Accogliere lo straniero. Dalla regolamentazione alla tutela dei diritti: dilatare i confini del possibile

Sergio Tanzarella

Chi oggi si spinge lungo i confini più meridionali dell’Unione Europea raggiungendo l’antica città di Selinunte - edificata nel VII secolo a.C. e distrutta dai cartaginesi nel 409 a.C. - la colonia greca più ad occidente della Sicilia, non può permettersi di ignorare l’intensità dei movimenti umani dell’area mediterranea: una rete fitta di collegamenti, commerci, contaminazioni di culture e di lingue, spostamenti continui di intere popolazioni (Sicani, Siculi, Elimi, Fenici, Greci) che caratterizzarono il mondo antico di quell’area della terra. Ma a chi scende fino ai suggestivi templi dell’Acropoli che sorge quasi in riva al mare si presenta uno spettacolo dolorosamente inatteso: sulla battigia giace il relitto di una piccola imbarcazione. Dinanzi ai templi edificati durante la piena espansione della civiltà ellenistica ha fatto naufragio una delle tante rugginose navi della disperazione. Quella notte del 30 dicembre 2001 non ci furono morti tra i poveri viaggiatori, un numero spropositato rispetto alle capacità del minuscolo peschereccio, rappresentanti una umanità lacerata in cerca di un futuro e disposta a rischiare perfino la vita non avendo nessuna possibilità di sopravvivere rinunciando a partire. Il relitto, non rimosso da mesi, della spiaggia di Selinunte può essere compreso come il monumento all’esodo umano che a distanza di millenni ripercorre, con ben altre urgenze, le antiche rotte dell’ellenizzazione. Il relitto trasportava un carico umano costituito anche di sogni e speranze alle quali avrà corrisposto, probabilmente, una condizione simile a quella riservata agli schiavi della cava di Cusa che servì per ottenere gli immensi blocchi di pietra necessari all’edificazione di Selinunte. Ma quel relitto abbandonato sulla spiaggia interroga anche la coscienza dell’Europa chiedendo ragione dell’accoglienza negata oggi allo straniero e delle politiche comunitarie di ingresso e soggiorno, quel relitto è anche memoria dei mille naufragi, degli affogati nel mare nero della notte, delle conclusioni tragiche di viaggi costosissimi e pericolosi iniziati, con ogni mezzo, dalle periferie del pianeta e della storia dove guerre, carestie, commercio di armi, dittature sanguinarie, detenzioni arbitrarie e torture, strangolano la vita e negano la dignità di miliardi di esseri umani. L’Europa non può non sentirsi coinvolta dall’esodo, spesso tragico, che ha come miraggio le sue frontiere. È, dunque, il momento di scelte dirimenti come scrivono i Provinciali gesuiti europei:

"Il nostro mondo oggi deve fare una scelta. Possiamo erigere steccati, escludere alcuni e includere altri. Possiamo costruire muri, che diventeranno sempre più alti man mano che si alzerà il clamore di quelli di fuori. Oppure possiamo costruire un ordine globale dove prevalgano la giustizia e l’eguaglianza e dove la nostra fede nell’umanità di tutti sia glorificata e incarnata nelle strutture della nostra società. La Storia ci ha insegnato che la prima soluzione porta alla guerra e alla violenza, mentre la seconda è la via maestra per la pace e lo sviluppo" [1].

1. Diritti di carta e diritti esigibili

Se il secolo appena concluso potrà essere definito quello dell’affermazione teorica dei diritti umani esso dovrà anche comprendersi come quello che in forma più evidente e macroscopica li ha contemporaneamente negati e calpestati in una sequenza ininterrotta sia dei crimini e degli orrori delle guerre di sterminio [2], sia della moltiplicazione dei campi di reclusione e concentramento [3]. Ed è stata questa una negazione materiale e concreta a fronte di diritti di carta. E tanto più l’affermazione e l’estensione di sempre nuovi diritti si è moltiplicata, tanto più essi ci appaiono come una enunciazione grandiosa, raccomandabile ma anche contemporaneamente irrealizzata e forse irrealizzabile se l’ingiustizia non viene denunciata e combattuta. Giova forse qui rammentare quanto scriveva Tacito in una età gloriosa e ad un tempo inquieta dell’Impero: più lo Stato è corrotto più si fanno leggi. Potremo dire nel nostro caso: più il diritto alla vita è conculcato e negato, più si allarga la quantità e la qualità dei diritti affermati e conclamati. Si tratta di assegni evidentemente non esigibili, di carta moneta di alto taglio con la quale non è possibile comprare anche il poco che serve per sopravvivere poiché nessuno è disposto a cambiarla. Qui non si vuole negare il valore alto, anzi altissimo, dei diritti riconosciuti e l’estrema importanza che essi siano stati codificati ufficialmente, sottoscritti e ratificati dalla maggioranza dei Paesi del mondo, questo costituisce un patrimonio straordinario e un punto di non ritorno per l’umanità. Ma preme segnalare il baratro che esiste tra quei diritti annunciati e codificati e non solo la realtà, il che sarebbe nella fisiologia, ma le politiche degli Stati e dei poteri economici che apparentemente promuovono e sostengono la promozione di quei diritti, il che è l’aspetto patologico della questione. La prova di ciò è nell’estrema fragilità costitutiva del riconoscimento dei diritti umani. Essi sono da immaginare come una piramide rovesciata, dove la punta su cui poggia l’enorme costruzione dei diritti umani afferma un diritto elementare, semplice semplice, ma che una volta negato o impedito rende inutile e pericolosa l’intera struttura. È il diritto alla vita e alla dignità. Se questo diritto viene meno che senso ha tutto il resto? E questo interrogativo s’affaccia sul baratro di un interrogativo ancora precedente: "su cosa sia il “diritto di avere dei diritti” oggi, quando si è privi di patria (rifugiati o apatridi), di uno status sociale (disoccupati, sans-papiers), di diritti politici (stanieri)"4.

2. Per chi è la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea?

Proprio il diritto alla vita e alla dignità è affermato con particolare rilievo nei primi due articoli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea:

"1. La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata.

2. Ogni individuo ha diritto alla vita".

È legittimo però chiedersi, anche alla luce delle politiche sull’immigrazione dei singoli stati dell’Unione - politiche spesso sostanzialmente divergenti - a chi si riferisce concretamente la Carta e chi sono i soggetti detentori di questi diritti? Infatti, ci sarà spazio nella futura Costituzione dell’UE per il diritto alla vita e alla dignità anche di coloro che non sono cittadini dell’Unione? Cioè per tutti quelli che vi risiedono legalmente o illegalmente, e anche per coloro che alle frontiere aspirano ad entrarvi con ogni mezzo, anche il più rischioso e non raramente mortale. In altre parole quanto l’UE farà dipendere il riconoscimento dei diritti umani proclamati dal possesso di una particolare cittadinanza sciogliendo così le ambiguità già presenti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 [4]?

A che serve moltiplicare i forum, i vertici, gli accordi, i documenti, le ratifiche, i trattati senza rispondere a queste domande dirimenti e soprattutto quale definizione credibile e condivisa potrà essere fornita all’espressione “Europa” e al ricorrente uso di concetti quali “valori europei”, “solidarietà europea”, “sicurezza europea”, “cultura europea” [5]?

A chi giova questa affermazione di diritti se l’essere umano a cui si vorrebbero offrire tali grandiose garanzie è già morto nel proprio Paese di fame e di malattie curabili, oppure se viene fracassato sulle frontiere d’Europa. Se giace in fondo al mare dopo aver fatto naufragio nella speranza di arrivare sulle nostre spiagge [6]. Se è soffocato in un container dopo interminabili viaggi. I confini meridionali dell’Unione, dallo stretto di Gibilterra fino al canale d’Otranto, sono ormai attraversati da una scia interminabile di sangue e di disperazione. Sarebbe un errore immenso se la futura Costituzione fingesse di non scorgere le tragedie quotidiane che si vivono sulle frontiere d’Europa.

Ma il problema non è soltanto entrare in Europa, è anche restarci, e restarci vivi. La dignità e il rispetto della vita non si possono certo coniugare con il lavoro paraschiavistico al quale sono sottoposti molti immigrati e soprattutto con l’ostilità più o meno manifesta che viene rivolta loro a partire dalla sopravvalutazione della loro presenza fino all’aggressione fisica diretta [7]. La dignità non può essere affermata se la condizione di legalità dello straniero nell’UE si lega esclusivamente al possesso di un lavoro regolare e continuativo. In questo modo, che sembra essere sempre più sostenuto dalle politiche dei singoli Stati dell’Unione, si stabilisce un principio di precarietà per il quale lo straniero è considerato esclusivamente risorsa produttiva rischiando così di divenire come una qualsiasi merce. Su questa tendenza che progressivamente tende ad affermarsi scrivono ancora, con lungimiranza, i Provinciali gesuiti europei:

"Man mano che si chiudono le vie legali d’ingresso, persone ansiose di entrare in Europa si trovano costrette a buttarsi nelle braccia di trafficanti privi di scrupoli. Più i governi europei si impegnano contro gli immigrati illegali, più i metodi d’ingresso diventano pericolosi e costosi. La recente scoperta a Dover di 58 persone morte per soffocamento in un container è stato uno shock per tutti [...]. Più vengono chiusi i confini dell’Europa Occidentale, più il problema si sposta verso l’Europa Orientale. La Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca ricevono ormai migranti da Sri Lanka, Sudan e da altrove. Molti di essi in cerca di lavoro, molti altri in cerca di sicurezza, moltissimi in attesa di procedere ulteriormente verso Occidente. La globalizzazione spalanca i mercati ma non le frontiere. La globalizzazione ha abbattuto i confini dell’informazione, dei capitali e della proprietà, ma non dei popoli. L’obiettivo è pur sempre quello di tenere rifugiati e migranti a debita distanza. Si prendono misure sofisticate per tenerli alla larga, misure come condizioni più dure per l’ottenimento del visto, provvedimenti deterrenti come la detenzione, la soppressione di benefici sociali. Con queste misure lo Stato abdica a responsabilità quali gli accordi per la riammissione, la protezione temporanea, la politica per la sicurezza del Paese d’origine e di Paesi terzi. Particolarmente inquietante la crescente detenzione di persone che fanno richiesta d’asilo politico e di migranti" [8].

3. Il diritto di essere riconosciuti esseri umani

Il primo diritto negato è quindi quello di potersi riconoscere e di poter essere riconosciuti come esseri umani. Che significa non una enunciazione formale di principio, ma un riconoscimento di identità. Facciamo caso all’uso delle parole e come queste costituiscano, invero, l’impenetrabile universo della condizione dell’anonimato. Ed è in questa condizione che i diritti possono più facilmente essere aggirati. Quando l’essere umano è ridotto nella condizione della “non persona” attraverso l’uso di un numero o di un aggettivo è molto più facile negare la sua identità, il suo essere persona detentrice di diritti. Sapevano bene questo coloro che hanno lavorato nell’universo concentrazionario dove i reclusi erano solo dei numeri. Del resto questo meccanismo lo conoscono bene negli ospedali dove i malati sono spesso soltanto la propria malattia o il numero di camera o di letto.

È sorprendente come anche i regimi più spietati abbiano necessità, prima di commettere i crimini più crudeli, di disconoscere l’umanità dell’altro, di abbassarne la condizione di esistenza al rango di bestia o di non essere per poterne sostenere lo sguardo senza rimorsi e per potersene avvalere come una qualsiasi merce. “Non sono come noi e sono molto meno di noi” allora possiamo farne ciò che vogliamo.

Scrive una giovane donna ungherese condannata a vivere come cameriera alle dipendenze dei capricci di sempre nuovi e più esigenti padroni: "Tu non hai nemmeno un nome, quando si parla di te si dice “la filippina”, “la peruviana”, il mio cingalese” oppure “la ragazza”, la donna" [9].

Lo stesso meccanismo è quello che sembra imporre l’uso di definire gli esseri umani con aggettivi che sono il massimo dell’indeterminatezza e dell’anonimato. Prendiamo il caso delle parole irregolare e clandestino, uso "che rimanda all’idea di una categoria di non-persone prive - cosa per lo più ritenuta ovvia - di status di diritti o con diritti differenziati, le quali presenti abusivamente sul territorio italiano (così ritiene una parte dell’opinione pubblica) in genere sono immaginate come gente che vive di espedienti, di attività marginali, illegali o addirittura delinquenziali" [10]. Queste convinzioni, oltre ad essere del tutto infondate, trascurano di considerare quali sono le motivazioni reali che spingono una moltitudine di esseri umani ad abbandonare il proprio Paese per andare incontro all’ignoto in terre sovente inospitali ed ostili. La prima motivazione del migrare contemporaneo è quella di ordine economico, sovente fusa a quella di ordine politico, ovvero legata all’ingiustizia della cattiva distribuzione delle risorse e alle logiche di sfruttamento dell’economia liberista in grado di produrre: fame, guerre e dittature. Una mano secondo alcuni ben visibile [11] nella propria azione mortifera per miliardi di esseri umani e che tuttavia altri, per esempio un intellettuale acuto come Hans Magnus Enzensberger [12], si ostinano a non vedere ritenendo semplicistico spiegare la miseria dei poveri con fattori esterni legati proprio all’economia liberista. Quanto siano prive di fondamento queste osservazioni appare ben evidente se si confronta l’attuale condizione politica ed economica dei cosiddetti Paesi Meno Avanzati (PMA) con i principi affermati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli adottata ad Algeri il 4 luglio del 1976 [13]. Né il diritto all’autodeterminazione, né quello alla sovranità permanente sulle risorse naturali sembrano avere avuto da allora alcun riconoscimento concreto da parte delle trasnazionali che governano il mondo in nome delle leggi assolute e spietate dell’economia liberista e sotto l’egida del Fondo Monetario Internazionale. Trasnazionali che impongono condizioni di lavoro subumane e pericolose, orari di lavoro superiori anche alle 10-12 ore, retribuzioni miserevoli e inquinamento ambientale diffuso e gravissimo [14] fino al riconoscimento e alla giustificazione di fatto del lavoro paraschiavistico [15]. Ed è proprio la negazione di questi diritti alla base della condizione di miseria e di indigenza assoluta nella quale si trova la maggioranza della popolazione del mondo. Una maggioranza che non ha più una sola collocazione geografica determinata secondo l’obsoleta definizione di “Terzo mondo”. La più realistica immagine dei “Quarti mondi” suggerisce di sommare, infatti, agli esclusi dei PMA, le minoranze autoctone e i nuovi poveri dell’Occidente, un Occidente costituito ormai come una efficiente macchina per escludere [16]. Per questi miliardi di esseri umani sembra non esserci altro spazio se non quello dei programmi di assistenza e di soccorso internazionale secondo il rigido schema di buona azione - buon affare, come la cooperazione internazionale con i suoi scandali e i suoi sprechi ha ampiamente dimostrato. Una assistenza che non prevede in genere alcuna possibilità di autonomia dalla dipendenza, imponendo una rigorosa distanza tra chi vive il dramma dell’esclusione e chi elargisce magnanimamente degli aiuti umanitari. È questa distanza che potrebbe affermarsi nell’UE con l’avvento definitivo di politiche tendenti a rendere di fatto impossibile l’immigrazione. La futura Costituzione non dovrebbe invece ignorare il nesso profondo fra le scelte economiche della stessa UE e quelle popolazioni che di quelle scelte sono vittime diventando dei potenziali migranti. Una esemplificazione - tra le tante
 può essere quella della "decisione approvata dal Parlamento europeo, di consentire l’uso del 5% di grassi vegetali nella fabbricazione del cioccolato, molto meno costosi del burro di cacao, dunque a beneficio delle grandi industrie del settore, ma inferendo un colpo quasi mortale ai paesi africani e latino-americani che dalla produzione del cacao facevano dipendere la propria sopravvivenza. Secondo dati dell’organizzazione non governativa inglese Oxfam, ben 11 milioni di persone sono cadute nella miseria più nera quando, nel giro di appena due anni, il prezzo del cacao sul mercato internazionale si è ridotto a più della metà" [17]. Perché meravigliarsi se una rappresentanza di quei milioni di senza cibo e futuro cercherà di ottenere, entrando con ogni mezzo nell’UE, ciò che la stessa UE a quei milioni di senza cibo e futuro ha tolto?-----

La Costituzione dell’UE non potrà, infine, prescindere dal riconoscere il fallimento del cosiddetto diritto umanitario e le conseguenze in termini di movimento forzato di popolazioni che questo fallimento comporta. Infatti "l’invocazione del diritto umanitario risuona sempre più come una derisoria parola magica. Questo diritto ha una sola forza: quella delle parole. L’Onu adotta risoluzioni senza che le siano dati i mezzi per attuarle e senza che la responsabilità della loro mancata esecuzione sia sottoposta a sanzioni" [18]. Le stesse resistenze a firmare o a ratificare il Trattato di Roma sulla istituzione della “Corte penale internazionale” da parte di Stati come Usa, Russia, Israele o Giappone sono indicative della scarsissima considerazione per la tutela dei diritti umani proprio da parte di coloro che, per riconosciuto ruolo internazionale, dovrebbero garantirne il rispetto.

Il progressivo allargarsi delle aree di conflitto nel mondo, cui non è estraneo il contributo in armamenti fornito dagli stessi Paesi dell’UE, ha moltiplicato il numero dei rifugiati e di quelli che, a prescindere dalle caratteristiche giuridiche definite dalla “Convenzione di Ginevra”  [19], cercano scampo alle devastazioni e alle guerre. Anche questa moltitudine di esseri umani chiede e chiederà alla futura Costituzione dell’UE il riconoscimento e la tutela del diritto alla vita.

4. L’invenzione del clandestino

Se la Carta non parla di accoglienza dello straniero e se la futura Costituzione dovesse continuare ad ignorarlo allora verrebbe di conseguenza l’ennesima ratifica di questo nuovo e inventato gruppo sociale che è il clandestino.

Il clandestino sarà allora colui che è:

"incluso nei livelli più bassi della gerarchia sociale ed escluso dalle frontiere simboliche della società, [...], espropriato della propria identità lo straniero diviene una sorta di fantasma. Del quale si nutre l’immaginario xenofobico e razzistico che tende a ridurre il complesso e variegato insieme di individui che sono i migranti - ognuno con la propria vita unica e singolare - figure, quasi personaggi da teatro dei burattini: il Mussulmano, lo Zingaro, il Clandestino, l’Albanese, il Delinquente, la Prostituta [...]. La stessa recente invenzione della categoria di clandestini, per designare quella che un tempo era detta immigrazione de facto, non protetta, non assistita rientra in questo processo di esclusione simbolica" [20].

Una esclusione che da simbolica diventa reale e concepita come permanente e definitiva quando

“Clandestini” vengono perfino detti i profughi in fuga da persecuzioni atroci, orrende pulizie etniche e guerre umanitarie. La clandestinità diventa così una categoria quasi-ontologica, tanto più assurda per il fatto che il più delle volte sono i dispositivi di legge in corso a produrre la clandestinizzazione di immigrati e profughi" [21].

Da questa condizione di clandestinità alla privazione di ogni diritto la strada è ripida e breve. Cosa pensare altrimenti delle condizioni dei centri di permanenza in attesa dell’espulsione, vere e proprie strutture precarcerarie? Di fatto questa invenzione del clandestino e il mito rassicurante del respingimento alla frontiera segnano l’ultimo più recente sviluppo della politica reale degli Stati dell’Unione riguardo all’immigrazione intesa come problema di sicurezza nazionale. E, sebbene sia stata proposta da parte della Commissione Europea "una direttiva relativa al ricongiungimento familiare e si ipotizza l’evoluzione verso uno statuto permanente con l’offerta di una specie di cittadinanza civile, fondata sul trattato della CE e ispirato alla carta dei diritti fondamentali" [22], occorre osservare che concretamente il ricongiungimento familiare diventa ogni giorno più difficile nonostante allarmate e autorevoli osservazioni [23]. Mentre le politiche nazionali ispirate al principio assoluto della sicurezza legano sempre più gli ingressi di nuovi immigrati e la concessione dei permessi di soggiorno a chiamate nominative dipendenti esclusivamente dal mercato del lavoro [24]. Anche lo stesso mantenimento del permesso di soggiorno, in questa ferrea e indiscussa logica della sicurezza sembra sempre più condizionato dal possesso di una attività lavorativa stabile. Tanto che venendo essa a mancare l’immigrato si potrà trovare privo dei requisiti per soggiornare legalmente nel Paese dell’UE e quindi collocato nella condizione dell’illegalità e avviato all’espulsione. È una dinamica perversa rispetto alla quale le parole di Klaus J. Bade appaiono di straordinariamente efficaci:

"In questo contesto è diventato un gioco difensivo usuale quello di aggrapparsi ad argomenti di politica della sicurezza evocando minacce globali all’orizzonte. Ma la sproporzione tra il fatto di non accogliere le richieste di asilo di singoli immigranti provenienti dalle regioni di crisi del mondo extraeuropeo, e la paura che l’Europa possa collassare sotto il peso di massicce immigrazioni a catena che essi metterebbero in moto è talmente ampia che solo per scopi demagogici è possibile usare un argomento del genere. Fintantoché manca il pendant del rifiuto di accogliere i profughi dal Terzo Mondo - cioè la lotta alle cause dell’esodo nelle stesse aree di partenza - tale rifiuto resta uno scandalo storico sul quale le future generazioni misureranno gli intenti umanitari dell’Europa del tardo XX secolo e degli inizi del XXI secolo" [25].

Ma oggi, mentre le cause dell’esodo umano in atto sono ben lontane dall’essere almeno riconosciute, sembra affermarsi da parte di molti degli Stati appartenenti all’Unione una politica dell’immigrazione poggiante sulla rassicurante illusione del respingimento alla frontiera e del blocco dei mari con l’impegno diretto di eserciti e delle marine militati. Tale politica, che appaga le richieste che emergono dai sondaggi e le illusioni delle campagne elettorali, non solo appare inefficace ma è destinata ad aumentare rischi e tariffe della tratta umana, a condannare masse sempre più vaste nella condizione della irregolarità e a rendere pressoché impossibile l’esercizio del diritto di asilo. Alla luce di quanto sta avvenendo non è allora inopportuno ricordare che: "La condizione di irregolarità legale non consente sconti sulla dignità del migrante, il quale è dotato di diritti inalienabili, che non possono essere violati né ignorati" [26].

5. I diritti riservati

All’abbattimento delle frontiere interne corrisponde un incremento di impermeabilità verso l’esterno. Se la Carta sancisce alcuni diritti, nel contempo viene delimitato il loro campo di applicazione. Chi sono i beneficiari di tali diritti, chi potrà fare appello alla Carta per vederseli riconosciuti? L’Europa della Carta è la stessa Europa degli accordi di Schengen: un’Europa giardino circondata da mura alte e invalicabili per chi non fornisce idonee garanzie economiche? Un’Europa dove anche i diritti finiscono con l’avere una cittadinanza: quella europea. Alcuni diritti che dovrebbero essere universali verranno forse limitati ai soli cittadini europei? I principali enunciati della Carta dei diritti devono essere letti come in sinossi con le leggi nazionali sull’immigrazione e con gli accordi di Schengen. Leggi nazionali e accordi di Schengen offrono allora una sorta di interpretazione autentica della Carta: l’interpretazione restrittiva. È questa impronta protezionistica dell’UE e della Carta che non ci si può esimere dal segnalare.

Infatti, il diritto ad essere accolti dov’è contemplato? Se gli ingressi vengono regolati in modo sempre più restrittivo e se soltanto a pochi fortunati viene garantita tutela dei diritti, tutto ciò sa ancora di discriminazione, lascia inevasa la domanda di moltitudini di esseri umani.

In sintesi, bisogna fare una lettura contestualizzata della Carta, che non si limiti a rinvenire in essa l’enunciazione dei principi. Si tratta della Carta di questa Europa, e alla luce dell’ordinamento complessivo di ciò va letta. Così anche la futura Costituzione dovrà partire dal contesto europeo e dalle politiche dell’immigrazione in vigore nei singoli Stati. Tali politiche, in linea con la tendenza della maggioranza dei Paesi ricchi del mondo, sono oggi orientate al principio dell’esclusione e al mantenimento delle distinzioni tra popolazioni originarie e popolazioni immigrate. Un principio che scaturisce direttamente dall’inconsistente teoria dell’originale e pura eredità del pensiero occidentale dal pensiero greco (erroneamente concepito come originale e incontaminato) [27] e dal mito di una unica identità europea, mentre la futura Costituzione dovrebbe essere il luogo delle molte identità e dei molti popoli che compongono oggi e che, se ci si ispirerà al principio dell’accoglienza, comporranno soprattutto domani l’UE [28]. Alla Costituzione dell’UE dovrebbe quindi essere affidato il compito di smontare definitivamente la falsa concezione della presunta purezza delle origini e dell’identità assoluta dei popoli europei cui tanto contributo, come ha ben rilevato recentemente Hervé Le Bras [29], offre oggi una certa scienza demografica postasi a servizio, più o meno consapevolmente, delle rinnovate tendenze razziste che attraversano violentemente l’intera Europa affermando, per esempio, l’insostenibile culto all’ “autentica popolazione originaria” di una determinata nazione o regione.

Contemporaneamente la Costituzione dovrà riconoscere e assumere la condizione della multiculturalità come la realtà permanente e innegabile dell’UE del futuro. Tale realtà multiculturale, decifrabile già oggi nella dimensione storica della lunga durata, ha nel meticciato un’inevitabile conseguenza e ricchezza [30]. Recentemente Jacques Audinet, dell’Institut Catholique di Parigi, ha osservato come nonostante l’evidenza e la necessità del meticciato, esso resti avvolto da sospetti e reticenze alimentate dai cultori della purezza razziale e dell’identità etnica non paghi di tutti i disastri prodotti da questi falsi principi nel XX secolo:

"Anche se accettiamo come un fatto ormai inoppugnabile la mescolanza dei popoli e dei gruppi, siamo restii a pensarla. I nostri modi di vedere sono ancora troppo impregnati nelle vecchie categorie. Continuiamo a pensare l’identità in termini di somiglianza, la tradizione in termini di riproduzione e l’incontro dei gruppi in termini di scambi controllati. Ebbene, il meticciato invita a rompere questo circolo vizioso. Le culture umane, come gli individui, non possono rinchiudersi nello specchio dello stesso. Per questo, riconoscere il meticciato significa riconoscere pienamente ciò che portano le culture umane, e cioè la possibilità della fecondità, la possibilità della novità" [31].

6. La sindrome da invasione: l’immigrazione come malattia

Scriveva Franco Ferrarotti: "Il democratico occidentale, progressista e di vedute aperte, si mette facilmente la coscienza a posto dichiarando di rispettare tutte le culture, ma poi sottintende, a bassa voce: purché ognuno se ne stia a casa sua o, almeno al suo posto" [32]. È proprio questa mentalità della separazione a trovare giustificazioni e prove utilizzando false notizie. Tra queste la più diffusa è quella che poggia sulla percezione che sia in atto una invasione di immigrati e - in particolare per l’Italia
 anche quando i dati dimostrano che la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione locale resta tra le più basse dell’UE. Una percezione erronea che potrebbe trovare giovamento da una conoscenza, anche sommaria, della storia delle migrazioni in Europa [33], ma anche soprattutto dai dati che emergono dagli annuali Rapporti sull’immigrazione curati dalla Caritas italiana [34]. -----

Ma la conferma della strategia che vuol sostenere l’invasione è apparsa ancora una volta evidente a metà marzo del 2002 all’arrivo nel porto di Catania di una nave, la “Monica”, con a bordo 928 curdi. Alcuni giornali hanno riportato in prima pagina la foto della nave e uno in particolare ha utilizzato il titolo fuorviante “L’orda”, affermando con malizia la presenza di terroristi, armi e trafficanti di droga [35]. La falsa notizia è servita ancora una volta a rinfocolare i sospetti, a moltiplicare le richieste di intervento armato della Marina Militare che dovrebbe affondare a largo queste navi. Quasi nessuna spazio è stato dedicato il giorno dopo alle affermazioni del procuratore della Repubblica di Catania: “sono seccato di dover smentire notizie assurde [...] ho visto solo gente disperata a bordo di quella nave”. Infatti, vi erano in prevalenza donne e un gran numero di bambini, tutti affamati e provati da un viaggio condotto in condizioni indicibili di precarietà e pericolo.

Questa creazione dei fantasmi degli invasori e l’accanimento che gruppi sempre più estesi manifestano nei confronti degli immigrati, dimostra che la condizione di semplice “rumore di fondo” dell’atteggiamento razzistico italiano - come lo definiva nel 1992 Norberto Bobbio [36] - si è ormai trasformata in parole e ordini distinti, dove il pregiudizio si traduce in modo compiuto in iniziative politiche persecutorie. Ecco che dietro una definizione generalizzante e falsa, “L’orda”, vi è la negazione dell’identità che rende persona - identità in quel caso particolare di un popolo, quello curdo, perseguitato e torturato con ogni mezzo [37] - e che implica, di conseguenza, un universo che di fatto non interessa e che si vuole negare e al quale non si vuole in alcun modo riconoscere diritti. Ma ciò che è negato non è come se non esistesse. Questa scelta di non vedere o non riconoscere l’umanità dell’altro, l’animalizzazione dell’altro come nemico e mostro, rendendogli impossibile l’accesso ai diritti, non è priva di conseguenze per tutti. Il meccanismo dell’esclusione, infatti, illude che l’accesso ai diritti possa essere riservato solo ad alcuni, mentre invece crea le premesse perché l’area dei non garantiti, dei precari alla vita si possa progressivamente allargare. In altre parole o ci si adopera affinché i diritti siano condivisi da tutti oppure si lascia aperto il varco perché essi possano essere negati ad altri gruppi. Gruppi i quali, in situazioni contingenti economiche o politiche, possono precipitare nella categoria delle non persone vittime dei più vieti luoghi comuni e delle più pericolose generalizzazioni.

I dolorosi e luttuosi, gravissimi avvenimenti dell’11 settembre hanno offerto una concreta possibilità all’affermarsi di queste semplificazioni fino a giustificare sospetti e persecuzioni. Un esempio fra i tanti è quello dell’articolo di Oriana Fallaci pubblicato dal Corriere della Sera del 29 settembre 2001 e successivamente stampato in forma più completa in un libretto, purtroppo di grande successo [38]. Si tratta di un concentrato di odio e disprezzo di rara fattura, tanto più nefasto a causa della fama della giornalista e al decisivo contributo mediatico. Un discorso infarcito dei più vieti luoghi comuni sull’Islam, gli immigrati e la superiorità dell’Occidente sul resto del mondo. Un contributo decisivo all’intolleranza in grado di fornire ispirazione e giustificazione ad ogni manifestazione anche violenta contro gli immigrati soprattutto se di religione islamica. Come ha osservato acutamente Tiziano Terzani il punto centrale dell’invettiva della Fallaci non è soltanto: "di negare le ragioni del “nemico”, ma di negargli la sua umanità, il che è il segreto della disumanità di tutte le guerre" [39]. E si potrebbe aggiungere anche di quelle non dichiarate come la guerra all’immigrazione.

Certo l’Occidente ha prodotto già due secoli fa la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) riconoscendo diritti che allora ancora sembravano impensabili, fino ad arrivare ad ispirare la Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 10 dicembre 1948. E tuttavia c’è da chiedersi cosa può percepire di questa grandezza l’immigrato comune. Quell’immigrato che lavora dalle dodici alle sedici ore al giorno nei campi, quello che è oggetto del caporalato, al quale si fitta un posto letto in una stamberga al prezzo di un hotel a tre stelle, al quale non si permette il ricongiungimento con la moglie e i figli, la cui esistenza è legata all’atto burocratico di un permesso di soggiorno, che per ottenerlo si mette in fila la notte del giorno prima perché gli venga fissato un appuntamento a distanza di mesi. L’immigrato che ricacciato di continuo nell’anonimato del vu cumprà, dell’extracomunitario, del clandestino sperimenta quotidianamente quella condizione che Tahar Ben Jelloun ha definito efficacemente come “l’estrema solitudine” [40]. Ecco allora che se si legge la Dichiarazione Universale dei Diritti umani e gli altri documenti che da essa discendono non si può non verificare come questi diritti sono oggi un privilegio per pochi e che, soprattutto in questi ultimi anni, il numero di coloro che può accedervi in luogo di allargarsi è stato progressivamente eroso. La moltitudine dei non garantiti si moltiplica mentre il fortilizio del benessere scava nuovi fossati alimentato dalla sindrome da invasione e dal terrore della perdita del privilegio. I diritti umani possono ancora andar bene quando restano pronunciati nelle accademie o nei palazzi del potere, ma quando essi diventano rivendicazione sociale e proposta di liberazione, allora se ne avverte tutta la forza sovvertitrice ed entra in azione la persecuzione e la delegittimazione. Oppure li si riduce a pure enunciazioni morali prive di qualsiasi effetto e in nome della diplomazia si preferisce tacere anche dinanzi alle azioni persecutorie più violente e inaudite nei confronti dei migranti. Ma di fronte a questi silenzi giova ricordare la grave ammonizione di Giovanni Paolo II per il quale: "La necessaria prudenza che la trattazione di una materia così delicata impone non può sconfinare nella reticenza o nell’elusività; anche perché a subirne le conseguenze sono migliaia di persone, vittime di situazioni che sembrano destinate ad aggravarsi, anziché risolversi" [41].

7. Chiesa, immigrazione e asilo politico

Il contributo delle Chiese europee al tema dell’immigrazione può oggi essere davvero compreso come significativo e insostituibile. Non soltanto nel senso operativo dell’accoglienza concreta attraverso iniziative di sostegno e di aiuto a coloro che vivono l’esperienza - molto spesso drammatica e sconvolgente - del migrare, ma anche nella elaborazione delle motivazioni che promuovono l’impegno nei confronti dell’esodo umano che è in atto nel mondo. Una azione preventiva contro il diritto all’egoismo che produce leggi discriminatorie e una azione propositiva all’interno della complessiva tutela dei diritti dell’uomo sui quali il Magistero in questi ultimi decenni - come ha illustrato una recente e ponderosa antologia [42] - ha insistito ripetutamente con grande forza.

Un elemento significativo ci è offerto direttamente dal magistero di Giovanni Paolo II non soltanto nelle occasioni di udienze o di viaggi in cui il fenomeno migratorio spesso è stato richiamato, ma soprattutto nei messaggi preparati negli anni ‘90 per la giornata del migrante. Quei messaggi rappresentano, nel loro complesso, sia una elaborazione attenta e compiuta alle emergenze del nostro tempo sia un richiamo alle società dell’opulenza e della ricchezza alla responsabilità dell’accoglienza e all’urgenza della giustizia nella effettiva tutela dei diritti umani.

Quei diritti possono essere sintetizzati nelle parole pronunciate da Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo del migrante: "Purtroppo, non mancano tuttora nel mondo atteggiamenti di chiusura e perfino di rifiuto, dovuti a ingiustificate paure e al ripiegamento sui propri interessi. Si tratta di discriminazioni non compatibili con l’appartenenza a Cristo e alla Chiesa" [43].

Una delle analisi più lucide e consequenziali di questa affermazione e di tutto il magistero di Giovani Paolo II dedicato all’emigrazione mi sembra essere stata compresa appieno da una recente analisi proposta dal padre Vittorio Liberti, provinciale della Compagnia di Gesù in Italia. Quasi un programma complessivo dei principi ispiratori per una corretta e umana politica dell’emigrazione:

"La Chiesa sostiene un approccio alla problematica dell’immigrazione e dell’asilo politico e, in verità ad ogni ambito della vita sociale, incentrato sulla persona come portatrice di valore unico ed irripetibile ed espressione della volontà creatrice di Dio. Ogni persona, dal concepimento all’ultimo respiro, è titolare di alcuni diritti fondamentali ed inalienabili quali la possibilità di vivere in sicurezza, di avere il cibo necessario, un tetto, le cure mediche, l’istruzione. Per la Chiesa è sacrosanto il diritto dell’individuo a cercare altrove tali beni essenziali, se non può averli assicurati nel luogo dove si trova. E chi direttamente o indirettamente ostacola tale ricerca non può dirsi cristiano. A tali diritti corrispondono evidentemente dei doveri, quali quello di contribuire al benessere della collettività con il proprio lavoro e di rispettarne le leggi.

Resta dunque decisivo per la Chiesa l’affermazione e il rispetto in sé della dignità della persona. La dignità infatti non è data dal permesso di soggiorno o dal contratto di soggiorno. Il rispetto non è dovuto soltanto ai cittadini dello stato ma a tutte le persone che vi si trovano. Chi, senza colpa, è nato in situazioni di estrema precarietà oppure ha subito soprusi, non può continuare a vedersi negati i propri diritti fondamentali da chi, senza merito, è nato in situazioni protette e di benessere. Una normativa che voglia contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina deve innanzi tutto evitare di costringere alla clandestinità quegli immigrati che aspirano ad un inserimento legale nel nostro paese" [44].


[1] "Dichiarazione dei Provinciali gesuiti europei", in Gesuiti in Italia 4(2001) 38.

[2] Cfr. tra le più recenti pubblicazioni riassuntive riguardanti il XX secolo: J. Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, Carocci, Roma 2001; J. Glover, Humanity. Una storia morale del XX secolo, Il Saggiatore, Milano 2002.

[3] Cfr. al riguardo A.J. Kami ski, I campi
di concentramento
dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino 1998; J. Kotek - P. Rigoulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio: 1900-2000, Mondadori, Milano 2001.

[4] Osserva G. Agamben a proposito della Dichiarazione: "Nel sistema dello Stato-nazione, i cosiddetti diritti sacri e inalienabili dell’uomo si mostrano sprovvisti di ogni tutela nel momento stesso in cui non è più possibile configurarli come diritti di cittadini di uno Stato. Ciò è implicito, se ben si riflette, nell’ambiguità del titolo stesso della Dichiarazione del 1789: Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, dove non è chiaro se i due termini nominino due realtà distinte o formino, invece, un’endiadi in cui il primo termine è, in verità, già sempre contenuto nel secondo" (Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, 23-24).

[5] Cfr. W. Wallace, Le trasformazioni dell’Europa occidentale, Il Mulino, Bologna 1992, 19ss.

[6] Nel Natale del 1996 morirono nel tratto di mare tra Malta e Porto Palo (Sr) 286 immigrati, un naufragio negato per anni da tutte le autorità anche quando i pescatori cominciarono a rinvenire nelle loro reti pezzi di arti umani. Nella Pasqua del 1997 nel canale d’Otranto vi furono circa 100 morti in seguito allo speronamento della nave Kater I Rades da parte della motovedetta della Marina Militare italiana Sibilla.

[7] "Alcuni possibili esempi, a crescente livello di ostilità, possono essere: una generica sopravvalutazione delle dimensioni quantitative del fenomeno e dei costi che la società di accoglienza dovrà sopportare; un concreto disagio per la vicinanza fisica di singoli immigrati o di loro comunità; la tendenza a considerare come più gravi, o più evidenti, i problemi di ordine sociale di cui possono essere responsabili in modo più o meno diretto gli immigrati; la tendenza a considerarli comunque responsabili, con un classico esempio di “capro espiatorio”, di problemi di cui essi sono semmai vittime; l’adozione di esplicite pratiche di discriminazione, la lotta aperta ai loro insediamenti e alle loro attività; fino all’aggressione diretta, verbale o fisica, che a volte finisce per avere effetti tragici" (B.M. Mazzara, Appartenenza e pregiudizio. Psicologia sociale delle relazioni interetniche, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996, 14-15).

[8] "Dichiarazione dei Provinciali gesuiti europei", cit., 35.

[9] C. Morini, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, Derive Approdi, Roma 2001, 47.

[10] A. Rivera, "Immigrati", in R. Gallissot - M. Kilani - A. Rivera (edd.), L’imbroglio etnico in quattordici parole chiave, cit., 208.

[11] Cfr. C. Frassineti, La mano visibile. Per una economia della liberazione, la meridiana, Molfetta 1993.

[12] H.M. Enzensberger, Prospettive sulla guerra civile, Einaudi, Torino 1994, 28ss.

[13] Cfr. F. Rigaux, La carta di Algeri. La dichiarazione universale dei diritti dei popoli. Algeri, 4 luglio 1976, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1988.

[14] Si cfr. al riguardo la preziosa opera compiuta dal “Centro nuovo modello di sviluppo” di cui sono prova numerose pubblicazioni tra cui: Lettera ad un consumatore del Nord, EMI, Bologna 1990; Boycott. Scelte di consumo. Scelte di giustizia. Manuale del consumatore etico, Macro edizioni, San Martino di Sarsina 1992; Guida al consumo critico. Informazioni sul comportamento delle imprese per un consumo consapevole, EMI, Bologna 1996.

[15] Cfr. la preziosa indagine di S. Calvani - M. Melis, Gli schiavi parlano e i padroni confermano (Piero Manni, Lecce 2000) che offre una dolorosa e articolata rassegna di quale sia il livello di estensione della condizione di schiavitù nel mondo: dalla prostituzione al lavoro minorile a quello nero e asservito fino al turismo sessuale. Queste attività costituiscono la spina dorsale di quell’economia di morte che orienta le politiche di quegli stessi Paesi che, mentre sottoscrivono i trattati sui diritti, offrono alle ragioni assolute del mercato tutte le risorse legislative perché si possa affermare, spesso legalmente, la negazione dei diritti stessi.

[16] "Non c’è più Terzo mondo, ma ci sono “Quarti mondi”. Questo termine è utilizzato per designare tre insiemi distinti di esclusi: i marginali dei paesi ricchi, le minoranze autoctone, i paesi meno avanzati" (S. Latouche, Il pianeta dei naufraghi. Saggio sul doposviluppo, Bollati Boringhieri, Torino 1993, 26).

[17] R. Napoleone, Le radici dell’odio. Nord e sud a un bivio della storia, Dedalo, Bari 2002, 184-185.

[18] F. Bouchet-Saulnier, "Grandezza e miseria del diritto umanitario", in Medici senza frontiere, Popolazioni in pericolo 1995 - Rapporto Annuale, Editrice Periodici Culturali, Roma 1995, 80.

[19] "se si supera il concetto stretto di rifugiato fissato dalla Convenzione di Ginevra, per la quale è costitutivo il passaggio di frontiera, e si includono anche coloro che fuggono dall’ambiente in cui vivono o addirittura le migrazioni per ragioni di sopravvivenza dei poveri che emigrano dalla campagna e vanno ad ammassarsi negli slums delle “megalopoli” o Giants Cities, allora le cifre superano tranquillamente il miliardo" (K.J. Bade, L’Europa in movimento. Le emigrazioni dal settecento a oggi, Laterza, Bari 2001, 484).

[20] A. Rivera, "Immigrati", cit., 215.

[21] Ib., 216.

[22] Caritas, Immigrazione Dossier Statistico 2001. XI Rapporto sull’immigrazione, Anterem, Roma 2001, 33.

[23] "I lavoratori migranti hanno il diritto di vedere la propria famiglia unita il più presto possibile. I rifugiati hanno diritto all’assistenza da parte delle autorità pubbliche e delle organizzazioni internazionali onde facilitare la riunione delle loro famiglie" (Orientamenti pastorali della Commissione ecclesiale per le migrazioni, Ero forestiero e mi avete ospitato, (4.10.1993), Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, EDB, Bologna 2001, 1554); "Occorre evitare di ricorrere all’uso di regolamenti amministrativi, intesi a restringere il criterio dell’appartenenza familiare, con la conseguenza di spingere fuori dalla legalità persone, a cui nessuna legge può negare il diritto alla convivenza familiare" (Giovanni Paolo II, Messaggio per la giornata mondiale del migrante (25.7.1995), in Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, cit., 505). Per verificare quanto sia purtroppo disatteso e negato in Italia questo autorevole richiamo al sacro diritto al ricongiungimento familiare dei rifugiati cf le testimonianze raccolte in E.H. Hein Allocco, La moglie di Lot. Vivere in esilio, Edizioni Lavoro, Roma 1996.

[24] "Si può osservare al riguardo che una rigida subordinazione del permesso di soggiorno alla chiamata nominativa può generare anziché ridurre la presenza illegale" (Caritas, Immigrazione Dossier Statistico 2001, cit., 34).

[25] K.J. Bade, L’Europa in movimento, cit., 498.

[26] Giovanni Paolo II, "Messaggio per la giornata mondiale del migrante" (25.7.1995), in Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, cit., 504.

[27] Cfr. al riguardo l’articolata e comprovata tesi sostenuta da M. Bernal (Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1997) sulle dipendenze e influenze esercitate da Egiziani e Fenici sui Greci.

[28] Cfr. E. Scoditti, Una Costituzione senza popolo. Unione europea e nazioni, Dedalo, Bari 2001.

[29] "Il concetto di etnia rinchiude l’individuo in un gruppo con il quale questi può anche non sentire alcuna affinità, ma al quale è assegnato o per la sua lingua madre, o per la nazionalità del padre o della madre, o per la religione. [...]. Una recente indagine francese raggruppa gli immigrati in categorie quali peulh, mandé, cabili, portoghesi, ma ignora le appartenenze doppie, triple ecc. Si nega in questo modo l’esistenza di incroci che sono invece il tratto comune dell’umanità; e si occulta il fatto che avere due genitori diversi comporta, nel corso delle generazioni incroci e mescolanze che appartengono al passato, e non al futuro (cosa che impedisce di tracciare frontiere biologiche fra gruppi umani che si sono costituiti in entità politiche). Il ricorso al concetto di etnia (o a quello di generazioni successive di immigrazione) si iscrive nella corrente delle teorie razziali “gobiniane” secondo cui il mantenimento della purezza della razza è l’obiettivo più alto da perseguire. In questo modo l’etnia appare come un compromesso, un termine intermedio o un intreccio semantico tra popolazione nazionale e razza. La sua presenza influenza il concetto stesso di popolazione, che non sta più ad indicare il numero delle persone presenti in un dato momento e in un dato territorio, ma una entità chiusa e immutabile nel tempo" (H. Le Bras, Il demone delle origini. Demografia e estrema destra, Feltrinelli, Milano 2001, 13-14).

[30] "Non vi è multiculturalità senza meticciato. I gruppi umani, infatti, in presenza reciproca sullo stesso territorio, si incontrano. Si mescolano e mescolano le lingue, i costumi, i simboli, i corpi. Generano qualcosa di altro rispetto a se stessi, figli che saranno diversi dalle loro origini. Solo una violenza imposta, quella dell’apartheid, può impedire un simile processo. Il meticciato è l’effetto, il prolungamento del multiculturale" (J. Audinet, Il tempo del meticciato, Queriniana, Brescia 2001, 62).

[31] Ib., 99.

[32] F. Ferrarotti, La tentazione dell’oblio, Laterza, Bari 1993, 188.

[33] "Il tema “migrazione” attraversa una fase di alta congiuntura negativa in Europa, alimentata da un retroterra di problemi migratori di portata mondiale e da angosce europee di fronte alla crescente “pressione migratoria”. Gli interessi attuali portano anche a interrogarsi sulla storia delle migrazioni all’interno dell’Europa, dall’Europa e verso l’Europa, giacché i processi migratori attuali possono essere meglio giudicati se si possiede una visione d’insieme di quelli già conclusi - e quindi ormai storici - e se si conoscono le linee di sviluppo al termine delle quali stanno i problemi del presente" (K.J. Bade, L’Europa in movimento, cit., 3). Sulla estrema complessità storica del processo e per una analisi critica delle letture semplificanti, in auge soprattutto nel passato, cf il recente studio di W. Pohl, Le origini etniche dell’Europa. Barbari e Romani tra antichità e medioevo, Viella, Roma 2000, in particolare 1-38.

[34] Cfr. il più recente: Caritas, Immigrazione Dossier Statistico 2001, cit., 57ss.

[35] La Padania, 19 marzo 2002.

[36] L’affermazione contenuta nell’articolo "Razzismo oggi", stampato in diverse pubblicazioni nel 1993, fu edito definitivamente nel volume N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea D’Ombra, Roma 1994, 142ss.

[37] Cfr. in proposito il recente studio promosso meritoriamente dalla Fondazione Internazionale “Lelio Basso”: M. Galletti (ed.), I Curdi un popolo trasnazionale, Edizioni dell’Università Popolare, Roma 1999.

[38] O. Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, Rizzoli, Milano 2001.

[39] T. Terzani, Lettere contro la guerra, Longanesi, Milano 2002, 17.

[40] T. Ben Jelloun, L’estrema solitudine, Bompiani, Milano 1999.

[41] Giovanni Paolo II, "Messaggio per la giornata mondiale del migrante" (25.7.1995), in Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, cit., 503.

[42] Cfr. G. Filibeck (ed.), I diritti dell’uomo nell’insegnamento della Chiesa. Da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2002.

[43] Giovanni Paolo II, "Omelia per il Giubileo del migrante" (2.6.2000), in Enchiridion della Chiesa per le migrazioni, cit., 539.

[44] V. Liberti, "Il disegno di legge su immigrazione e asilo: una concezione della persona troppo mercantile", in Gesuiti in Italia 5(2002) 175-176.