Un dibattito, un progetto: crisi economica, autunno di lotte e sindacalismo di base
Luciano Vasapollo
La nuova fase dell’autunno e le battaglie sindacali che si annunciano, il confliggere dei movimenti contro il neoliberismo sfrenato vanno inquadrati in un contesto internazionale. L’attuale crisi italiana non può essere compresa se non viene ricollocata in
un contesto internazionale. Da diverso tempo, nella rivista Cestes-Proteo, ma anche nei documenti Rdb, scriviamo che questa non è una fase di globalizzazione, di sviluppo e di apertura dei mercati a livello internazionale, ma piuttosto di conflitto globale, di competizione globale. La nascita dell’Europa è il tassello di un nuovo scenario. Solo in coincidenza del dominio unipolare degli Stati Uniti - dopo la caduta del muro di Berlino - c’è stata una fase di globalizzazione, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Questa finisce quando si sviluppa un discorso europeo, con una sua valenza e autonomia nel quadro dei conflitti internazionali, sia sul piano economico che su quello finanziario, capace di intraprendere politiche protezioniste. Con ciò non voglio negare che gli Stati Uniti mantengano un primato militare e un ruolo di supremazia nel grande capitale internazionale. Ma non c’è più quella fase superimperialista e unipolare, per così dire, ma una fase di conflitto aspro che si manifesta in alcuni aspetti: la posizione europea a Johannesburg, il protezionismo commerciale, l’impatto ambientale, la stessa questione dell’Iraq e il dibattito che è nato successivamente alle guerre in Jugoslavia e in Afghanistan, fanno capire che ormai ci sono delle aree di interesse strategico per l’Europa. Interesse non solo verso l’espansionismo per creare e conquistare nuovi mercati europei, ma per la ricerca delle risorse fondamentali per il modo di produzione capitalistico, cioè le risorse energetiche, il petrolio, il gas, gli oleodotti, i metanodotti e così via. Ma l’altra componente importante è che nella fase di internazionalizzazione produttiva, e di flussi di investimento diretti all’estero, c’è la ricerca di una forza lavoro non sindacalizzata, a basso costo e a bassa garanzia di diritti. Non è un caso che si vada verso i mercati dell’Est perché c’è una manodopera molto qualificata, da una parte, e a basso costo e con basse garanzie sindacali, dall’altra.
Tonino Bucci
I processi di riorganizzazione capitalistica cui abbiamo
brevemente accennato, hanno permesso al capitale di smantellare e indebolire
quei luoghi produttivi che per eccellenza hanno espresso la conflittualità
operaia di classe ai suoi livelli più alti. Mi riferisco alla grande fabbrica
della produzione di massa che, per una serie di ragioni, ha rappresentato il
punto di concentrazione della contraddizione capitale/lavoro nel suo stadio
organizzativo e politico più intenso. Negli ultimi vent’anni questo nocciolo
duro della conflittualità operaia nella produzione operaia è stato disperso
mediante un insieme di strategie: il decentramento, la delocalizzazione, l’esternalizzazione,
la distruzione di posti di lavoro fissi a vantaggio della crescita del lavoro
autonomo salariato a cottimo e così via. La grande fabbrica è stata
smantellata e al suo posto è emersa l’impresa a rete, la filiera di attività
produttive dislocate in aree geografiche distanti. Le produzioni a più alto
tasso di sfruttamento della manodopera sono state trasferite nei paesi dove il
movimento operaio è storicamente più debole. Non solo, ma queste
trasformazioni strutturali hanno disarticolato l’organizzazione e la
consapevolezza della soggettività operaia anche nei paesi dove erano presenti
grandi sindacati storici. Il compito di ricomposizione della classe dei
salariati è più difficile che in passato a causa di questa dispersione dei
processi produttivi. La nascita del sindacalismo di base può essere vista come
una risposta a questa crisi - anche se si tratta di un’esperienza limitata al
caso italiano. Per le ragioni che abbiamo elencato, il sindacalismo di base è
stato costretto a muoversi in una situazione a bassa intensità di conflitto di
classe, almeno per quanto riguarda la produzione materiale di merci. Non è un
caso che il sindacalismo indipendente abbia dispiegato la sua forza soprattutto
nel settore del terziario, delle produzioni non direttamente materiali, nei
servizi pubblici e privati, i quali - a differenza che nella produzione di merci
non possono essere divisi e spostati altrove.
Ora, quali sono i segnali di novità nella fase attuale? Nella competizione internazionale le strategie messe in atto dal capitale finora, non sono più sufficienti. Non basta più soltanto delocalizzare, trasferire all’estero segmenti produttivi, rincorrere altrove manodopera a costi più bassi. Oggi è in atto un’offensiva padronale anche sui diritti universali residui conquistati dalla classe operaia negli stessi paesi a capitalismo avanzato. L’attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è dentro questo quadro. E’ un’offensiva contro l’ultimo baluardo di un sistema di diritti universali del lavoro dipendente.
Paolo Leonardi
Siamo in una fase in cui tutte le socialdemocrazie europee perdono. Eccetto la Germania e la Svezia la quasi totalità dei governi dell’Europa sono in mano alla destra. Le socialdemocrazie hanno retto nella fase immediatamente successiva alla caduta del Muro di Berlino, quando dovevano portare a compimento il progetto dell’Europa. Finita quella fase entra in crisi il modello liberale delle socialdemocrazie e si afferma quello della destra. La destra si candida a gestire un ruolo molto forte nella contrapposizione economica fra poli capitalistici internazionali. Fatta eccezione per la posizione di Berlusconi, il più americano degli europei, si è affermata da parte dell’Europa un ruolo di vera e propria contrapposizione agli Usa. Da qui la necessità di riportare il modello del taglio dei diritti e dei salari, un modello classico. Una volta si diceva che la crisi la pagano i lavoratori. Questo modello serve a mantenere l’Europa su un livello sufficientemente alto per poter competere sul piano internazionale. Si ripropone la necessità di un conflitto contro queste politiche - anche se dobbiamo precisare che le stesse politiche portate avanti in Europa dalle forze di centrosinistra non hanno scherzato quanto a smantellamento dei diritti e delle protezioni sociali, alla compressione dei salari e del Welfare. Oggi, tuttavia c’è un’accelerazione molto forte. La sinistra che ha contribuito alla costruzione dell’Europa è incapace di dare delle risposte. Qui dentro mi pare sia da inserire anche la rinnovata strategia della Cgil. E’ una banalizzazione leggere le vicende recenti e l’autunno solo alla luce della discesa in campo nella politica di Cofferati, che sicuramente c’è. Ma non nasce tanto da un piano personale, quanto dall’esigenza di ridare forza al blocco sociale che il centrosinistra aveva smarrito negli anni della corsa ai parametri di Maastricht, e di contrastare le politiche di destra.
Tonino Bucci
Da qui bisogna partire per analizzare la nuova fase della Cgil. Al di là dei contenuti reali della piattaforma della Cgil, delle questioni sostanziali - sulle quali credo ci soffermeremo dopo -, mi interessa ora sottolineare il segnale di ripresa di protagonismo, di partecipazione e di ricomposizione collettiva dei lavoratori, dopo anni di disgregazione, frantumazione e, direi, rassegnazione. E’ un segnale che va valorizzato prima ancora di qualsiasi giudizio politico e di merito sui contenuti della piattaforma della Cgil. Credo che il compito immediato sia quello di sviluppare tutte le potenzialità di questo passaggio da una fase a bassa intensità di conflitto sociale a una fase di nuovo protagonismo e ricomposizione collettiva della soggettività operaia.
In questo ragionamento va però tenuto conto che il capitale diventa un potere globale che recide i suoi legami con la dimensione dello Stato nazionale e si espande fino a sovrapporsi, in forma dispotica, sull’intero pianeta e sull’intera sfera - non solo lavorativa, ma esistenziale - degli esseri umani. Così descritto, il capitale diventa una forza “imperiale”, tanto potente quanto ineffabile e impossibile a identificarsi. Ovunque e in nessun luogo, al tempo stesso. Oggi avvertiamo il bisogno di sostituire a questa analisi una lettura che tenga conto dei conflitti tra poli capitalistici internazionali, anche se in questa situazione permane il primato, soprattutto militare, degli Usa. In questo quadro di competizione - e non di libero mercato armonico - il capitalismo europeo ha reagito con una serie di strategie. La delocalizzazione di interi segmenti produttivi, il trasferimento di attività industriali che richiedono manodopera meno qualificata in paesi dove la forza lavoro è disponibile a costi più bassi, e il mantenimento nei paesi economicamente più avanzati dei settori ad alto valore aggiunto.
Da una parte, il capitalismo europeo si muove dentro una fase di crisi economica e mette in atto una serie di strategie per affrontare la competizione internazionale. Dall’altra, ma in una connessione che va approfondita, lo scenario politico dell’Europa è caratterizzato dalla diffusione di governi con spiccate tendenze di destra e dalla crisi delle socialdemocrazie - con l’eccezione dell’anomalia tedesca nella quale la scelta del pacifismo ha consegnato la vittoria alla coalizione rosso-verde nelle recenti elezioni. Ma, in generale, gli indirizzi di governo della maggioranza dei paesi europei sono intrisi di un mix pericoloso di liberismo e populismo. Se, da un lato, le politiche economiche sono improntate a misure di stampo liberista come restrizioni monetarie, smantellamento dello Stato sociale e dei servizi, attacco al mondo del lavoro, dall’altro c’è la tendenza a completare il quadro con scelte populiste: aumenti parziali delle pensioni minime, utilizzo degli umori xenofobi e razzisti, potenziamento degli apparati repressivi di polizia per il mantenimento dell’ordine pubblico. In questo senso il governo Berlusconi rappresenta in Europa non l’eccezione, ma la regola. L’alleanza con la Lega non va vista come un elemento folcloristico, bensì come la costruzione di un laboratorio politico attuale in Europa. Credo che questo intreccio del liberismo con il populismo vada interpretato come una risposta del capitale alla sua crisi di egemonia e di consenso. Più avanza la crisi recessiva e di competizione in economia, più il capitalismo avverte la necessità di rafforzare la sua tenuta sociale.L’altro aspetto che va approfondito per completare il quadro, è propriamente l’analisi economica dell’attuale fase internazionale. L’economia mondiale è dominata oggi dalla competizione tra i poli capitalistici e imperialistici, cioè tra Stati Uniti, Europa e - seppur in posizione indebolita e defilata - Giappone. Questo elemento ci costringe a rimettere in discussione il concetto di globalizzazione che per molto tempo ha sorretto l’analisi anche a sinistra. Comincia ad entrare in crisi quella chiave di lettura che interpretava l’economia mondiale come una grande area mercantile di libero scambio dominata da un unico soggetto, un astratto comando capitalistico, senza nessuna ulteriore specificazione politica.
Se non si parte da queste considerazioni non si comprendono i mutamenti intervenuti nella composizione della forza lavoro, né - in secondo luogo - nelle vicende del sindacalismo.
Luciano Vasapollo
Siamo in un contesto di competizione globale: qui si innesta la crisi che stiamo vivendo. Innanzitutto, sfatiamo un mito. Questa crisi non parte con l’11 settembre, e probabilmente non parte nemmeno con il 2000. Nel 2000 si entra in una fase recessiva da parte dell’economia statunitense, ma la crisi è in realtà strutturale e inizia già negli anni Ottanta. Con la crisi del modello fordista e dell’accumulazione materiale, si entra in una crisi di sovrapproduzione e di accumulazione. Il capitalismo tenta di uscire da questa crisi in vari modi. Primo, con la finanziarizzazione dell’economia. Secondo, con la cosiddetta accumulazione flessibile, con la produzione snella, con il toyotismo importato in America e in Europa e, dall’altra parte, con un attacco fondamentale diretto al salario e al mondo del lavoro. Da tutte le statistiche si nota un forte incremento di produttività negli ultimi 25 anni che però non è redistribuito. E’ un attacco al costo di lavoro, al salario diretto e al salario indiretto, cioè Stato sociale, e attacco al salario differito, cioè alle pensioni e via discorrendo. Un attacco ai diritti e alle garanzie conquistate dal movimento operaio. Questo è il quadro generale. Oggi la via delle privatizzazioni e della finanziarizzazione, i processi di accostamento della produzione flessibile alla produzione materiale, si sono dimostrati inefficienti per uscire dalla crisi. Se si osservano gli andamenti borsistici si nota che le cosiddette bolle speculative che si sono create per ridare fiato al capitalismo negli anni ’80 e ’90 oggi si stanno sgonfiando. Il capitalismo non si sostiene più attraverso la finanziarizzazione, o attraverso il protezionismo, né attraverso un primo attacco al mondo del lavoro. Più toglie al lavoro più il capitale va avanti, senza un obiettivo, finché il movimento operaio non ritrova la sua forza per opporsi a questa crescita quantitativa del capitalismo. Gli anni ’90 sono stati significativi: si ricorre all’economia di guerra per rilanciare l’accumulazione e la crescita capitalistica. Il capitalismo internazionale tende a uscire da una crisi, che non ha carattere congiunturale, attraverso una economia di guerra. Se fosse congiunturale la guerra potrebbe essere limitata al periodo di due o tre anni. Qui, invece, si apre una fase di guerra non congiunturale, ma una prospettiva di guerra guerreggiata, commerciale, economica, finanziaria. Voglio fare un esempio. Anche se oggi in Italia non c’è direttamente la guerra - ma non si sa fino a che punto - l’economia di guerra diventa società, entra nell’assetto produttivo e arriva fino all’attacco ai diritti. Non c’è solo la conflittualità capitale/lavoro, ma oggi il capitale ha perso anche la spinta alla civilizzazione e si pone in antitesi ai diritti. In previsione dell’autunno si parla oggi di truppe speciali di polizia, di reparti speciali, di terrorismi che si infiltrano nei movimenti, di sindacati collegati al terrorismo. Il clima di economia di guerra pervade la società.
Paolo Leonardi
La ripresa del conflitto in Italia avviene su più fronti. Da una parte i girotondi, che rappresentano il ceto medio garantito dal centrosinistra che perde posizioni privilegiate - si veda ad esempio la vicenda degli appalti alle cooperative sociali e a quelle strutture che con il centrosinistra avevano vissuto bene. Si era costituito un ceto politico - all’interno del quale c’erano anche i vecchi "boiardi di Stato" della sinistra come Colaninno - un settore importante di quella intellighenzia che il centrosinistra aveva abilmente collocato nei posti chiave e che oggi perde pian piano potere. Un pezzo di società fino ad oggi silenziosa perché sufficientemente garantita, che oggi vede mettere in discussione le proprie attribuzioni di ruolo e torna ad alimentare la vivacità della società civile. Dall’altra parte, c’è un centrosinistra - anche per effetto del maggioritario che annulla la soggettività dei singoli partiti - che è incapace, dopo la fase della caduta liberista, di scegliere un terreno altro della politica e di fare marcia indietro. Strutturalmente ha scelto una lettura liberista, più temperata di quella berlusconiana. Infine, c’è la Cgil, che essendo l’unica depositaria di un pezzo di blocco sociale che è il riferimento della sinistra, assume un nuovo ruolo che la costringe a contraddire se stessa e la direzione intrapresa negli anni, riscoprendo conflitti e diritti. In questo quadro dobbiamo leggere l’autunno che si annuncia. E’ una fase interessante perché si ripropone un movimento di cittadini e lavoratori che riscoprono il gusto della partecipazione diretta. C’è uno spazio per il sindacalismo di base a condizione che sappia mantenere inalterata la propria identità e la propria forza critica rispetto al passato e ai percorsi attuali. Ma - come si diceva una volta - il mondo del lavoro torna ad essere classe generale, nel senso che non solo assume su di sé i propri interessi diretti, ma produce anche una cultura e un’egemonia.
Luciano Vasapollo
Prima di passare a questioni più legate al sindacato, vorrei sottolineare due passaggi dell’analisi che è stata tracciata e che possono spiegare l’attuale fase sociale e sindacale. La crisi che parte negli anni ’70 mette in discussione due elementi fondamentali della fase fordista. Viene a cadere non solo la struttura produttiva e la centralità della fabbrica, ma anche la centralità del cosiddetto operaio massa e la mediazione e regolazione del conflitto sociale attraverso il keynesismo e lo stato sociale. Il keynesismo funziona bene finché funziona la fase fordista, finché il movimento operaio è forte. Il modello dello stato sociale può essere interpretato in due modi. Primo, non si tratta di un’elargizione caritatevole o benevola da parte del capitalismo. Lo Stato sociale è una conquista del movimento dei lavoratori. Nel momento in cui il salario era fattore fondamentale, variabile indipendente, nelle rivendicazioni complessive del movimento operaio, si andava a richiedere migliori condizioni di vita all’interno del posto del lavoro, migliori condizioni produttive, maggiore salario diretto e indiretto. Il monte del salario sociale in generale veniva incrementato, e quindi nella redistribuzione del valore aggiunto tra capitale (rendita, profitti, interessi ecc.) e lavoro, una parte andava alla remunerazione del salario differito. Secondo, il keynesismo gioca nel contempo anche da regolazione e mediazione del conflitto. Il welfare funziona da ammortizzatore sociale del conflitto. C’è quasi uno scambio - e su questo dovremo analizzare anche il ruolo del Pci e della Cgil in quegli anni - tra abbassamento della conflittualità ed elargizione di ammortizzatori sociali e di stato sociale. Nel momento in cui le “vacche si fanno magre” non c’è più spazio per il keynesismo. Oggi la crisi del capitalismo non può permettere più redistribuzioni a favore del lavoro, né in termini di salario diretto né in termini di salario indiretto.
Dopo la sconfitta del movimento operaio degli anni ’70 è vero che c’è stato un momento di basso conflitto, però dobbiamo dare atto al sindacalismo di base di essere stato l’unico sindacato negli anni ’90 a produrre conflitto, a porsi fuori della concertazione, l’unica forma reale di democrazia sindacale nel paese, l’unica voce di dissenso. Le uniche manifestazioni contro le guerre in Iraq e in Jugoslavia, per non andar troppo indietro nel tempo, sono state fatte costantemente dal sindacalismo di base, l’unico che ha tenuto.
Tonino Bucci
Oggi, comunque, credo che la Cgil sia costretta suo malgrado e nonostante la vocazione concertativa che ha incorporato nel suo corpo materiale, a spingere per la mobilitazione dei lavoratori. La concertazione si è esaurita non per una ricollocazione strategica del sindacato. Non darei per esclusa una possibilità che il modello concertativo possa tornare, magari a scenari di politica interna mutati. Non ci sono elementi di certezza che possano impedire il ripetersi di capovolgimenti come quelli avvenuti tra il ’94 e il ’95, quando le stesse politiche economiche regressive intraprese dal primo governo Berlusconi furono portate avanti dal governo tecnico successore di Dini. D’altra parte, è vero però che rispetto ad allora sembrano venuti meno i margini strutturali per un modello concertativo. Lo stesso patto per l’Italia firmato oggi da Cisl e Uil insieme al governo Berlusconi è in apnea per mancanza di risorse finanziarie. Dopo la crisi del modello keynesiano che ha funzionato finché c’era un movimento operaio forte, sembra quindi si sia prodotta anche la rottura del modello concertativo. Non solo, non c’è un ciclo di redistribuzione della ricchezza prodotta a vantaggio dei salari e del lavoro dipendente; non solo non c’è più lo scambio tra Stato sociale e abbassamento del conflitto sociale, ma viene a cadere persino il ruolo istituzionale del sindacato di garantire pace sociale in una fase di attacco alle pensioni, compressione dei salari e precarizzazione del lavoro, di attacco generale all’economia pubblica e al pubblico impiego.
Paolo Leonardi
Il pubblico impiego vede oggi scavare il terreno sotto i piedi. Le Asl, ad esempio, perdono sempre più il ruolo di erogatrici di servizi sanitari per tutti i cittadini, e diventano luoghi mercantili. Un primario di cardiochirurgia del San Camillo prende 90 milioni al mese di intramoenia, per un lavoro cioè svolto all’interno della struttura pubblica, mentre per una normale visita bisogna aspettare quattro mesi. Quando l’Inps non eroga più le pensioni oppure si parla delle contribuzioni dei nuovi assunti, e intanto cresce l’assicurazione privata, la previdenza privata; quando gli enti locali diventano strumenti di sussidio dell’impresa e non del diritto del cittadino, è chiaro che non c’è solo una crisi materiale, ma anche una crisi di funzione. Questa crisi tocca l’intero mondo del lavoro e se oggi si può parlare di una ricomposizione, questa è dettata da una coscienza collettiva più alta, da una sorta di senso di liberazione dagli accordi sindacali. Ho visto gente in piazza piangere per le posizioni che la Cgil ha assunto in passato riguardo alla politica dei redditi, il patto di Natale e la scomparsa della scala mobile. Chi in tutti questi anni ha resistito all’interno della Cgil pensa che questa sia diventata il sindacato di una volta. Probabilmente non c’è una trasformazione strutturale della Cgil. Penso che la rappresentazione generale e pubblica che la Cgil dà della propria posizione politica vada distinta dal corpo materiale della sua organizzazione, della sua struttura aziendale e di categorie - dove non mi sembra sia cambiato molto. Anche nel corso dello scontro sull’articolo 18, quando la polarizzazione sindacale costringeva Cofferati a sparare alto e a riscoprire il conflitto, contemporaneamente si firmavano contratti collettivi nazionali, come nel caso degli edili, che riproponevano esattamente le logiche della concertazione e della politica dei redditi - senza peraltro sottoporre i contratti alla consultazione dei lavoratori. Il corpo intermedio, i quadri militanti della Cgil mantengono la propria fedeltà alla concertazione.
Il sindacalismo di base ha avuto un ruolo fondamentale non solo per le lotte che ha espresso in settori in caduta libera, ma soprattutto per aver individuato un percorso per il movimento dei lavoratori, tentando di mantenere accesa una fiaccola. Le Rdb e il sindacalismo di base in generale hanno oggi la funzione di tracciare una continuità nella storia del movimento operaio italiano. Dalla fine degli anni ’70 c’è stata un’interruzione, un corto circuito per cui il sindacato confederale si è fatto Stato, garante della pace sociale, dello sviluppo del sistema industriale. In questa fase il sindacato di base ha tenuto aperta una lettura della realtà dalla parte dei lavoratori e non da quella dei padroni, per dirla sinteticamente. Alla manifestazione del 23 marzo non abbiamo partecipato perché il motivo fondamentale di quella iniziativa, a nostro avviso, non era una trasformazione strutturale della Cgil, una nuova collocazione strategica. Fino a qualche tempo fa, fino alle elezioni che hanno riportato Berlusconi al governo, abbiamo assistito alle nefandezze dei governi del centrosinistra. Vorrei ricordare la sequenza prodotta dalla controriforma pensionistica. Milioni di persone scesero in piazza nel ’94 contro il tentativo di Berlusconi di tagliare le pensioni, e poi nel ’95 il progetto berlusconiano venne attuato da un ex ministro del governo, nel frattempo a capo di un governo cosiddetto “tecnico” e appoggiato dal centrosinistra. E’ stata lanciata, a tutto vantaggio del capitale, la finanziarizzazione dei risparmi dei lavoratori, il Tfr messo ad azionariato, a fondi pensione gestiti da Cgil, Cisl e Uil in quanto partecipi dei consigli d’amministrazione. Poi, va aggiunta la politica dei redditi, spacciata come un elemento di equilibrio tra necessità di sviluppo e salari. Scompare la scala mobile con il risultato di una perdita, nel giro di dieci anni, del trenta per cento del salario reale. E non finisce qui. Tentativi di metter mano all’articolo 18 c’erano stati già da parte di D’Alema. La Uil aveva proposto di bloccarlo al Sud. Oggi, la ripresa di conflittualità della Cgil va letta allora all’interno del quadro internazionale e soprattutto di attacco diretto da parte del governo dei padroni e della Confindustria alla sua stessa organizzazione. La concertazione è finita perché ha esaurito quella serie di controriforme di cui il capitale aveva bisogno e si mette in atto un tentativo di scompaginare le fila del sindacato.
Tonino Bucci
Oggi, l’attacco è rivolto direttamente al sindacato in quanto tale, alla sua possibilità di strutturarsi come organizzazione. In questo senso, il tentativo di smantellare l’articolo 18 da parte di questo governo confindustriale rappresenta non soltanto un attacco ai diritti universali del lavoro dipendente, ma anche alle basi organizzative del sindacato. Se venisse abolito l’art. 18 il diritto stesso di un lavoratore ad iscriversi a un sindacato verrebbe annullato di fatto sotto la minaccia del licenziamento.
Paolo Leonardi
E’ quanto accade già oggi nelle piccole imprese.
Tonino Bucci
Questo dimostra che a spingere la Cgil oggi non è tanto una vocazione soggettiva, quanto piuttosto un istinto di sopravvivenza. E’ tra i compiti politici, io credo, dei partiti della sinistra anticapitalistica e del sindacalismo di base, quello di sostenere il calendario di lotte del prossimo autunno e, al tempo stesso, di trasformare l’impegno della Cgil in una nuova consapevolezza strategica del movimento operaio. Quali prospettive si aprono? Non c’è un salto di qualità se non si passa dalla battaglia difensiva dell’articolo 18 alle due grandi questioni che la fase della concertazione ha cancellato in tutti questi anni dall’agenda politica: la questione salariale e la costruzione di una democrazia sindacale.
Paolo Leonardi
Quello che oggi rimane in piedi della concertazione è la parte peggiore. Il patto per l’Italia firmato da Cisl e Uil è la riedizione in altre forme di quel modello che non può essere protratto come in passato per la mancanza di margini economici. Nel patto per l’Italia si fa riferimento alla dizione di "dialogo sociale", che è la pratica delle relazioni industriali applicato in Francia e in Germania. Aggiungo, poi, che la stessa Cgil continua ad applicare la concertazione a livello aziendale e di contratti. E’ vero che l’articolo 18, al di là del suo peso specifico, può rappresentare quel granello in grado di bloccare la capacità del sindacato di tutelare e di autotutelarsi, però è vero anche che questa è la condizione che vivono già i lavoratori nelle imprese con meno di quindici dipendenti. Per questo abbiamo aderito e partecipato alla raccolta delle firme per l’estensione dell’art. 18 a tutte le imprese, perché l’universalismo dei diritti non può fermarsi sotto la soglia dei quindici dipendenti o della piccola cooperativa. Se un diritto è tale, lo è per tutti i lavoratori. Inoltre, l’estensione dell’art. 18 significherebbe anche il rafforzamento organizzativo del sindacato e l’apertura verso segmenti del lavoro in crescita. Oggi il mondo del lavoro dipendente di tipo classico si va sempre più restringendo. Crescono invece le nuove figure atipiche, le piccole imprese, i lavoratori delle partite Iva. Non sono passati tanti anni da quando Ottaviano Del Turco, quando era segretario della Cgil, diceva ai giovani “inventatevi un lavoro”, o quando D’Alema affermava che l’epoca del posto fisso era finita. E’ stata data la stura al fatto che ciascuno andasse a cercarsi la maniera più terribile di sopravvivere. La composizione del lavoro si sbilancia sempre più verso questo settore atipico di collaborazioni, di figure autonome, di contratti atipici. Non credo che le mobilitazioni di questo autunno possano lasciare eluse queste grandi questioni. Innanzitutto, la questione del salario, che non è soltanto un problema di miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore. Da qui passa uno scontro per decidere come distribuire e orientare la ricchezza del paese. Tutte le statistiche degli organismi economici dimostrano come il reddito nazionale vada sempre più alle imprese e ai profitti, e sempre meno ai salari e ai lavoratori. Bisogna rimettere in campo uno scontro su questa questione.
Tonino Bucci
Sul salario si gioca una partita che va al di là della semplice rivendicazione economica - pienamente legittima - e che potrebbe sviluppare un grande significato politico. Spostare la discussione e le lotte sul tema del salario significa porre al centro la questione di un “governo” dell’economia, di una redistribuzione della ricchezza nazionale a partire dagli interessi dei lavoratori. E significa, in secondo luogo, individuare una piattaforma di riunificazione, di ricomposizione di tutti i salariati, quale che sia la loro figura professionale e il loro statuto giuridico, siano essi precari, saltuari, occasionali o stabili.
Paolo Leonardi
Nella nostra piattaforma rivendichiamo non solo un salario europeo - affinché l’Europa non sia solo dei finanzieri e dei banchieri e ci siano stesse buste paga tra un metalmeccanico tedesco e uno italiano - ma anche la reintroduzione del meccanismo della scala mobile. Il rilevamento Istat dei prezzi è effettuato sulla base di un paniere di beni tra i quali ci sono i voli intercontinentali che poco hanno a che vedere con la spesa di tutti i giorni della massaia al mercato. Ma vogliamo ricostruire un paniere che tenga conto delle esigenze del mondo del lavoro dipendente, in base al quale dare automaticità alla tenuta dei salari? E ridare al contratto la funzione storica di strappare pezzi di potere economico e sociale alle controparti, e non solo, come avviene oggi, di recupero parziale della perdita del potere d’acquisto? Il reddito sociale ai disoccupati che per molto tempo, in maniera ideologica, abbiamo un po’ tutti respinto come un rischio d’abbassamento della guardia sul diritto del lavoro sicuro per tutti, oggi diventa fondamentale. Con questa precarietà, con livelli di disoccupazione che al meridione mantiene percentuali al di sopra del venti per cento, o garantiamo un reddito sociale, in forma di sussidio e di contenimento delle tariffe, di accesso ai servizi e alla formazione, oppure siamo condannati a porre la questione del salario in maniera incompleta e limitata. Il salario non è solo l’aumento salariale o la richiesta di qualche decimale in più. Bisogna rompere con la politica dei redditi e invertire la tendenza attuale di drenaggio di ricchezza dai salari verso i profitti.
Luciano Vasapollo
E’ vero che è cambiata la composizione della forza lavoro e di classe nel nostro paese e a livello internazionale, ma c’è un aspetto di cui tener conto. Mentre la produzione industriale si delocalizza, mentre si formano le filiere, mentre si forma l’impresa-rete, mentre avvengono i processi di internazionalizzazione produttiva, mentre la centralità di fabbrica si sviluppa nell’Est europeo, ciò che non è stato possibile delocalizzare sono i servizi. Per loro natura i servizi non si delocalizzano, però perdono - e qui intendo anche il pubblico impiego - l’importanza per il sistema dei partiti che avevano nella mediazione del conflitto durante i governi democristiani, vale a dire il ruolo di grande sacca clientelare e di serbatoio elettorale contro il Pci e la Cgil. Fino a un certo periodo si poteva vedere il pubblico impiego come un settore privilegiato: posto fisso, uno stipendio non alto ma sicuro, e diritti a una produttività del lavoro non molto intensa. Nel momento in cui si entra nella fase cosiddetta “postfordista” i servizi assumono un ruolo centrale dal punto di vista economico-produttivo. Primo, perché si va verso una terziarizzazione della società, mentre l’industria subisce dei contraccolpi e dei processi di deindustrializzazione. Secondo, il pubblico impiego e i servizi in generale non sono più però il settore del lavoro privilegiato. Al tempo stesso i servizi rimangono al centro del capitalismo avanzato, in Germania, Francia, Italia e non vanno in Romania e in Polonia. Dall’altra parte, il lavoratore del pubblico impiego costituisce la nuova marginalità, il nuovo settore debole della composizione del lavoro. L’idea del posto fisso e garantito non esiste più, i processi di precarizzazione e flessibilizzazione anche nel pubblico impiego si fanno fortissimi. Gli incrementi salariali non compensano nemmeno in parte l’inflazione. C’è una perdita del potere d’acquisto dei salari dei lavoratori dei servizi, e in particolare del pubblico impiego, negli ultimi anni. Non solo perde i privilegi, ma addirittura costituisce la nuova marginalità. I tagli allo stato sociale significano tagli alla spesa pubblica e alla pubblica amministrazione, e il pubblico impiego è il primo settore ad essere colpito in maniera dirompente. Nella nuova composizione i lavoratori del pubblico impiego si affiancano a quelli dei servizi privati. Sempre più precarizzati, flessibilizzati, a condizioni di salario sempre più bassi e di basse garanzie sindacali, senza certezze di reddito (lavoro intermittente, a tempo determinato), e con uno stato sociale che non riesce a garantire continuità di reddito. L’Italia è uno dei pochissimi paesi europei a non avere forme di coperture nei periodi di vacanza occupazionale, non c’è un reddito sociale per i disoccupati e i precari. Per tutti gli anni ’90 la Cgil e i sindacati confederali hanno garantito la pace sociale e reso possibile tutte le politiche di concertazione, di privatizzazione e di taglio allo stato sociale, oltre che di precarizzazione dei lavoro. Ora, in un momento in cui il modello concertativo è finito, la domanda è come si gioca la questione sindacale. Credo che occorra rilanciare il conflitto capitale/lavoro. Noi insistiamo su questo terreno nonostante i neofiti del postmodernismo: i due elementi sui quali oggi si gioca la democrazia sindacale sono il conflitto capitale/lavoro e il conflitto capitale/diritti.
Paolo Leonardi
Infatti altro punto fondamentale è la questione dei diritti. Oltre alla difesa dell’articolo 18 bisogna costruire forme democratiche vere di partecipazione dei lavoratori. Le manifestazioni di questi ultimi mesi chiedono una democrazia nei luoghi di lavoro. Ora è vero che la Cgil propone di votare sulle piattaforme e assume questo punto come un elemento di rottura dell’unità di piattaforma con Fim e Uilm nel settore dei meccanici. Il sindacalismo lo pratica da sempre, non c’è accordo che venga sottoscritto se non previa consultazione dei lavoratori. Ma c’è la vergogna della norma del 33%. Ai lavoratori del settore privato che scendono in piazza io chiedo: quando si va a votare per eleggere i delegati di fabbrica, di stabilimento e di azienda, e al di là del tuo voto i firmatari di contratto, cioè Cgil, Cisl e Uil, hanno diritto al 33 per cento dei delegati - che di fatto significa il 51 per cento garantito per legge - ma che democrazia sindacale è? Come fa la Cgil oggi a sostenere che bisogna avere chiarezza su chi ha la rappresentatività sindacale dal momento che Cisl e Uil hanno firmato, da sole, il patto per l’Italia? O ci si pone davvero il problema di come verificare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali oppure sono affermazioni di circostanza. Quando la Cgil vieta ai nostri delegati nelle aziende di fare le assemblee, anche se abbiamo eletto le Rsu, dicendo che non può essere la singola Rsu a convocare i lavoratori, - non basta neanche la maggioranza in quel posto di lavoro visto che non siamo firmatari nazionali del contratto - quando accade questo ma di quale democrazia sindacale parliamo? Quella della democrazia sindacale è una questione che finalmente si affronta di nuovo ed è una porta che non dobbiamo lasciar chiudere. Altri due temi centrali, che qui nomino soltanto, sono il rilancio del diritto di sciopero nei servizi, oggi di fatto limitato, e i lavoratori immigrati. O stanno con noi o vengono utilizzati contro di noi. Qui c’è il nuovo esercito industriale di riserva che viene chiamato nei lavori stagionali a basso prezzo e in condizioni disumane. La Bossi-Fini è non solo la legalizzazione dello schiavismo, ma anche il tentativo di utilizzare i lavoratori immigrati come ostacolo alla crescita del movimento operaio.
Vorrei concludere con un accenno alla lettera che recentemente i Cobas hanno indirizzato alla Cgil. Ci sembra, in qualche modo, un atteggiamento di subordinazione al movimento e alle parole d’ordine che la Cgil ha messo in campo. Credo che il sindacalismo di base abbia la capacità e la forza di elaborare in proprio una piattaforma. Quella lettera ottiene l’effetto di sdoganare la Cgil nell’ambito dei Cobas. La piattaforma che abbiamo individuato dimostra che elementi di unità sulle forme e i contenuti per uno sciopero insieme alla Cgil, non ci sono. D’altra parte quella lettera rende un pessimo servizio alla Cgil stessa. L’Unità ha dato ampio spazio come se la lettera fosse stata utilizzata dagli avversari dell’attuale linea della Cgil all’interno dei Ds per denunciare una “deriva estremistica”. A fare gli scioperi si finisce in mano agli “estremisti”!