Analisi-inchiesta: EuroBang e diritti. Verso la Costituzione europea

Arturo Salerni

Tre numeri per una riflessione. La costruzione, problematica e contraddittoria, dell’Europa unita è - lo si voglia o no - il fatto nuovo sul piano dei nuovi assetti geopolitici, sul piano della creazione istituzionale, sul versante della produzione normativa. È lo scenario che condiziona il possibile sviluppo della nostra vita sociale e politica, anche al di là dei recenti sviluppi della vicenda irakena, delle contrapposizioni che si sono generate sul piano internazionale e che certo hanno influito ed influiscono pesantemente sul dipanarsi degli avvenimenti. Avevamo già affrontato la questione in due precedenti interventi nel corso del 2001 [1]. È utile ora affrontare con maggiore sistematicità le tante implicazioni del processo di costruzione europea, con i suoi continui stop and go, con i suoi tanti interrogativi e con le sue incerte risposte, ben sapendo che le soluzioni (durature o transitorie) dei tanti problemi insoluti non resteranno relegate in un ambito astratto o generalissimo, ma incideranno profondamente nella nostra realtà sociale, politica e sindacale.

1. I confini dell’Europa

Il 16 maggio 2003 ad Atene si è realizzato un fatto nuovo e di grande importanza per il processo di costruzione dell’unità europea: l’ingresso di dieci nuovi paesi nell’Unione. L’Europa dei quindici diventa l’Europa dei venticinque. Quattro paesi dell’Est Europeo che aderivano al patto di Varsavia (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia - gli ultimi due prodotto della separazione della Cecoslovacchia, consumatasi nello scorso decennio), le tre repubbliche baltiche già appartenenti all’Unione Sovietica (Estonia, Lettonia, Lituania), la Slovenia (primo pezzo della ex Jugoslavia ad aderire all’Unione), due isole del Mediterraneo (Malta e Cipro, quest’ultima attraversata dal conflitto tra la parte greca e la parte turca), sono i nuovi compagni di viaggio di questo strano, inedito e per tanti versi straordinario percorso verso una nuova entità di cui è difficile definire confini, contorni e punti d’approdo.

Dall’Est un processo di disintegrazione (Cecoslovacchia spaccata a metà, Russia separata dagli altri Stati che costituivano l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, un panorama jugoslavo smembrato in diverse entità statali che spesso loro volta contengono in sé altre sub-entità autonome e reciprocamente ostili) si risolve in una nuova aggregazione ad un livello significativamente più alto di quello rappresentato dalle realtà statuali formatesi nel corso del Novecento.

Già adesso l’Europa dei 25 paesi conta circa 450 milioni di cittadini, che eleggeranno nel giugno 2004 i loro rappresentanti nel Parlamento.

La crescita rapida e disordinata di questa cosa che non è (ancora?) uno Stato ma non è più (soltanto) un’area di libero scambio ci pone di fronte ad un interrogativo: quali saranno i confini dell’Unione?

Il presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, esprime sulla questione un’opinione sicuramente autorevole: “Ci sono Bulgaria e Romania che stanno marciando forte per tenere l’appuntamento dell’ingresso nel 2007. Le porte dell’Unione potranno ancora aprirsi per la Turchia, per le repubbliche dell’ex Jugoslavia, per l’Albania. Poi, almeno nel futuro prevedibile, basta. Come scriviamo nel documento della Commissione che ha trovato un largo consenso al vertice di Atene, attorno alle frontiere dell’Unione si creerà un “anello degli amici”: paesi che, dalla Russia al Marocco, avranno rapporti strettissimi con l’Europa. Con loro potremo condividere tutto, tranne le istituzioni” [2].

Già per il 2007, oltre al previsto ingresso di Bulgaria e Romania, si inizia a discutere della probabile aggiunta della Croazia. Sulla Turchia pesano ancora diverse incognite: un paese di settanta milioni di abitanti, quasi totalmente di religione musulmana, rispetto al quali si pone tra l’altro la questione del rispetto dei diritti umani e di standards democratici ritenuti insufficienti, specie con riguardo alla grande minoranza dei curdi [3].

Ma c’è chi spinge per un ulteriore immediato allargamento: tra questi il capo del governo italiano, Silvio Berlusconi, il quale propone l’inclusione della Russia nell’Unione. Probabilmente l’obiettivo di Berlusconi non è quello di far più forte l’Europa ma di impedire che si definiscano compiutamente passaggi istituzionali che facciano dell’Unione un vero soggetto politico, e soprattutto una realtà indipendente dagli Stati Uniti d’America. Altri ancora pongono il problema dell’ingresso nell’U.E. di Israele. Gli U.S.A. hanno spinto (prima dello scoppio della vicenda irakena) per l’ingresso della Turchia filoatlantica. Ma nonostante l’elencazione di alcune posizioni possa far pensare ad un interesse d’oltreatlantico ad allargare a dismisura i confini dell’Unione per scolorare la portata innovativa della nuova entità, non si può semplicemente liquidare la questione dei confini con l’equazione “Europa più ampia, Europa meno forte”. Il processo a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni ha visto coesistere un progressivo allargamento dei confini ed un (largamente insufficiente ma comunque progressivo) intensificarsi degli organismi e dei poteri in capo all’Unione. Si tratta - lo abbiamo più volte sottolineato - di un percorso assolutamente originale, di cui non è facile prevedere i punti di approdo, ma che comunque va avanti e non sembra destinato a fermarsi.

Un ultimo riferimento geografico e politico va offerto alla valutazione dei lettori, ed è la composizione del Consiglio di Europa, che fu istituito nel maggio 1949 per garantire forme comuni di intervento finalizzate al rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (l’organo giurisdizionale del Consiglio è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha sede a Strasburgo, importante organismo del Consiglio è il Comitato per la prevenzione della tortura). Il Consiglio di Europa riuniva in origine il Belgio, la Danimarca, la Francia, il Regno Unito, l’Irlanda, l’Italia, il Lussemburgo, la Norvegia, i Paesi Bassi e la Svezia; a essi si sono via via aggiunte Grecia e Turchia, seguite da Islanda e Repubblica Federale Tedesca (nel 1950), Austria (nel 1956), Cipro (nel 1961), Svizzera (nel 1963), Malta (nel 1965), Portogallo (nel 1976, dopo la rivoluzione dei garofani), Spagna (nel 1977, dopo la caduta del regime franchista), Liechtenstein (nel 1978), San Marino (nel 1988), Finlandia (nel 1989), Ungheria (nel 1990), Polonia (nel 1991), Bulgaria (nel 1992), Estonia, Lituania, Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania (nel 1993), Andorra (nel 1994), Lettonia, Albania, Moldavia, Macedonia e Ucraina (nel 1995), Russia e Croazia (nel 1996), Georgia (nel 1999), e dopo il 2000 Armenia e Azerbaigian (ovvero gli Stati del Caucaso che un tempo facevano parte dell’U.R.S.S.).

2. Divisioni, conflitti e processo costituente: una strana convivenza

Le posizioni assunte dagli Stati che oggi compongono l’Europa dei venticinque sull’atteggiamento da assumere nei confronti del conflitto in Irak sono così riassumibili per grandi linee (nel senso che per alcuni paesi vanno registrate posizioni più sfumate ed oscillazioni con passaggi da una posizione all’altra): favorevoli ad una iniziativa militare americana senza l’avallo ONU tredici paesi (Gran Bretagna, Italia, Spagna, Portogallo, Olanda, Danimarca, Lituania, Lettonia, Estonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia), contrari dodici (Francia, Germania, Irlanda, Belgio, Austria, Finlandia, Svezia, Malta, Cipro, Slovenia, Grecia e Lussemburgo).

Ma le divisioni sulla guerra non segnano la parola “fine” sull’avanzamento dell’integrazione. Terminata la guerra in Irak (o almeno la fase culminata nella caduta del regime di Saddam Hussein sotto i colpi angloamericani) non si può dire che la marcia degli europei verso l’Europa si sia arrestata. Le contraddizioni sono tante, enormi, superiori per asprezza e quantità a quelle esistenti prima del conflitto (e della lunga fase preparatoria del conflitto) eppure - dopo le diverse e successive fasi dei primi trattati, dell’avvio del Parlamento europeo, di Maastricht, dell’euro e della Banca Centrale europea - si avvia una convulsa e complessa, per tantissimi versi anomala, stagione costituente: come se al di là delle intenzioni dei soggetti protagonisti vi fosse una forza invisibile che spinge in avanti la crescita di una nuova entità dai contorni variabili, dalla fisionomia incerta, ma che indubbiamente esiste, pesa ed è destinata a svilupparsi. Certamente non può sfuggire (e più volte lo ha sottolineato Jean-Paul Fitoussi) [4] che l’unica autorità economica federale è al momento la Banca centrale europea, e sicuramente essa non può costituire un punto di riferimento per una complessiva politica economica e sociale, ma è anche vero che - per strappi successivi - ci si avvicina a definizioni di strategie, ancora molto lacunose, di intervento comune sull’intera area dell’Unione.

Si sviluppa innanzitutto un percorso costituente, anch’esso anomalo, e segnato soprattutto da un vistoso deficit democratico: si lavora ad una Costituzione senza l’elezione popolare di un organismo costituente, ovvero senza una preventiva discussione - anche con tesi contrapposte sottoposte al vaglio popolare - in ordine ai grandi temi, ai principi e valori che debbono costituire parte essenziale del testo costituzionale, agli assetti ed agli equilibri del novo ordinamento. È questo un punto di grande rilievo che non è stato portato con la dovuta forza nel dibattito politico interno ai Paesi che compongono, o dovranno comporre, l’Unione: è un elemento invece che va sottolineato con il dovuto vigore, non solo per un problema di metodo ma affinché il patto costituzionale contenga al suo interno diritti e conquiste faticosamente raggiunti - sia pure in termini non omogenei - dai popoli di Europa. Diritti di libertà e diritti sociali devono entrare con pienezza nel testo di una Costituzione dell’Unione, e devono essere il prodotto di una discussione che coinvolga tutti i soggetti destinatari del nuovo atto fondamentale.

3. Un’Europa a geometria variabile

I conflitti - specie quelli relativi alla collocazione internazionale del nuovo soggetto europeo - ed i diversi percorsi seguiti dai vari paesi nel loro approccio con la creazione dell’Unione hanno determinato e determinano diverse velocità ed intensità di coinvolgimento nel percorso fondativo europeo, per cui convivono (altro elemento assolutamente originale della questione che stiamo esaminando) un percorso comune ai diversi paesi e diversi specifici percorsi caratterizzati da velocità e geometrie variabili.

Tra gli elementi significativi di cui si è verificata l’accelerazione a partire dai mesi precedenti lo scoppio del conflitto in Irak e l’occupazione di quel paese da parte delle truppe angloamericane vi è quello che riguarda l’asse franco-tedesco, inteso non solo come l’emergere di una sintonia in ordine alle posizioni d’assumere in relazione al conflitto ed alla collocazione internazionale dell’Europa ma anche la definizione di un modello di integrazione reciproco molto più definito e stretto rispetto a quello esistente
 e prospettabile nell’immeditato non solo all’Europa dei venticinque ma anche alla più piccola Europa dei dodici Paesi dell’area-euro. La domanda che gli analisti si pongono è questa: l’asse franco-tedesco costituirà d’ora in poi (come nel passato) il motore del processo complessivo di integrazione o piuttosto da questo momento in poi si viene a configurare stabilmente un modello a cerchi concentrici con diversi livelli di integrazione (e compatibile con confini sempre più larghi della nuova Unione)?

Sulla questione della difesa comune (diversa dalla Nato, ma non contrapposta) il vertice del 29 aprile 2003 ha disegnato ancora l’esistenza di un asse composto da quattro dei sei paesi fondatori della Comunità Economica Europea (Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo), che rivendicano la necessità di strumenti difensivi e di armamenti europei e che in buona sostanza pongono il problema dell’indipendenza dell’Europa.

L’area dell’euro è costituita da dodici dei quindici paesi dell’Unione con l’autoesclusione (almeno sino ad ora) di Gran Bretagna, Danimarca e Svezia, ed è destinata sicuramente ad allargarsi ai paesi che stanno per fare il loro ingresso nell’Unione Europea (i quali potranno adottare l’euro non prima del primo maggio 2006).

Anche le divisioni sulla scelta del futuro assetto istituzionale sono particolarmente acute nel periodo attuale, segnato dai lavori della Convenzione e dal ragionamento di carattere costituzionale (sia pure per tanti versi anomalo) sul futuro dell’Unione. Si tratta peraltro di divisioni che segnano in modo assolutamente diverso i campi di appartenenza rispetto alle linee di demarcazione che si registrano in altri campi (politica internazionale, moneta, giustizia).

Si pensi ad esempio alla proposta giscardiana dell’istituzione di un “superpresidente”, che ha visto schierati da una parte alcuni grandi Stati (Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia) e dall’altra la Commissione presieduta da Romano Prodi ed alcuni paesi più piccoli (in testa il Belgio), i quali chiedono di mantenere la carica di Presidente del Consiglio Europeo com’è adesso configurata, ovvero a rotazione semestrale fra i capi di governi. Gli stessi piccoli Paesi temono una riduzione - che andrebbe a loro discapito - del numero dei componenti della Commissione e vorrebbero che ogni Paese (anche i nuovi entrati) ne abbia uno a testa a funzioni intere, come è attualmente.

Convivono, come è noto, nell’Unione di oggi un Parlamento che ha compiti prettamente consultivi, eletto direttamente dai popoli di Europa, un Consiglio - organo centrale anche sotto il profilo legislativo - composto dai capi dei governi degli Stati che compongono l’Unione - e la Commissione, con compiti esecutivi.

Organismi unitari ed organismi che invece trovano la loro legittimazione direttamente dagli Stati che compongono l’Unione e meccanismi decisionali a volte a maggioranza e a volte all’unanimità (con conseguente diritto di veto da parte dei singoli di Stati) caratterizzano il complesso meccanismo istituzionale dell’Europa di oggi. Il rimettere mano nell’attuale fase costituente a questo organismo costruito per passaggi successivi ed il tentativo di disegnare un quadro organico di risistemazione di competenze e funzioni determinano, com’è evidente, una fase caratterizzata da tensioni, contrapposizioni, tentativi di frenata, paure.

4. La Costituzione europea

Il conflitto fortissimo, lacerante, senza precedenti sulla guerra in Irak e sui rapporti da tenere con la superpotenza americana non impedisce lo sviluppo del processo di integrazione europea e questa volta non soltanto su questioni monetarie o sulle regole di un mercato senza barriera ma attraverso un dibattito - vero - sul futuro dell’Unione. Un dibattito in cui gli schieramenti appaiono diversi da quelli che abbiamo visto crearsi sulla questione irachena (o meglio sulla questione del rapporto tra le due sponde dell’Atlantico). Anche qui in grandi linee una contrapposizione forte tra i sei paesi più grandi (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e la nuova arrivata Polonia) e gli altri componenti dell’Europa a venticinque. Ed ancora una contrapposizione che attraversa i diversi paesi dell’Unione tra una prospettiva confederale (ovvero un’unione tra Stati sovrani) ed una prospettiva federale (che mira ad accelerare il processo di integrazione).

Dentro tale dibattito - o più esattamente nel cuore di esso
 si inserisce il lavoro della Convenzione istituita per la creazione di una Costituzione dell’Unione, convenzione presieduta dall’ex presidente francese Valery Giscard d’Estaing. La scelta effettuata dal Consiglio europeo tenutosi a Laeken nel 2001 di far precedere la prevista conferenza intergovernativa di riforma dei Trattati da una Convenzione, formata da rappresentanti del Parlamento europeo, della Commissione europea, dei governi e dei parlamenti nazionali (sia dei paesi membri dell’Unione che dei paesi candidati all’ingresso) ha rappresentato sicuramente una novità di grande rilievo ed originalità nel processo europeo verso la costituzionalizzazione dell’Unione [5].

Quello che cominciamo ad esaminare è il testo approvato dal Presidium, ben sapendo che proprio nei giorni in cui stiamo lavorando a questo commento il testo viene sottoposto ad un serrato confronto, ad un fiorire di emendamenti, e che dovremo necessariamente - nei prossimi numeri della rivista - ritornare sulle questioni che oggi esaminiamo, che passeranno all’esame dell’intera Convenzione prima di essere redatte nuovamente dal Presidium ed inviate all’esame degli altri organismi dell’Unione. Ci attende cioè, e sicuramente per il semestre di presidenza italiana dell’Unione (gli ultimi sei mesi del 2003), le questioni elaborate dalla Convenzione saranno al centro del dibattito e su di esse interverranno modifiche, scontri, mediazioni, rimodellazioni.-----

5. I principi fondamentali

Nei primi sedici articoli del trattato costituzionale sono contenuti i principi fondamentali distinti in tre titoli: “definizione e obiettivi dell’Unione”, “diritti fondamentali e cittadinanza dell’Unione”, “competenze dell’Unione”.

L’art.1 del progetto - “Istituzione dell’Unione
 contiene i seguenti tre commi: “Ispirata dalla volontà dei popoli e degli Stati d’Europa di costruire il loro futuro comune, la presente Costituzione istituisce un’Unione [6], in seno alla quale le politiche degli Stati membri sono coordinate, che gestisce, sul modello federale, talune competenze comuni.

L’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri.

L’Unione è aperta a tutti gli Stati europei i cui popoli condividono gli stessi valori, li rispettano e si impegnano a promuoverli congiuntamente”.

In questa formulazione sono contenuti e riconoscibili alcuni passaggi chiave: la possibilità di un ulteriore allargamento rispetto all’Europa dei venticinque (terzo comma), il richiamo - almeno nominalistico - ad un modello federale, preferito rispetto ad un modello unionista, la previsione di un sistema a più livelli entro il quale l’Unione convive e coopera con gli Stati nazionali.

L’art. 2 indica i “valori dell’Unione”: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, di libertà, di democrazia, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti dell’uomo, valori che sono comuni agli Stati membri. Essa mira ad essere una società pacifica che pratica la tolleranza, la giustizia e la solidarietà”.

L’art. 3 indica invece gli “obiettivi dell’Unione”: “L’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli”.

L’Unione si adopera per un’Europa improntata ad uno sviluppo sostenibile basato su una crescita economica equilibrata e la giustizia sociale, in un contesto di mercato unico libero, ed un’unione economica e monetaria, con l’obiettivo di ottenere la piena occupazione e di produrre un livello di competitività e un tenore di vita elevato. Essa promuove la coesione economica e sociale, la parità tra donne e uomini e la protezione ambientale e sociale e coltiva il progresso scientifico e tecnologico, ivi compresa la scoperta spaziale. Essa favorisce la solidarietà tra le generazioni e tra e gli Stati e le pari opportunità per tutti.

L’Unione costituisce uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, nel quale sono sviluppati i suoi valori condivisi e viene rispettata la ricchezza della sua diversità culturale.

Nel difendere l’indipendenza e gli interessi dell’Europa, l’Unione si adopera per promuovere i suoi valori sulla scena mondiale. Essa contribuisce allo sviluppo sostenibile della terra, alla solidarietà ed al rispetto reciproco tra i popoli, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti dei bambini, alla rigorosa osservanza degli impegni giuridici accettati a livello internazionale e alla pace tra gli Stati.

Tali obiettivi sono perseguiti con i mezzi appropriati, in funzione delle pertinenti competenze che la presente Costituzione attribuisce all’Unione”.

Con riferimento al testo proposto per l’articolo 3 è possibile svolgere alcune considerazioni.

Innanzitutto è importante - specie nel contesto attuale - il richiamo alla promozione della pace tra gli obiettivi dell’Unione. Ma manca evidentemente - sul punto - quell’elemento pregnante e vincolante del “ripudio della guerra” come “strumento di risoluzione delle controversie internazionali” che è invece contenuto nell’art. 11 della nostra Costituzione. Si è optato per una indicazione non priva di valore ma certamente generica.

L’espressa indicazione del “contesto di mercato unico libero” è da un lato il segno dei tempi (e dell’affermazione dell’ideologia del mercato libero, scossa ma non ancora incrinata dal recente affacciarsi di movimenti di massa fortemente critici nei confronti del neo-liberismo) e dall’altro reca in sé l’impronta storica di un percorso che vede i primi vagiti dell’idea unitaria dell’Europa nell’affermarsi di un’area di mercato europea. E così l’inserimento dell’espressione “produrre un livello di competitività” elevato - collegata all’obiettivo del “tenore di vita elevato” - richiama (nell’indicazione degli obiettivi del soggetto unitario) le stesse impronte ed il medesimo percorso, sia pur temperato dal richiamo “ad uno sviluppo sostenibile basato su una crescita economica equilibrata” ed alla “giustizia sociale”. Collegato al concetto della giustizia sociale è l’obiettivo della piena occupazione, che viene assunto ad elemento centrale delle politiche che l’Unione deve sviluppare.

Manca un espresso richiamo al diritto internazionale, sostituito dal concetto - più vago - della “rigorosa osservanza degli impegni giuridici accettati a livello internazionale”.

 

6. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ovvero la Carta adottata a Nizza nel dicembre del 2000, è richiamata dall’art. 5 del progetto di Costituzione e ad essa va dedicata una particolare attenzione, anche in relazione al fatto che la sua sussunzione nel corpo del trattato costituzionale dovrebbe determinare il superamento del dibattito sviluppatosi intorno alla sua effettiva applicabilità nell’ambito degli ordinamenti dei Paesi che aderiscono all’Unione.

È importante richiamare nella sua interezza il “preambolo” della Carta: “I popoli europei nel creare tra loro un’unione sempre più stretta hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni.

Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, L’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l’Unione si basa sui principi di democrazia e dello stato di diritto. Essa pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia.

L’Unione contribuisce al mantenimento di questi valori comuni, nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei, dell’identità nazionale degli Stati membri e dell’ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale; essa cerca di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali nonché la libertà di stabilimento.

A tal fine è necessario, rendendoli più visibili in una Carta, rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici.

La presente carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull’Unione europea e dai trattati comunitari, dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della corte di Giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il godimento di questi diritti fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future.

Pertanto l’Unione riconosce i diritti, le libertà ed i principi enunciati qui di seguito”.

Anche in questo caso, pur richiamando il riconoscimento delle libertà, il valore della solidarietà ed i principi di democrazia, quali elementi caratterizzanti il patrimonio civile dell’Europa, ciò che assume pieno rilievo è la libera circolazione di beni, servizi e capitali. Vi è inoltre l’importante indicazione - che si ricollega all’obiettivo di “promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile” - dei doveri da assumere nei confronti “delle generazioni future”.

La Carta dei diritti fondamentali è suddivisa in sette capi (Dignità, Libertà, Uguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza, Giustizia, Disposizioni generali). Tra le disposizioni generali è particolarmente significativa quella contenuta nell’art.53, per cui “nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione, la Comunità o tutti gli Stati membri sono parti contraenti, in particolare la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri”. Il che tra l’altro comporta che qualora diritti e libertà abbiano un più forte riconoscimento all’interno delle costituzioni degli Stati membri dell’Unione rispetto a quanto previsto dalla Carta dei Diritti fondamentali prevale la disposizione contenuta nel testo costituzionale nazionale.

Nell’ambito del primo capo vi è l’importante indicazione di cui al secondo comma dell’art. 2 [7] relativa al ripudio della pena di morte, che quindi diventa elemento caratterizzante ed insuperabile dell’Unione, e di cui si è vista la pratica applicazione in Turchia (con l’abolizione della pena di morte e la commutazione di questa nella pena dell’ergastolo nel caso del leader curdo Abdullah Ocalan) [8].

Accanto alle previsioni caratteristiche delle moderne costituzioni, si affacciano nella Carta i cosiddetti diritti di ultima generazione. Ne è un esempio il secondo comma dell’art. 3: “Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati:

- il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge;

- il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone;

- il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro;

- il divieto della clonazione riproduttiva degli essere umani.

Ed è ancora significato sotto tale profilo quanto contenuto nell’art. 8, (titolato “protezione dei dati di carattere personale”) [9], o la previsione di cui al secondo comma dell’art.11 (“La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati”). Si tratta di disposizioni contenute nel capo II (“Libertà”).

Nello stesso capo troviamo due disposizioni (articolo 18 “Diritto di asilo” e art. 19 “Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione”) che riguardano, a diverso titolo, le questioni attinenti ai cittadini provenienti da Paesi esterni all’Unione Europea.

7. La fortezza Europa

Procede inesorabile l’integrazione dei mercati e delle economie a livello planetario; al tempo stesso si intensificano le contraddizioni prodotte dal modello di sviluppo neoliberista, crescono la povertà e le diseguaglianze, sempre più ampie divengono le spinte di carattere economico sociale alle migrazioni. Miserie, diseguaglianze, fame, dittature, guerre spingono milioni di persone ad andar via dalla propria terra e a cercare rifugio e/o prospettive in altri luoghi, in altri continenti. Ma a questo movimento profondo, che attraversa la terra, che ha cause profonde, si contrappongono le politiche dei paesi ricchi, che trasformano in reato il movimento delle persone, che considerano il migrante poco meno che un criminale, che creano nuove artificiose barriere. Ciò non porta al blocco o all’impedimento del flusso migratorio, ma a rendere i migranti dei quasi-cittadini, sempre ricattabili, privi di diritti, precari per eccellenza. In molti, troppi, muoiono, ai confini tra il Messico e gli Stati Uniti o annegati nel Canale di Sicilia o al largo delle coste pugliesi, non importa se uomini, donne, bambini, giovani o anziani, respinti da una feroce legislazione proibizionistica, che certamente la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea non contribuisce a superare e neanche ad incrinare.

Occorre chiedersi: ma chi e cosa provoca queste morti, chi supera la barriera viene dapprima inseguito e perseguito, poi lentamente inserito nei gironi infernali dei lavori più umili e massacranti, senza tutele e senza protezione sindacale, impossibilitato a reclamare, additato come colui che toglie lavoro, risorse, servizi, ai cittadini più poveri dei paesi di approdo. Le leggi che bloccano le frontiere producono morti, sono leggi assassine: politiche incisive e programmi di riforme sul terreno dell’immigrazione devono partire da un radicale rifiuto del proibizionismo, che deve attraversare l’intero continente per arrivare al superamento delle norme che trasformano in crimini semplici irregolarità amministrative, delle leggi per cui la mancanza di un visto d’ingresso o di un permesso di soggiorno diventa un delitto. Ai tanti drammi che comunque l’immigrazione produce, al doloroso distacco dalla propria terra, si aggiunge l’effetto devastante e omicida delle barriere costruite dagli uomini.

Il nostro Paese continua ormai da più di un decennio a produrre norme sul terreno dell’immigrazione all’interno di una logica proibizionista e criminalizzante, e l’ultima legge in materia - approvata dal centro destra nel corso del 2002 - aggrava le previsioni contenute nel testo unico varato dal centro sinistra nel 1998 e giunge ad un ulteriore stretta: con l’introduzione del contratto di soggiorno (art.5 bis del testo unico) si entra e si resta in Italia solo se si ha un lavoro, se invece si perde il lavoro si va via dall’Italia. Sei escluso ed espulso dal paese anche se in Italia vivi da anni, se qui si sono stabiliti i tuoi figli, se qui si sono costruiti amicizie, amori, affetti, ricordi. In un panorama che vede i rapporti di lavoro sempre più caratterizzati da flessibilità e precarietà, al cittadino straniero si chiede di avere un lavoro necessariamente stabile, di lunga durata; se il lavoro finisce, lo straniero deve abbandonare il paese, a meno che in tempi ridottissimi non riesca a trovarne un altro, subordinato e a tempo indeterminato. Al di là della descrizione propagandistica di una legge mirata a reprimere il fenomeno della clandestinità, si è prodotto un peggioramento delle previsioni normative per tutte le diverse categorie di cittadini stranieri: aggravamento delle condizioni per chi entra o vuole entrare nel territorio nazionale, per chi è irregolare, per chi chiede asilo, per chi soggiorna regolarmente in Italia. Si inaspriscono le procedure per le espulsioni, si restringe la possibilità dei ricongiungimenti familiari, si allontana la possibilità di accedere ad alcuni diritti fondamentali. Al tempo stesso però ci si arrende all’evidenza: su pressione delle famiglie, delle imprese, dei sindacati si mette in campo la più estesa sanatoria mai attuata nel nostro paese da quando l’immigrazione è divenuta un consistente fenomeno sociale, economico e produttivo.

Il cittadino straniero che incappa nel sistema penale (nel processo e nel carcere) è praticamente un soggetto senza diritti e senza difesa, quasi impossibilitato ad accedere - nell’ipotesi di condanna a pena detentiva - a misure alternative al carcere, per il quale - sia pure ad esito di un positivo percorso di riabilitazione - all’espiazione della pena segue necessariamente l’espulsione. È il dramma di una situazione che vede una sproporzionata presenza di cittadini stranieri nelle nostre carceri sovraffollate, e nella quale il carcere diviene il contenitore delle situazioni di emarginazione sociale ed il diritto penale l’arma finalizzata a combattere le emergenze, vere o presunte. Le campagne di stampa ricorrenti che vedono lo straniero come il soggetto che turba la tranquillità dei nostri territori, il grande battage trasversale contro la cosiddetta microcriminalità, contribuiscono ad alimentare un clima nel quale la cultura dei diritti (ed in primo luogo dei diritti all’interno dei penitenziari) e delle garanzie vengono additate come causa dell’insicurezza sociale.

Il tutto si verifica in una situazione nella quale si tende ad introdurre con sempre maggiore asprezza ipotesi di reato dai contorni indefiniti. Parliamo delle involuzioni legislative in tema di terrorismo internazionale. Involuzioni che ricadono sul nostro ordinamento interno, a partire dalle produzioni normative internazionali e comunitarie congegnate in modo tale da colpire anche le espressioni organizzate di dissenso e di contrapposizione agli organismi internazionali, divenuti i luoghi dominati dall’ideologia e dalla pratica del libero scambio senza barriere [/b].

8. Diritti del lavoro, diritti sociali, nuovi diritti

Il capo IV (“Solidarietà”) della Carta è quello che concerne i diritti del lavoro e l’azione sindacale, e merita una particolare attenzione in relazione al tema su cui maggiormente si sofferma la nostra rivista.

Ai sensi dell’art.27 “ai lavoratori o ai loro rappresentanti devono essere garantite, ai livelli appropriati, l’informazione e la consultazione in tempo utile nei casi e alle condizioni previsti dal diritto comunitario e dalle legislazioni e prassi nazionali”. Quindi da un lato viene affermato il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa, dall’altro tale diritto diviene relativo con il rinvio alle previsioni del diritto comunitario e delle legislazioni nazionali, ed addirittura alle prassi nazionali. È una tecnica che ritroviamo in tutta la parte della Carta dedicata ai diritti del lavoro.-----

Afferma l’art. 28 che “i lavoratori ed i datori di lavoro, o le rispettive organizzazioni, hanno, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali, il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati e di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero”. La posizione attribuita al diritto di sciopero non appare per la verità, nella costruzione dell’articolo 28 della Carta, caratterizzata da quella centralità che invece - in relazione alle concrete possibilità di azione rivendicativa da parte delle classi lavoratrici
 dovrebbe avere. Ciò richiede la necessità di un’azione congiunta a livello europeo da parte delle forze sindacali per la tutela di un principio e di un diritto, che è assolutamente imprescindibile se si mira ad un complessivo miglioramento delle condizioni economiche e normative del lavoro dipendente, ed al rafforzamento delle sue posizioni e garanzie.

Anche l’art.30 afferma un diritto, quello “alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato” - che ad esempio non è contenuto nella pur avanzatissima Costituzione italiana - per poi relativizzarlo con la solita espressione “conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”.

L’art. 31 afferma il diritto di ogni lavoratore “a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose” e “a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite”. Manca una previsione simile a quella contenuta nell’art.36 della Costituzione italiana, per cui “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Nell’art.32 si afferma il divieto del lavoro minorile (ovvero sino alla ”età in cui termina la scuola dell’obbligo, fatte salve le norme più favorevoli ed eccettuate deroghe limitate”) e la necessità di “protezione dei giovani sul luogo di lavoro”. All’art.33 vengono espressamente sancite la tutela “contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e il diritto ad un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio”.

Va richiamato in particolare il terzo comma dell’art.34 che afferma: “Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali”.

Ed ancora la carta si sofferma - nello stesso capo IV - su sicurezza sociale e assistenza sociale, protezione della salute, tutela dell’ambiente, protezione dei consumatori.

Significativa appare la previsione dell’art. 41 (“Diritto ad una buona amministrazione” - Capo V “Cittadinanza”): “Ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione.

Tale diritto comprende in particolare:

- il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio;

- il diritto di ogni individuo di accedere al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale;

- l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni.

Ogni individuo ha diritto al risarcimento da parte della Comunità dei danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni conformemente ai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri.

Ogni individuo può rivolgersi alle istituzioni dell’Unione in una delle lingue del trattato e deve ricevere una ricevere una risposta nella stessa lingua.

9. Le competenze dell’Unione

Secondo quanto previsto dall’art.8 del progetto di Costituzione - nel testo approvato dal Presidium della Convenzione - “la delimitazione e l’esercizio delle competenze dell’Unione si fondano sui principi di attribuzione, sussidiarietà, proporzionalità e cooperazione leale”.

Cosa si debba intendere per ciascuno di tali principi lo indica lo stesso articolo.

Attribuzione: “l’Unione agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite dalla Costituzione al fine di realizzare gli obiettivi da essa stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione dalla Costituzione appartiene agli Stati membri”.

Sussidiarietà: “nei settori che non sono di sua esclusiva competenza l’Unione interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello di Unione”.

Proporzionalità: “il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione non vanno al di là di quanto sia necessario per il raggiungimento degli obiettivi della Costituzione.”

Cooperazione leale: “l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dalla Costituzione”.

Si afferma nel primo comma dell’art. 9 che “la Costituzione e il diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione nell’esercizio delle competenze che le sono attribuite dalla Costituzione stessa hanno prevalenza sul diritto degli Stati membri”.

Ed al sesto ed ultimo comma dello stesso articolo si afferma il principio per cui “l’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri legata alla loro struttura fondamentale e alle funzioni essenziali di uno Stato, segnatamente la sua struttura politica e costituzionale, compresa l’organizzazione dei poteri pubblici a livello nazionale, regionale e locale”.

L’art.10 del testo proposto dal Presidium stabilisce il significato e la portata delle diverse categorie di competenze. Ed allora (primo comma) laddove ci si riferisce alla competenza esclusiva dell’Unione in un determinato settore “l’Unione è l’unica a poter legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri non possono farlo autonomamente se non previa autorizzazione dell’Unione”. Laddove in uno specifico settore si tratta di una competenza condivisa tra Unione e Stati membri “l’Unione e gli Stati membri hanno la facoltà di legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti in tale settore. Gli Stati membri esercitano la loro competenza soltanto se e nella misura in cui l’Unione non ha esercitato la propria” (secondo comma).

Afferma ancora l’art.10 che l’Unione ha competenza “per il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri” e “per la definizione e l’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune, compresa la definizione progressiva di una politica comune di difesa”.

È evidente che il termine utilizzato nel testo elaborato dal Presidium di “definizione progressiva” con riguardo alla politica comune di difesa indica quelle incertezze, oscillazioni e contraddizioni su cui abbiamo già avuto modo di soffermarci, e che le stesse incertezze e contraddizioni escono - come è evidente - ingigantite dal tumultuoso e bellicoso avvio dell’anno 2003, dalla volontà di guerra imposta dagli USA ad una parte dei Paesi europei, dalla minaccia di esercizio del diritto di veto in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU da parte della Francia di Chirac, da una situazione internazionale sicuramente difficile.

Vengono elencate nel testo che sarà sottoposto all’esame degli organismi dell’Unione Europea una serie di materie in cui l’Unione dovrebbe avere competenza esclusiva. Tale elencazione (ed anche l’ordine in cui le materie vengono collocate) evidenzia in modo sin troppo palese l’impronta genetica che l’Unione si porta appresso, ed anche il segno ideologico e di classe che la caratterizza.

Si tratta:

- dei “settori della libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali”;

- della “definizione delle norme di concorrenza nell’ambito del mercato interno”;

- dell’unione doganale;

- della politica commerciale comune;

- della “politica monetaria per gli Stati membri che hanno adottato l’euro”;

- della “conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca”;

Ed ancora “l’Unione ha competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione, è necessaria per consentire all’Unione di esercitare le sue competenze a livello interno o riguarda un atto interno dell’Unione”.

Per quanto riguarda le competenze condivise il testo proposto dal Presidium della Convenzione [10] è il seguente.

Le competenze condivise tra l’Unione e gli Stati membri si applicano ai seguneti settori principali:

- mercato interno

- spazio di libertà, sicurezza e giustizia

- agricoltura e pesca

- trasporti

- reti transeuropee

- energia

- politica sociale

- coesione economica e sociale

- ambiente

- sanità pubblica

- protezione dei consumatori

Nei settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione è competente per condurre azioni, segnatamente l’attuazione di programmi, senza che l’esercizio di tale competenza possa avere per effetto di vietare agli Stati membri di esercitare la loro.

Nei settori della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario, l’Unione è competente per avviare azioni e condurre una politica comune, senza che l’esercizio di tale competenza possa avere di vietare agli Stati membri di esercitare la loro.

In generale sull’esercizio delle competenze condivise nel testo si afferma che “qualora l’Unione non abbia esercitato o cessi di esercitare la sua competenza in un settore soggetto a competenza condivisa, gli Stati membri possono esercitare la loro”.

Sono altresì elencati i settori in cui l’Unione “può svolgere azioni coordinamento, di integrazione o di sostegno”:

- occupazione;

- industria;

- istruzione, formazione professionale e gioventù;

- cultura;

- sport;

- protezione dalle calamità.

10. L’Europa e gli Stati nazionali. Tra devoluzione e poteri dell’Unione

Nell’affrontare l’argomento della ripartizione della potestà legislativa tra organi dell’Unione e organismi degli Stati nazionali e con riguardo al concetto di sussidiarietà verticale (quella per cui l’organismo di livello superiore interviene sul piano dell’amministrazione solo laddove l’organismo di rango inferiore - anzi l’organismo che ha una competenza territoriale più limitata - non è in grado di esercitare un’azione adeguata) si tratta di fenomeni che vediamo riprodursi anche all’interno degli Stati nazionali tra Stato, Regioni ed autonomie locali.

E cioè: il processo di integrazione europea procede parallelamente all’intensificarsi di un fenomeno (che non è solamente italiano), ovvero quello dell’ampliamento nei confronti dello Stato nazionale centrale delle competenze delle entità regionali, locali e municipali.

In tal senso si collocano, ad esempio, il processo di devolution che ha caratterizzato la Gran Bretagna di Blair e la riforma costituzionale varata sul finire della precedente legislatura in Italia (riforma che è stata sottoposta a referendum confermativo ai sensi dell’art.138 della Costituzione ed approvata nell’ottobre 2001, e che ha riguardato l’intero titolo V della parte II della nostra carta costituzionale) [11].

Più in generale si può affermare che i processi di integrazione internazionale dei mercati e l’omologazione culturale che caratterizza questo scenario ha generato negli ultimi anni e continua a generare conflitti profondi - ed anche in alcuni casi particolarmente cruenti e sanguinosi - derivanti dall’arroccamento (spesso tinto da connotazioni reazionarie, fondamentaliste, xenofobe) nel localismo più esasperato, con una esaltazione acritica delle peculiarità culturali ed etniche - spesso inventate di sana pianta - e con una ricerca di sicurezza ed identità, che si pone da contraltare al terremoto prodotto dalla cosiddetta “globalizzazione”.

Ed un altro fenomeno si muove parallelamente: quello per cui la forza e lo spazio della politica, la capacità di governo “politica” dell’economia e dei fenomeni sociali, l’ambito della cosa pubblica cedono il passo di fronte alla forza dirompente, incontrollata, deregolata dei mercati, dei poteri economici e finanziari.

Il vecchio Stato che eravamo abituati a conoscere appare come assediato dalla globalizzazione dei mercati e della finanza, dalle regole imposte dai grandi potentati economici, dalla richiesta di spazi più ampi che viene dai municipi e dagli enti locali e regionali, dalla cultura del superamento del welfare, dall’insofferenza verso i “lacci e laccioli” con cui la sfera pubblica tende a condizionare il “libero” svolgersi delle dinamiche economiche e le “naturali” leggi del mercato, dalla riduzione del grado complessivo di rappresentanza degli interessi che la semplificazione del gioco democratico - il mix sempre crescente di principio maggioritario e presidenzialismo - tende a produrre.

Vediamo così il formarsi di una catena che va dall’Europa al comune, in cui ogni anello cerca di muoversi per conto proprio, e di una risistemazione dei poteri e delle competenze ancora molto frammentaria ed in tanti casi improvvisata e pasticciata.

11. Le istituzioni dell’Unione

Nell’art.14 del testo proposto dal Presidium [12] si prevede che “l’Unione dispone di un quadro istituzionale unico che mira a:

- perseguire gli obiettivi dell’Unione,

- promuoverne i valori,

- servire gli interessi dell’Unione, dei suoi cittadini e dei suoi Stati membri, nonché a garantire la coerenza, l’efficacia e la continuità delle politiche e delle azioni da essa condotte al fine di raggiungerne gli obiettivi.

Tale quadro istituzionale comprende:

- Il Parlamento europeo,

- Il Consiglio europeo,

- La Commissione europea,

- La Corte di giustizia dell’Unione europea,

- La Corte dei Conti.

Al di là dell’elencazione dell’insieme degli organismi che compongono il quadro istituzionale europeo, è evidente che con riguardo alle funzioni, ai poteri, al ruolo di ciascuna delle suddette istituzioni, e con particolare riferimento a quello che concerne Parlamento, Consiglio e Commissione, lo scontro sia accesissimo, e che dall’esito del dibattito intorno al ruolo dei diversi organi ed al corrispondente equilibrio che potrebbe determinarsi dipendono grado di integrazione, velocità del processo unitario, livelli di indipendenza del nuovo soggetto politico.

Allo Stato - questo articolo viene chiuso intorno al giorno 20 del mese di maggio 2003 - non si può che richiamare le posizioni assunte a fine aprile 2003 dal Presidium della Convenzione, pur essendo certi che modificazioni, mutamenti di rotta, mediazioni non saranno solo possibili ma praticamente certi e che sino al varo definitivo della Costituzione le diverse posizioni (di cui molto sommariamente abbiamo riportato qualche riflesso) difficilmente troveranno un assetto definito e compiuto.

Al momento quello che appare sacrificato - nell’Unione di oggi e, sia pure con qualche importante ma insufficiente miglioramento, nel dibattito sulla Costituzione da varare e quindi sull’Europa di domani - è il ruolo del Parlamento europeo, di cui si può ben vedere la quasi irrilevanza anche nell’ambito del percorso costituente, percorso rispetto al quale è già avuti modo di sottolineare l’anomalia ed il difetto di partecipazione democratica e popolare. Ed infatti il dibattito è certamente più attento al peso reciproco di Consiglio e Commisione, alla composizione della Commissione, al meccanismo di nomina ed ai poteri del Presidente dell’Unione (o addirittura del super-presidente, come i media amano dire).

È un meccanismo - quello teso a ridurre importanza e ruolo dell’organismo parlamentare - che costituisce purtroppo una costante, e quindi non soltanto italiana, del dibattito politico-istituzionale dei nostri giorni, sia che si parli di Europa, sia che ci riferisca agli Stati nazionali, sia che si guardi alle autonomie locali (con l’elezione diretta dei Sindaci) oppure alle regioni (non è un caso l’uso e l’abuso del termine di “governatore” riferito da noi al Presidente della Regione).

Ed infatti nel testo proposto dal Presidium la funzione legislativa è esercitata dal Parlamento europeo “congiuntamente al Consiglio”. Inoltre il Parlamento europeo esercita “funzioni di controllo politiche e consultive secondo le condizioni stabilite dalla Costituzione. Esso elegge il Presidente della Commissione europea” [13].-----

Il Parlamento europeo viene eletto a suffragio universale diretto dai cittadini europei per un termine di cinque anni: “Il numero dei suoi membri non può essere superiore a settecento. La rappresentanza dei cittadini europei è garantita in modo regressivamente proporzionale, con la fissazione di una soglia minima di quattro membri del Parlamento europeo per Stato membro” [14].

Per il Consiglio europeo, composto dai Capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal Presidente del Consiglio e dal Presidente della Commissione, è previsto che esso debba dare all’Unione (articolo 16 del testo proposto dal Presidium) “gli impulsi necessari al suo sviluppo” e che debba definirne gli orientamenti “e le sue priorità politiche generali”.

Vi è poi - ed anche la numerazione evidenzia l’assoluta precarietà della formulazione proposta, proprio per l’evidente conflitto si è già mostrato e che tenderà a crescere sul punto in esame - un articolo 16 bis, riferito al ruolo del Presidente del Consiglio. Già la formulazione proposta dal Presidium è frutto di una prima mediazione (ad esito di uno scontro violentissimo) tra le posizioni espresse da Giscard e quelle espresse in particolare dal Presidente della Commissione europea.

Ne riportiamo il testo: “Il Presidente del Consiglio europeo è eletto dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata per un periodo di due anni e mezzo. Il suo mandato è rinnovabile una volta. Per essere eletto egli deve essere membro del Consiglio europeo o averne fatto parte per almeno due anni. In caso di impedimenti gravi, il Consiglio europeo può porre fine al suo mandato secondo la medesima procedura.

Il Presidente del Consiglio europeo assicura al suo livello la rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune.

Il Presidente del Consiglio europeo presiede ed anima i lavori del Consiglio europeo e ne assicura la preparazione e la continuità. Egli si adopera per facilitare la coesione ed il consenso in seno al Consiglio europeo. Egli presenta al Parlamento europeo una relazione dopo ciascuna delle sue riunioni.

Il Consiglio europeo può decidere per consenso di creare al suo interno un Ufficio di presidenza composto da tre membri scelti secondo un sistema equo di rotazione.

Il Presidente del Consiglio europeo non può essere membro di un’altra istituzione europea o esercitare un mandato nazionale”.

Tra le proposte vi è quella formulata tra gli altri dal premier britannico Tony Blair di elezione diretta del Presidente dell’Unione, nonché quella di un mandato quinquennale (attualmente il Presidente riceve un incarico semestrale ed esiste una rotazione nell’attribuzione dell’incarico tra tutti i quindici paesi che compongono l’Unione: nel 2003 si passa dal semestre di presidenza greco al semestre italiano).

Pur se non può essere respinto l’argomento per cui un presidente eletto direttamente dal popolo potrebbe costituire un fattore di accelerazione del processo fondativo di una Unione forte, è sicuramente evidente che una tale prospettazione condurrebbe sin da subito ad un impoverimento della dialettica democratica, ad una imitazione forzosa di altri modelli di democrazia, al mancato riconoscimento della complessità della pluralità delle esperienze politiche, nazionali, di aggregazione sociale, che costituiscono la ricchezza ed il portato storico del vecchio continente.

Organismo dotato della funzione legislativa, “che esercita congiuntamente al Parlamento europeo”, è - secondo la proposta del Presidium - il Consiglio dei ministri che è composto da un rappresentante (ovvero un ministro) per ciascuno Stato membro in un determinato ambito. Il Consiglio dei Ministri esercita altresì “funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento”.

Si prevede che - salvo espressa indicazione contenuta nella Costituzione dell’Unione - “il Consiglio delibera a maggioranza qualificata”. Il fatto che - per la quasi totalità delle materie - si preveda di non ricorrere all’unanimità dei voti per l’approvazione delle decisioni del Consiglio significa certamente un passo in avanti per l’Unione. Secondo il testo elaborato dal Presidium “quando il Consiglio europeo o il Consiglio dei ministri deliberano a maggioranza qualificata, quest’ultima è definita come voto della maggioranza degli Stati membri, che rappresenti almeno i tre quinti della popolazione dell’Unione” (e non quindi i tre quinti degli Stati aderenti).

Si prevedono nel testo un Consiglio “Affari Generali” (che “prepara, con il concorso della Commissione, le riunioni del Consiglio europeo”), un “Consiglio legislativo” (che “delibera, e si pronuncia congiuntamente al Parlamento europeo, sulle leggi quadro europee”), un Consiglio “Affari esteri” (che “elabora le politiche esterne dell’Unione secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo e assicura la coerenza della sua azione” e che “è presieduto dal ministro degli Affari esteri dell’Unione”), un Consiglio “Affari economici e finanziari”, un Consiglio “Giustizia e sicurezza”.

Il testo elaborato dal Presidium prevede che “la Commissione europea tutela l’interesse generale europeo. Essa vigila sull’applicazione delle disposizioni adottate dalle istituzioni in virtù della Costituzione. Essa esercita altresì funzioni di coordinamento, di esecuzione e di gestione, secondo le disposizioni stabilite dalla Costituzione”.

Un punto che ha fatto sorgere le prevedibili proteste dei Paesi più piccoli è quello che prevede la presenza al suo interno di quindici componenti (e tra essi del Presidente) - e non quindi di venticinque, tanti quanti i Paesi che comporranno l’Unione - e l’assistenza di Commissari delegati.

Si sottolinea inoltre l’indipendenza dei componenti la Commissione dai Paesi da cui provengono e dai governi: “La Commissione esercita le sue responsabilità in piena indipendenza. Nell’adempimento dei loro doveri, i membri della Commissione non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo né da alcun organismo”.

Un lungo articolo (l’art.18 bis) è dedicato al Presidente della Commissione europea.

Il Presidente della Commissione europea, secondo la proposta formulata dal Presidium, è eletto dal Parlamento europeo con il voto della maggioranza dei suoi componenti, su proposta - formulata a maggioranza qualificata - del Consiglio europeo “tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo”. Quindi il Presidente della Commissione riceve una forte investitura che deriva dalla elezione da parte del Parlamento. Ciò determina la presenza - ai vertici dell’Unione - di due figure (il Presidente del Consiglio europeo ed il Presidente della Commissione europea) con l’equilibrio che ne può derivare ma anche con i possibili conflitti che una simile situazione rischia di determinare.

Una procedura complessa è quella prevista per la designazione dei tredici componenti della Commissione (un altro è il Presidente per il quale abbiamo già visto, l’altro ancora il ministro degli Affari esteri del quale parleremo tra poco): “Ciascuno Stato membro redige un elenco di tre persone, tra le quali vi è almeno una donna, che ritiene qualificate per esercitare la funzione di Commissario europeo. Tra di esse il presidente eletto designa quali membri della Commissione, tenendo conto degli equilibri politici e geografici europei, fino a tredici persone, scelte per la loro competenza e il loro impegno europeo, che offrano garanzia di indipendenza. Il presidente e le persone designate per divenire membri della Commissione sono soggetti, collettivamente, ad un voto di approvazione da parte del Parlamento europeo.

Si prevede ancora - altro elemento molto significativo - la responsabilità collettiva della Commissione dinanzi al Parlamento europeo, il quale “può adottare una mozione di censura della Commissione”, che se adottata comporta il fatto che “i membri della Commissione devono abbandonare collettivamente le loro funzioni”: una vera e propria mozione di sfiducia.

Il Presidente “definisce gli orientamenti nel cui quadro la Commissione esercita i suoi compiti”, “ne decide l’organizzazione interna”, “nomina dei vice presidenti”. Inoltre “il presidente può nominare dei commissari delegati, scelti tenendo conto degli stessi criteri seguiti per i membri della Commissione. Il loro numero non può superare quello dei membri della Commissione”.

Il ministro degli Affari esteri - che come abbiamo visto è un componente della Commissione europea -, il quale “guida la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione” è nominato dal Consiglio europeo (e cioè dai capi di Stato o di governo dei Paesi membri) che delibera a maggioranza qualificata con l’accordo del presidente della Commissione.

Il ministro degli Affari esteri contribuisce con le sue proposte all’elaborazione della politica estera comune e la attua in qualità di mandatario del Consiglio”, e cioè fa parte della Commissione (della quale è uno dei vicepresidenti) ed al tempo stesso agisce per conto del Consiglio europeo. “Egli agisce allo stesso modo per quanto riguarda la politica di sicurezza e di difesa comune”.

Il Tribunale e la Corte di Giustizia dell’Unione europea assicurano “il rispetto della Costituzione e del diritto dell’Unione”.

La Corte di Giustizia è competente:

- a pronunziarsi sui ricorsi presentati dalla Commissione, da uno Stato membro, da un’istituzione o una persona fisica o giuridica [...];

- a pronunziarsi, in via pregiudiziale, su richiesta dei giudici nazionali, sull’interpretazione del diritto dell’Unione o sulla validità degli atti adottati dalle istituzioni;

- a pronunziarsi sulle impugnazioni delle decisioni emesse dal Tribunale, o a titolo eccezionale, a riesaminare tali decisioni, alle condizioni previste dallo statuto della Corte”.

Un ruolo fondamentale viene ovviamente svolto dalla Banca centrale europea, che viene prevista appunto (a differenza di quanto avviene nella nostra costituzione) quale organo avente rilevanza costituzionale.

Essa “dirige il sistema europeo di banche centrali, di cui fa parte unitamente alle banche centrali nazionali.

L’obiettivo principale della Banca è il mantenimento della stabilità dei prezzi”. L’obiettivo della lotta all’inflazione diviene così principio costituzionale (che supera ogni altro obiettivo di sviluppo economico e sociale), per cui la Banca, “fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi”, “sostiene le politiche economiche generali dell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione”.

La Banca definisce ed attua la politica monetaria dell’Unione. Essa ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione dell’euro, valuta dell’Unione. Essa svolge ogni altra funzione di banca centrale”; essa è dotata di personalità giuridica ed è indipendente: “le istituzioni e gli organi dell’Unione e i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio”. Insomma la Banca è sacra, intoccabile.

Nei settori di sua competenza, la Banca è consultata su ogni progetto di atto dell’Unione nonché su ogni progetto di atto normativo a livello nazionale, e può formulare pareri”: la Banca diviene un oracolo onnisciente e onnipresente.

Peraltro, ed ecco tornare una delle tante anomalie dell’Unione, “gli Stati membri che non hanno adottato l’euro, nonché le rispettive banche centrali, conservano le loro competenze nel settore monetario”.

La Corte dei Conti “esamina i conti di tutte le entrate e le spese dell’Unione ed accerta la sana gestione finanziaria”. Anch’essa è un’autorità indipendente.

Si prevede poi una serie di organi consultivi dell’Unione , che assistono il Parlamento europeo, il Consiglio dei ministri e la Commissione. Si tratta del Comitato delle regioni e del Comitato economico e sociale.

Il primo “è composto dalle collettività regionali e locali che sono titolari di un mandato nell’ambito di una collettività regionale o locale, o politicamente responsabili dinanzi ad un’assemblea eletta”.

Il secondo “è composto da rappresentanti delle organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori della società civile rappresentativa, in particolare nei settori socioeconomico, civico, professionale e culturale”.

 

12. Verso l’Unione politica?

L’esame dei primi quattro titoli della prima parte del progetto di costituzione (prima parte titolata “Architettura costituzionale”) richiederà sicuramente un successivo sguardo alla luce di quello che nei prossimi mesi sarà il cammino del testo costituzionale oggi all’esame della Convenzione. Ad essi segue un titolo quinto in cui si esaminano le tipologie di atti che l’Unione può utilizzare (legge europea, legge quadro europea, regolamenti delegati, atti esecutivi), con un particolare riferimento a quello che viene denominato “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, al quale è dedicato un progetto sicuramente molto articolato e complesso, un titolo sesto riferito alla vita democratica dell’Unione, il settimo relativo alle finanze dell’Unione, l’ottavo sull’azione dell’Unione nel mondo, il nono sulle relazioni tra l’Unione e gli stati vicini, il decimo sull’appartenenza all’Unione. Ad essi ci dedicheremo nel prossimo numero della rivista. E nel prosieguo di questo dossier analizzeremo la parte seconda del progetto (“Le politiche e l’attuazione delle azioni dell’Unione”).

Abbiamo già detto che si tratta - quello del processo di costruzione dell’Unione - di un capitolo decisivo per l’assetto dei nostri ordinamenti e per il futuro della nostra vita politica e sociale. Il compito che la rivista si è prefisso - ed in questo modo cerchiamo di contribuire ad attuarlo - è quello di una analisi attenta delle grandi trasformazioni che coinvolgono la nostra società, il modo di produrre, il lavoro, la vita collettiva: l’Europa che sta nascendo ne costituisce uno snodo fondamentale, la riflessione e l’azione dei soggetti collettivi non possono prescinderne.


[1] Arturo Salerni, Proteo 2/01, “Europa, i diritti, il movimento sindacale” (pagg.7 e segg.), e Proteo 3/01, “L’Europa dei diritti negati” (pagg. 89 e segg.). Nel primo dei due articoli citati si affermava: “Un argomento appare difficilmente discutibile: ovvero che il processo di integrazione europea ha compiuto negli ultimi anni passi da gigante e tumultuose accelerazioni (non facilmente immaginabili anche poco tempo addietro) e che esso è destinato ad andare avanti, sia pure tra immense contraddizioni ed in modo non lineare, anzi tortuoso. Non è possibile oggi prevedere i tempi, le modalità e gli sbocchi finali di questo percorso: quando e cosa si costruirà, quali saranno le aree del Vecchio Continente inserite nelle strutture dell’Unione Europea, che tipo di ordinamento verrà fuori, quale grado di contraddizione e conflitto il processo di integrazione innescherà con altre aree forti del globo, ed in primo luogo con gli Stati Uniti d’America, quanto questo elemento condizionerà forme e sviluppo della nuova entità europea.

Certo è che l’ingresso definitivo della moneta unica a partire dal gennaio 2002 - sia pure non in tutti i paesi che oggi costituiscono l’Unione Europea - costituirà un potente fattore di integrazione - anche “culturale” - che attraverserà un territorio vastissimo coinvolgendo centinaia di milioni di persone. Dobbiamo avere la lucidità di cogliere la grande portata di questo passaggio, dobbiamo riuscire a leggerne le possibili conseguenze sul piano degli assetti sociali ed i riflessi sul terreno dell’organizzazione e dell’azione sindacale.

[2] Intervista a Repubblica del 19 aprile 2003, “Solo la grande Europa unita bilancerà lo strapotere Usa”.

[3] Le forze politiche rappresentative della popolazione curda peraltro hanno in più occasione evidenziato il loro favore all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, vedendo in questo passo una possibilità di democratizzazione dell’intera società turca, ed in particolare con riferimento alla regione (prevalentemente abitata da curdi) del sud-est dell’Anatolia.

[4] Presidente dell’Osservatorio francese delle congiunture economiche.

[5] Proteo 3/01, pag.89, A. Salerni, cit. “In questi giorni a Laeken si è prodotto un fatto nuovo. Nonostante le incertezze, le difficoltà, gli scontri per l’attribuzione delle sedi delle diverse Agenzie, la mancata soluzione di alcuni problemi di fondo in ordine la funzionamento della macchina istituzionale, il percorso di integrazione europea registra un passaggio che può essere decisivo. A circa un anno dall’adozione a Nizza della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea - rispetto alla quale si è registrato un dibattito significativo, a partire dai limiti che la caratterizzavano sia sul piano del percorso che con riferimento ai contenuti - si avvia, in forme sicuramente anomale, un percorso che potrebbe essere definito ‘costituente’.”

[6] Viene lasciata aperta la questione della denominazione dell’entità, ovvero se Comunità Europea, Unione europea, Stati Uniti d’Europa, Europa unita.

[7] “Nessuno può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato”.

[8] Sulla vicenda si è espressa - con una condanna emessa nel mese di marzo del 2003 nei confronti della Turchia per violazione delle disposizioni contenute nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo - La Corte europea di Strasburgo.

[9] “Ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano.

Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni individuo ha il diritto di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica.

Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente”.

[/b] Proteo n.3/01, cit.: “Un esempio di cosa significhi il rapporto tra produzione normativa a livello europeo e legislazione del nostro Paese è ricavabile dalla vicenda delle disposizioni dettate per contrastare il cosiddetto “terrorismo internazionale”. Essa si colloca nella vicenda della costruzione dello “spazio giuridico europea”, vicenda controversa (si pensi alle polemiche relative alla questione del “mandato di cattura europeo”) in quanto organismi non legislativi - senza la preventiva definizione di un quadro costituzionale che ne legittimi l’azione - di fatto determinano il modo di agire e le scelte dei Parlamenti dei diversi paesi in materia penale, cioè in quella materia in cui solo la legge (cioè il prodotto del potere legislativo, del Parlamento) può intervenire per disciplinare la possibilità di incidere sui casi e i modi che possono condurre alla limitazione della libertà personale dei singoli cittadini.

Orbene la proposta di decisione quadro del Consiglio dell’unione europea sulla lotta contro il terrorismo, nell’indicare che “è indispensabile che gli Stati membri dell’Unione europea dispongano di una legislazione penale efficace per lottare contro il terrorismo e che siano prese misure per rafforzare la cooperazione internazionale contro il terrorismo”, detta all’art.3- affinché sia adottata dagli stati membri - una definizione di “terrorismo” così ampia ed indefinita da poter essere la base per una potenziale criminalizzazione di forme di dissenso, di ribellione sociale, di disordini di piazza.

Val la pena richiamare tale disposizione - contro cui si sono alzate pochissime voci e che rischia di essere assunta nel nostro ordinamento penale, e nell’ordinamento degli altri paesi europei, in un clima distratto e disinteressato (salvo piangerne gli effetti in un momento successivo): “1. Ciascuno stato membro adotta le misure necessarie per garantire che i seguenti reati, definiti in base ai diritti nazionali, commessi da singoli individui o da gruppi di persone contro uno o più paesi, contro le loro istituzioni o popolazioni, a scopo intimidatorio e al fine di sovvertire o distruggere le strutture politiche, economiche o sociali del paese, siano punibili come reati terroristici;

a) l’omicidio;

b) le lesioni personali;

c) il sequestro di persona e la cattura di ostaggi;

d) le estorsioni;

e) i furti e le rapine;

f) l’occupazione abusiva o il danneggiamento di infrastrutture statali e pubbliche, mezzi di trasporto, luoghi pubblici e beni;

g) la fabbricazione, il possesso, l’acquisto, il trasporto o la fornitura di armi e esplosivi;

h) la diffusione di sostanze contaminanti o atte a provocare incendi, inondazioni o esplosioni che arrechi danno alle persone, ai beni, agli animali e all’ambiente;

i) l’intralcio o l’interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse fondamentali;

j) gli attentati mediante manomissione dei sistemi di informazione;

k) la minaccia di commettere uno dei reati di cui sopra;

l) la direzione di un’organizzazione terroristica;

m) la promozione,

il sostegno e la partecipazione ad un’organizzazione terroristica.

2. Ai fini della presente decisione quadro, per organizzazione terroristica si intende un’organizzazione strutturata di più di due persone, stabilita da tempo, che agisce in modo concertato allo scopo di commettere i reati terroristici di cui al paragrafo 1, lettere da a) a k)”

Ed ancora, l’art.4 della decisione quadro recita: “Gli Stati prendono le misure opportune per garantire che l’istigazione, l’aiuto, il favoreggiamento e il tentativo di commettere reati terroristici siano punibili”.

Si tratta evidentemente del tentativo di inserimento nel quadro legislativo penale dei diversi paesi che compongono l’Unione di principi dalla possibile indefinita portata applicativa, avviato fuori da ogni discussione, da organismi tecnici e non controllati, che ipotecano le scelte dei parlamenti nazionali (secondo il principio per cui “o le misure vengono adottate o ci si colloca fuori dal quadro europeo”).

[10] Testo trasmesso alla Convenzione in data 6 febbraio 2003.

[11] Ai cui contenuti la nostra rivista ha dedicato ampio spazio (vedi Proteo, n.3/2000 e n.1/2001).

[12] Questa parte del testo è stata inviata alla Convenzione il 23 aprile 2003.

[13] Si tratta del primo comma dell’articolo 15, nel testo proposto dal Presidium della Convenzione.

[14] Articolo 15, secondo comma.