tentativo ufficiale per avviare la programmazione economica nel nostro Paese, seguita pochi anni più tardi, era allora Ministro del Bilancio Pieraccini, dal Piano Quinquennale 1966-1970. Alla fine degli anni ’60, era Ministro del Bilancio Giolitti e Segretario Generale alla Programmazione Economica l’On. Ruffolo, nell’intento d’interpretare i bisogni e le aspirazioni della società italiana nella prospettiva degli anni ’80, il Governo presentò al Parlamento le opzioni relative al Piano Quinquennale 1971-1975: il documento preliminare, ormai noto come Progetto ’80, [5] che descriveva le linee d’indirizzo, i tempi e gli obiettivi per lo sviluppo dell’economia nel nostro Paese, dedicava circa 15 pagine alla formazione dei sistemi metropolitani prevista per gli anni ’80 e altre 10 pagine ai criteri generali per una politica delle comunicazioni che, a fronte di una elevata previsione di crescita della domanda di trasporto sia viaggiatori che merci, sottolineava la necessità di adeguare le infrastrutture di trasporto al fine di garantire i collegamenti :

• internazionali,

• fra sistemi metropolitani (rete primaria),

• interni ai sistemi urbani (rete metropolitana).

Ma, in questo quadro programmatico, ciò che più interessa, è l’ipotesi di assegnare al trasporto su ferro una valenza risolutiva dei problemi di traffico anche nelle aree urbane: «... le comunicazioni all’interno dei sistemi metropolitani si potrebbero basare soprattutto su ferrovie metropolitane veloci, ad alta frequentazione e a elevato grado di automazione...»; e ancora:»... data la funzione prevalente delle ferrovie nel sistema nazionale di lunga e media distanza, occorrerebbe provvedere all’assorbimento ed alla conversione di tutte le linee minori, di importanza locale, nel nuovo sistema di ferrovie metropolitane ad alto livello di servizio. Tale assorbimento dovrebbe rispondere ai requisiti di funzionalità richiesti da un nuovo assetto metropolitano...».

La scelta intuitiva di assegnare alla rotaia una funzione risolutrice nei problemi di traffico delle aree urbane era dunque già sentita alla fine degli anni ’60 e ha, nel tempo, consolidato le argomentazioni e il consenso a suo favore. [6]

 

b) Il quadro di riferimento per il Piano Generale dei Trasporti (1976).

 

«... L’esigenza di realizzare un metodo programmatorio nel settore dei trasporti scaturisce non soltanto da una annosa domanda di orientamento dei fatti economici, ma dalla necessità di dare all’azione della mano pubblica una ordinata coerenza con gli obiettivi più generali di sviluppo in un settore che assorbe risorse finanziarie sempre più rilevanti a tutti i livelli di spesa sia centrali che periferici... Ed è in questa prospettiva, nell’intento di assicurare migliori condizioni di mobilità, che nel piano regionale deve vedersi privilegiato il trasporto pubblico collettivo. Come strumento essenziale soprattutto per la risoluzione dei complessi problemi di pendolarità. Un servizio pubblico davvero efficiente può determinare quell’inversione di tendenza, oggi generalmente invocata, che porti l’utente a servirsi del mezzo pubblico. Solo in tal modo può trovare giustificazione il ruolo privilegiato da assegnare al trasporto pubblico...»: le linee guida insite nella premessa al PGT del 1976 configurano il quadro di riferimento sviluppato da Il Libro Bianco: i trasporti in Italia edito nel 1977, che nel paragrafo dedicato al PGT introduce il concetto del ruolo che le Regioni possono assumere nel raccogliere, organizzare e sviluppare le informazioni quale espressione della realtà e delle aspettative di sviluppo locale e regionale. Del resto l’idea del Governo di coinvolgere gli enti locali nella redazione dei piani regionali rispondeva all’esigenza emersa nel corso della Conferenza sui Trasporti svoltasi a Bologna il 14 e 15 maggio ’76, dove le Regioni sostennero con vigore la propria necessaria presenza in qualunque sede si fossero discussi i problemi legati alle carenze infrastrutturali e organizzative dei servizi di trasporto; e, da qui, la rivendicazione all’elaborazione del PGT.

 

c) Il documento di piano del 1986.

 

Il 10 aprile 1986 viene approvato il PGT [7] così come previsto dalla legge 15 giugno 1984, n°245, nel quale, però, non vengono fatti significativi passi avanti nello sviluppo dei programmi di riorganizzazione del trasporto pubblico d’interesse locale e regionale: il processo d’integrazione ferro/gomma sia per i servizi regionali extraurbani, sia per quelli operanti all’interno delle aree metropolitane rimane, dopo l’intuitivo incipit del Progetto ’80, in una fase statica [8], che vedrà una svolta determinante solo con la promulgazione della legge Bassanini nel marzo del 1997.

 

d) Documento di aggiornamento del PGT (1991).

 

Dalla lettura del documento di aggiornamento del Pgt, aggiornamento effettuato nel 1991, nella parte relativa al trasporto urbano emerge chiaro che si è dovuti giungere agli inizi degli anni novanta per vedere maturata l’idea della priorità urbana per il sistema dei trasporti del nostro Paese: è quanto ripeteva in modo quasi ossessivo il compianto prof. Mario del Viscovo ed è quanto ha recepito in modo ufficiale il Ministero dei Trasporti rendendola esplicita in questo documento di aggiornamento:

...«lo sviluppo dell’economia dei servizi caratteristico della società post-industriale ha determinato un aumento della domanda di mobilità nell’urbano più che proporzionale rispetto a quello già fortissimo che circa quattro anni or sono poteva prevedersi. La situazione è giunta ad uno stadio che non sembra eccessivo definire drammatico. Il problema della mobilità a livello locale è diventato primario non solo nelle grandi aggregazioni metropolitane, ma via via nei centri minori, ...omissis... non va infatti dimenticato che nelle medie e nelle grandi concentrazioni urbane è ubicato il 55% della popolazione, ha sede il 70% dell’attività produttiva, si svolge l’80% dei processi di movimentazione delle merci. Da qui la rilevanza ...che la cosiddetta questione urbana, finora relegata ad un rango meramente localistico, è venuta ad assumere a livello nazionale.»

Accanto alla centralità del problema dei sistemi metropolitani il documento di sintesi segnala una opportunità per gli Enti Locali di risolvere l’emergenza mobilità urbana facendo perno sulle infrastrutture ferroviarie. Infatti il documento di sintesi a pag. 46 così recita:

...» tuttavia esistono anche all’interno delle aree centrali urbane infrastrutture, soprattutto ferroviarie, che adottando nuovi modelli funzionali di esercizio, possono contribuire allo smaltimento dei flussi di traffico. In tutti e due i livelli considerati il problema è anzitutto infrastrutturale: il contenimento (ma sarebbe più opportuno parlare di drastica riduzione) del trasporto veicolare privato si può perseguire potenziando il trasporto pubblico. E questo è ottenibile soltanto creando reti di trasporto separate e indipendenti, condizione necessaria per raggiungere velocità commerciali accettabili dall’utenza».

 

e) La Conferenza Nazionale dei Trasporti del 1998 [9].

 

Il tema della mobilità urbana e extraurbana, affrontato nel corso dei lavori della conferenza, a cui hanno partecipato i Ministri dei LL.PP., dell’Ambiente e dei Trasporti, ha avuto il merito di aprire il capitolo “strategie” sulla riforma del TPL; riforma che è foriera di una volontà politica e istituzionale assolutamente innovativa. Su tale riforma il Ministro si è soffermato, conscio della portata storica del provvedimento, che chiude la prima parte dell’evoluzione programmatica che la materia dei trasporti d’interesse locale e regionale ha avuto nel nostro Paese, e che contiene una serie di precisi e irrinunciabili appuntamenti che coinvolgono direttamente o indirettamente i cittadini, gli operatori economici e le rappresentanze politiche e istituzionali.-----

 

 

2. L’evoluzione nella normativa del trasporto pubblico locale.  [10]

 

 

a) Dal testo unico del 1912 all’avvento delle Regioni.

 

In merito alla ripartizione delle competenze in materia di T.P.L. tra Stato, Regioni ed Ente Locali, notevole rilievo ha assunto la corte costituzionale (art. 117/118).

L’art. 117 della Costituzione attribuisce alle Regioni il potere di legiferare in dettaglio per “le tranvie e linee automobilistiche di interesse regionale” e “navigazione e porti lacuali” adottando il criterio dell’interesse regionale.

Di contro con l’art. 118, che assegna alle Regioni le competenze amministrative nelle stesse materie nelle quali esercitano le competenze legislative, lo Stato può con legge delegare alla Regione l’esercizio di altre funzioni amministrative. Situazione questa che si è concretizzata pienamente soltanto nelle Regioni a Statuto speciale, le quali, in tema di trasporto locale, hanno svolto le proprie funzioni non solo amministrative ma anche legislative.

A seguito della Legge delega 11 marzo 1953 n° 150 che attribuisce funzioni statali di interesse esclusivamente locale a Provincie e Comuni viene emanato il D.P.R. 28 giugno 1955 n° 771 che decentra competenze in materia di filovie, funivie ed autolinee ai comuni e per le funivie pure alla Provincie.

La competenza a concedere autoservizi pubblici di linea era così suddivisa:

• al Sindaco del Comune, su conforme delibera del Consiglio Comunale per le autolinee che si svolgevano interamente all’interno del territorio comunale;

• all’Ufficio provinciale della MCTC (ex Ispettorato Compartimentale) nel caso di autolinee colleganti:
- Comuni di una stessa provincia
- Comuni con il proprio scalo ferroviario o con un aeroporto vicino anche se situati in provincie diverse.

• al Ministero dei Trasporti, DG.MCTC, negli altri casi.

Il decentramento sopra descritto portava con sè il coordinamento delle esigenze pubbliche da soddisfare sia con le nuove autolinee non più concesse dallo Stato(e per esso dal Ministero dei Trasporti - Direzione Generale MCTC), sia con i servizi ad impianti fissi rimasti nella competenza dello Stato per la gestione e/o per la concessione.

Le possibili interferenze tra i due sistemi di trasporto viaggiatori sono state superate con l’art. 46 del DPR 771/55 che così recita: “quando il percorso di una linea da concedersi dal Comune o dall’Ufficio Provinciale della MCTC interferisce con servizi pubblici di trasporto ad impianti fissi, gestiti o concessi dallo Stato, l’Istituzione deve ottenere il preventivo assenso del Ministero dei Trasporti” .

 

b) Dal 1970 (istituzione delle Regioni) alla legge quadro 151/81.

 

La sopra richiamata ripartizione di competenze si è protratta fino all’emanazione del D.P.R. n° 5 del 14 gennaio 1972 sul “trasferimento alle Regioni a Statuto ordinario delle funzioni amministrative in materia di tranvie e linee automobilistiche di interesse regionale e di navigazione e porti lacuali e del relativo personale ed uffici”.

In modo particolare il trasferimento delle funzioni amministrative si è verificato in materia di tranvie e di linee automobilistiche di interesse regionale, previa estensione, per le prime, della nozione di tranvia alle linee metropolitane, ai servizi ferroviari, alle funicolari, ai servizi ferroviari di ogni tipo e, per le seconde, del trasferimento delle linee sostitutive di linee tranviarie e ferroviarie in concessione e delle linee delle ferrovie dello Stato definitivamente soppresse a norma del RDL 21 dicembre 1931 n° 1575 (art 1), nonchè in materia di navigazione lacuale, fluviale, lagunare e sui canali navigabili ed idrovie e “di porti di navigazione interna” (art. 4 e 5).

Inoltre l’art. 8 del citato DPR ha confermato alle Province, ai Comuni ed agli enti locali le funzioni amministrative di interesse esclusivamente locale (autolinee comprese) in attesa di provvedere con legge dello Stato al riordino ed alla distribuzione delle funzioni amministrative fra gli enti locali. E’ stata esplicitata, altresì, la funzione di ente concedente del Comune, della Regione e del Ministero a seconda del proprio ambito territoriale.

Negli anni 1972 - 1974 la maggior parte delle Regioni, con proprie leggi, hanno regolato sia l’assunzione delle funzioni trasferite sia una serie di provvedimenti per l’erogazione di incentivi e sussidi alle imprese di trasporto.

In attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975 n° 382, fu emanato il D.P.R. 24 luglio 1977 n° 616 [11], di interesse esclusivo delle regioni a statuto ordinario, secondo il quale il potere concessionale di una Regione, oltre ovviamente alle linee ordinarie che si svolgono all’interno del territorio regionale, si estende a quelle linee che si svolgono in una regione finitima purchè la parte prevalente del percorso si svolga sul territorio della prima.

L’art. 86, del DPR 616/77, delega alle Regioni l’esercizio delle funzioni amministrative concernenti le linee ferroviarie in concessione ed in Gestione Commissariale Governativa, le linee ferroviarie secondarie gestite dall’azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato dichiarate non più utili all’integrazione della rete primaria nazionale. La gestione è da effettuarsi con l’assenso delle Regioni interessate previo il risanamento tecnico ed economico delle suddette linee ferroviarie da parte dello Stato. Resta allo Stato, con la partecipazione delle Regioni, il controllo della sicurezza degli impianti fissi e dei veicoli usati per i trasporti di interesse regionale.

E’ da sottolineare come il legislatore abbia delegato e non trasferito alle Regioni le funzioni amministrative spettanti allo Stato in materia di Ferrovie Concesse ai sensi di quanto disposto dall’art. 118 della Costituzione. Infatti anche l’art. 2 del D.P.R. 5/72 stabiliva che potevano essere trasferite con legge dello Stato alle Regioni le linee ferroviarie in concessione ed in Gestione Commissariale Governativa nonchè le linee secondarie statali che a giudizio del Ministero non fossero più giudicate utili all’integrazione della rete primaria nazionale. Tale trasferimento, previsto con la Legge 662/96 e con il decreto legislativo 422/97 (in attuazione della legge 59/97-art 4 comma 4) si concretizzerà nei tempi previsti dalla nuova normativa (orizzonte 2000).

Come in precedenza evidenziato il DPR 5/72 offre spunti di notevole rilievo quando tratta della competenza delle Regioni in materia ferroviaria.

Se per altre modalità di trasporto (autolinee) si poteva ricorrere all’art. 117 della Costituzione grazie ad interpretazioni evolute della norma medesima (aggiungendo alla competenza regionale le filovie, le funivie e le metropolitane) nel DPR n° 5 del 1972 è prevalsa l’esigenza funzionale di dare alle Regioni la possibilità di esercitare una vasta ed organica azione in tema di trasporto, tale da dominare e governare tutti i servizi interessati , compresi i servizi su ferro (rete FS e ferrovie in concessione). Questo ha permesso altresì alle Regioni di inserire la programmazione dei trasporti nella politica di assetto del territorio.

L’ innovazione di maggior rilievo della citata norma riguarda in modo particolare la possibilità di intervento delle Regioni sui servizi della rete F.S. in un piano di collegamenti a carattere regionale.

Tale circostanza era in contrasto con la filosofia del servizio gestito dalle FS la cui struttura tecnica ed organizzativa non poteva consentire senza preoccupazioni una interferenza di tante autorità regionali; tutto ciò anche perchè la gestione dell’intero servizio ferroviario era pensata ed organizzata, fin dalla istituzione dell’azienda autonoma (1905) , in un’ottica di carattere nazionale.

La normativa fin qui esaminata, sviluppatasi in epoche diverse, è priva di organicità e sistematicità, tanto da far nascere l’esigenza di un Testo Unico per i trasporti. La separazione introdotta dal D.P.R. 5/72 tra vigilanza sulla regolarità dell’esercizio trasferita alla competenza della Regione e quella sulla sicurezza rimasta allo Stato, distinzione non corretta neppure dal D.P.R. 616/77, è un esempio della poca coerenza nell’impianto normativo in vigore fino alla fine degli anni ‘70.

Tutto ciò ha prodotto una disomogeneità legislativa a livello regionale che ha avuto riflessi non marginali nella stessa applicazione della Legge 151/81.

Sembra importante segnalare alcuni provvedimenti legislativi assunti dagli altri paesi della CEE in questa stessa fase storica , norme che ancora oggi producono risultati positivi nel comparto del trasporto pubblico locale.-----

In Germania a metà degli anni ‘60 si è aperto un dibattito sui trasporti urbani che ha portato alla elaborazione di due leggi fondamentali: una legge per il finanziamento dei trasporti pubblici comunali attraverso un’apposita tassa sugli oli minerali ed una seconda legge per l’istituzione e la disciplina dei consorzi pubblici di trasporto.

In Gran Bretagna il “Transport act” del 1968 permette di far fronte agli investimenti necessari per le infrastrutture di trasporto.

In Francia, con legge del giugno 1972, viene istituito un contributo a favore dei servizi di trasporto a carico delle imprese produttive operanti nelle città con oltre 100.000 abitanti; in questo modo le comunità locali acquisiscono risorse per finanziare sia gli investimenti sia le spese correnti del settore. Occorre precisare che con la “Loi d’orientation des Transports Interieurs” tale contributo viene esteso alle città con più di 30000 abitanti.

Tornando in Italia il quadro che appare alla fine degli anni ‘70 è quello di un ciclo vizioso: tariffe basse, servizio scadente, scarsi investimenti, deficit di gestione crescenti, diminuzione di domanda, aumento del traffico privato, aumento della congestione, decadimento della qualità del servizio pubblico, tariffe decrescenti in termini reali. In questo contesto viene approvata la Legge 151/81 “ Legge quadro per l’orientamento, la ristrutturazione ed il potenziamento dei trasporti pubblici locali. Istituzione del Fondo Nazionale per il ripiano dei disavanzi di esercizio e per gli investimenti nel settore”.

 

c) Dalla legge quadro 151/81 alla riforma Bassanini-Burlando.

 

Agli inizi degli anni 1980 tutti i paesi europei hanno iniziato una fase di totale rinnovamento del contesto istituzionale ed organizzativo del trasporto pubblico locale.

In Italia tale momento è coinciso con la legge quadro nº 151 del 10 aprile 1981, legge con cui il legislatore intendeva finalmente regolare la materia del trasporto pubblico locale in maniera completa ed organica, prevedendo competenze, responsabilità, procedure nonchè modalità ed entità dei finanziamenti statali per l’esercizio e per gli investimenti. Obiettivo centrale era comunque il rilancio del trasporto pubblico attraverso il risanamento delle aziende ed il superamento della stagione dei deficit crescenti e dei ripiani a “piè di lista”.

La necessità di un cambiamento si è imposta per far fronte alle crescenti difficoltà da parte degli enti locali, proprietari delle aziende di trasporto pubblico locale, di coprire i deficit di esercizio accumulati a causa degli elevati costi di gestione. La causa di questo grave degrado è da ricercarsi nel processo di pubblicizzazione dei servizi iniziato alla metà degli anni ‘60, quando alle imprese di pubblica utilità veniva richiesto di farsi carico di responsabilità sociali (non ultimi problemi occupazionali che si determinarono a seguito di esigenze di ristrutturazione del settore industriale).

Il risultato di queste scelte è facile desumerlo dai consuntivi: mentre agli inizi degli anni ‘60 i ricavi delle imprese di trasporto pubblico coprivano l’80% dei costi di gestione, nel 1982 la percentuale di copertura dei costi con i ricavi del traffico era scesa a poco più del 20%. Il deficit era comunque ripianato totalmente e non esisteva alcun incentivo all’efficentamento della gestione poiché la missione dell’impresa era quella di assicurare comunque il servizio.

E’ a questa situazione che con la legge 151/81 il legislatore voleva porre riparo. Senza voler passare in rassegna ciascun articolo ci soffermiamo un attimo sull’art. 6 che è dedicato alla erogazione dei contributi di esercizio, secondo principi e procedure stabiliti con legge regionale; contributi assegnati “con l’obiettivo di conseguire l’equilibrio economico dei bilanci” delleaziende di trasporto.

Per conseguire tale equlibriola legge introducevaquattro parametriche, a giudizio della maggior parte degli esperti, apparivano essere una delle parti più innovative della legge medesima:

il costo economico standardizzato;

le tariffe minime;

i ricavi del traffico presunti ;

la percentuale minima di copertura dei costi effettivi del servizio con i ricavi.

 

I limiti di questa legge, che pur innovava profondamente e regolava una materia che fino a quel momento era priva di un preciso e coordinato riferimento normativo, apparvero subito evidenti a studiosi ed operatori del settore; è bene precisare comunque che buona parte del parziale fallimento di questa riforma sia imputabile alla sua incompleta e non puntuale applicazione.

l’utilizzo della spesa storica per la ripartizione del Fondo Nazionale Trasporti (FNT) fra le Regioni

Il tentativo effettuato con le leggi finanziarie del 1983 e del 1984 di riservare un 10% del FNT per premiare quelle imprese che avessero conseguito un miglioramento nella produttività fallì perchè fu facile da parte di alcuni operatoridimostraredimostrareche in questo modo si rischiava di premiare le inefficienze del passato. Nel 1985 si torna alla valutazione del 1983, (spesa storica) e fra il 1986 ed il 1992 la ripartizione rimane la stessa del 1985.

• L’eterogeneità delle soluzioni individuate dalle Regioni nella determinazione del costo standard

 

La legge nell’introdurre questo criterio intendeva riferire lo standard di costo alla gestione efficiente dei singoli servizi pur tenendo conto delle condizioni ambientali e della qualità del servizio offerto. Il costo standard non poteva dunque essere calcolato sulle medie dei costi storici ma andava interpretato come modello di efficienza cui raffrontare i costi consuntivi reali.

Le differenziazioni del costo standard, riscontrate nelle diverse norme regionali di attuazione della 151/81, erano dovute essenzialmente alla necessità di tener conto delle condizioni ambientali e della qualità del servizio.

Si è avvertita così, soprattutto da parte degli operatori del settore, la necessità di avere indicazioni a livello nazionale sui criteri cui le Regioni avrebbero dovuto uniformarsi per la determinazione dei costi standard.

Il DL n° 77 / 89, convertito nella legge 160/89, con l’art. 1 comma 2 dava una risposta puntuale a questa esigenza : “...le Regioni determinano la ripartizione dei contributi statali loro assegnati sulla base di una metodologia e di criteri generali stabiliti analiticamente con decreto del Ministro dei trasporti......I criteri generali devono tener conto della domanda e dell’offerta sulle singole linee misurate rispettivamente in termini di passeggeri per km e vetture per km. E con il comma 3 del medesimo articolo la norma così precisa: “Per l’anno 1989 il Ministro dei trasporti determina ....il rapporto minimo di copertura del costo standardizzato rispetto ai ricavi del traffico per le varie condizioni ambientali e socio-economiche omogenee, nonchè il coefficiente minimo di utilizzazione per la istituzione o il mantenimento delle linee di trasporto pubblico locale sulla base delle elaborazioni predisposte per il conto nazionale dei trasporti di intesa con gli assessorati regionali ai trasporti”. Ma il decreto non è mai stato emanato e la norma è rimasta inapplicata.

 

• Commistione di ruoli fra ente di governo e aziende di gestione

Un fattore determinante del mancato recupero di efficienza nelle aziende del TPL e quindi del fallimento della 151/81 è certamente da riscontrarsi nella mancanza di una separazione di ruoli tra ente di governo, cui spetta la programmazione ed il controllo, ed azienda di gestione, il cui compito è quello di produrre servizi in condizioni di efficienza.

Per contro si è determinata una situazione nella quale le aziende di trasporto hanno di fatto assunto tra i loro compiti, specialmente nelle grandi città, quello di definire la politica dei trasporti; questo è potuto accadere proprio perchè l’Ente Locale esercitava un diretto controllo sulle aziende.

Si tratta di individuare forme di gestione e strumenti più adatti a garantire agli Enti Locali la programmazione dei servizi di TPL a partire dalle risorse economico-sociali del proprio territorio, e non basandosi sulle risorse delle aziende controllate; alle aziende per contro debbono essere garantite le condizioni per una gestione efficiente nella certezza dei mezzi finanziari e nella disponibilità di un sistema infrastrutturale in grado di sopportare la quantità di servizi richiesta dallo stesso ente pubblico.

Si apre su questi temi un ampio dibattito sulla “privatizzazione” delle “public utilities” che, per quanto concerne il TPL, sfocerà nella legge Bassanini e nel decreto legilativo 422/97 (decreto Burlando).

Lo strumento con cui gli enti locali e le imprese cominciano a misurarsi per efficientare il sistema e responsabilizzare i diversi attori è il contratto di servizio. Si tratta peraltro di uno strumento previsto dalla regolamentazione comunitaria ( Reg. CEE 1893/91) che lo definisce come “un contratto concluso tra le autorità competenti di uno Stato membro e un’impresa di trasporto allo scopo di fornire alla collettività servizi di trasporto sufficienti”. -----

A termini di regolamento il contratto di servizio pubblico deve contenere i seguenti elementi:

le caratteristiche dei servizi offerti, segnatamente le norme di continuità, regolarità, capacità e qualità;

il prezzo delle prestazioni che formano oggetto del contratto, che si aggiunge alle entrate tariffarie o comprende dette entrate, nonchè le modalità delle relazioni finanziarie tre le due parti;

periodo di validità del contratto;

norme relative a clausole addizionali o ad eventuali modifiche;

le sanzioni in caso di mancata osservanza del contratto.

Prima ancora della riforma (legge Bassanini e decreto Burlando del 1997) alcuni Enti Locali hanno stipulato contratti di servizio o accordi di programma con le aziende di trasporto: ricordiamo le aziende consortili dei capoluoghi dell’Emilia Romagna che hanno stipulato accordi di programma con i rispettivi Comuni, con la Provincia e con la Regione; invece ATAC e COTRAL hanno stipulato contratti di servizio rispettivamente con il comune di Roma e la regione Lazio. Da ricordare inoltre una legge regionale approvata dalla Lombardia nel dicembre 1994 che prevede il passaggio dal regime delle concessioni a quello della gara pubblica e dei contratti di servizio dove viene individuato preventivamente il limite massimo della contribuzione pubblica.

 

• Mancato coordinamento ed integrazione dei servizi di trasporto locale su gomma con i servizi ferroviari

L’art. 1 della legge 151/81, legge della quale abbiamo passato in rassegna i diversi limiti su cui si è aperto un dibattito che ha permesso di giungere alla riforma Bassanini-Burlando, nell’escludere dalle attività di trasporto da regolamentare quelle di competenza dello Stato (ferrovie delle Stato e ferrovie in concessione) già presentava in sè una limitazione che si rivelerà determinante nella redazione dei piani regionali dei trasporti per la mancanza di un tassello fondamentale fra le competenze delle Regioni nel campo dei servizi di trasporto locale.

 

d) La legge 59/97 e il decreto legislativo 422/97.

 

Abbiamo visto, nel riproporre l’evoluzione storica nella normativa del trasporto pubblico locale, quanto questo settore sia stato oggetto di particolari attenzioni sia nelle sedi istituzionali nazionali e locali, sia nelle università e negli uffici studi delle imprese che operano od hanno interessi in questo comparto di estrema importanza per l’intero sistema economico del nostro Paese.

Se è vero che rispetto alla liberalizzazione del TPL introdotta negli altri Paesi Europei, il trasporto pubblico in Italia rimane ancora estraneo alla graduale apertura verso la concorrenza ed il mercato, è pur vero che il conferimento alle Regioni, ed agli altri Enti Locali territoriali, di funzioni omnicomprensive in materia di servizi pubblici di trasporto, apre uno scenario completamente innovativo nella produzione e gestione di tali servizi. Tale scenario permette di introdurre parametri di mercato che possono favorire “performance” di confronto con gli standard qualitativi minimi del mercato, il superamento degli assetti monopolistici nella gestione dei servizi di trasporto urbano ed extraurbano e l’applicazione di regole di concorrenzialità nell’affidamento dei servizi.

La legge di riforma dispone che il Governo provveda a:

delegare alle regioni i compiti di programmazione ed amministrazione in materia di servizi pubblici di trasporto di interesse regionale e locale;

attribuire alle regioni le relative risorse.

L’attuazione delle deleghe e l’attribuzione delle relative risorse deve essere preceduta da appositi accordi di programma tra il Ministero dei Trasporti e della Navigazione e le Regioni, accordi che devono perfezionarsi entro il 30 giugno 1999.

Inoltre, la Regione e gli altri Enti Locali, nell’ambito delle rispettive competenze, hanno facoltà di regolare l’esercizio dei servizi con qualsiasi modalità effettuati ed in qualsiasi forma affidati, sia in concessione che nei modi di cui agli artt. 22 e 25 della legge 142/90, mediante contratti di servizio pubblico, nel rispetto degli artt. 2 e 3 dei Regg. CEE 1191/69 e 1893/91. Tali servizi devono rispondere ai caratteri di certezza finanziaria e copertura di bilancio, al fine di assicurare entro il 1° gennaio 2000 il conseguimento di un rapporto di almeno 0,35 tra ricavi da traffico e costi operativi, al netto dei costi di infrastruttura, previa applicazione della Direttiva 440/91 per trasporti ferroviari di interesse locale e regionale.

L’assetto delineato dalla legge 59/97 si ispira ai principi generali di decentramento contenuti nella legge stessa, in base ai quali alle Regioni spetta la legislazione, la programmazione e quei compiti minimi di gestione che non possono essere esercitati dagli Enti Locali.

Con le nuove attribuzioni assegnate dalla legge 59/97 alle Regioni queste avranno la possibilità di effettuare una programmazione integrata di tutti i modi di trasporto a supporto della quale dovrà essere previsto un unico fondo di intervento e non più dunque risorse differenziate per i vari modi di trasporto.

Una significativa novità è costituita dal decentramento del trasporto ferroviario che aveva fino ad ora resistito alle istanze già presenti nel DPR 616/77 e che verosimilmente allo stato attuale è reso più realizzabile proprio grazie alla gestione privatistica delle Ferrovie dello Stato ed alla separazione tra proprietà dell’infrastruttura e gestione dei servizi.

Nella sostanza cambierà il soggetto “acquirente” del servizio di trasporto su rotaia: non più lo Stato ma le Regioni; ciò dovrebbe eliminare la rovinosa concorrenza tra trasporto ferroviario e trasporto su gomma per lasciare il posto alla concorrenza tra gestori di servizi integrati.

Precedentemente alla legge Bassanini anche il collegato alla legge finanziaria 1996 (28 dicembre 1995 n° 549) conteneva la delega al Governo per il trasferimento alle Regioni delle funzioni in materia di trasporti di interesse regionale e locale, con qualsiasi modalità effettuati, compresi i servizi ferroviari in concessione e gestione commissariale governativa nonché i servizi svolti da F.S. S.p.A.. Articolato ripreso “in toto” dalla Bassanini.

Invece con la legge collegata alla finanziaria 1997 (23 dicembre 1996 n° 662) è stata affidata alle Ferrovie dello Stato S.p.A. la ristrutturazione delle aziende ferroviarie in gestione commissariale governativa con l’obiettivo del risanamento delle stesse da attuarsi entro il prossimo triennio, prima di consegnarle alla responsabilità delle Regioni anche nella proprietà delle linee e degli impianti.

A decorrere dal 1° gennaio 2000 le Regioni potranno affidare in concessione le gestioni ferroviarie ristrutturate a società già esistenti o che verranno costituite per la gestione dei servizi ferroviari di interesse regionale e locale.

Queste società avranno accesso per i loro servizi alla rete in concessione alle Ferrovie dello Stato S.p.A. con modalità che verranno stabilite in applicazione alla direttiva CEE 91/440.

Verranno definite entro il 30 giugno 1999, mediante accordi di programma tra il Ministero dei Trasporti e della Navigazione e le Regioni interessate, le modalità attraverso le quali le Regioni assumeranno il ruolo di ente concedente nei confronti delle società per i servizi ferroviari di interesse regionale e locale.

Le leggi sopra esaminate definiscono il percorso verso la liberalizzazione del mercato del trasporto nel suo complesso e con qualsiasi modalità (ferroviaria, automobilistica) superando così la normativa comunitaria (direttiva 91/440/CEE) che escludeva i servizi a carattere locale dal suo campo di applicazione.

Gli accordi di programma ed i contratti di servizio da realizzarsi tra ente pubblico e vettore favoriranno l’introduzione ed, in alcuni casi, il rafforzamento delle regole della concorrenza nel settore dei trasporti, che si misurerà con situazioni di mercato molto diverse relativamente ai regimi di esercizio dell’attività, alle caratteristiche strutturali degli operatori (dimensioni di impresa, struttura dei costi...), alle modalità tecniche e tecnologiche ed alle caratteristiche della domanda.

Tutto ciò influenzerà le modalità con cui verranno regolate sia la gestione del servizio sia l’erogazione dello stesso ed, in modo particolare, diventeranno determinanti le condizioni generali che lo Stato e successivamente gli Enti Locali eserciteranno sulle società di gestione in merito al rispetto dei criteri e degli obblighi stabiliti (concessione/ autorizzazione) e delle condizioni di prezzo. -----

E’ del tutto evidente che la “ratio” della riforma del trasporto pubblico locale si basa principalmente su tre aspetti generali, ancora meglio evidenziati nel decreto legislativo 19 novembre 1997 n° 422 attuativo dell’art. 4 della legge 59/97:

- trasferimento delle competenze di settore dal Governo agli Enti Locali (principio del “chi ordina paga”);

- separazione delle funzioni di indirizzo, programmazione e controllo da quelle di gestione (principio dell’autonomia imprenditoriale);

- trasformazione di un mercato di servizi caratterizzato da una offerta di tipo monopolistico, con una forte presenza del pubblico nella produzione degli stessi, in un mercato concorrenziale ove la gestione possa essere affidata anche ad imprese private, meglio a capitale privato (principio della competitività).

 

e) L’attuazione della riforma Bassanini-Burlando

 

Certamente i recenti provvedimenti sul TPL che abbiamo brevemente commentato impongono alle Regioni di pianificare, in presenza di risorse definite, i servizi che si intendono offrire alla collettività.

Tre sono gli elementi che caratterizzano la riforma su cui, concludendo questa parte sull’evoluzione normativa, appare doveroso attirare l’attenzione:

E’ mutato il quadro che disciplina il trasferimento delle risorse finanziarie da parte dello Stato alle Regioni e, conseguentemente ai gestori dei servizi pubblici in generale e dei servizi di trasporto in particolare. I due schemi che seguono sottolineano questo cambiamento a seguito della attuazione della riforma indicando la situazione dei finanziamenti prima e dopo la riforma Bassanini (vedi Schema 1 e Schema 2).

 

E’ stato introdotto un rapporto contrattuale (contratto di servizio) fra imprese fornitrici di servizi ed ente pubblico committente del servizio medesimo.(terzietà dell’impresa rispetto all’ente pubblico).

In questo senso la legge recepisce la normativa comunitaria (Reg. CEE 1191/69 e 1893/91), che stabilisce un generale divieto agli Stati di mantenere o imporre nuovi obblighi di servizio pubblico proprio a salvaguardia della autonomia delle imprese che debbono operare in un contesto di trasparenza di costi e di finanziamenti, ove concorrenza e impresa pubblica non sono incompatibili purchè i servizi siano ben gestiti (efficienza ed efficacia nella gestione).

E’ previsto che le Regioni assicurino un livello minimo di servizi che a norma del DL 422/97 le regioni medesime dovranno individuare in modo “qualitativamente e quantitativamente sufficienti a soddisfare la domanda di mobilità”

Questo permetterà di eliminare quelle duplicazioni di servizi di cui ha sofferto l’applicazione della precedente riforma (legge 151/81 e successive modificazioni) a causa della dispersione dei finanziamenti fra Stato ed enti locali; anomalia superata proprio con l’attuale normativa.


[1] L’articolo 16 della Costituzione sancendo che «Ogni cittadino può circolare ...liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale...», salvo deroga imputabile a motivi di sanità e sicurezza, configura il diritto di mobilità, che se pur generico, pone a carico dello Stato l’onere di costituire le condizioni di diritto e di fatto ad esso conseguenti.

[2] Vd. art. 4 co. 4 della legge 59/97, (nota come legge Bassanini).

[3] Vd. art. 6 dlgs 422/97, (noto come decreto Burlando).

[4] L’articolo 5 della Costituzione sancisce che: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; ampia nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento».

[5] Nel documento è contenuta, in una prospettiva fortemente moderna, una positiva valutazione del progetto d’integrazione europea, che si concretizza nell’adesione al Trattato di Roma del 1957.

[6] Questo tipo di impostazione è comune alla quasi totalità delle realtà metropolitane, sia dei Paesi occidentali, che di quelli in via di sviluppo; in via esemplificativa segnaliamo un interessante articolo apparso su Le Monde Diplomatique del dicembre 1997 dal titolo La ruineuse maladie du tout-routier formula che evidenzia come il c.d. tutto strada non possa più essere considerato una soluzione ai problemi di traffico.

[7] Vd Suppl. Ord. G.U. 15 maggio 1984, n°111.

[8] Vd. i §§ 52 e 54, rispettivamente I provvedimenti nel settore dei trasporti locali e I provvedimenti prioritari concernenti le aree urbane (op. cit.).

[9] Svoltasi a Roma il 7 e l’8 luglio 1998.

[10] Questo paragrafo è stato scritto a partire dalla tesi di specializzazione in economia e politica dei trasporti, dell’Università “La Sapienza” di Roma, discussa dall’ing. Mauro Fagioli, direttore di esercizio della Ferrovia Centrale Umbra.

[11] Vd. supp. Ord. G:U: 29/08/77 nà 234 in attuazioe della delega di cui all’art. 1 della legge 22/07/ 75 n° 382 in materia di trasferimenti alle Regioni.