Per nuove conquiste del movimento dei lavoratori. Democrazia economica, una strategia possibile?

Armando Fernández Steinko

1. Vivere di rendita delle lotte del passato

La storia del XX secolo è, in larga misura, la storia di tre periodi, di tre cicli di protesta durante i quali si sono concentrate la maggior parte delle dinamiche di emancipazione sociale (1917-1924, 1944-1950 e 1968-1980) [1]. Queste dinamiche hanno lasciato solchi profondi sulla superficie del secolo, si sono cristallizzate in costituzioni, leggi, culture politiche e differenti organizzazioni, il cui obbiettivo comune era la migliore divisione del potere. In primo luogo del potere politico (lotta per il suffragio universale portata avanti dai partiti di sinistra e, in minor misura, di centro). Poi, del potere che deriva dall’accesso universale alla cultura e al sapere (lotta per un’istruzione per tutti pagata con denaro pubblico). Terzo, del potere sulle decisioni economiche e d’impresa (lotta per la regolamentazione politica dell’economia, per la libertà sindacale nelle imprese, per la cogestione, autogestione o la partecipazione nella gestione della impresa). Molte di queste conquiste sono state totalmente o parzialmente annullate applicando procedimenti diversi. O in modo violento (colpi di stato e regimi imposti dall’occupazione tedesca nella maggior parte dell’Europa dell’Est, Francia, ecc.), o in maniera graduale (restaurazione politica negli anni della Guerra Fredda o negli anni ’80 per mezzo della controrivoluzione monetaria, ecc.). Però molte altre conquiste democratiche hanno avuto una portata tale da perdurare (e perdurano) anche per diverse decadi successive. In realtà, noi, generazioni di europei occidentali siamo loro figli, sono queste conquiste che hanno portato un benessere materiale durante la nostra infanzia e gioventù, una stabilità lavorativa per i nostri padri (non per le nostre madri), determinati diritti del lavoro e un accesso universale alla cultura. Grazie ad esse, un numero notevole di cittadini può parlare di questi temi e non essere solamente immerso nella lotta per la sussistenza quotidiana, sono esse ad aver creato il contesto oggettivo nel quale ci siamo formati e in un certo senso viviamo della loro rendita.

La dinamica capitalista non ci avrebbe mai regalato tutto questo spontaneamente, se i nostri padri, nonni e bisnonni non si fossero mobilitati per ottenerlo. Se il modello attuale di sviluppo sociale è insostenibile, lo è anche perché consuma più risorse e diritti democratici di quelli che rinnova e sostituisce.

2. Il ruolo fondamentale (non esclusivo) delle imprese

Ognuno di questi tre cicli, sarebbe stato impensabile se non si fossero verificati progressi sostanziali nella democratizzazione della gestione delle imprese. I consigli di fabbrica dei tempi di Gramsci, il fiorire dell’autogestione operaia nella Russia e nella Spagna del 1917, i Consigli Operai nella Germania di Weimar, i Consigli di Gestione nell’Italia antifascista (1944-1948), la coodeterminazione del settore dell’acciaio e del carbone nella Germania dell’ora zero, l’Autunno Caldo italiano del 1969, i “Fondi Suecos” dei lavoratori Salariati o la Legge tedesca della Codeterminazione del 1976 ecc. non sono periferie o sottoprodotti di tutte quelle dinamiche che hanno coinvolto le società. Le imprese sono state spesso gli spazi dove si sono prodotte le prime mobilitazioni, proteste organizzate, i primi risultati nella conquista dei diritti democratici non solo a livello lavorativo, ma democratici in generale. Il maggiore livello di organizzazione dei lavoratori salariati rispetto al resto della società, l’enorme grandezza delle imprese (la Puntilov di San Pietroburgo, ad esempio, comprendeva più di 10.000 lavoratori) e soprattutto il fatto che al loro interno si vivessero situazioni di ipersfruttamento, di autoritarismo e arbitrarietà ancora più evidenti che fuori, tutti questi fattori hanno trasformato le imprese in autentici centri politici che si sono poi irradiati nel resto della società (richieste di democrazia nel lavoro come parte di una richiesta di democratizzazio e di tutta la società, richieste di controllo sociale sulle grandi imprese collaboratrici con il fascismo dopo la Seconda Guerra Mondiale come parte di un desiderio di democratizzazione generale dell’economia, ecc.). Alcune conquiste, come lo stesso suffragio universale, la legalizzazione del divorzio, o le riforme fiscali, sarebbero state impensabili senza il coinvolgimento del movimento operaio. Questo, e per varie ragioni come, per esempio, la situazione eccezionale che si è vissuta durante la Guerra del ’14, ha permesso al mondo del lavoro di migliorare la propria capacità di pressione non solo economica, ma anche politica, capacità che successivamente esso ha utilizzato non solo per beneficio esclusivamente proprio, ma per il beneficio della democratizzazione di tutta la società.

Tutto ciò ha alimentato per molte decadi la visione avanguardista o addirittura isolazionista del movimento operaio rispetto al resto della società. Si tratta di visioni, in generale, che sono costate molto care al movimento operaio e alla cittadinanza nel suo insieme, soprattutto perché erano basate su delle premesse false. I lavoratori salariati non superarono numericamente praticamente mai e in nessun paese la somma tra “autonomi tradizionali” (piccoli agricoltori, proprietari di laboratori, piccoli negozi e taverne) e i loro rispettivi, aiutanti, braccianti e apprendisti che mantenevano più un rapporto familiare che strettamente professionale con quelli, ed il cui comportamento politico era più che altro conservatore o addirittura reazionario [2]. Queste sacche, questi spazi tradizionali di funzionamento autoritario e totalmente chiusi nella capsula ermetica della privazione familiare, sono servite di volta in volta per togliere al mondo del lavoro le maggioranze elettorali, o addirittura per appoggiare i movimenti autoritari nemici del suffragio universale. Non è affatto casuale che i paesi dove la sinistra riformatrice ha accumulato più forza rispetto alle forze conservatrici, non sono stati quelli con il settore capitalista moderno più numeroso (Gran Bretagna, Germania, Austria), ma quelli dove il movimento operaio è riuscito ad allearsi con quegli “autonomi tradizionali” strappando loro l’appoggio che nei paesi più “moderni” essi davano alle forze borghesi e restauratrici (la mezza luna che va dalla Russia, passando per i Balcani, l’Italia e la Spagna e parte della Francia). Ciò nonostante, è un fatto storicamente irrefutabile, che il movimento operaio ha avuto, nei momenti chiave del XX secolo, un certo carattere di “avanguardia sociale e politica”, che il suo indebolimento si è trasformato quasi sempre nell’indebolimento di tutta la società democratica. Con la controrivoluzione monetaria e la “Seconda Guerra Fredda” (E. Hosbawm), il movimento operaio entra in una fase difensiva storica senza precedenti dal 1945, ma con esso entra in crisi anche la dinamica di democratizzazione di tutta la società. La storia non ha fatto altro che ripetersi un’altra volta dal momento che verso il 1930 (in Italia sette anni prima, in Spagna nove anni dopo), i movimenti autoritari prima attaccarono il mondo del lavoro, per poi attaccare la democrazia politica in tutta la società.

Però, se è così, a cosa è dovuto che il movimento operaio e sindacale abbia abbandonato dal 1980 quasi in tutti i paesi occidentali le rivendicazioni di democrazia economica e nell’impresa, come parte di una strategia più ambiziosa di democratizzazione di tutta la società? È coerente chiedere ancora una volta la democrazia economica, è realista farlo oggi?

3. La democrazia economica alle origini

La “democrazia economica”, intesa come obbiettivo strategico, è nata in una situazione di difensiva e arretramento del movimento sindacale tedesco [3]. È stata una proposta elaborata da Fritz Naphtali in collaborazione con altri intellettuali del sindacato ADGB (Rudolf Hilferding, Otto Brenner ecc.) e presentata al congresso di Amburgo del 1928. Si poneva l’obbiettivo di rinnovare un progetto sindacale che fino a quel momento era stato estremamente conciliante con il capitale e le forze reazionarie, passare all’offensiva e fare fronte alla perdita di iscritti, ma anche per contrastare la capacità del sindacato comunista [4]. La “democrazia economica” si proponeva di ampliare la democrazia politica appena cominciata con la Repubblica di Weimar tramite la democratizzazione dell’economia e dell’impresa (“arrivare al socialismo per mezzo della democratizzazione dell’economia”) e intendendo con democrazia “l’autogoverno del popolo”. Le reazioni contro l’”autocrazia economica” erano dunque, almeno a livello programmatico, unite ad una democratizzazione politica di tutta la società. Includevano misure tali come la lotta contro il “dispotismo impresariale”, contro il “controllo del mercato del lavoro e dei mercati da parte delle imprese capitaliste”, e contro le politiche economiche che subordinano lo Stato agli interessi del capitale. Significava “trasformare gli organi del governo capitalista dell’economia in organi del governo dell’insieme della società”. Dal momento che per i sindacalisti tedeschi la democrazia politica era inimmaginabile senza lo Stato (lo Stato aveva in Germania un ruolo centrale in tutti gli obbiettivi politici, anche in quelli di segno liberale e conservatore), la proprietà dei principali mezzi di produzione doveva passare ad appartenere in maggioranza ad un organismo che rappresentasse, non il benificio di pochi, ma di tutti, ossia, dello Stato. In questo senso, il raggiungimento della democrazia economica era sinonimo di socialismo, con i suoi tre punti principali: lo sviluppo della democrazia nell’impresa, la crezione di un sistema di imprese pubbliche e la pianificazione statale dell’economia. I sindacati dovevano creare “contropoteri”, prima di portare avanti strategie di adattamento agli interessi delle grandi imprese, che era quello che avevano continuato a fare fino a quel momento e con dei risultati per nulla soddisfacenti per il consolidamento della giovane Repubblica di Weimar e per il movimento operaio e sindacale in particolare.

In quel momento, la strategia della democrazia economica era considerata la migliore e la più matura, il più moderno dei programmi economici del continente (H.Mommsen). Molti suoi punti furono incorporati per decadi nei programmi dei partiti socialisiti, socialdemocratici e comunisti europei dopo la Seconda Guerra Mondiale. Lo stesso Fritz Naphtali, che dovette lasciare la Germania per la sua origine ebrea, divenne Ministro del Lavoro dell’appena creato stato di Israele, la cui economia e organizzazione è stata, fino alla drammatica deriva a destra della società israeliana negli anni Ottanta, un esempio unico di combinazione tra efficienza, proprietà collettiva (in questo caso sindacale) e gestione partecipata di quella economica, paragonabile soltanto alle esperienze iugoslave di quelle stesse decadi [5].

Però la messa in pratica, addirittura la stessa concezione iniziale, comportò degli errori, errori che, pur considerando la distanza storica, conviene tener presenti per l’attualizzazione di questa strategia. In primo luogo, si voleva concentrare nei sindacati il ruolo di protagonisti della trasformazione sociale lasciando un po’ al margine i partiti politici e i settori non salariati (o non sindacalizzati) della società. Questo potè funzionare nel nuovo Stato di Israele, per esempio, che nacque praticamente dal nulla, in circostanze eccezionali e con livelli di coesione e uniformità interni che non si trovano (o non si trovavano, perché la società israeliana di oggi non ha nulla a che vedere con quella) quasi da nessun’altra parte. Però in altri contesti, come in quello della Germania tra le due guerre, questo “avanguardismo sindacale” poteva solo portare all’isolamento, alla endogamia del ADGB, non solo rispetto al resto della società, ma anche rispetto agli altri sindacati (comunista, cristiano, ecc.). L’amara esperienza del fascismo ha obbligato a una drastica revisione di questa strategia e, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Germania Federale è diventata, almeno, uno dei pochissimi paesi in cui la Guerra fredda non è riuscita ad impedire la creazione di un sindacato unitario (il DGB).

Un altro secondo errore non meno importante, e che verso il 1933 sarebbe stato fatidico, è stato che la strategia di “democrazia economica” non si inserì all’interno di una strategia di mobilitazione cittadina e operaia. Tese ad essere nell’immaginario colletivo il lavoro brillante di alcuni intellettuali, senza proposte sul come, con quali soggetti e in che modo metterlo in moto “È mancato qualsiasi tentativo di sottomettere le azioni approvate nei sindacati della codecisone ad un controllo ed ad una legittimazione conseguente da parte delle basi, sia che fossero lavoratori, sia i loro rappresentanti diretti. A causa del suo forte orientamento istituzionale, la “democrazia economica” di Naphtali è stata sempre sottomessa ad una posizione subalterna anche se doveva corresponsabilizzarsi di tutti gli accordi presi nei sindacati.” [6]. Questo rimanda al problema dei modelli di partecipazione cittadina, al dilemma massimalismo versus minimalismo democratico.

4. Il dilemma massimalismo-minimalismo democratico

La struttura interna e le ideologie del movimento democratico del XX secolo si possono analizzare da molte angolazioni. Noi proponiamo di farlo utilizzando due concetti: quello di “minimalismo” e quello di “massimalismo” democratico.

Il minimalismo democratico è un modo di organizzare e gestire la partecipazione che consiste nell’allargare gli spazi di delega tra rappresentanti e rappresentati. Questo porta ad una professionalizzazione della rappresentanza e, per estensione, di tutta la cultura politica. I cittadini partecipano, però solo all’elezione dei propri rappresentanti che cambiano dopo un tot di tempo e che sono gli unici che conoscono i retroscena dell’attività politica e della negoziazione con la controparte. All’interno di questo schema, la partecipazione diretta dei cittadini è considerata una dispersione inutile di risorse e forze, la centralizzazione della “gestione politica” è considerata più efficace. Il suo vantaggio consiste nel permettere di unificare criteri e interessi di fronte alla controparte (altri partiti, lo Stato, la direzione delle imprese ecc.), nel lasciare ai cittadini tempo per molte altre cose (per esempio per consumare, o per “stare con la famiglia”) e consente di attuare riforme graduali senza troppi scombussolamenti e senza dover contare sulla collaborazione diretta degli interessati. Lo svantaggio è che tende ad annullare la soggettività e la creatività politica e organizzativa delle persone, genera cittadini passivi e sempre meno sicuri dei mezzi per lottare per i propri interessi. Gli spazi della delega tendono ad ampliarsi, il conflitto si “istituzionalizza” e la cultura della partecipazione tende inesorabilmente, negli anni, a venir meno. Questo venir meno della cultura della partecipazione sarebbe un fatto meno grave se le conquiste democratiche fossero eterne, cioè, se non esistessero gruppi sociali interessati a ridurle o ad annullarle, se non ci fosse bisogno di difenderle, di accumulare strumenti per fare ciò. È “minimalista”, senza smettere di essere un obiettivo per la democrazia (il termine è troopo impreciso per essere utilizzato senza sfumature), perché può funzionare anche - a volte perfino meglio- quando c’è solo appena partecipazione o quando essa è molto scarsa (per esempio quando l’astensione elettorale è molto elevata, o quando un sistema parlamentare è tutelato dai militari, o, in generale, quando le “elezioni libere” diventono un fatto puramente formale che non risveglia l’interesse di molti cittadini). Il minimalismo tende a ridurre la partecipazione alla politica, o meglio, alla parte istituzionalizzata di essa (elezione dei parlamentari) e quando si impone nelle imprese o in qualsiasi altra associazione, la riduce alla elezione di delegati o rappresentanti. Un altro svantaggio è che, poiché necessita di un apparato di professionisti relativamente consistente, tende alla burocratizzazione e alla gerarchizzazione delle strutture di rappresentanza [7].

Il modello di “democrazia massimalista” non esclude la partecipazione indiretta e istituzionalizzata, ma la vede come un modo in più, come un complemento. La partecipazione diretta, quotidiana e legata al personale e al soggettivo non è considerata fonte di squilibri, caos o disordine, ma il modo più efficace, e allo stesso tempo più legittimo, di partecipazione. Non solo non evita la prtecipazione nell’impresa, ma la cerca e la promuove, considerandola un’attività continua e quotidiana, come parte di un’attività cittadina globale e indivisibile, che non deve fermarsi all’entrata delle fabbriche (“cittadinanza piena”), ma nemmeno all’entrata delle associazioni di vicini, delle parrocchie o dei consigli economici o sociali. Il suo difetto è che tende a disperdere mezzi se non si combina con alcuni elementi di partecipazione indirtetta e professionalizzata, fatto che richiede maggiori sforzi di coordinazione, e che, almeno all’inizio, quando non esiste una cultura della partecipazione massimalista o manacano le conoscenze necessarie per svilupparla, tende a consumare più tempo che il primo modello. I vantaggi sono che crea una profonda cultura della partecipazione che non è solo più intensa e tende a coinvolgere maggiormente la cittadinanza, ma, inoltre, funziona tramite strutture non gerarchiche (o meno gerarchiche), è molto più flessibile dell’altro modello e, soprattutto, serve a mobilitare la creatività e le risorse soggettive delle persone. Quando queste hanno un livello elevato di conoscenze e qualificazione e, per una ragione o per l’altra, sono molto motivate a partecipare, possono generare dinamiche democratiche molto potenti e intense, molto più difficili da annullare da parte delle forze conservatici, che, ovviamente, temono, evitano e tentano di screditare continuamente le culture massimaliste.

Le rivoluzioni (rotture storiche), i cambiamenti politici rapidi e profondi si producono, non casualmente, con forti dosi di cultura massimalista, mentre i cambiamenti graduali, le rivoluzioni “dall’alto” e le “rivoluzioni passive” di cui parla Gramsci, funzionano sulla base del minimalismo democratico. I tre cicli democratici che ha conosciuto il secolo sarebbero stati impossibli senza lo schema massimalista di partecipazione. A volte il minimalismo è un impegno che accettano le forze conservatrici per frenare o sviare le dinamiche democratiche forti, per sostituirle con forme più “allegerite” e anche controllabili di cambiamento, forme che, una volta scemata la marea massimalista, possono essere smontate poco a poco senza troppi costi politici. La restaurazione politica del secondo postguerra mondiale, con la quale si è messo fine alle dinamiche democratiche che si stavano verificando in Francia, Italia o Germania verso il 1945, è un buon esempio di minimalismo democratico. Le rivolte nelle imprese e nelle università della fine degli anni Sessanta, il movimento dei soviets nella Russia rivoluzionaria o dei consigli di Soldati e Lavoratori nella Germania del 1918 o le ultime esperienze partecipative a Porto Alegre, sono tipici esempi della cultura massimalista.

Il massimalismo e il minimalismo non corrispondono però esattamente a partiti politici, ma piuttosto ad alcune correnti, “sensibilità” o culture al loro interno. Così, sia Antonio Gramsci che Amadeo Bordiga e Angelo Tasca erano comunisti, ma il primo mirava più ad una cultura massimalista mentre i secondi ritenevano che il “controllo operaio” si verificasse attraverso la creazione di uno Stato proletario centralizzato, più che attraverso la moltiplicazione delle iniziative di autogestione nelle imprese, considerate una dispersione inutile di forze e di mezzi rivoluzionari. Nel secondo postguerra mondiale, all’interno della democrazia cristiana italiana e tedesca, ma anche all’interno del gaullismo francese, fervevano sia i settori massimalisti che quelli minimalisti. I primi erano egemoici appena finita la guerra, i secondi finirono con imporsi all’interno dei rispettivi partiti grazie al cambiamento provocato dalla Guerra Fredda e dalle condizioni politiche imposte dai nordamericani. Allo stesso modo, intorno al 1970 esistevano settori all’interno della socialdemocrazia tedesca che avevano come obbiettivo quello di riformare lo Stato e la società tedesca “dall’alto”, applicando formule di tipo tecnocratico-keynesiano. Invece, altri settori all’interno del SPD, cercavano maggiormente l’alleanza con i nuovi movimenti extraparlamentari che stavano nascendo ovunque intorno ad una nuova cultura massimalista. La transizione spagnola è incominciata sulla base del massimalismo democratico, verso il 1978 la maggior parte delle forze politiche passò al minimalismo. -----

5. Strategia con futuro o discorso stantio?

Anche se la democrazia economica fa parte della conquista ideologica della socialdemocrazia, e anche se nel congresso del SPD celebrato nel 1989 essa era ancora compresa nel suo programma politico, è certo che dall’inizio della “Seconda Guerra fredda” se ne parla sempre meno negli ambienti socialdemocrati. Negli anni Ottanta, la socialdemocrazia ha dedicato le sue forze a strappare gli spazi politici di centro per attirare elettorato delle classi medie, più che ad adattare e difendere le conquiste degli anni Sessanta. Dal canto loro, i partiti socialisti di sinistra e comunisti, ma soprattutto i sindacati, hanno concentrato i loro sforzi nella difesa delle conquiste sociali e nella lotta contro la disoccupazione utilizzando vecchi procedimenti minimalisti, anzichè ravvivare i vecchi obbiettivi di autogestione e di democrazia nell’impresa, di radice massimalista. Negli anni Novanta la socialdemocrazia della “terza via” e del nuovo laburismo inglese, seppellirono definitivamente lo spirito della democrazia che aveva anuto un auge negli anni Settanta (Legge di Codeterminazione tedesca del 1976, Rapporto Bullock presentato nel 1978). Nella Germania Federale è stato sostuituito da una nuova concezione di codeterminazione intesa come parte del così detto “corporativismo per la competitività”(W.Streeck). All’interno di questa strategia, che oggi condividono alcuni settori di centro-destra, la partecipazione nel lavoro viene ridotta a uno strumento per stimolare la flessibilità e l’efficienza delle imprese con l’obbiettivo di renderle più competitive a livello internazionale. È un tentativo di incorporare i sindacati nelle strategie competitive delle imprese, delle regioni e delle nazioni (rottura dell’autonomia sindacale), in cambio di una vaga promessa - quasi sempre non mantenuta - di crezione (o consolidamento) di posti di lavoro.

Però si sente anche parlare di nuovo di “democrazia economica” come strategia alternativa a quella del “neocorporativismo per la competività” [8]. A differenza di quest’ultimo, che non si pone mai l’obbiettivo di ridistribuire il potere di decisione nelle imprese e nell’economia, la “democrazia economica” può oggi servire proprio per porre sul tavolo questo obbiettivo, sempre però a condizione che scelga di inserirsi in culture a partecipazione massimalista. Il suo obbiettivo non è altro che a piena “cittadinanza” la vita sociale, cioè, anche della vita lavorativa e della vita economica in generale. “Cittadinizzare” significa in questo caso non solo applicare politiche economiche che soddisfino i bisogni sociali e ambientali della maggioranza del pianeta, ma significa anche sottomettere le decisioni d’impresa alla volontà non di coloro che possiedono la maggioranza delle azioni di un’impresa o quella dei suoi rappresentanti, ma alla maggioranza di coloro che lavorano nelle imprese e ai settori sociali interessati da queste attività e strategie. Il sistema economico e d’impresa non deve essere orientato in base all’obbiettivo unilaterale della massimizzazione dei benefici espressi in termini monetari, ma alla massimizzazione dei benefici espressi in termini plurali, cioè anche in termini sociali, di qualità della vita, in termini ambientali, culturali, ecc... I modi della proprietà, i contenuti tecnici della produzione (valori d’uso), la combinazione tra mercato e pianificazione restano qui subordinati a questo insieme di logiche, di necessità; insieme che non si trova scritto in un manuale o nei codici cifrati di uno o di un altro teorico, ma che deve essere definito e approvato continuamente in un processo discorsivo e aperto, a cui partecipa il maggior numero di cittadini, lavoratori e organismi possibili. Oggi come oggi queste necessità potranno essere soddisfatte solo con una profonda riconversione sociale, lavorativa e ambientale nella quale il lavoro dovrà recuperare una posizione strategica e dovrà essere regolato in modo diverso. La ricchezza sociale non solo dovrà essere distribuita in modo diverso, ma anche prodotta, generata in modo diverso, il rapporto tra società e biosfera dovrà essere radicalmente ridefinito all’interno di questo nuovo ordine economico e impresariale, così come il rapporto tra i sessi e il legame tra lavoro renumerato e lavoro non renumerato dovranno subire cambiamenti importanti. Così come stanno le cose, considerando la complessità dei fattori, dei problemi tecnici, sociali e umani che dovrà affrontare questa riconversione globale a livello planetario, non ho alcun dubbio che il modo migliore di farla è mobilitando il potenziale di creatività, di iniziativa e di organizzazione di settori molto ampli della popolazione mondiale, cioè, farlo in modo democratico e massimalista. Esporrò alcune ragioni per provare a dimostarlo. Per finire, accennerò ad alcune questioni dalle quali spero si possa cocludere che la democrazia economica non solo è una necessità tecnica e politica, ma, inoltre, è una possibilità diciamo “storica” considerando gli attuali livelli di sviluppo sociale e tecnologico.

6. Il percorso più breve

La democrazia economica è il percorso più breve verso la riconversione (con tutte le sue ramificazioni), almeno, per le seguenti ragioni.

1.) La concentrazione d’impresa è un fatto evidente. Però la concetrazione genera, intrinsecamente, ombre e abusi di potere. Democratizzare l’economia significa oggi che la società abbia maggiore capacità di intervenire nell’attività, la contabilità ed anche nella definizione delle strategie delle grandi imprese. I casi dei conti truccati di Enron e World Com, si sarebbero evitati se i governi eletti conservassero una maggiore capacità di intervento nei fino ad ora sacrosanti spazi “privati” delle imprese. Ma non solo loro. Se anche i lavoratori avessero avuto accesso ai conti economici di queste imprese, si sarebbero potute evitare questi sottrazioni, di cui essi sono coloro che ne risentono maggiormente. Con l’attuale livello di socializzazione e interdipendenza della vita economica, l’unico modo per evitare quello che è successo è sottomettere le imprese ad un maggiore controllo sociale. Se consideriamo che i dipendenti delle imprese conoscono molto meglio di chiunque altro i particolari delle loro attività, e che sono loro i primi interessati ad evitare situazioni di indebita sottrazione, perdita di credibilità e di capitale, sarebbe una prova di realismo dare loro l’informazione e il potere sufficiente perché possano intervenire, non solo nel miglioramento delle condizioni di lavoro come fino ad ora, ma anche nella definizione delle grandi strategie e conti impresariali.

2.) La riconversione ambientale possiede una complessità tecnica che aumenta di anno in anno con l’uso dei materiali chimici, con la svincolazione tra le cause e effetti conosciuti di un determinato materiale, prodotto o anche di una determinata organizzazione o strategia sociale e economica. La partecipazione dei dipendenti nella definizione dei valori d’uso prodotti o prestati, il loro inserimento nella definizione di strategie tecnologiche, politiche e processi di salute lavorativa, orientamenti commerciali ecc. avrebbe il vantaggio di rendere sfruttabili un’infinità di conoscenze di tutti i tipi, che i produttori conservano oggi per loro perché non hanno nessun motivo per condividerle con altri (anzi: l’insicurezza lavorativa spinge soprattutto a un comportamento cauto quando si devono condividere conoscenze). Inoltre servirebbe a coinvolgere i lavoratori non solo in quanto produttori, ma anche come consumatori, cittadini relazionati con il contesto in cui vivono, permetterebbe di adattare la produzione di valori d’uso (prodotti e procedimenti) alla loro sostenibilità ambientale e sociale, alle necessità del consumo sostenibile. Nessuna strategia tecnocratica può competere per efficienza con questo meccanismo, né dal punto di vista democratico, ma nemmeno dal punto di vista tecnico-funzionale. Molte imprese hanno capito benissimo tutto questo e cercano di mobilitare tutto quel potenziale di creatività “addormentato” nelle teste dei loro dipendenti, motivo per cui ampliano i loro spazi di autonomia lavorativa (soppressione di gerarchie, di comandi intermedi). Ma in nessun caso danno loro potere di decisione, in nessun caso democratizzano la gestione d’impresa, fatto che sta portando ad un aumento del costo della salute lavorativa (autosfruttamento) ed ad un allungamento brutale delle giornate di lavoro.

3.) Democratizzare la vita d’impresa costituirebbe una soluzione realista per la complessità e diversità delle forme di vita e di lavoro di un numero sempre più ampio di persone. Questa diversità non è prodotto solo della mancanza di regole a livello economico, ma anche dei cambiamenti nei modi di vita e nelle mentalità, dell’inserimento della donna nel mercato del lavoro e degli stessi cambiamenti all’interno del modello di produzione e di consumo (post)fordisti. L’autogestione del tempo non può ridursi a organizzarsi in modo autodeterminato il tempo libero, per esempio, a partire dagli spazi che concede un sistema di lavoro organizzato in modo autocratico, ma deve invece nascere nel proprio spazio impresariale. Lì, nelle imprese, è dove bisogna mettersi d’accordo con altri compagni di lavoro per stabilire orari o i tempi di entrata e di uscita. Però, perché i ritmi produttivi non si vedano drammaticamente alterati dall’adattamento dell’attività impresariale all’attività umana, i dipendenti e lavoratori devono anche avere la possibilità di intervenire nell’organizzazione dell’impresa e non solamente del proprio piccolo spazio lavorativo, ma di spazi più ampi (dipartimento della impresa, filiale o addirittura della impresa nel suo insieme). Il drammmatico calo del tasso di natalità in paesi come Spagna e Italia, il freno all’inserimento della donna nel mercato del lavoro o l’aumento drammatico del costo della salute lavorativa, specialmente della salute psichica, sono solamente alcuni dei costi che oggi stiamo pagando per le pratiche unilaterali di gestione che non si adattano alla pluralità delle forme di vita ma le sfruttano e strumentalizzano.

4.) Lasciare che i dipendenti co-organizzino le imprese significa, inoltre, promuovere una cultura d’impresa sostenibile a livello territoriale e urbanistico. Attualmente l’imprenditore impone le sue condizioni unilateralmente, fonda o amplia centri produttivi in funzione delle proprie decisioni di investire qui o lì, e senza considerare il mezzo ambiente sociale e naturale che lo circonda. I comuni sono poi coloro che adattano le infrastrutture alle loro preferenze, fatto che non solo manda in tilt i costi della pianificazione urbanistica, ma genera anche un collasso del modello di trasporto e una confusione della organizzazione urbana e territoriale. Se i dipendenti e i cittadini, attraverso i consigli economici locali e territoriali, potessero esprimere la propria opinione in merito a queste questioni, sicuramente farebbero risparmiare ai comuni molti rompimenti di testa e nello stesso tempo migliorerebbe la qualità della vita nelle città e nei paesi. L’avvicinamento dei centri produttivi ai centri residenziali sarebbe un fatto, il risparmio energetico e il freno al riscaldamento del pianeta sarebbero più facili da ottenere. Il contesto dell’impresa contribuirebbe non a generare destrutturazione sociale e spaziale, ma a crearla. Le imprese diventerebbero parte di un sottosistema locale e regionale, una fonte di qualità della vita. Le imprese smetterebbero di contribuire alla deterritorializzazione dei flussi economici e servirebbero a ricomporre coerenze spaziali, sociali e naturali che oggi stanno venendo brutalmente alterate dalle legtgi imposte dalla politica della globalizzazione finanziaria.

5.) I bisogni sociali e ambientali stanno crescendo più rapidamente delle risorse economiche destinate a soddisfarli. Si tratta, soprattutto, di un problema di mancanza di progressività fiscale, di mancanza di ordine finanziario e di proliferazione del lavoro sommerso, ma non solo. Durante il fordismo si riscuoteva di più perché tutti avevano un lavoro, ma anche perché si cresceva molto, a tassi impossibili da ripetere ancora a causa di ragioni legate al carattere finito della biosfera e per le stesse leggi generali dell’accumulazione (composizione organica del capitale, ecc.). Il modo migliore di ottenere il massimo rendimento dagli investimenti pubblici, dalla spesa pubblica in generale, è organizzare la società in modo che i suoi stessi destinatari, ossia, i cittadini siano coinvolti nel disegno e nella valutazione delle preferenze. Il caso dei presupposti partecipativi di Porto Alegre è diventato famoso a livello mondiale perché infrange uno dei grandi tabù delle tecnostrutture e dei professonisti della amministrazione educati in una cultura minimalista: che la partecipazione cittadina e l’uso efficace delle risorse economiche sono due cose opposte. La partecipazione e l’efficienza
 intesa in termini plurali- non si adattano automaticamente l’una all’altra, ma devono verificarsi alcune condizioni (conoscenze, culture, contesto politico e economico) perché ciò avvenga. Però una volta compiute queste condizioni, la partecipazione, intesa nella sua versione massimalista, può dare delle autentiche sorprese, anche sorprese in termini di efficacia.

6.) Lo schema della proprietà privata, e l’etica del singolo imprenditore basata su di essa, - entrambi vecchi come il capitalismo - sono troppo rigide, troppo matematiche e formali per poter fare fronte alla complessità della vita sociale e economica del presente e, ancora di più, di quella futura. Da un lato, esistono sempre più ambiti e zone della convivenza che le persone, le culture ed i paesi deovo condividere, però molti di essi non sono già più sostituibili. Quando mancano non si possono più cercare alternative in spazi vergini, colonie o paesi che possano essere invasi. Il “capitalista imprenditore” non solo riesce ad avere successo grazie alla “sua” abilità o alla “sua” capacità di rischiare, ma sempre più grazie alla “sua capacità” di ipersfruttare risorse umane, naturali e sociali, alla “sua” capacità di appropriarsi di cose che sanno gli altri senza condividere con gli altri i loro frutti. Il consumo di ciò che è di tutti - che “l’intrepido imprenditore” considera di nessuno- è superiore alla sua rintegrazione, dal momento che non vi sono né denaro, né sistemi fiscali né mezzi tecnici sufficenti per farlo. Però dal momento che questi spazi rimangono fuori dalla proprietà privata tutti hanno carta bianca per distruggerli, e quando qualcuno li compra succede esattamente la stessa cosa. Qui bisogna menzionare non solo la biosfera, l’aria, i territori formalmente “privati” ma che non per questo smettono di essere il luogo dove passano gli uccelli, dove vi sono fiumi, monti e spiagge ecc... Inolte bisogna parlare del patrimonio culturale, umano e strorico che, essendo di tutti, è utilizzato o “consumato” molte volte da imprese e da interessi privati senza che questo si rifletta in un’infrazione, o in un bilancio. Però una casa costruita su suolo privato può rovinare un intero paesaggio, tutto un patrimonio, tutta una “proprietà” di tutti. Un’attuazione urbanistica può spezzre un contesto monumentale, un affare, come quello televisivo, può generare comportamenti e culture aggressive irreversibili tra i giovani. Dove inizia ciò che è mio, dove inizia ciò che è di tutti? Oggi, le imprese non solo utilizzano mezzi (“fattori produttivi”) che pagano, ma sempre più cose che non pagano, che pagano tutti al loro posto, incluse le generazioni future. La subcontrattazione e sub-subcontrattazione d’impresa serve a ridurre i costi. Però questi costi non spariscono, solamente che ora deve pagarli la collettività, sia sottoforma di tasse, sia sopportando il rumore dei camion che non smettono ddi trasoprtare mercanzie, sia dovendo prescindere da un patrimonio storico-artistico che le appartiene. Come fare bilanci sociali e economici realisti in questo contesto, se nemmeno è chiaro cosa bisogna inlcudere tra i vantaggi e cosa tra le spese perchè non abbiamo nemmeno una nozione realista di “proprietà” sulla quale basare i nostri diritti? Qui, sottoscrivo pienamente una frase del professore della Università del Sussex Kees Van der Pijl e che nasce da questo carattere povero e sempliciotto della proprietà che vige attualmente: “il processo di socializzazione del lavoro, che sta creando nella società un tessuto sempre più complesso di interdipendenze, tende a diffondere l’etica del singolo-imprenditore, che rappresenta uno dei fondamenti della società capitalista” [9].

7. Il desiderabile è possibile

Esistono molti esempi di questo tipo che potrebbero essere citati ed uno dei compiti delle scienze sociali critiche è esplorare i punti di incontro tra partecipazione, efficienza sociale e riconversione intesa come rinnovo della struttura fisica, biologica e sociale della vita sul pianeta. Però, non si tratta solo di un’utopia campata in aria, solo di bei desideri? Secondo la mia opinione, ci sono oggi delle circostanze che non solo rendono desiderabile una “cittadinizzazione” della vita economica e impresariale, ma che, inoltre, la rendono possibile. Questo non significa che essa si verrà a creare da sola, semplicemente diffondendo questa bella idea, come hanno preteso Naphtali ed i suoi collaboratori. Anzi, fino a quando non si recupererà una cultura massimalista della partecipazione, l’’attuale contesto ultracompetitivo esaurirà tutte le possibilità di emancipazione sociale e lavorativa create dalla crisi del fordismo, risolverà questa crisi in un senso socialdarwinista e tendenzialmente autoritario. Lo sviluppo sociale ha avuto sempre un carattere aperto (non esistono teologie nella storia) e la mobilitazione sociale è stata sempre quella che ha provocato cambiamenti democratici in situazioni di crisi e rotture strutturali che le hanno rese “tecniche” (solo tecnicamente) possibili. Le possibilità che offre l’attuale congiuntura capitalista per avanzare in direzione di una democrazia economica di segno massimalista sono, tra le altre, le seguenti:

 

1) Non è mai esistita una popolazione con i livelli di istruzione e informazione come gli attuali. Questo continua ad essere vero anche ammettendo l’aumento del costo della qualità dell’insegnamento e la sottocultura di una parte della popolazione a causa dei mezzi di comunicazione. Molti degli insuccessi e dei risultati reazionari del passato sono stati dovuti e sono stati possibili in parte perché la incultura della gente ha chiuso le porte allo sviluppo democratico, dal momento che una parte della popolazione era molto vulnerabile ai discorsi autoritari anche a causa dell’alta concentrazione delle conoscenze nelle mani di pochi e perché, anche se si voleva organizzare la vita economica e d’impresa in modo più democratico, non avevano i mezzi, le conoscenze necessarie per farlo. Oggi succede esattamente l’opposto. Il problema oggi è che la gente sa molte più cose di quelle che può applicare sul lavoro e nella vita sociale, non ci sono canali, non c’è un’organizzazione sociale e lavorativa adatta a questa specie di “eccesso di offerta” (detto con parole che a me non piacciono affatto). I conservatori cercano di ridurre questi “eccessi” riducendo la qualità dell’insegnamento e dualizzando il mercato del lavoro, ma questo non è così semplice da fare dal momento che ci sono anche delle evidenti tendenze che obbligano i governi a continuare a occuparsi seriamente dell’educazione delle sue popolazioni.

2) Le imprese postfordiste, che sono sempre di più nonostante il ritorno ad alcune forme di lavoro tipicamente fordiste in alcuni centri produttivi, hanno ridotto drasticamente i livelli di supervisione e controllo. Il caposquadra è sempre più inutile. Primo, perché costa molto, e secondo perché demotiva e perché il suo lavoro è, semplicemente, tecnicamente inutile. Questo fatto apre spazi di autonomia che mai si erano visti all’interno dell’impresa. Il lavoro si soggettivizza, i lavoratori devono autocontrollarsi, avere il senso della responsabilità, prendere inizativa e tutto ciò esonera i livelli di comando intermedi da molti compiti di supervisione tradizionali. A causa dell’attuale ordine economico, questo sta portando ad una dinamica di autosfruttamento, di lavoro senza fine, che sta costando caro alla salute psichica di molte persone, mangiandosi il loro tempo libero, la loro possibilità di partecipare alla società. Però la possibilità tecnica di lavorare senza strutture di controllo è già una realtà (una necessità per molte imprese) e inoltre, non dimentichiamolo, è sempre stato uno dei grandi obbiettivi del movimento operaio.

3) Non è vero che le persone non cercano una realizzazione personale nel lavoro, come suggeriscono alcuni sociologi che teorizzano la “fine della società del lavoro!”. Quello che succede è che le persone cercano un equilibrio razionale tra lavoro e non lavoro. Il lavoro come spazio per la proiezione del proprio Io, del proprio sapere, del proprio impegno, è desiderato, cercato e rimpianto, soprattutto - almeno in Spagna- da parte delle donne e dei giovani. La soggettivazione del lavoro apre la possibilità di introdurre forme di partecipazione massimaliste che possono funzionare in modo molto sorprendente come le esperienze di Porto Alegre. La gente non vede il lavoro come un castigo divino, ma vede così la sua attuale organzizzazione. Dal momento che essa è sempre più chiaramente e direttamente dovuta ad una determinata organizzazione dell’economia neoglobale (ultracompetitività internazionale), qui ci sono possibilità che le persone incomincino a politicizzare il proprio destino individuale e la propria esperienza lavorativa.

4) La socializzazione della proprietà ha raggiunto livelli incredibili. Oggi questa socializzazione non si traduce in libertà di disposizione collettiva sul capitale e la gestione, ma esiste una specie di base, di struttura latente, che rende questo possibile. Ovviamente, bisognerebbe cambiare le leggi, le regole che regolamentano le giunte degli azionisti, bisognerebbe socializzare l’informazione e non solo la proprietà. Soprattutto bisognerebbe cambiare il funzionamento dell’economia internazionale, che dà la priorità al settore finanziario rispetto a quello produttivo, che frantuma letteralmente i ritmi e gli spazi lavorativi, le forme di vita sostenibili, poiché ha bisogno che i vantaggi economici siano evidenti in poco tempo, non importa a quale prezzo. Però non bisogna perdere di vista tutto ciò che, in termini democratici, si può evincere da questa socializzazione di fatto della proprietà azionaria. Il controllo che oggi esercitano i cartelli di azionisti sui managers, controllo che dieci anni fa era esttamente opposto, potrebbe essere un segnale di ciò che può accadere in futuro se l’attuale socializzazione della proprietà si trasforma in socializzazione della possibilità di disporre sulla proprietà, che è il dato rilevante dal punto di vista democratico.

8. Democrazia economica e suffragio universale

Democrazia economica come strategia possibile, come concetto operativo? Io penso di sì, soprattutto se si ha la pazienza di vedere con una certa prospettiva storica. La democrazia politica basata sul suffragio universle si è imposta intorno al 1920 sulla democrazia di impronta liberale che predominava nel XIX secolo in quelle nazioni che si denominavano “democratiche”, e dopo più di un secolo di lotte politiche. La democrazia liberale legava il diritto al voto a determinati livelli di rendita (régime censitaire), al non esercizio di alcune professioni (i soldati non potevano votare, ad esempio), alla non appartenenza al sesso femminile (nemmeno le donne avevano diritto al voto), o ad una determinata istruzione (régime capacitaire). Questo significava che, come massimo, il 30% della popolazione adulta poteva esercitare il suo diritto di voto nelle democrazie maggiormente di segno liberale. C’era la “democrazia”, ma non c’era il suffragio universale, c’era democrazia solo a metà.

L’esercizio della piena cittadinanza di tipo massimalista - ammesso che questo è ciò che per me significa la democrazia economica -, il diritto a partecipare anche nella gestione dell’economia e delle imprese, il fatto che questo diritto smetta di essere proporzionale alla proprietà o al potere di qualsiasi altro tipo, può essere paragonato al suffragio universale che è consistito anch’esso a suo tempo nell’eliminare il legame tra diritto di voto e sesso, professione, le proprietà o l’istruzione. Questa eliminazione di vincoli è ciò che ha tolto le virgolette alla “democrazia politica”, che le ha tolto il suo vestito liberale. In questo senso, la democrazia economica è il fratello gemello del suffragio universale, è l’unico modo di prendersi davvero la propria democrazia politica, di stabilire l’ordine democratico nel suo insieme. Il trionfo del suffragio universale intorno al 1920 in una parte consistente dell’Europa, ha costituito il trionfo della cittadinanza, ma solo della cittadinanza-a-metà, dato che le fabbriche ne rimanevo escluse. Tuttavia vi era un tale bisogno, una tale forza, tale legittimità per imporlo che esso divenne la porta d’accesso al XX secolo. Dopo molto poco tempo dalla sua nascita fu soppresso in quasi tutta Europa, però intorno 1945 è ritornato, per non andarsene più (almeno fino ad oggi). Si tratta di un diritto così elementare che in una società tanto complessa e interdipendente come quella del XX secolo è diventato semplicemente impossibile continuare a negarlo alle maggioranze. Adesso tocca alla “piena cittadinanza”, che potrebbe diventare il programma politico del XXI secolo così come il suffragio uiversale lo è stato nel XX. E non perché io creda in una specie di determinismo storico, ma perché esiste un rapporto causale tra l’accumulo di problemi e il tentativo di dare loro una soluzione minimamente stabile. I problemi accumulati nel XX secolo dovranno trovare qualche soluzione minimamente stabile e “maneggiabile”, così come quelli del XIX la trovarono nonostante la fortissima opposizione dei nemici del suffragio, che, non dimentichiamolo, in alcuni paesi europei erano maggioritari.

La rottura del ghiaccio della proporzionalità tra proprietà e diritti economici e d’impresa, ghiaccio che si è creato durante il XIX secolo e che si è riuscito a rompere solo per brevi periodi di tempo durante il XX secolo, come il suffragio universale si è ottenuto solo per alcuni mesi durante il XIX, può scaturire solamente da un accordo politico. La creazione di uno Stato minimamente equidistante tra capitale e lavoro, di uno Stato che ridistribuisce e crea infrastrutture sanitarie, educative per la maggioranza è stato un risultato di un contratto sociale che, con i campi di battaglia ancora fumanti, hanno firmato (alla fine) le nazioni europee dopo della Seconda Guerra Mondiale, contratto che includeva il suffragio universale [10]. Un accordo politico globale, un contratto sociale simile sarà necessario affinchè la democrazia economica non solo trionfi, ma anche, perduri nel tempo e si sappia difendere di fronte ai suoi nemici. Il fatto di chiamare questo “socialismo” o in un altro modo, non è per me fondamentale. A me interessa di più il costo che la umanità deve pagare per ottenerlo. Il costo del suffragio universale furono due guerre mondiali e moltissima sofferenza collettiva; quale sarà il costo della democrazia economica? E soprattutto, che cosa possiamo fare per minimizzarlo?

 

 

Bibliografia

Bieling, H.J. (y otros): Flexibler Kapitalismus. VSA, Hamburgo 2001

Deppe, F.: Fin de siècle. Am Übergang ins 21. Jahrhundert. PapyRossa Colonia 1997.

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Fernández Steinko, A.: Experiencias participativas en economía y empresa. Tres ciclos para domesticar un siglo. Siglo XXI, Madrid 2002.

Fernández Steinko, A./Lacalle, D.: Sobre la democracia económica (2 tomos). El Viejo Topo, Barcelona 2001.

Gavron, D.: The kibbutz : awakening from Utopia. Rowman & Littlefield, Lanham 2000.

Hecker, W.:”Wirtschaftsdemokratie. Eine Kollage” en Bieling, H.J./Dörre, K./Steinhilber, J./Urban, H.J. (editores): Flexibler Kapitalismus. VSA, Hamburgo 2001.

Hobsbawm, E.: The Age of Empire 1875-1914. Penguin Books, Londres 1987 (hay traducción en Ed. Labor).

Michels, R: Los partidos políticos. Un estudio sociológico de las tendencias oligárquicas de la democracia modernas. 2 Tomos. Amorrortu, Buenos Aires 1991.

Naphtali, F.: Wirtschaftsdemokratie. Europäische Verlagsanstalt, Francfort/M. 1977.

Van der Pijl, K.:”Die nationalen Grenzen der transnationalen Bougeoisie”, en Bieling y otros (2001)

Werner, H.: Wirtschaftdemokratie. Eine alte Antwort neu befragt. Podium-Progressiv, Bonn 1994.


[1] In Fernández Steinko (2002) abbiamo delineato questi diversi cicli, con particolare riferimento alla Spagna, alla Russia, alla Germania, alla Gran Bretagna, alla Svezia e all’Italia.

[2] Fa eccezione la Gran Bretagna, paese dove intorno al 1925 il settore capitalista-moderno era già più importante del settore tradizionale.

[3] Naphtali (1977).

[4] Hecker (2001:342). In Fernández Steinko (2002:122ss.) forniamo più dettagli sul contesto in cui nacque e cercò di dare i suoi frutti quella strategia.

[5] Ver Gavron (2000).

[6] Schneider / Kuda: Studio introduttivo in: Naphtali (1977:45).

[7] Vedere il già classico lavoro di Mitchels (1991).

[8] Soprattutto nella Germania Federale. I fuochi teorici del riinnovamento della strategia della democrazia economica sono Harald Werner, della direzione del PDS (Werner 1994), la rivista “Sozialismus” e gli intellettuali che hanno collaborato nel libro omaggio al professore di scienza politica dell’università di Marburgo Frank Deppe (ved. Bieling e altri (eds.) 2001). Anche in Spagna abbiamo promosso una discussione aperta sulla democrazia economica (Fernández Steinko/Lacalle (eds.) 2001 e Fernández Steinko (2000 y 2002).

[9] Van der Pijl (2001:128).

[10] Vedi Deppe (1997).