Neocorporatismo nazionale e le relazioni industriali europee

Luigi Cavallaro

1. Ho la sensazione che ci sia della sostanza nell’attacco senza precedenti che il Governo e la Confindustria hanno sferrato contro il più grande sindacato confederale e che, al momento, ha prodotto la spaccatura fra le tre centrali sindacali, con la Cisl e la Uil che, dopo molte "resistenze" hanno firmato il "Patto per l’Italia". Una sostanza che non è esclusivamente riconducibile al mai tramontato desiderio di sbarazzarsi di ogni istanza sindacale e che, al contrario, cerca di fare i conti
 seppure alla maniera padronale, cioè per le spicce e unilateralmente - con il mutato scenario determinato dall’adesione alla moneta unica. Con la conseguenza che la (giusta) prova di forza dello sciopero generale potrebbe non essere sufficiente al sindacato per rispondere alle provocazioni confindustrial-governative con le stesse parole che Fidel Castro pronunciò davanti ai giudici che lo accusavano per l’assalto alla caserma del Moncada: "La storia mi assolverà".

Una precisazione appare preliminare. Affrontando in un unico contesto il mutato scenario determinato dall’adesione alla moneta unica e l’assalto confindustriale al sistema delle relazioni industriali fin qui consolidato non sto legando arbitrariamente vicende reciprocamente indifferenti. Al contrario, essendo il denaro "capitale" (seppure dynámei, "in potenza", come scriveva Marx) ed essendo il profitto (cioè il reddito del capitale) in rapporto inverso col salario, è inevitabile che di valore della moneta non possa parlarsi senza discutere del livello dei salari. I problemi, caso mai, affiorano quando si cerca di spiegare in che modo le due variabili sono connesse: qui le risposte divergono e questo non è precisamente uno di quei campi in cui si possa dire bene della grande confusione che regna sotto il cielo.

Schematizzando grossolanamente, comunque, sembra di poter dividere il campo teorico fra due diversi paradigmi. Secondo il primo di essi, il livello dei salari è determinato da forze economiche "oggettive" (e precisamente dalla produttività marginale del lavoro), che i sindacati non solo non possono modificare, ma addirittura sbagliano a contrastare. Ad avviso dei suoi sostenitori, qualora i salari fossero spinti al di sopra del livello concorrenziale, si innescherebbe una spirale inflazionistica, dovuta al tentativo degli imprenditori di recuperare gli erosi margini di profitto mediante aumenti dei prezzi. Ne seguirebbe l’aumento dei tassi d’interesse da parte dell’autorità monetaria, che indurrebbe a sua volta una contrazione del livello di attività delle industrie e una riduzione della domanda di lavoro, finché l’accresciuta disoccupazione non facesse cadere il monte globale dei salari; la pressione dell’esercito dei disoccupati alla ricerca di un lavoro farebbe il resto e così i salari ritornerebbero presto o tardi al livello precedente.

A questa tesi può obiettarsi - e storicamente è stato obiettato - che, se anche fosse vera, non ne seguirebbe affatto che quello concorrenziale sia un livello dei salari imposto dall’ordine naturale delle cose e nemmeno che esso rappresenti il contributo dato dalla classe lavoratrice alla società, se non nel senso generico che questa è la valutazione che un mercato concorrenziale ha dato di esso in una data serie di circostanze [1]. In altre parole, anche se fosse vero che l’innalzamento dei salari oltre un certo livello determina disoccupazione, sarebbe giusto tanto affermare che causa di questa disoccupazione risiede negli alti salari, quanto il dire che essa è dovuta all’elevato saggio di profitto che gli imprenditori esigono per la remunerazione del loro capitale. Tanto più che un aumento dei salari a scapito dei profitti, pur potendo determinare in astratto una contrazione della capacità d’investimento della classe proprietaria, non sarebbe necessariamente destinato a comportare effetti negativi sulla produzione e sull’occupazione: i capitalisti, infatti, potrebbero investire una proporzione del proprio reddito maggiore di quella precedente per compensare, sotto forma di accresciuto consumo futuro, la diminuzione del consumo presente.

Secondo i critici, pertanto, il livello dei salari - e dunque il suo reciproco, il valore della moneta - non è dato da alcuna forza "oggettiva", bensì dai rapporti di forza fra capitalisti e salariati. Tuttavia, la consapevolezza che il salario possa teoricamente variare "da zero a uno" (come scrisse Sraffa) [2] non li induce a ritenere possibile che il salario possa appropriarsi interamente del sovrappiù: non solo perché in questo caso si dovrebbe rinunziare a qualsiasi investimento, ma soprattutto perché la "variabile indipendente", in un sistema capitalistico, non è il salario, ma il profitto, essendo suscettibile di essere determinato da circostanze esterne al sistema della produzione, e particolarmente dal livello dei tassi d’interesse. Ciò, naturalmente, conduce ad attribuire una rilevante importanza alla politica monetaria, giacché attraverso la manovra sulla liquidità la banca centrale viene, di fatto, a gestire il conflitto di classe.

In un certo senso è sterile interrogarsi su quale di queste teorie sia "giusta", l’evidenza empirica potendo essere piegata (e storicamente essendo stata piegata) a giustificare ora l’una ora l’altra: "se voi torturerete i dati abbastanza a lungo, essi confesseranno", scrisse ironicamente Mayer (1980). Più opportuno può essere riflettere sul fatto che esse, in buona sostanza, riflettono i due assetti delle relazioni industriali che abbiamo sperimentato a partire dalla seconda metà del secolo scorso: quello "americano", che non conosce la contrattazione collettiva se non a livello aziendale e affida esclusivamente alla politica monetaria la determinazione del valore della moneta (e la conseguente distribuzione del reddito di pieno impiego) e quello "europeo", che al contrario incarica la contrattazione collettiva nazionale della determinazione di una distribuzione del reddito fra salari e profitti non inflazionistica e lascia alla politica monetaria il più limitato compito di tenere il tasso d’interesse sufficientemente basso per consentire alla spesa privata e a quella pubblica di mantenere il sistema al livello di piena occupazione. (A scanso di equivoci, preciso che quelli tracciati sono "modelli stilizzati": come i "fatti stilizzati" di Kaldor, servono solo a comunicare rapidamente certe cose prossime al vero senza perdersi in una pletora di dettagli.)

Così stando le cose, mi sembra evidente il motivo per cui Confindustria (e il suo comitato d’affari, vale a dire il governo) ha sferrato un così pesante attacco all’intero sistema delle relazioni industriali. Con l’istituzione della moneta unica, gli Stati membri dell’Unione Europea sono stati privati della leva della politica monetaria, essendo stata questa accentrata a Francoforte. In mancanza di una contrattazione collettiva di livello sovranazionale, e in presenza di rilevanti differenziali salariali fra paese e paese, una politica monetaria rigida (o monetarista tout court) diventa pertanto l’unico modo per garantire una distribuzione del reddito fra salari e profitti non inflazionistica e omogenea a quella vigente negli altri paesi aventi standard monetario analogo a quello dell’Unione. In questo quadro, un contratto collettivo nazionale non serve più: è solo un impaccio, che obbliga gli imprenditori a negoziare due volte sulla distribuzione dei redditi senza averne alcuna contropartita in termini di bassi tassi d’interesse. Meglio allora lasciare al livello aziendale la determinazione del salario e conservare al livello nazionale il negoziato sulla sola "parte normativa" dei contratti (o al massimo la determinazione di un "salario minimo", da usare come parametro per la tutela giurisdizionale).

Si tratta, com’è chiaro, di un vero e proprio mutamento di paradigma: la politica monetaria serve adesso a regolare la domanda per prevenire l’inflazione, mentre il negoziato fra le parti sociali (ancorché spacciato per "politica dei redditi") assolve al compito di perseguire quella distribuzione del reddito fra (bassi) salari e (alti) profitti idonea a realizzare il pieno impiego. Poco importa se si tratta di impiego precario e di salari da fame: per gli imprenditori la domanda (di merci) è un dato non modificabile e la loro risicata domanda di lavoro ne è effetto. Chi non ci sta e pretende salario e diritti si arrangi: ci sarà sempre un Milton Friedman (o un Michele Salvati o un Paolo Sylos Labini, per restare a casa nostra) pronto a dire imputet sibi.

È dunque necessario mettere in guardia da semplificazioni del tipo "l’euro è il benvenuto, il problema è il Patto di stabilità": oggi il valore dell’euro dipende strettamente dal Patto di stabilità, nel senso che una politica monetaria restrittiva è, allo stato, l’unica garanzia circa la permanenza di un assetto distributivo fra classi capitalistiche e classe salariata non solo non inflazionistico, ma soprattutto conforme (seppure tendenzialmente) a quello vigente negli Stati Uniti, che oggi detengono il ruolo di "direttore dell’orchestra internazionale". Non si sottovaluti il problema: come spiegò Keynes (1930), in regime di libertà di movimento dei capitali, i salari devono tendere ovunque allo stesso livello, altrimenti i prestiti all’estero da parte di un paese in cui i salari siano relativamente elevati tenderanno a eccedere la bilancia internazionale del paese stesso, richiedendo così una deflazione dei profitti a salvaguardia del cambio, finché non segua, attraverso la pressione della disoccupazione, una deflazione dei redditi ed i salari non si portino allo stesso livello che altrove.

Una risposta "di sinistra" a questo stato di cose potrebbe essere una "contrattazione collettiva europea", che tolga alla Bce il compito di assicurare la stabilità dei prezzi e torni a scambiare con il potere politico in termini di diritti e welfare. Ma su che basi? Quelle esistenti, codificate nel Trattato di Amsterdam, offrono un valido punto di partenza? E come si ripartiscono le forze sociali e politiche in campo rispetto ad un obiettivo del genere? E, per contro, quali possono essere le conseguenze di un rilancio del conflitto distributivo in un quadro come quello vigente?

2. Di contratti collettivi il Trattato di Amsterdam parla in due norme, gli artt. 138 e 139, i quali disegnano due forme di negoziazione tra le parti sociali, una volontaria e l’altra "indotta" dalla Commissione. Entrambe possono portare alla stipula di un "contratto collettivo comunitario": se esso viene effettivamente concluso - precisa l’art. 139 - la sua attuazione è rimessa o agli Stati membri (secondo le procedure e le prassi vigenti in ciascuno di essi) o, se il contratto concerne taluna delle materie di cui all’art. 137, ad una decisione del Consiglio dei ministri, adottata su proposta della Commissione europea.

Già la previsione di siffatte "modalità di attuazione" costituisce una spia significativa della non riconducibilità del modello delineato nel Trattato alle prassi vigenti al livello degli Stati membri fin dal sorgere delle moderne relazioni industriali. Pur con le differenze fra common law anglosassone e diritto civile continentale, dottrina e giurisprudenza europee sono state sostanzialmente concordi, infatti, nell’inquadrare gli accordi collettivi nell’ambito del diritto comune dei contratti, spiegando la conformazione dei rapporti di lavoro individuali al dictum del contratto collettivo in virtù della delega a negoziare trattamenti economici e normativi che i datori di lavoro e i lavoratori conferiscono alle organizzazioni sindacali cui appartengono e che li vincola all’osservanza dell’accordo raggiunto, così come il mandante è astretto dal contratto stipulato per suo conto dal mandatario. Vero è che tale ricostruzione lasciava inspiegato quel fenomeno che l’OCSE ha denominato "excess coverage", vale a dire l’estensione di fatto dei trattamenti economici e normativi fissati dai contratti collettivi anche ai non iscritti (si ricordi che, nonostante il declino del numero degli appartenenti al sindacato, in Francia, Spagna e Germania l’excess coverage riguarda più di due terzi dei lavoratori, poco meno del 50% in Italia) e che, storicamente, ha rappresentato il presupposto per l’uso della contrattazione collettiva per fini di politica economica generale; ma, quale che fosse il meccanismo giuridico tramite il quale si perveniva all’estensione del contratto ai lavoratori non sindacalizzati, un punto era ritenuto ormai acquisito, e cioè la possibilità per un lavoratore o per un datore di lavoro di invocare l’applicazione di clausole normative o salariali contenute in un contratto collettivo sottoscritto da un’organizzazione sindacale della quale egli fosse affiliato (non è un caso il paradigma comune alle relazioni industriali europee sia stato elaborato da un giuslavorista che cumulava in sé l’esperienza continentale e quella anglosassone, e cioè Sir Otto Kahn-Freund, il quale - formatosi nella Germania weimariana - esercitò il magistero dell’insegnamento a Londra e a Oxford, dov’era scappato durante il delirio nazista).

Questa possibilità è adesso preclusa per ciò che concerne il "contratto collettivo europeo". Nella sua forma "pura" di accordo fra la CES (Confederazione Europea Sindacale) e l’UNICE e il CEEP (che raggruppano i datori di lavoro), esso non è infatti applicabile negli Stati membri: occorre pur sempre la sua "traduzione" in accordi nazionali, da stipularsi secondo le procedure e le prassi vigenti in ciascuno di essi. Il che, ovviamente, è destinato a incidere negativamente sulla possibilità che si possa usare lo strumento della negoziazione collettiva comunitaria per produrre il "lavoratore comunitario" come soggetto dotato di eguali poteri, eguali obblighi ed eguali diritti: senza il recepimento di siffatti accordi, i giudici non potranno darvi ingresso nelle dispute portate innanzi a loro (Lo Faro 1999). E posto che tale recepimento dipenderà dagli effettivi rapporti di forza fra padronato e sindacati all’interno di ciascun paese, è possibile che, invece di funzionare come strumento di unificazione delle tutele, il contratto collettivo europeo possa risultare un veicolo di differenziazione delle stesse, specie in un contesto come quello odierno, pesantemente influenzato da una teoria economica che tende a riportare la disoccupazione ad errati comportamenti dei lavoratori.

Diverso discorso (ma solo in parte) va fatto per quegli accordi che si traducono in una decisione del Consiglio dei ministri. Se infatti non può essere negata la loro attitudine a conformare le relazioni industriali e i rapporti di lavoro individuali, anche qui va notata una duplice differenza rispetto al modello prevalente in campo nazionale: da un lato, l’efficacia conformativa si ricollega propriamente non all’accordo, ma al provvedimento consiliare, per giunta adottato su proposta della Commissione (e proprio questo potere di "proposta" ha dato modo alla Commissione europea di arrogarsi discutibili potestà di controllo preventivo e successivo sul contenuto dei contratti); dall’altro lato, gli accordi suscettibili di tradursi in una decisione del Consiglio dei ministri possono concernere esclusivamente le materie di cui all’art. 137 del Trattato e, non figurando tra queste la materia salariale, resta escluso che per loro tramite possano essere perseguiti obiettivi di politica dei redditi.

Tutto ciò rende evidente che, nonostante la situazione normativa attuale valga a configurare la Commissione europea come principale interlocutore della CES, siamo ben lungi da qualunque forma di neo-corporatismo "progressivo" (à la Tarantelli, per intenderci) [3]. Innanzi tutto, perché l’esclusione della materia salariale dal novero di quelle su cui può intervenire un accordo dotato (o meglio, "dotabile") di efficacia vincolante esclude in radice che la contrattazione collettiva europea possa fondatamente assumersi come obiettivo una distribuzione del reddito non inflazionistica. In secondo luogo, perché la Commissione non è dotata di risorse finanziarie che il sindacato possa "scambiare" con il consenso ad una politica di stabilità dei prezzi, onde la rinuncia alla lotta salariale non potrebbe avere come contropartita alcun beneficio in termini di reddito "reale" (tale intendendo quello al netto delle imposte e al lordo dei servizi sociali: scuola, sanità, pensioni, trasporti pubblici, sussidi per la casa ecc.).

Secondo molti "antagonisti", il modello neo-corporatista, associato alle "concessioni" del welfare state, sarebbe stato lo strumento principale per comprimere le rivendicazioni dei lavoratori entro moduli funzionali all’arricchimento dell’avversario di classe. Se ciò fosse vero in assoluto, gli Stati Uniti dovrebbero avere il welfare più progredito del mondo, sindacati confederali fortissimi e una banca centrale per nulla interessata alle sorti dell’inflazione. Poiché così non è, sorge il dubbio che simili spiegazioni non funzionino. Di fatto, oggi è il padronato ad avere il maggior interesse a non replicare su scala europea i modelli di relazioni industriali affermatisi nel secondo dopoguerra ed è per questo che le organizzazioni datoriali "flirtano" pressoché ovunque con i partiti nazionalisti: non esiste miglior pretesto di un mercato unico senza un unico Stato per sbarazzarsi di quei vincoli che la tutela dei diritti dei lavoratori e dei cittadini in genere ha posto alla libertà di fare impresa. Uno studioso del calibro di Wolfgang Streeck, al riguardo, ha significativamente parlato di "affinità elettiva" fra nazionalismo e liberismo [4]: sarebbe questo connubio (storicamente non inedito, in verità) a impedire l’evoluzione della Comunità europea verso qualcosa di simile ad uno Stato federale o ad una confederazione di Stati.

Se ciò è vero, la difesa delle sovranità nazionali e l’accelerazione del processo di integrazione sotto la spinta dell’unificazione monetaria rappresentano le due facce della medaglia della restaurazione conservatrice (altro che "riformismo"!): ci si appella all’Europa per richiedere flessibilità, salvo invocare "specificità nazionali" nei rari casi in cui la regolazione europea è migliorativa di quella vigente (esemplare la vicenda del decreto legislativo 626/94 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro).

Un quadro del genere pone ovviamente grossi problemi di strategia per quelle forze politiche e sociali che non ritengono che lo smantellamento dei diritti e delle tutele dei lavoratori sia una conseguenza incontrovertibile dell’adesione alla moneta unica. Ma, prima di tutto, dovrebbe indurle a rivedere il proprio giudizio sul capitalismo attuale, che non è espansivo e modernizzante, ma debole e pericoloso.

 

3. Nei fatti, comunque, se poche sembrano essere le speranze per un’evoluzione delle relazioni industriali europee verso una qualche forma di corporatismo "progressivo", non pochi indizi sembrano spingere il quadro sociopolitico dell’Unione verso la restaurazione di forme "regressive" di corporatismo, in cui cioè il mantenimento di istanze di contrattazione centralizzata (ma a livello nazionale) assolve al ben diverso obiettivo di assicurare una moderazione salariale sufficiente a garantire al sistema delle imprese una distribuzione del reddito idonea a immunizzare gli investimenti industriali dalle crescenti pretese della rendita finanziaria. Lo conferma la lettura di due corposi rapporti scritti da un folto gruppo di economisti, politologi e sociologi di diversi paesi (tra cui Lars Calmfors, Michael Burda, Jelle Visser, Bernhard Ebbinghaus, Richard Freeman e i nostri Daniele Checchi, Agar Brugiavini e Pietro Garibaldi), presentati in occasione di un seminario promosso qualche tempo fa dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti, poi pubblicati nel 2001 dalla prestigiosa Oxford University Press e adesso tradotti in un ricco volume per i tipi della Università Bocconi Editore [5].

Il punto di partenza da cui muove l’analisi dei due rapporti è il declino del tasso di sindacalizzazione in tutta Europa, trascorso dal picco del 45% raggiunto alla fine degli anni Settanta ad un più modesto 32-33% nel 1998 (in Italia, nel medesimo periodo, la percentuale di adesione ai sindacati è calata di dodici punti percentuali, passando dal 50% della forza lavoro attiva al 38%). Si tratta, secondo gli estensori del primo dei due rapporti, di un trend pressoché irreversibile, a causa dell’aumento dei lavoratori precari e degli addetti a settori in cui il sindacato è "assente o invisibile", come il commercio, i servizi alla persona e, in generale, le piccole imprese. Non solo, ma - considerato che la capacità di reclutamento del sindacato è correlata positivamente al grado di centralizzazione della contrattazione collettiva - è possibile che l’evoluzione delle relazioni industriali verso un modello che privilegia la contrattazione aziendale (come quello proposto da lunga pezza dalla Cisl) [6] finisca con l’espellere il sindacato dalla maggior parte dei settori produttivi, concentrandone la presenza all’interno delle imprese transnazionali e del (ridimensionato) settore pubblico.

Il problema è che la decentralizzazione delle relazioni industriali, per quanto attivamente ricercata dal sistema delle imprese, reca per esse un pericolo. Un sindacato "aziendalista", infatti, non è particolarmente incline a farsi carico del perseguimento di obiettivi di carattere generale, come ad esempio una distribuzione del reddito non inflazionistica. E in un contesto in cui tutti gli attori del sistema delle relazioni industriali sono troppo "piccoli" rispetto all’autorità monetaria, questa tendenza (come spiegò vent’anni fa Mancur Olson) [7] può generalizzarsi, nel senso che nessun sindacato si preoccuperà del fatto che le sue richieste salariali, traducendosi in un innalzamento dei prezzi delle merci finite, comportino l’innesco di spirali "salari-salari" e "salari-prezzi": si moderino gli altri, diamine!, perché proprio io?

Un’eventualità del genere, però, è seriamente preoccupante per gli industriali europei, che hanno già compreso cosa vuol dire il rigore nella conduzione della politica monetaria e sanno che ci vuol poco perché la Bce rilevi pericoli d’inflazione e rialzi i tassi, frustrando le loro aspettative di profitto a vantaggio della rendita. Ciò significa che essi, pur privilegiando in assoluto la decentralizzazione delle relazioni industriali, possono favorire l’istituzione di forme più elastiche di coordinamento, come quella sperimentata nei "patti sociali" degli ultimi anni. Un simile coordinamento, infatti, può consentire alle imprese di recuperare quanto perduto a causa del trasferimento in sede europea delle decisioni di politica monetaria, perché garantisce quella flessibilità dei salari monetari che si pone come equivalente funzionale della svalutazione: quanto meno crescono i salari monetari, tanto meno cresceranno i prezzi delle merci finite, sicché il tasso d’inflazione vigente in ciascun paese dell’Unione finisce con il rappresentare l’indice più evidente della sua capacità di "invadere" con le proprie merci i mercati "amici".

Se è chiaro l’incentivo dei governi nazionali a promuovere simili forme di accordi (di fatto, essi rappresentano l’unico succedaneo disponibile di politica economica, dati i vincoli che alla politica fiscale discendono dall’adesione al Patto di stabilità), meno evidente è l’interesse che possono avervi i sindacati, per i quali il contenimento dei salari nominali è un obiettivo che non solo comporta notevoli tensioni con la propria "base", ma per di più - come ha scritto Colin Crouch (1998) - fa sì che essi debbano accollarsi per intero lo stress e i conflitti che questa singolare forma di "svalutazione competitiva" genererà (e sta già generando) fra i lavoratori dell’Unione, con gli italiani chiamati a fare sacrifici per compensare la minore inflazione tedesca, gli spagnoli per la minore inflazione italiana e così via.

Come fare, allora, per indurre il sindacato ad accettare una prospettiva del genere? Una risposta emerge netta nel volume ed è collegata all’adozione di un particolare sistema di gestione dell’indennità di disoccupazione, il cosiddetto "sistema Gand" (dal nome della cittadina belga dove esso fu introdotto per la prima volta nel 1901). Si tratta di un programma di assicurazione pubblica contro la disoccupazione di carattere volontario, ma sostenuto dallo Stato e gestito direttamente dai sindacati o da fondi da essi controllati. Un sistema del genere, si legge nel secondo dei due rapporti, "potrebbe contrastare la tendenza alla formazione di un’economia duale, in cui un numero crescente di lavoratori occupati con contratti a tempo determinato si ritrova escluso dalla sfera di influenza del sindacato e dai programmi di assicurazione forniti dallo stato sociale"8. I dati forniti, infatti, suggeriscono che, nei paesi dove esso è vigente (Danimarca, Finlandia, Svezia, Belgio), i tassi d’iscrizione al sindacato sono elevati non solo tra i lavoratori regolari, ma anche tra i precari, sicché - prosegue il rapporto citato - una misura del genere potrebbe rappresentare "un modo per stabilire un contatto istituzionale tra sindacati e lavoratori precari, dato che questi ultimi probabilmente sono molto interessati all’assicurazione contro la disoccupazione" [8].

Un "sistema Gand", in effetti, assicurerebbe i sindacati dal rischio di vedere scemare sempre più il numero dei propri iscritti, il che lo rende ipso facto desiderabile da soggetti che - per dirla ancora con Colin Crouch - temono in sommo grado la marginalizzazione subita dal sindacato negli Usa e nel Regno Unito e sono disposti a consistenti sacrifici pur di vedersi riconosciuto "un posto al tavolo" quando si discute di affari legati all’economia nazionale [9]. Del resto, considerando che le condizioni istituzionali necessarie perché si dia un’elevata adesione al sindacato sono la possibilità di accesso nei luoghi di lavoro, un elevato grado di centralizzazione della contrattazione collettiva e l’amministrazione dell’indennità di disoccupazione, è verosimile attendersi che, a misura che perde rilevanza la seconda di esse, il sindacato scommetta tutto sulla terza, che - secondo le stime econometriche eseguite sui dati disponibili - favorirebbe addirittura l’instaurarsi di una correlazione positiva fra tasso di disoccupazione e tasso di sindacalizzazione.

Ma un "sistema Gand" favorirebbe indubbiamente anche il governo, dal momento che il sindacato non potrebbe non farsi carico dei vincoli di bilancio implicito nel finanziamento dell’indennità di disoccupazione. E per questa via, la moderazione salariale necessaria ad "anticipare" il rigore della Bce potrebbe raggiungersi senza ambagi, derivandone ovvi benefici anche per la finanza pubblica, che ha tutto da perdere (in termini di maggior servizio del debito) dal rigore dell’autorità monetaria.

Era questa, in fondo, l’idea del povero Marco Biagi, prima trasfusa nel Libro Bianco e adesso consacrata nel "Patto per l’Italia", le cui "prime misure" in materia di welfare to work prevedono proprio "programmi formativi a frequenza obbligatoria per i soggetti che percepiscono l’indennità [di disoccupazione]" e la sperimentazione "a livello provinciale" di "prime forme di bilateralità che concorrano a definire l’orientamento formativo". E si comprende, alla luce di quest’idea di fondo, che gli autori del volume in rassegna si attendano che il sindacato del futuro assuma una configurazione che combinerà quattro distinti ruoli - fornitore di servizi, controparte nella negoziazione del salario a livello d’impresa (e, in misura minore, di settore), partner dell’impresa all’interno di "coalizioni locali per la produttività" e movimento politico e sociale a livello nazionale [10]. Così come si giustifica il drastico incipit della prefazione di Tito Boeri al volume: i sindacati "sono spesso considerati come un elemento fisso e immanente del panorama istituzionale europeo, qualcosa come le Alpi o il Tamigi. Ma non è affatto detto che [...] manterranno la loro influenza e il loro ruolo anche nell’Europa del futuro. Non si può neanche essere certi che continueranno a esistere" [11]. Certo, non così come li abbiamo conosciuti, almeno quelli di noi che sono nati dopo il fascismo.

 

Bibliografia

Boeri T., Brugiavini A. Calmfors L.

2001 (a cura di) The Role of Unions in the Twenty-First Century, Oxford, Oxford University Press; trad. it. Il ruolo del sindacato in Europa, Milano, Università Bocconi Editore.

Cavallaro, L.

2001 La caduta tendenziale della “nuova economia”, Roma, Manifestolibri.

Crouch, C.

1998 Non amato ma inevitabile il ritorno al neo-corporativismo, in "Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali", n. 77, 1.

Dobb, M.

1959 Wages, Cambridge, Cambridge University Press; trad. it. I salari, Torino, Einaudi, 1965.

Keynes, J.M.

1930 The Question of High Wages, in "The Political Quarterly"; trad. it. Il problema degli alti salari, in Id., Come uscire dalla crisi, a cura di P. Sabbatini, Roma-Bari, Laterza, 2001.

Lo Faro, A.

1999 Funzioni e finzioni della contrattazione collettiva europea, Milano, Giuffrè.

Mayer, T.

1980, Economics as Hard Science: Realistic Goal or Wishful Thinking?, in "Economic Inquiry", vol. 18.

Olson, M.

1982 The Rise and Decline of Nations. Economic Growth, Stagflaction and Social Rigidities, New Haven, Yale University Press; trad. it. Ascesa e declino delle nazioni. Crescita economica, stagflazione e rigidità sociale, Bologna, Il Mulino, 1984.

Sraffa, P.

1960 Produzione di merci a mezzo di merci, Torino, Einaudi.

Streeck, W.

1998 The Internationalisation of Industrial Relations in Europe: Prospects and Problems, in "Politics and Society", vol. 26, n. 4.

Tarantelli, E.

1986 Economia politica del lavoro, Torino, UTET.

 

 

Appendice

Dal Trattato di Amsterdam

Art. 138

1. La Commissione ha il compito di promuovere la consultazione delle parti sociali a livello comunitario e prende ogni misura utile per facilitarne il dialogo provvedendo ad un sostegno equilibrato delle parti.

2. A tal fine la Commissione, prima di presentare proposte nel settore della politica sociale, consulta le parti sociali sul possibile orientamento di un’azione comunitaria.

3. Se, dopo tale consultazione, ritiene opportuna un’azione comunitaria, la Commissione consulta le parti sociali sul contenuto della proposta prevista. Le parti sociali trasmettono alla Commissione un parere o, se opportuno, una raccomandazione.

4. In occasione della consultazione, le parti sociali possono informare la Commissione della loro volontà di avviare il processo previsto dall’art. 139. La durata della procedura non supera nove mesi, salvo proroga decisa in comune dalle parti sociali e dalla Commissione.

 

Art. 139

1. Il dialogo fra le parti sociali a livello comunitario può condurre, se queste lo desiderano, a relazioni contrattuali, ivi compresi accordi.

2. Gli accordi conclusi a livello comunitario sono attuati secondo le procedure e le prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri o, nell’ambito dei settori contemplati dall’art. 137, e a richiesta congiunta delle parti firmatarie, in base ad una decisione del Consiglio su proposta della Commissione.

3. Il Consiglio delibera a maggioranza qualificata, salvo che l’accordo in questione contenga una o più disposizioni relative ad uno dei settori di cui all’art. 137, paragrafo 3, nel qual caso esso delibera all’unanimità.

 

N.B.: i settori contemplati dall’art. 137, par. 3, sono i seguenti:

 sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori,

 protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro,

 rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori, compresa la cogestione, fatto salvo il paragrafo 6,

 condizioni d’impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio della Comunità,

 contributi finanziari volti alla promozione dell’occupazione e alla creazione di posti di lavoro, fatte salve le disposizioni relative al Fondo sociale europeo.

 

Il paragrafo 6 dell’art. 137 dice:

Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle retribuzioni, al diritto di associazione, al diritto di sciopero né al diritto di serrata.


[1] Cfr. Dobb 1959, trad. it., p. 131.

[2] Cfr. Sraffa 1960, p. 28.

[3] Cfr. Tarantelli 1986.

[4] Cfr. Streeck 1998.

[5] Cfr. Boeri et al. 2001.

[6] Per una critica del quale cfr., eventualmente, Cavallaro 2001, pp. 93 sgg.

[7] Cfr. Olson 1982.

[8] Ibid.

[9] Crouch 1998, p. 78.

[10] Boeri et al. 2001, trad. it., p. 174.

[11] Ibid., p. IX.