Ancora una riforma delle pensioni tra crisi fiscale e attacco al salario

Vladimiro Giacché

1. La riforma delle pensioni: a cosa NON serve

Il Governo Berlusconi ha lanciato l’assalto definitivo alla previdenza pubblica. È un attacco che deve essere contrastato e battuto “senza se e senza ma”. Per farlo, però, bisogna avere le idee chiare innanzitutto su un punto: la riforma della previdenza non è per nulla necessaria, come hanno ben evidenziato R.Martufi e L. Vasapollo nel loro “Le pensioni a fondo” (Mediaprint ediz., Roma, 2000), che costituisce un testo importante di riferimento anche per le osservazioni fatte in questo articolo.

O meglio: non è necessaria per nessuno dei motivi che governo, Confindustria ed opinionisti al seguito, continuano a riproporre.

Infatti:

a) Non è vero che la spesa previdenziale è insostenibile

Se l’INPS oggi è in passivo (peraltro non drammatico) lo si deve a cause ben diverse dall’”insostenibilità” della spesa previdenziale. Storicamente, il sistema previdenziale pubblico italiano è infatti stato caricato di oneri impropri, a cominciare dalle spese per l’assistenza. L’assistenza (pensioni sociali, di invalidità, ecc.) dovrebbe gravare direttamente sulla fiscalità generale. Il fatto che tali spese gravino invece sull’INPS non soltanto costituisce una grave ingiustizia (in questo modo, infatti, i percettori di redditi da capitale semplicemente non contribuiscono a questo tipo di spese sociali), ma contribuisce a falsare i dati reali sull’equilibrio dei conti dell’INPS.

Ma c’è di più. L’INPS è stata caricata di ulteriori oneri impropri ancora di recente, e precisamente con la legge finanziaria dello scorso anno, in cui fu inserita la confluenza dell’INPDAI nell’INPS. Ora, l’INPDAI (Istituto previdenziale dei dirigenti industriali), a differenza dell’INPS, all’epoca era in rosso (il buco era stato nel 2001 di 772 milioni di euro; nel 2002 di 900, e nel 2003 avrebbe raggiunto i 1.200 milioni di euro di passivo). Questo perchè già allora 83 mila dirigenti in attività pagavano le pensioni di 90 mila dirigenti a riposo (mentre per l’INPS il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati è di 1,3). [1] Tale squilibrio è aggravato dal fatto che si trattava (e si tratta) di pensioni elevate: 38 mila euro in media all’anno.

L’effetto concreto della confluenza dell’INPDAI nell’INPS è stato quello di mandare in rosso i conti dell’INPS. [2] Morale della favola: lo stesso Tremonti che oggi propone la controriforma delle pensioni per “risolvere la crisi dell’INPS”, un anno fa questa crisi l’ha creata!

b) Non è vero che la spesa previdenziale diventerà insostenibile nel 2030

La spesa previdenziale in rapporto al prodotto interno lordo italiano sarà nel 2030 (l’anno in cui sarà più elevata) pari al 15,7%. È una percentuale inferiore a quella di Grecia, Francia, Austria, sostanzialmente pari a quella della Germania e di poco inferiore a quella di Danimarca e Finlandia. [3] Si tratta di una percentuale tutt’altro che “insostenibile”, in presenza di una politica fiscale adeguata. Tra l’altro, un sondaggio recente (ultimamente i sondaggi danno qualche grattacapo al Cavaliere...) ha evidenziato che una larga maggioranza della popolazione sarebbe disponibile a tollerare un maggiore prelievo fiscale se questo consentisse di erogare pensioni dignitose.

c) Non è vero che l’allungamento delle aspettative di vita e la denatalità mettono in crisi il sistema pensionistico

Questo pseudoragionamento, pur essendo molto diffuso, è completamente sbagliato in termini economici: infatti, siccome la produttività del lavoro cresce in media dell’1-2% all’anno, col passare del tempo sarà perfettamente possibile sostenere un numero maggiore di pensionati da parte di chi lavora. A patto, ovviamente, che il maggiore valore aggiunto non finisca tutto ai profitti. [4]

Non solo. Per quanto riguarda in particolare il “problema delle culle vuote”, abbiamo a che fare con un argomento tanto assurdo da risultare ridicolo.

In primo luogo, le “culle piene” significano in primo luogo risorse assorbite: e quindi le culle vuote rendono disponibili risorse per altri impieghi, tra cui il mantenimento degli anziani. Come ha osservato di recente Giovanni Mazzetti, “se pensiamo che intorno al 2050 avremo in Italia circa 5 milioni in meno di persone con età compresa tra i 0-25 anni, rispetto a oggi, e che ci saranno circa 6 milioni di ultrassessantacinquenni in più, è evidente che non c’è alcun peggioramento delle forme di dipendenza”.

In secondo luogo, per pagare le pensioni a qualcuno non è sufficiente essere nati, ma bisogna, una volta arrivati in età da lavoro, riuscire effettivamente a lavorare regolarmente. Da questo punto di vista, preoccuparsi della denatalità in una situazione in cui abbiamo 2 milioni e mezzo di disoccupati e milioni di sottoccupati, è veramente una bestialità. [5]

Infine, non è scritto da nessuna parte che solo i figli possano pagare le pensioni agli anziani. In altri termini, la “crisi delle nascite” non sarebbe un problema se si consentisse agli immigrati di entrare liberamente nel nostro Paese e si dessero loro lavori regolari (tutto il contrario, cioè, del prenderli a cannonate, come ha proposto tempo fa l’orrorevole Bossi, leader dell’attuale partito di riferimento di Tremonti): in tal caso, infatti, semplicemente, i contributi previdenziali li pagherebbero loro e chi li assume. È decisamente curioso che tale possibilità - tanto ovvia da essere banale - in generale non venga neppure presa in considerazione.  [6]

d) Non è vero che la riforma pensionistica garantirà le pensioni future ai giovani

È vero il contrario. Siccome tra i provvedimenti previsti dal governo nel “decretone” vi è la decontribuzione (sino a 5 punti percentuali!) degli oneri pensionistici a carico delle imprese per i nuovi assunti, e siccome le pensioni di chi inizia a lavorare ora saranno calcolate in base ai contributi versati, i trattamenti pensionistici per i giovani saranno più bassi a seguito della “riforma”. Inoltre, già da subito diminuiranno le risorse destinate al pagamento delle pensioni, aumentando le difficoltà del sistema pensionistico: in pochi anni, le entrate a tale riguardo diminuiranno in misura dello 0,8% del PIL. Questi soldi in meno per l’INPS saranno soldi in più nelle tasche dei padroni: già a partire dal 2004, infatti, le imprese risparmieranno 5 mila miliardi di lire; e nel 2010, quando il nuovo sistema entrerà a regime, il risparmio per le imprese sarà di 25 mila miliardi di lire all’anno. Per contro, il debito patrimoniale dell’INPS causato dalla decontribuzione sarà giunto ai 60-70 mila miliardi di lire.

Di fatto, la decontribuzione ha due sole conseguenze possibili: o si ridurrà (ulteriormente) il valore delle pensioni erogate, o si porrà la decontribuzione a carico del bilancio pubblico (vanificando i risparmi che oggi vengono sbandierati). Nel primo caso, i soldi risparmiati dalle imprese in termini di minori contributi saranno “pagati” dai lavoratori con una perdita secca del valore delle pensioni (una perdita di circa il 16-17%); nel secondo, saranno pagati dallo Stato. [7]

e) Non è vero che la previdenza integrativa garantirà pensioni dignitose

Come ha ricordato un esperto come Beppe Scienza, professore di matematica all’università di Torino, “l’immeritato successo della previdenza integrativa si basa su un cumulo di frottole. La prima di queste è la pretesa sicurezza che offrirebbero tali formule. Questa sicurezza è solo sulla carta. Assai più valide sono invece le garanzie offerte dal sistema previdenziale pubblico, oggetto di continue critiche infondate e chiaramente interessate.” In primo luogo, infatti, per essere sicuri dell’investimento effettuato con la previdenza integrativa bisognerebbe avere sicurezze sulla solvibilità delle assicurazioni tra 10-20 anni, cosa impossibile (è infatti statisticamente probabile che molte di esse falliscano nel lungo termine). In secondo luogo, “diverse polizze vita rivalutabili, che da alcuni lustri vengono rifilate agli italiani, sono scelte autolesioniste anche a prescindere dai rischi d’insolvenza delle compagnie di assicurazioni. Infatti basta fare quattro conti e si vede come le polizze rivalutabili, ...conducono strutturalmente a ottenere mediamente meno che investendo direttamente negli stessi mercati dove vengono messi i soldi delle compagnie d’assicurazione.” Che fare, allora? L’intervistato non ha dubbi: “in linea di principio la migliore difesa è ...scappare via in fretta, riscattando le polizze, e riprendere così il controllo dei propri risparmi”. [i]

Per convincersi che non si tratta di giudizi pessimistici è sufficiente considerare che dal 1999 al 2002 il valore dei fondi pensione a livello mondiale si è ridotto di qualcosa come 2.800 miliardi di dollari. Negli USA la perdita media per ciascuna famiglia americana che si è affidata ai fondi pensione è stata del 43% (ossia quasi la metà delle somme investite). Quanto alla Gran Bretagna, nel settembre scorso le perdite dei fondi pensione aziendali inglesi ammontavano a qualcosa come 49 miliardi di sterline. [8]

f) Non è vero che il trasferimento del TFR ai fondi pensione sia conveniente per i lavoratori

Il trasferimento obbligatorio del TFR alle pensioni integrative rappresenta uno degli aspetti più gravi del “decretone” Tremonti. Con il trasferimento forzoso del TFR ai fondi pensione si avrà tra l’altro il risultato che chi cambia professione (o viene licenziato) non riceverà più il trattamento di fine rapporto maturato fino ad allora; il TFR rimarrà nel fondo pensione e sarà quindi indisponibile per il lavoratore sino al momento di andare in pensione. La cosa è tanto più grave se si pensa che il TFR è a tutti gli effetti salario differito, e in quanto tale soltanto i lavoratori dovrebbero poter decidere come disporne (anche su tale argomento molto ricco è il testo di Martufi e Vasapollo).

Ma non si tratta “soltanto” di una questione di principio. C’è anche un problema di convenienza economica: basti pensare che fra il 1° gennaio 2000 e il 30 giugno 2003 il rendimento complessivo del TFR è stato del 14%, a fronte del + 1,7% [!] dei fondi pensione chiusi, e del -13,9% [!!] dei fondi pensione aperti. [9]

Insomma: tutto si può dire tranne che per i lavoratori il trasferimento del TFR ai fondi pensione sia vantaggioso. Per qualcun altro, però, il vantaggio ci sarà eccome: si tratta delle società di gestione del risparmio e delle società assicurative. In particolare queste ultime. Ma quali saranno le compagnie più avvantaggiate? Federico Salerno, analista finanziario di Ubm (Gruppo Unicredito), non ha dubbi: “Sicuramente Alleanza e Mediolanum, dove il settore Vita pesa per il 100% del totale raccolto, senza dimenticare che sono anche le uniche due compagnie che offrono polizze di lunga durata”. [10] Ovviamente, il fatto che Mediolanum faccia capo al signor Berlusconi è una semplice coincidenza...

2. Cui prodest? Le pensioni come merce di scambio

Se i motivi che Berlusconi, Tremonti & Soci adducono per motivare la “necessità” della loro ulteriore riforma delle pensioni sono così inconsistenti come abbiamo visto, quali sono allora i motivi veri? È presto detto: l’attacco alle pensioni serve per coprire la crisi fiscale dello Stato. I conti pubblici sono in una situazione drammatica, grazie alla politica fiscale del governo Berlusconi. E allora il nuovo assalto alle pensioni diventa necessario. A un duplice riguardo.

In primo luogo, è una merce di scambio per ottenere un alleggerimento del Trattato di Maastricht (così da poter sforare il tetto del deficit pubblico), anche a fronte di una finanziaria inadeguata a garantire nuove entrate strutturali. Questo primo motivo è stato formulato in maniera esplicita da Tremonti: “una Finanziaria leggera e una riforma delle pensioni pesante”. [11] Ossia: invece di far pagare le tasse a chi le evade, continuo con i condoni ma offro all’Europa una stretta sulle pensioni. Il risultato si equivale. Salvo che in questo modo sono i lavoratori che pagano la bolletta indirizzata a qualcun altro.

In secondo luogo, serve ad evitare che le agenzie di rating internazionali declassino il debito italiano. Questo motivo è stato riportato con estrema chiarezza da un settimanale finanziario: “senza la riforma delle pensioni le agenzie di rating Standard & Poor’s e Moody’s avrebbero declassato il credito paese dell’Italia, facendo salire enormemente il costo del debito pubblico, cioè degli interessi che lo Stato deve pagare ai sottoscrittori di Bot e Cct”. [12] In effetti, già da mesi si parla di un probabile declassamento del debito italiano a causa della politica fiscale del governo. Ed è chiaro che questo declassamento darebbe il colpo definitivo alla credibilità, già ridotta al lumicino, di Berlusconi & C. -----

3. La fiscalità come forma della lotta di classe

Una cosa, dunque, è chiara: si fa la controriforma delle pensioni perché quello che si doveva fare in campo fiscale non è stato fatto. Ciò, però, non è avvenuto per caso o per incapacità del Governo: al contrario, si tratta di una politica che rispecchia precisi interessi di classe. Perché il problema della fiscalità non è una questione di carattere morale: è invece una delle forme storicamente più efficaci assunte dalla lotta di classe nel nostro Paese.

In Italia è rovesciato il principio costituzionale secondo cui i cittadini debbono pagare le tasse “in ragione della loro capacità contributiva” e con un sistema tributario “informato a criteri di progressività” (art. 53 della Costituzione). Nel nostro Paese - caso unico tra le nazioni a capitalismo avanzato - il gettito proviene infatti in misura quasi esclusiva dal lavoro dipendente. Mentre i padroni (ma anche le grandi corporazioni professionali e la grande maggioranza dei lavoratori autonomi) le tasse semplicemente non le pagano. Questo è quanto si ricava dal rapporto della Corte dei Conti sul 2002: tra le grandi imprese controllate si è scoperto che ben il 98,38% [sic!] evadeva il fisco; il dato medio di evasione (sui 694.300 controlli effettuati dal fisco nel 2002) è invece “appena” dell’87,98%. [i] Ovviamente questi dati si riferiscono a tutti coloro a cui le tasse non sono prelevate direttamente dalla busta paga - ossia a tutti coloro che non sono lavoratori salariati.

A questo riguardo il Governo Berlusconi non ha fatto che portare alle estreme conseguenze le caratteristiche di fondo del sistema fiscale italiano. Lo ha fatto con la riforma dell’IRPEF, che nella sostanza cancella il principio della progressività delle imposte e penalizza il 75% dei lavoratori italiani, favorendo il 15% che percepisce redditi più alti.  [13] Ma lo ha fatto anche in molti altri modi. Ad esempio, cancellando le tasse di successione. Consentendo il rientro dei capitali esportati illegalmente (per lo più evasione fiscale mascherata) dietro il pagamento di un obolo ridicolo - e il 10-15% di questi capitali sono già tornati all’estero. [i] Inventandosi condoni fiscali a ripetizione, grazie ai quali la pratica dell’evasione è stata di fatto premiata, in virtù del fatto che l’importo per “mettersi in regola” è del tutto sproporzionato all’entità dell’evasione: ad esempio, la Fininvest ha versato al fisco 35 milioni di euro per avere il condono su oltre 190 milioni di evasione. [i]

Il risultato di questi incentivi a non pagare le tasse e a violare le leggi è una crisi del gettito senza precedenti. Se ai tempi dell’Ulivo l’evasione fiscale annua era stimata in circa 200.000 miliardi di lire, è certo che oggi le cose stiano in maniera molto peggiore. Insomma: ogni anno padroni e grandi corporazioni si intascano, sotto forma di tasse non pagate, l’equivalente di più del doppio di una finanziaria “lacrime e sangue” come quella del primo governo Amato.

Ma, soprattutto, si intascano molto di più di quanto sarebbe sufficiente per mantenere in equilibrio a lungo termine il sistema previdenziale. -----

4. Vent’anni di attacco al salario. Ora basta

Da quanto abbiamo appena visto è chiaro che le pensioni non sono una variabile indipendente, ma un tema che va inserito nel più complesso contesto dei rapporti tra le classi. Sotto questa prospettiva, è chiaro non soltanto la “riforma” delle pensioni non è “necessaria”; non soltanto che il semplice recupero dell’evasione potrebbe riempire qualsiasi “buco” immaginabile del sistema previdenziale; ma anche che l’odierno assalto alle pensioni è il punto di arrivo di un attacco pluridecennale ai salari e alle condizioni di vita dei lavoratori. Vediamo nelle sue linee generali le direttrici di questo attacco.

a) Si è colpito il salario diretto. I salari da anni crescono in misura nettamente inferiore tanto alla crescita del valore aggiunto per addetto quanto all’inflazione (che nel 2002-2003 ha rivisto valori a due cifre per quanto riguarda i generi di prima necessità). Più in generale, gli ultimi due decenni del Novecento hanno visto una colossale redistribuzione del reddito in termini sfavorevoli ai lavoratori, con la quota dei salari sul PIL che è crollata dal 56,4% del 1980 al 40,1% del 1999 (-16,3%), a tutto vantaggio di rendite (+8,8%) e profitti (+7,3%). [14]

b) Si è colpito il salario indiretto, ossia le prestazioni sociali, e lo si è fatto in molti modi: la privatizzazione strisciante o conclamata di servizi pubblici (sanità, scuola, aziende municipalizzate, ecc.), spesso preparata con lo smantellamento e l’”inefficienza procurata” di ciò che è pubblico (emblematico il caso della scuola); l’aumento generalizzato del prezzo dei servizi (vedi trasporti e sanità). Tra le premesse di questo attacco vi è ancora una volta l’evasione fiscale, che determina la crisi fiscale dello Stato e quindi crea la “necessità” di tagli alle prestazioni sociali ed aumenti del loro prezzo.

c) Ora siamo all’attacco finale anche al salario differito, ossia al TFR e alle pensioni. Ma anche in questo caso abbiamo a che fare con processi preparati da anni:

- con il passaggio dal sistema a ripartizione a quello a contribuzione (riforma Dini);

- con la riduzione dell’aliquota previdenziale a carico delle imprese per i nuovi assunti;

- con la precarizzazione dei rapporti di lavoro (che ha comportato tra l’altro minor gettito previdenziale), da ultimo codificata dal governo Berlusconi nella famigerata legge 30; [15]

- con la pratica dei prepensionamenti, utilizzati per risolvere crisi aziendali o - più spesso - per “svecchiare” la forza-lavoro; [16]

- con lo sviluppo abnorme del lavoro nero (secondo l’Eurispes i lavoratori in nero, per cui i datori di lavoro non pagano contributi di alcun genere, sono tra i 7 e gli 11 milioni di unità).

È interessante constatare che in ognuna di queste direttrici di attacco è stata adoperata come schermo una specifica forma di mistificazione ideologica.

a) Così, l’attacco al salario diretto si è riparato dietro il mito della “flessibilità del lavoro” come leva competitiva (con i risultati che ognuno può constatare in termini di declino del nostro apparato produttivo...).

b) L’attacco al salario indiretto ha assunto le vesti dell’“efficienza del privato” e della “necessità economica” delle privatizzazioni.

c) L’attacco al salario differito, infine, ha assunto come forma mistificatoria lo slogan della “guerra tra generazioni” (“meno ai padri, più ai figli”, ecc.). [17] In questo modo, una questione che attiene in definitiva alla riduzione della quota del salario sul prodotto sociale, e quindi alla lotta tra le classi, viene misticamente trasfigurata in una conflitto tra generazioni.

Bene ha fatto Giorgio Lunghini a demistificare questa paccottiglia ideologica, servendosi di una pacata constatazione: “se si vuole che le condizioni economiche e sociali dei nostri figli e nipoti siano almeno pari alle nostre, occorre migliorare quelle dei giovani, non peggiorare quelle dei vecchi. Questo vuol dire aumentare i salari per i giovani che entrano nel mondo del lavoro e renderne meno incerti e precari i percorsi lavorativi. È esattamente l’opposto di quanto è stato fatto negli ultimi anni.” [18]

In queste parole è racchiuso anche il significato più profondo della lotta contro l’attacco alle pensioni. Si tratta di cominciare a fare “l’opposto di quanto è stato fatto negli ultimi anni”. Si tratta di dire basta all’attacco al salario.


[1] Fra l’altro i dirigenti (anche a causa delle numerose crisi aziendali in atto) usufruiscono in misura massiccia dei prepensionamenti: quest’anno questa modalità di pensionamento nel loro caso è stata pari al 60,7% del totale (cfr. D. Pirone, “Pensione d’anzianità, ai manager piace di più”, il Messaggero, 7/9/2003).

[2] Vedi in proposito le dichiarazioni del presidente del Civ-INPS: “Smolizza: ‘Ecco perché l’INPS va male’”, in Finanza & Mercati, 13/8/2003.

[3] Fonte: Comitato di politica economica UE.

[4] Questo ragionamento è svolto con la consueta lucidità da L. Gallino, “Le variabili nascoste nella riforma delle pensioni”, la Repubblica, 8/7/2003 e da R.Martufi e L. Vasapollo “Le pensioni a fondo”, op. cit.

[5] Intervista di P. Andruccioli a G. Mazzetti, il manifesto, 18/10/2003.

[6] Questo accade non solo da noi, ma anche in altri Paesi europei. V. S. Gaschke, “Wo sind die Kinder? Im Land der Egoisten: Kein Nachwuchs, keine Rente [sic!]”, Die Zeit, 14/8/2003. Analoghe posizioni si sono potute leggere di recente sull’Economist.

[7] Cfr. F. R. Pizzuti, “Pensioni più povere e investimenti all’estero”, il manifesto, 8/10/2003; A. Mazzieri, “Togliere ai poveri per dare ai ricchi: ecco la legge di Berlusconi per riscrivere lo stato sociale”, la Rinascita, 17/10/2003; anche su queste argomentazioni si veda R.Martufi e L. Vasapollo “Le pensioni a fondo”, op. cit.

[i] Bloomberg Investimenti, 28/9/2002.

[8] Le stime sugli USA sono della società di revisione Watson Wyatt: vedi F. Capozzi, “Il caso California: che aiuto ad Arnie dal Calpers in crisi”, Borsa & Finanza, 11/10/2003. Quelle relative al Regno Unito sono tratte dal settimanale di “Fund management” del Financial Times, 29/9/2003.

[9] Dati riportati in R.E. Bagnoli, “Fondi e Tfr, trasferimento sotto tutela”, CorrierEconomia, 22/9/2003.

[10] C. Conti, “Alleanza e Mediolanum le ‘baciate’ dalla riforma”, Borsa & Finanza, 11/10/2003.

[11] Cfr. “Tremonti, missione Ecofin - la riforma basterà all’Europa”, il Riformista, 4/10/2003.

[12] Editoriale del settimanale Milano Finanza, 4/10/2003.

[i] Corriere della Sera del 27/7/2003.

[13] Ad esempio, un lavoratore con un reddito lordo annuo di 30 milioni di lire pagherà 900 mila lire di tasse in più. Chi ha un reddito di 100 milioni risparmierà 8 milioni di tasse. Per un altro 10% degli occupati la situazione sarà invariata.

[i] “Tre miliardi di euro tornati in Svizzera”, il Sole 24 ore, 13/10/2003.

[i] “Berlusconi chiude i conti (quelli con il fisco)”, MF, 5/9/2003.

[14] Si veda G. Alvi, Il Corriere della sera, 15 gennaio 2001 (dati ISTAT). Impressionante l’accelerazione avvenuta nell’ultimo decennio: profitti +6,4%, salari -7,2%. La voce “rendita”, che contiene anche le pensioni (che comunque rappresentano meno della metà dell’intera voce, ossia il 13%), è invece aumentata solo dello +0,8%.

[15] È interessante notare come la precarizzazione non colpisca soltanto i giovani, ma anche la forza-lavoro più anziana: secondo dati diffusi dalla Confartigianato di Mestre oltre il 50% delle assunzioni a tempo determinato e dei lavori atipici è costituita da persone di 53-64 anni (che a questo punto non matureranno il diritto alla pensione, e - nella migliore delle ipotesi - riceveranno pensioni di carattere assistenziale dallo Stato).

[16] Più del 50% dei prepensionamenti degli ultimi due anni è costituito da mobilità e prepensionamenti “concordati”.

[17] Questa mistificazione ha assunto toni addirittura grotteschi nella Repubblica Federale Tedesca, allorché - all’inizio di agosto - il giovane (ir)responsabile dei giovani della CDU, Philipp Mißfelder, ha dichiarato che per difendere gli interessi dei giovani bisognerebbe smetterla di sprecare i soldi del sistema sanitario nazionale facendo costose “operazioni all’anca” o impiantando denti nuovi agli anziani. Vedi “Bevorstehender Krieg der Generationen”, Handelsblatt, 8-9/8/2003; A. Neubacher, “Dummes Gequatsche”, der Spiegel, 11/8/2003.

[18] Giorgio Lunghini, “Doppio taglio”, il manifesto, 28/8/2003.