In questo breve intervento voglio sollevare alcune domande e suggerire qualche ipotesi di risposta attorno alla questione delle reti (networks). Il nocciolo centrale delle mie argomentazioni è che il networking d’opposizione (o meshworking) non è soltanto strumentale (cosa che presupporrebbe un obiettivo), ma è anche pratica sociale che dà forma ad obiettivi ed a valori, dunque, contribuisce alla costituzione di nuovi rapporti sociali. Inoltre, poiché tutte le società sono costituite da networks sovrapposti, una questione politica centrale si trova nella differenza che esiste tra i networks d’opposizione e costitutivi di rapporti sociali, ed i networks nei quali siamo costretti quando lavoriamo all’interno della produzione capitalista. È ovvio che spesso i due tipi di network sono solo due modalità della stessa struttura: competo con l’altro quando mi rapporto ad esso in quanto forza lavoro; costruisco nuovi rapporti sociali con lo stesso quando partecipo alla stessa lotta. Infine, poiché nelle società-network i mezzi organizzativi corrispondono a forme e modelli di produzione e non sono semplicemente strumenti per perseguire degli obiettivi, la domanda sollevata su quale debba essere il ruolo dei sindacati [inter]nazionali coincide con quella che si chiede quali debbano essere i modelli e le forme di accesso ai mezzi di sussistenza e di produzione sociale.
La risposta a questa domanda ne solleva un’altra d’importanza strategica: per quali ragioni noi appartenenti ai vari network d’opposizione ci mettiamo a fare networking?
Entrambe le forme di network, strumentali e costitutive, sono antagoniste, ed entrambe sono intrecciate tra loro. Tuttavia ci sono differenze importanti. Nei networks strumentali la comunicazione tra i nodi del network è strumentale alla “realizzazione” di dati obiettivi. Ci si mette insieme, i “nodi” si collegano” per una telos particolare. Questi obiettivi sono generalmente predeterminati da qualche piccolo gruppo che prende l’iniziativa di avviare una campagna di mobilitazione. Le coalizioni, le alleanze, avvengono appunto in questa maniera. Il carattere generale di questi obiettivi rende spesso possibile l’organizzazione strumentale dei network, in maniera tale da combinare tendenze centralizzanti e decentralizzanti. Dove per centralizzazione s’intende il coordinamento delle operazioni e il controllo della formulazione degli obiettivi, mentre le strutture federative decentralizzate permettono una certa autonomia alle sedi locali. Ad esempio ATTAC, Greenpeace ed, in un certo qual modo, anche i sindacati tradizionali.
I networks costitutivi sono quei network sociali che emergono dall’interstizio di pratiche sociali dominanti e che danno vita a nuove forme di cooperazione sociale, a nuovi bisogni ed a nuove aspirazioni. In questo caso il network non è soltanto un mezzo organizzativo per un fine predeterminato, ma anche una pratica sociale che porta a nuovi traguardi, a nuove visioni, alla riformulazione di nuove telos. Ciò che ho in mente qui è l’azione reciproca di determinate identità, anche messe insieme attraverso networks di solidarietà e strumentali, che nel “meticciarsi” danno nuova forma alle aspirazioni, alle identità e ai traguardi, in considerazione del fatto che la “solidarietà” viene con il riconoscimento dei bisogni e delle aspirazioni degli “altri”. Per esempio, l’alleanza tra sindacalisti e ambientalisti non comporta soltanto la possibilità di raggiungere una massa critica d’opposizione, ma, cosa molto più importante, aiuta a produrre un’identità verde all’interno del movimento dei lavoratori e una identità “sindacale” all’interno del movimento dei verdi. Il “fondersi” delle due questioni stimola visioni, criteri, rivendicazioni e valori.
Considerare il network internazionale di sindacati semplicemente come strumentale, è la cosa più facile ma anche la più politicamente pericolosa. In questo modello gli obiettivi sono predeterminati e le loro relazioni reciproche comportano una visione della società compatibile con questi traguardi. Gli obiettivi di un migliore salario, di maggiore occupazione, di una minore disuguaglianza - obiettivi ovviamente comprensibilissimi dal punto di vista di nodi produttivi particolari (quei lavoratori sottopagati; quel territorio ad alta disoccupazione, quella regione ad alta incidenza di povertà) - sono formulati all’interno di una visione che non mette in discussione la natura della forma salariale, il ruolo disciplinare della disoccupazione e la corsa sempre più competitiva che è appunto fonte principale di tutti quegli obiettivi particolari dei quali si cerca soluzione. Non farsi domande su questo significherebbe non farsele nemmeno sulla natura dei network sociali della produzione capitalista nei quali si è intrappolati. Per esempio, come ci si puó battere per salari migliori e allo stesso tempo battersi contro il consumismo? Come fare a difendere l’accesso ai mezzi di sussistenza fornito dall’occupazione e allo stesso tempo opporsi a produzioni di morte, distruttive per l’ambiente, come opporsi a ritmi massacranti ed allo stesso tempo ad un lavoro che ha come finalità quello di vincere sull’altro? Non sono queste le domande che le organizzazioni sindacali dovrebbero porsi? Quale sarebbero le coordinate di un sindacato inteso come network costitutivo? Questi sono i problemi alla base della mia riflessione. Cerchiamo di affrontarli partendo dall’inizio.
Sì. Contrariamente al consueto modo unitario di concepire le società, queste sono sempre costituite da network sovrapposti di potere e pratiche politiche (Mann 1984). In questo senso, tutte le società sono state e sono “società network”. La cooperazione sociale nel lavoro ha sempre assunto la forma del network. Il problema consiste nel come i network sociali sono articolati in quanto reti di poteri e che forma prendono, nel come questi networks sociali sono organizzati, quale forma di produzione sociale emerge dalla loro forma organizzativa, quali sono i loro limiti e le loro contraddizioni, ed infine, quali sono i network subalterni che emergono dagli interstizi di quelli dominanti.
La distinzione chiave tra le società network di oggi e quelle precedenti non è il modello-network ma la forma dei network, il modo nel quale i poteri e i contropoteri sono esercitati. Se questo è il caso allora, “l’ascesa della società network” di Castell (2000) dovrebbe essere reintitolata “l’ascesa di una particolare forma di società network”. Questa distinzione è importante per ragioni teoriche e politiche.
Sì. Le strategie neoliberiste di deregulation e di liberalizzazione del mercato, insieme allo sviluppo delle tecnologie per l’informazione e la comunicazione, hanno creato, per i networks che costituiscono la produzione capitalista (produzione, commercio, finanza), un contesto che accresce enormemente la competizione tra i nodi delle reti produttive, aumentando anche il grado di sostituibilità nello spazio di questi. In questo contesto, le relazioni tra i nodi e il resto dei networks è, parafrasando Foucault (1977), sempre più di tipo disciplinare. Certo, l’odierna estensione del mercato rende possibile un meccanismo disciplinare che non necessariamente deve stare confinato tra le mura di un’istituzione particolare. Ma si tratta pur sempre di meccanismo disciplinare (De Angelis 2002). Di conseguenza, la caratteristica principale degli odierni networks di produzione capitalista è il loro essere costitutivi di meccanismi disciplinari che si estendono nel campo sociale e sull’intero pianeta. Questo è reso possibile dall’estensione del processo di competizione tra nodi del network di rapporti capitalistici e dall’aumentato numero di nodi mercificati portati avanti dal processo di recinzione, cioè di espropriazione di commons. Integrazione competitiva e processo di recinzione di commons sono i due parametri che costitutiscono il network capitalista. È proprio cosa paradossale che mentre negli ultimi due decenni la forma disciplinare dell’integrazione tra reti produttive sociali si è, sia estesa in forma capillare su tutto il pianeta, sia intensificata tanto da includere nuove aree della riproduzione sociale, nello stesso periodo molti autori critici hanno parlano della fine della società disciplinare e dell’inizio di quella di controllo.
Contrariamente a ciò che dice Castell, se per società-network intendiamo un insieme di reti sociali che costituiscono la produzione capitalista, la risposta è affermativa. Il termine “centro” qui non deve essere inteso come un luogo. Il centro di cui parliamo è di tipo “parametrico”. Un parametro è un (sistema di) valore(i) dal quale scaturiscono strategie volte alla riproduzione di norme, comportamenti ed azioni. Un centro è una fonte di disciplina (come nella visione della torre d’ispezione nel Panottico di Bentham). Un centro parametrico quindi, combina la produzione di valori attraverso la disciplina, con una forma di produzione sociale che emerge da questi valori. Nell’attuale rete globale, che è la produzione capitalistica, questi processi disciplinari sono ottenuti attraverso la combinazione di mezzi autoritari e sistemici. I mezzi autoritari sono strategie neoliberiste di recinzione che aspirano ad espandere il regno del mercato e della competizione, impedendo alla gente l’accesso alla ricchezza sociale con mezzi alternativi a quelli del mercato: le politiche neoliberiste supportate da guerre e leggi repressive rappresentano i cardini contemporanei di queste nuove recinzioni (Si vedano De Angelis 2000; Midnight Notes 1992). Mentre i mezzi autoritari mirano a stabilire le condizioni per la forma capitalistica dell’interazione sociale produttiva, quelli sistemici riproducono il sistema di valori e di norme dell’interazione sociale attraverso il processo disciplinare inserito nella competizione di mercato. Il conflitto (macro e micro) che emerge all’interno del regno della produzione capitalista rappresenta l’oggetto di disciplina dei termini sistemici.
Certamente non nel senso di centro parametrico del network capitalista di produzione. I network subalterni e d’opposizione sono anche chiamati meshwork e generalmente si distinguono dai networks dominanti per via del fatto che sono non-gerarchici ed auto-organizzanti (Harcourt: 2001: 7). Queste caratteristiche organizzative dei meshwork devono essere considerate congiuntamente alle dinamiche delle interazioni e delle alleanze tra soggetti sociali, con bisogni e aspirazioni diverse, che emergono nelle pratiche di questi networks d’opposizione (Waterman 1998; De Angelis 2000). Infatti, il termine “alleanza” non è appropriato nel descrivere il processo di fecondazione incrociata dei bisogni e delle aspirazioni che scaturiscono dal coordinamento di queste pratiche d’opposizione. Dovremmo forse parlare di “meticciato” delle soggettività (vedi per esempio Toni 1993). Come abbiamo visto nel discorso più generale dell’introduzione sui “networks costitutivi”, questo meticciato è ciò che crea nuovi valori, rende dinamiche e problematiche le vecchie e rigide identità e apre spazi a nuove aspirazioni.
Se proviamo a confrontare questi due tipi di networks, quelli dominanti del capitale ed i meshwork d’opposizione, si ricava un risultato interessante. Nel caso dei networks della produzione capitalista l’imposizione di parametri dell’interazione sociale (attraverso recinzioni e politiche di liberalizzazione del mercato) è il presupposto all’azione sociale dalla quale emerge a sua volta il meccanismo disciplinare (la competizione) che riproduce i parametri dati in partenza, cioé i valori del sistema. Nel caso delle reti d’opposizione, i parametri del coordinamento sociale - quelli che definiscono le regole del coordinamento - sono il risultato creativo del reciproco riconoscimento. Quindi, mentre nel caso delle reti della produzione capitalista i nodi individuali organizzano la loro interazione all’interno di un dato sistema autoriproducente di “valori” (il valore dell’interazione competitiva), nei network d’opposizione, i parametri di interazione sociale - ciò che definisce le regole della coordinazione sociale - sono il risultato creativo del riconoscimento reciproco, cioè è l’interazione tra nodi individuali che li aiuta a “scoprire” e a creare valori. Mentre nel primo caso ogni nodo è formalmente uguale di fronte al bisogno di impegnarsi nella dura competizione con “l’altro”, nel secondo caso, ogni nodo è depositario di bisogni e di aspirazioni diverse la cui “uguaglianza” è un risultato conseguente all’interazione sociale. Qui, i processi comunicativi e consensuali della solidarietà e della lotta sono alla base del reciproco riconoscimento e decodificazione di valori e linguaggi diversi verso una continua creazione di valori nuovi.
Ritengo che l’esperienza degli ultimi due decenni mostri che ogni lotta intrapresa per raggiungere un qualsivoglia “scopo”, deve essere effettuata nella piena consapevolezza del fatto che ogni nodo in lotta è un nodo di una rete produttiva di aspirazioni e di rivendicazioni assai piú grande. Penso che in ogni lotta ci si debba chiedere in quale rapporto sia il “proprio nodo” con l’insieme agli altri network sociali. Le rivendicazioni di una lotta, in altre parole, devono essere presentate non solo come legittime ed eticamente corrette (cioè basate su un predeterminato e condiviso insieme di valori), ma anche come aspirazione sociale di costituzione. L’abilità di ottenere il sostegno necessario a questa lotta dipende molto da come le aspirazioni dei soggetti coinvolti contemplino quelle di altri networks. Per fare un esempio, se noi lavorassimo in una fabbrica che esporta in Cina sfollagente elettrici da tortura e, diciamo, volessimo iniziare una lotta per lavorare meno ore ed ottenere un salario più alto, il sostegno morale e la solidarietà potrebbero essere perseguiti facendo appello ad astratti interessi definiti “comuni” (salari più alti “fanno bene” all’economia, meno ore di lavoro “fanno bene” all’unità della famiglia e di conseguenza all’economia). Questa giustificazione della lotta comporta l’astrazione dall’aspetto concreto del nostro lavoro nei confronti di sindacalisti di base cinesi torturati dagli strumenti che abbiamo prodotto. Penso che l’atteggiamento della maggior parte dei sindacati a riguardo delle lotte sia di questo genere, anche quando i lavoratori producono articoli meno problematici. È raro che un nodo produttivo si ponga il problema del proprio rapporto nei confronti della totalità dei network sociali di produzione. La ragione è chiara e a prima vista comprensibile: sarebbe come spararsi sui piedi, criticare i mercati della propria industria è come criticare la giustificazione del proprio impiego. Da qui nasce il silenzio e la mancanza di riflessione.
Occorre invece avere il coraggio di vedere le cose come stanno. Molti dei nostri lavori, infatti, in maniera più o meno accentuata, hanno un contenuto indegno una volta misurati non solo con il metro della loro utilitá sociale, ma anche con quello della loro forma costituita di rapporti mercantili. Nel contesto dell’accumulazione senza fine, della produzione al fine della produzione, in quanto creativi, ad esempio, lavoriamo sempre piú per convincere noi stessi e gli altri di bisogni inesistenti; in quanto insegnanti lavoriamo sempre più per riprodurre una forza lavora competitiva; in quanto produttori di autonomobili contribuiamo sempre più a produrre l’effetto serra; in quanto produttori di armi continuiamo sempre più alla guerra neoliberale; in quanto docenti uiversitari convalidiamo sempre piú la scienza come business. Dove sta la dignità all’interno di questi parametri? Rivendicare la dignità significa mettere in discussione questi parametri, e ciò si può fare solo attraverso un percorso di ridefinizione dei rappporti con l’altro.
La questione della dignità sorgerebbe solo se riuscissimo a mettere insieme delle lotte per migliorare le nostre condizioni di vita e di lavoro e allo stesso tempo mettere in discussione il nostro rapporto con le altre reti di produzione sociali. Una lotta quindi che organizzativamente si forma sia come network strumentale che come network costitutivo. Network strumentale, perchè è una lotta che ha degli obiettivi. Network costitutivo perché il modo con cui ci poniamo nei confronti di altri network apre il dibattito sulla natura e sullo stato della nostra professione, ossia del nostro “nodo” specifico. Ed è tale dibattito che si potrebbe porre come premessa di cambiamento verso valori e obiettivi “altri”, valori ed obiettivi dei quali il nostro nodo non ha il monopolio.
In ultima analisi, le questioni sollevate dal tipo di rivendicazioni e aspirazioni che emergono da network costitutivi, sono una questione di dignità, e la dignità è un rapporto di rispetto tra nodi e reti produttive (in senso lato, cioè sia salariate che non salariate) all’interno della società. Ritengo che la questione della dignità sia fondamentalmente una questione organizzativa, cioè essa definisce la natura della produzione sociale. Recentemente, tale questione è stata evidenziata dagli Zapatisti (De Angelis 2000), dai vari meticciati che hanno portato all’evento di Seattle, dagli agricoltori francesi della confederazione Paysienne (Bove’ Duford 2001). Per questi ultimi per esempio, “il salto fondamentale avviene nel momento in cui il sindacato non interrompe la lotta in difesa delle condizioni di lavoro, dello stipendio e dell’impiego, ma s’interroga sulla fine sociale ed economica del lavoro e dell’attività umana.” (Bove’ Dofour 2001: 127). Il punto consiste nel trasformare quest’interrogativo da pura contemplazione del ruolo di ciascuno, in strumento attivo per relazionarsi con il mondo e per interrogarsi circa la propria posizione in rapporto con gli altri networks sociali.
Quali strade debbono o possono seguire i sindacati nel contesto nella società-network? Queste sono le mie brevi conclusioni:
A. I sindacati dei lavoratori possono promuovere la loro crescente insignificanza continuando a considerare se stessi solamente come networks strumentali e appellandosi al mondo esterno in termini di “interessi economici comuni” o attraverso valori ed ideologie astratte. Nel primo caso, i loro sforzi sono autodistruttivi poiché in un mondo in crescente competizione, gli “interessi comuni” economici sono continuamente riformulati. Il secondo caso presuppone la formulazione di un atteggiamento astrattamente etico verso una politica con determinati valori. Quest’atteggiamento è sempre meno adeguato nei confronti di un mondo fertile di movimenti che crea nuovi valori e risignifica i vecchi.
B. I sindacati possono promuovere riflessioni e battaglie che emergono dai bisogni e le aspirazioni dei loro membri, sulla questione dei ritmi, delle condizioni di lavoro e dei liveli salariali insieme a quella della natura del lavoro e del suo ruolo all’interno del network globale della produzione sociale. In questo modo, l’alleanza con altri movimenti non è soltanto facilitata, ma diventa anche parte costituente di nuovi rapporti sociali. Ma questo significa che i sindacati, come li conosciamo noi, sono destinati ad essere cancellati dallo straripare di forze democratiche che si generano quando si ha un processo creativo di meticciato sociale. Inoltre, gli attuali sindacati devono essere pronti ad abbandonare retoriche astratte e senza significato su ciò che è “bene” per l’economia, e vedere se stessi come parte del processo di trasformazione che ridefinisce i “valori” stessi dell’economia (Cosa produciamo? Come lo produciamo? Quanto produciamo? Come ci rapportiamo agli altri produttori con i quali siamo in competizione?). Alla fine, se i sindacati inizieranno a ridefinire i propri obiettivi dissociandosi da quelli imposti dalle priorità del mercato, saranno anche obbligati a sollevare la questione dell’accesso ai mezzi di sussistenza come diritto, a promuovere il dibattito e l’azione politica contro l’egemonia del mercato, a denunciare le recinzioni che ne sono il presupposto, a partecipare attivamente e coscientemente alla battaglia per i nuovi “commons.”
Bove’, José and François Dufour. 2001. Il Mondo non è in vendita. Milano: Feltrinelli.
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[1] Versione aggiornata di una relazione presentata al seminario sul network internazionale delle organizzazioni sindacali, Conference of the Global Studies Association on Networks and Trasformations.