Politiche Keynesiane e crisi: le implicazioni sui lavoratori

Guglielmo Carchedi

Questo contributo è diviso in due sezioni. La prima analizza le cause delle crisi e le sue conseguenze per il capitale. Si vedrà che le politiche Keynesiane sono incapaci di evitare le crisi economiche. Questa prima sezione è necessaria per la comprensione della seconda sezione, presentata nel prossimo numero di Proteo, che esamina i modi in cui le crisi si manifestano e più direttamente le loro ripercussioni sui lavoratori. L’accento sarà posto su due manifestazioni della crisi di particolare rilevanza oggigiorno, le crisi finanziarie nei paesi dipendenti e la guerra. Anche qui l’accento sarà sulle politiche Keynesiane, in particolare sul cosiddetto Keynesismo di guerra. L’articolo nel suo insieme, quindi, dà gli strumenti per la comprensione di fenomeni sia di grande importanza per i lavoratori che di grande attualità.

La prospettiva adottata è quella di Marx piuttosto che quella di Keynes, cioè l’assunto su cui si basa l’analisi che segue è che solo il lavoro può essere la sostanza del valore e che in un sistema capitalista il valore deve manifestarsi come denaro [1].

1. Crisi di produzione e politiche keynesiane

Incominciamo con un breve, ma necessario, accenno alla teoria delle crisi. La tesi fondamentale è che la causa ultima delle crisi risiede nella concorrenza tecnologica nell’ambito delle relazioni di produzione capitalistiche. In breve, il modo principale attraverso cui i capitalisti competono all’interno di un dato settore è attraverso l’introduzione di tecniche nuove e più efficienti. Queste innovazioni aumentano la produttività, definita come unità di prodotto per unità di capitale investito. Con la stessa unità di capitale investito, l’innovatore produce più prodotti dei suoi concorrenti. Allo stesso tempo, questa maggiore quantità di prodotti viene realizzata rimpiazzando agenti di produzione con macchine, cioè con più mezzi di produzione e meno uomini e donne. Quindi, da una parte, una maggior quantità di merci è prodotta ma, dall’altra, meno uomini e donne sono occupati. In breve, le innovazioni tecnologiche in genere implicano una riduzione della forza lavoro ma realizzano un maggior output. Siccome meno lavoro è stato impiegato, quella maggiore quantità di merci incorpora meno valore e plusvalore [2].

L’azienda innovatrice ha prodotto da una parte meno valore ma dall’altra più prodotti per unità di capitale. Tuttavia, a causa della sua maggiore produttività e data la tendenziale perequazione del prezzo di tutti i prodotti dello stesso tipo, vende più prodotti dei suoi concorrenti allo stesso prezzo dei suoi concorrenti. L’innovatore tecnologico quindi realizza un maggiore tasso di profitto perché si appropria di una fetta dei profitti (cioè di una parte del plus valore prodotto dai lavoratori) dei suoi concorrenti [3]. Inoltre, siccome i capitali migrano da un settore all’altro in cerca di maggiori profitti, vi è anche una tendenziale perequazione dei tassi di profitto tra i diversi settori, cioè la formazione di un tasso medio di profitto. Tale tasso quindi cade (a causa dell’innovazione tecnologica) ma tale caduta cela da una parte un aumento del tasso di profitto per l’innovatore (un aumento che deriva dalla appropriazione, piuttosto che dalla produzione, di plusvalore) e dall’altra una maggior caduta per i capitalisti tecnologicamente arretrati (da cui tale plusvalore è appropriato). Se, di fronte ad una caduta del loro tasso di profitto, anche questi ultimi introducono la stessa (la nuova) tecnica di produzione, incrementando così anche la loro produttività e riducendo ulteriormente l’occupazione, il tasso medio di profitto cade ancora di più mentre l’output totale cresce. L’occupazione, i salari totali e il potere d’acquisto cadono, in tal modo aggravando le difficoltà di coloro che possono a mala pena sopravvivere in questa spirale discendente.

Se tale processo continua, alcuni produttori, tra coloro che sono tecnologicamente meno avanzati, incominciano a fallire. Per di più, le vendite cadono non solo a causa della disoccupazione ma anche perché coloro che hanno un lavoro, invece di spendere, aumentano i loro risparmi. Inoltre, i capitali di coloro che sono falliti, o di coloro che non sono falliti ma che non riescono ad individuare canali di investimenti profittevoli, giacciono inusati. Tutto ciò provoca un’ulteriore caduta della domanda e altri fallimenti. La crisi è incominciata [4]. Da un lato, si distrugge capitale come relazioni sociali: la relazione tra capitalisti e lavoratori è stata interrotta. Dall’altro, il capitale nella sua forma monetaria giace inutilizzato. A questo capitale monetario corrispondono merci non vendute. Si è creato quindi capitale eccedente, che ha preso la forma sia di denaro che di merci. La crisi genera sia capitale eccedente (come denaro e merci) che mancanza di capitale (come relazioni sociali) [5].

Come si esce dalla crisi? Se una quantità sufficiente di capitale è stata distrutta (cioè se una quantità sufficiente di aziende sono fallite), le nicchie nel mercato che non sono più colmate da coloro che hanno cessato la loro attività possono essere riempite da coloro che sono sopravvissuti alla crisi. La possibilità di espandere il loro mercato stimola gli investimenti e l’occupazione. Inizialmente, il maggior prodotto può essere venduto contro il capitale monetario eccedente. Poi, a causa dell’aumentata occupazione, al maggior prodotto corrisponde il maggior potere d’acquisto necessario per poterlo comprare. Il problema della realizzazione diminuisce. Allo stesso tempo, gli innovatori traggono vantaggio dai maggiori livelli di produttività e dai minori livelli dei salari reali che sono una conseguenza della depressione e della crisi. I loro tassi di profitto aumentano e con essi il tasso medio di profitto. Le condizioni per uscire dalla crisi sono state poste: prima, il capitale monetario eccedente viene utilizzato per comprare mezzi di produzione e forza lavoro; poi, il maggior prodotto (valore) viene assorbito dal maggior potere d’acquisto derivante dalla maggiore occupazione. Allo stesso tempo la profittabilità aumenta. Ma ciò è reso possibile dalla previa distruzione di una quantità sufficiente di capitale come relazioni sociali. In ultima istanza, è il movimento contraddittorio della profittabilità dei vari capitali, riassunta nel tasso medio di profitto, che determina sia le crisi che la ripresa economica. Una caduta del tasso medio di profitto implica difficoltà economiche e infine fallimenti per i capitalisti meno competitivi. Un aumento implica il contrario [6].

Trovandosi a fronteggiare del capitale monetario eccedente, lo Stato potrebbe appropriarsene (o farselo imprestare) e investirlo nei settori che producono mezzi di produzione e di consumo. Vi sono tre alternative. Lo Stato potrebbe produrre esso stesso quelle merci, attraverso imprese statali, ma in questo caso diventerebbe un competitore del capitale privato così peggiorando le difficoltà di quest’ultimo. Oppure lo Stato potrebbe commissionare mezzi di produzione e di consumo al capitale privato. Ma anche in questo caso queste merci dovrebbero essere vendute e ciò peggiorerebbe il problema della loro realizzazione o vendibilità. Oppure, lo Stato potrebbe consumare le merci che ha ordinato. Ma, oltre ad una certa misura ciò creerebbe una larga burocrazia di Stato di natura parassitaria in competizione con la burocrazia privata per l’appropriazione di quelle merci. Ma la difficoltà di gran lunga più importante è che per ciascuno di questi tre casi ogni appropriazione da parte dello stato del capitale monetario necessario per quelle commesse è una diminuzione dei profitti del settore privato. Questo aumenta la crisi di profittabilità.

2. Il ruolo dello Stato

Lo Stato, quindi, ricorre alle politiche keynesiane. In quest’articolo esse si riferiscono alla appropriazione da parte dello Stato di capitale monetario eccedente e/o dei risparmi dei lavoratori, attraverso la tassazione o il prestito, al fine di commissionare infrastrutture al settore privato [7]. In tal caso, la borghesia di Stato diventa la proprietaria delle infrastrutture. Questo è uno svantaggio per il capitale privato (al quale però esso può ovviare attraverso la privatizzazione di quelle infrastrutture se le condizioni politiche e ideologiche sono propizie). Ma vi sono anche molti vantaggi. Per esempio, la borghesia di Stato non solo non compete con il capitale privato, non solo alleggerisce le difficoltà di realizzazione di quest’ultimo, ma in effetti, procurando le infrastrutture a quest’ultimo, diventa una condizione della sua riproduzione allargata. La domanda che si pone ora è: come si deve valutare l’effetto economico delle politiche keynesiane? Esse hanno un effetto anti-congiunturale? E se lo hanno, come lo si può spiegare dal punto di vista della teoria delle crisi tracciata sommariamente più sopra?

Supponiamo, per incominciare, che gli investimenti cadano di una certa percentuale. Se questo capitale non è investito, mezzi di produzione e forza lavoro rimangono invenduti. Questo è capitale-merce eccedente come merci nelle mani di capitalisti e lavoratori le cui merci (compresa la forza lavoro dei lavoratori) non vengono comprate. Questo capitale-merce incontra difficoltà di realizzazione. Dato che il tasso di profitto è calcolato su tutto il prodotto, che esso sia venduto o no, per i capitalisti le cui merci rimangono invendute vi è una riduzione dei profitti realizzati. Allo stesso tempo, il capitale monetario nelle mani dei capitalisti che non investono, ad esempio che non comprano quelle merci, è capitale monetario eccedente corrispondente al capitale-merce eccedente degli altri capitalisti. I tassi di profitto dei capitalisti che detengono capitale-merce eccedente cadono, cioè questo capitale ha difficoltà di profittabilità. Conseguentemente, anche il tasso medio di profitto cade.

Al fine di contrastare la crisi di profittabilità, lo Stato tassa il capitale monetario eccedente e lo usa per commissionare infrastrutture presso capitalisti privati. Così facendo, esso trasforma profitti non realizzati in capitale, cioè li capitalizza. Con questo capitale, i produttori di infrastrutture comprano mezzi di produzione e forza lavoro. Si può dimostrare che il tasso medio di profitto può essere riportato al livello di prima della la caduta degli investimenti solo se la relazione tra capitale costante e capitale variabile nel settore delle infrastrutture è sufficientemente al di sotto della media e se il tasso di plusvalore medio è sufficientemente alto.

L’argomento è il seguente. Prima di tutto, data la mobilità del lavoro e l’azione dei sindacati, dobbiamo assumere che in genere il tasso di plusvalore sia più o meno lo stesso sia nel settore delle infrastrutture che nel resto dell’economia [8]. Consideriamo ora il capitale monetario eccedente. Esso, se è appropriato dallo Stato, diventa una perdita per i capitalisti. Il tasso medio di profitto cade. Per riportare tale tasso al livello precedente, deve essere prodotto un profitto uguale a quella perdita. Siccome il capitale eccedente (corrispondente alla perdita) è investito nella produzione di infrastrutture, questo profitto deve venire da tale settore. Una parte di tale capitale è investito in capitale costante e un’altra in capitale variabile. Ma il capitale costante non produce plusvalore, solo il capitale variabile (con cui si compra forza lavoro) può produrlo. Dato che il tasso di plusvalore è lo stesso per tutti i settori, se la relazione tra capitale costante e capitale variabile è la stessa sia nel campo delle infrastrutture che nel resto dell’economia, il profitto derivante dagli investimenti nelle infrastrutture deve essere inferiore alla perdita iniziale. Questa differenza può essere compensata solo se una maggiore quantità di plusvalore è prodotta nelle settore delle infrastrutture, cioè se in tale settore più capitale è investito come capitale variabile (che produce plusvalore) che nel resto dell’economia. Ciò vuol dire che in tale settore la relazione tra capitale costante e capitale variabile deve essere minore della media. Esemplifichiamo [9]. Chiamiamo il capitale costante c, il capitale variabile v e il plusvalore s. Supponiamo che inizialmente si investano in un certo paese 80c+20v. A un tasso di plusvalore del 100%, s=20 e il valore totale del prodotto è 120. Supponiamo che gli investimenti cadano di 10, cioè che un output per un valore di 10 non sia venduto. Questa è una perdita di 10 per i produttori di quei mezzi di consumo e di investimento e un capitale eccedente nella mani dei mancati compratori di quelle merci. Ora lo Stato si appropria di quel valore di 10 (come moneta), per esempio tassa i mancati compratori di quei beni, e commissiona infrastrutture per un valore di 10. I produttori di infrastrutture investono 8c+2v (la stessa relazione tra capitale costante e capitale variabile di quella iniziale) e fanno produrre dai propri lavoratori un plusvalore di 2s (dato che il tasso di plusvalore medio è 100%). In totale sono stati investiti (80+8=) 88c + (20+2=) 22v=110 ed è stato prodotto un plusvalore di 20+2=22 meno 10 di perdita. Il profitto realizzato è quindi 12 e il tasso di profitto è 12/110=10.9% che è minore del tasso iniziale, 20%.

Se la relazione tra capitale costante e capitale variabile nel settore delle infrastrutture è maggiore della media iniziale, il tasso medio di profitto cade di più. Supponiamo che il valore di 10 prelevato dallo Stato venga investito nelle infrastrutture nella proporzione di 9c+1v; 1v genera 1s e il profitto realizzato è di 20-10+1=11. Il TMP (tasso medio di profitto) è 11/110 = 10%<10.9%.

Se la relazione tra capitale costante e capitale variabile nel settore delle infrastrutture è minore della media iniziale, il tasso medio di profitto cade di meno. Supponiamo che il valore di 10 prelevato dallo Stato venga investito nelle infrastrutture nella proporzione di 6c/4v = 1.5 < 80c/20v = 4; 4v genera 4s, il profitto totale è di 20-10+4 = 14 e il tasso medio di profitto è di 14/110 = 12.7% > 10.9.

Questi risultati valgono qualsiasi sia il tasso di plusvalore medio. Nell’esempio iniziale supponiamo un tasso di plusvalore non del 20% ma del 1500%, cioè 20v produce 300s. In questo caso, avremo 80c+20v+300s=400. Il tasso medio di profitto è di 300/100=300%. Di nuovo, supponiamo che gli investimenti cadano di 10. Lo Stato si appropria di questo valore e commissiona infrastrutture che richiedono un proporzione tra capitale costante e capitale variabile uguale alla media, cioè 8c+2v. Al tasso di plusvalore di 1500%, 2v producono un plusvalore di 30. Gli investimenti totali sono, come sopra, 88c+22v=110. I profitti meno perdite sono di 300s-10s+30=320s. Il tasso medio di profitto è 320/110=290% < 300%.

Tuttavia, dato un certo tasso di plusvalore, è possibile che il maggior profitto prodotto nel settore delle infrastrutture non sia sufficiente a compensare la perdita iniziale. Dato che l’unica altra alternativa, quella di un tasso di plusvalore più alto nel campo delle infrastrutture, è ammessa solo come eccezione, il tasso medio di profitto deve essere inferiore al suo livello precedente. L’unica possibilità di riportare il tasso medio di profitto al suo livello iniziale è che la relazione tra capitale costante e capitale variabile nelle infrastrutture sia sufficientemente più bassa della media e che il tasso medio di plusvalore sia sufficientemente alto affinché il plusvalore prodotto nella costruzione delle infrastrutture sia sufficiente a compensare la perdita iniziale [10]. -----

Siccome le infrastrutture richiedono in genere un’alta relazione tra capitale costante e capitale variabile, una relazione maggiore della media, e siccome non vi è nessuna ragione di assumere un tasso medio di plusvalore sufficientemente alto nel caso che quella relazione sia più bassa della media, è del tutto improbabile che le politiche keynesiane riescano nel loro intento di riportare il tasso medio di profitto al suo livello precedente. Ma anche se vi riuscissero, un aumento dei profitti non si tradurrebbe in un aumento degli investimenti produttivi (a differenza di quelli speculativi) a meno che le possibilità di tali investimenti non siano emerse di nuovo, cioè a meno che non vi sia stata una previa distruzione di capitale. Se l’economia non è già in una fase di ripresa, l’effetto delle politiche keynesiane non può che essere temporaneo.

Lo stesso vale se, a causa della situazione economica sfavorevole dovuta ad un incremento della disoccupazione, i lavoratori aumentano i loro risparmi. Questa è una caduta della domanda, cioè meno vendite, e quindi una riduzione dei profitti per lo stesso ammontare. Il tasso medio di profitto cade. Il valore risparmiato dai lavoratori è appropriato dallo Stato. Con esso, lo Stato commissiona infrastrutture al capitale privato. Anche qui la questione è quella della relazione tra capitale costante e capitale variabile investiti nel settore delle infrastrutture e del tasso di plusvalore medio. Naturalmente, questa opzione è preferita dal capitale perché sono i lavoratori piuttosto che i capitalisti ad essere tassati.

Si è detto che lo Stato può appropriarsi del capitale eccedente. Ciò significa un aggravamento del carico fiscale. Però, un aumento fiscale potrebbe essere inadatto sia ideologicamente che politicamente durante una recessione, quando il potere d’acquisto dei cittadini sta già calando. Quindi, invece di tassare, lo Stato può ricorrere al prestito pubblico, cioè a spese finanziate dal deficit [11]. Tuttavia, questo è solo un posticipo, non una soluzione, del problema. Infatti, lo Stato deve o ripagare il debito o diventare inadempiente. Se lo Stato lo ripaga, ciò può avvenire solo attraverso la tassazione. Se lo Stato non può ripagarlo, diventa inadempiente e l’effetto finale è lo stesso come se vi sia stata tassazione. Vi sono, tuttavia, sia vantaggi che svantaggi per lo Stato. I vantaggi economici sono che lo Stato può effettuare il pagamento, e quindi si appropria di un valore sia dai capitalisti che dai lavoratori, in un maggior arco di tempo. Lo Stato spera di poter ripagare quando la congiuntura è cambiata ed una maggior tassazione è possibile. Inoltre, il valore ripagato può essere ridotto a causa dell’inflazione e quindi dell’ammontare del valore reale del debito pubblico. Lo svantaggio è che il debito pubblico implica il pagamento di interessi.

3. Inefficacia delle politiche keynesiane e loro popolarità

Se le politiche keynesiane sono inefficaci nel riportare il tasso medio di profitto al suo livello di prima della caduta degli investimenti e/o della domanda (al massimo possono migliorarlo senza riportarlo a quel livello), a che cosa devono la loro popolarità? Si potrebbe osservare che un miglioramento del tasso medio di profitto, anche se lieve, è sempre meglio che niente. Questo è vero però né i governanti né i governati ragionano in termini di tasso medio di profitto. La ragione si basa su una importante nozione implicita in quanto detto più sopra e cioè che le politiche keynesiane possono aumentare (temporaneamente) il PIL, l’occupazione, e i salari senza essere in grado di prevenire la caduta del tasso medio di profitto. Incominciamo dal PIL. Il capitale non usato e i risparmi dei lavoratori corrispondono a forza lavoro e mezzi di produzione non venduti e quindi inattivi. Questi capitale e risparmi sono appropriati dallo Stato per finanziare le infrastrutture. Con questo capitale i produttori di infrastrutture comprano quella forza lavoro e mezzi di produzione che sono rimasti inattivi [12]. Al limite, tutto il valore prodotto è realizzato e il PIL sale di nuovo al livello precedente la caduta della domanda e degli investimenti. Anche l’occupazione sale, a meno che gli investimenti nelle infrastrutture siano completamente automatizzati (cioè il capitale variabile è zero) e può risalire al livello di prima della caduta negli investimenti e/o domanda. Anche i salari crescono nella misura in cui il capitale impiegato nel settore delle infrastrutture è usato per comparare forza lavoro. Conclusioni simili sono raggiunte se lo Stato si fa imprestare, piuttosto che tassare, il capitale non usato e i risparmi dei lavoratori.

Si noti per inciso che alcuni di questi tre indicatori, occupazione, Pil e salari, possono crescere ed altri cadere. Per esempio, supponiamo che il settore privato aumenti i propri investimenti di 3 unità (+2c, +1v). Se il tasso di plusvalore è di 100%, 1v genera 1s e il Pil aumenta di 4 unità. Se, allo stesso tempo, gli investimenti indotti dallo Stato cadono (per esempio a causa della paura dell’inflazione) di 2 unità (-0,5c, -1,5v), l’effetto negativo sul Pil è di 2. In totale il Pil cresce di 4-2=2 e l’occupazione cala di 1-1,5=-0,5. È quindi possibile che, a causa degli investimenti indotti, il Pil cresca mentre l’occupazione cade (e lo stesso vale per i salari). È ugualmente possibile che il Pil cada con una crescente occupazione. per esempio, supponiamo che il capitale privato diminuisce gli investimenti di 4 unità (-3c,
 1v)cosicché il Pil cade di 4 unità mentre lo Stato aumenta i suoi investimenti di 2 unità (+0,5c, +1,5v). se il tasso di plusvalore è del 100%, 1,5v genera 1,5s e il Pil cresce di 0,5c+1,5v+1,5s=3,5. in totale il Pil diminuisce di 0,5 unità mentre l’occupazione cresce di +1,5v-1v=+0,5v.

Quindi, inizialmente, come conseguenza delle politiche keynesiane, il PIL, l’occupazione, e i salari possono salire e addirittura risalire al loro livello precedente la crisi (cioè al livello precedente la caduta degli investimenti e/o della domanda) e tuttavia la profittabilità scende relativamente (cioè non risale) a quel livello perché in genere la relazione tra capitale costante e capitale variabile nel settore delle infrastrutture è maggiore della media e perché anche se fosse inferiore non vi è nessuna garanzia che il tasso medio di plusvalore sarebbe sufficientemente alto. Un miglioramento (o persino un ritorno al livello precedente) in termini di PIL, occupazione, e salari può nascondere la marcia dell’economia verso la depressione e le crisi. Altre cadute della domanda e degli investimenti, dovuti in ultima istanza alla competizione tecnologica, e quindi maggiori investimenti indotti dallo Stato, non possono che peggiorare la profittabilità. Ad un certo punto, il PIL, l’occupazione e i salari incominciano a cadere e continuano a cadere fino a quando ricomincia la fase successiva del ciclo, cioè fino a quando il tasso medio di profitto ricomincia a salire a causa della previa distruzione di capitale eccedente [13]. Tuttavia, per un po’ di tempo, le politiche keynesiane possono essere usate per “comprare la pace sociale” (un incremento dell’occupazione e della massa dei salari anche se al di sotto del livello precedente la crisi) che è lo scopo politico ultimo di tali politiche. Quale di questi indicatori cresca o cada, dipende dall’interazione delle diverse variabili.

In breve, in pratica, le politiche keynesiane non possono evitare le crisi. I Keynesiani di sinistra sottolineano fondamentalmente due limiti di tali politiche. Primo, tanto maggiori sono gli investimentiindotti dallo Stato e la proprietà di Stato, tanto maggiore è la borghesia di Stato, tanto maggiore è la resistenza del capitale privato verso un ulteriore allargamento della borghesia di Stato attraverso le politiche keynesiane. Queste politiche, quindi, non possono essere usate sufficientemente. Secondo, tanto più l’economia si avvicina al pieno impiego attraverso le politiche keynesiane, tanto maggiore diventa il pericolo (per il capitale) di aumenti salariali. Questo è un altro motivo per cui tali politiche non possono essere usate in pieno. Questi argomenti sono validi ma non vanno al cuore della questione. L’essenza della difficoltà delle politiche keynesiane è che le condizioni a cui tali politiche possono spingere il tasso medio di profitto al suo livello precedente la crisi, e quindi a cui possono prevenire una sua caduta, non sono in pratica realizzabili. Come già detto, la relazione tra capitale costante e capitale variabile nel settore delle infrastrutture è in genere ad alta intensità di capitale costante e se anche fosse più bassa della media potrebbe essere insufficiente a generare il plusvalore necessario perché il tasso di plusvalore potrebbe essere troppo basso. Il tasso medio di profitto cade nonostante le politiche keynesiane. Il Pil, l’occupazione e i salari possono aumentare, per un certo tempo, ma, finché questa crescita nasconde una caduta della profittabilità, i capitalisti non aumenteranno i loro investimenti e i lavoratori le loro spese, eccetto che a causa di investimenti indotti dallo Stato. Anche se il tasso medio di profitto crescesse a causa di tali politiche, finché una quantità sufficiente di capitale non è stata distrutta, gli investimenti e la spesa privati non sono auto-propulsivi e il miglioramento del tasso medio di profitto è solo temporaneo.

Per uscire dalla crisi, quindi, la questione non è quella di rivitalizzare la domanda o di aumentare i salari o l’occupazione attraverso una ridistribuzione a favore dei lavoratori, come nelle politiche e teoria Keynesiana. Né si tratta di ridurre la produzione di plusvalore (attraverso la disoccupazione) ridistribuendo allo stesso tempo questa minore quantità a favore del capitale (come nelle politiche neo-liberali). Né l’una né l’altra politica possono far uscire l’economia dalla crisi. Piuttosto, il punto è se la quantità di capitale distrutto sia sufficiente affinché più valore e plusvalore possano essere prodotti e se, allo stesso tempo, siano state create le condizioni per la realizzazione di questa maggiore produzione.

Quanto detto presuppone che le politiche keynesiane attingano solo al capitale eccedente in mano ai capitalisti e al valore risparmiato dai lavoratori in quella nazione. A queste condizioni ben difficilmente la profittabilità può essere riportata al suo livello di prima della crisi.

Ma le politiche keynesiane possono essere finanziate anche da (plus)valore appropriato da altri paesi. Questo è il caso per quelle nazioni i cui capitali (1) hanno un vantaggio tecnologico (2) si appropriano di plusvalore internazionale (sia attraverso lo scambio ineguale derivante da quel vantaggio sia attraverso il signoraggio, come per gli USA) e (3) possono finanziare le politiche keynesiane attraverso questa appropriazione. Per loro, il successo delle politiche keynesiane nel riportare il tasso medio di profitto al livello di prima della caduta della domanda e degli investimenti (o nel farlo salire ad un livello superiore) è dato dagli investimenti indotti dallo Stato di questa appropriazione di plusvalore internazionale. Le politiche keynesiane realizzano solo un canale per l’investimento di tale plusvalore. Questa non è un’opzione aperta a quelle nazioni a cui manca capitale eccedente e che sono soggette alla perdita di valore internazionale sia attraverso lo scambio diseguale che attraverso altri meccanismi di appropriazione di valore internazionale. Siccome le politiche keynesiane sono studiate nel contesto dei paesi dominanti (che non solo generano capitale eccedente ma anche si appropriano del plusvalore di altri paesi, quelli dominati) come se l’appropriazione di plusvalore internazionale non esistesse, si pensa erroneamente che tali politiche possano alzare il tasso medio di profitto al suo livello di prima della crisi anche nei paesi dominati. L’attribuzione di una (erronea) validità generale a politiche economiche (le politiche keynesiane) che possono essere usate solo dai paesi dominanti è una delle spie che rivelano il contenuto di classe di tale teoria.

4. Il cosiddetto effetto moltiplicatore

A questo punto dobbiamo introdurre il moltiplicatore Keynesiano. Nella teoria economica Keynesiana, un incremento degli investimenti iniziale produce un aumento maggiore (anche di alcune volte) della ricchezza e del reddito. Il rapporto tra l’aumento della ricchezza e reddito da una parte e l’aumento degli investimenti dall’altro è chiamato il moltiplicatore. Il meccanismo è raffigurato come segue. Un investimento iniziale si traduce in un uguale aumento della ricchezza e reddito. Una parte di questo aumento del reddito è spesa, cioè consumata, e un’altra parte è risparmiata. Questi maggiori spese e consumi, a loro volta, causano un aumento del reddito e della ricchezza che conduce ad un altro circuito di consumi e di risparmi. In ciascun circuito, la ricchezza prodotta e il reddito aumentano, anche se meno del circuito precedente, dato che, in ciascun circuito, una parte del reddito non è spesa, non è consumata, ma è risparmiata. Quindi, in questa teoria, il reddito (e conseguentemente la ricchezza) aumentano a causa di gironi successivi di spesa nell’assenza di investimenti tranne quello iniziale. Gli effetti delle politiche keynesiane sul ciclo sono quindi amplificati. Ma tutto ciò è erroneo.

È vero che un aumento iniziale delle spese può riverberarsi in tutta l’economia. Ma, nell’assenza di ulteriori investimenti, e quindi di un aumento della produzione, si possono acquistare soltanto quelle merci che sono già state prodotte ma non ancora vendute. Le statistiche quindi non indicano la misura in cui la ricchezza è aumentata (a parte il valore e plusvalore che sono stati creati dalla prima iniezione di investimenti che, come abbiamo visto, ben difficilmente può riportare il tasso medio di profitto al suo livello precedente la crisi). Piuttosto, esse indicano la misura in cui le merci che giacciono invendute sono state vendute, cioè la misura in cui il valore precedentemente prodotto e che non era stato realizzato è ora realizzato. A parte l’investimento iniziale indotto dallo Stato, non vi è nessun aumento della ricchezza (valore) prodotta ma solo un aumento della ricchezza (valore) realizzata. Invece di parlare del moltiplicatore Keynesiano, si dovrebbe parlare della realizzazione (vendita) di merci (includendo la forza lavoro) nel resto dell’economia in seguito agli investimenti indotti dallo Stato nel settore delle infrastrutture, in breve di realizzazione indotta.

La realizzazione indotta introduce un nuovo problema per il sistema capitalistico. Se solo una parte del capitale eccedente deve essere investita (tramite le politiche keynesiane) al fine di ritornare ad una situazione di pieno impiego sia dei mezzi di produzione che della forza lavoro, un investimento di tutto il capitale eccedente non può che provocare l’inflazione. Il dilemma è quindi o la parziale utilizzazione del capitale eccedente (cioè meno che pieno impiego) senza inflazione o piena occupazione con inflazione. Lo stato di grazia del pieno impiego senza inflazione sfugge a coloro che detengono le leve del potere economico non perché si commettono errori di valutazione (che guarda caso sono sempre gli stessi). Esso è semplicemente impossibile.

È naturalmente possibile che la realizzazione indotta stimoli nuovi investimenti. In questo caso, tuttavia, non si tratta più del moltiplicatore Keynesiano (che ipotizza solo un investimento iniziale). Ma tralasciamo questo punto e poniamoci la domanda: questi nuovi investimenti non potrebbero essere la forza propulsiva di una nuova fase ascendente del ciclo? La risposta è negativa. Se, a detta dei keynesiani, i ‘sentimenti’, o meglio le aspettative, cioè la possibilità di profittabilità, sono bassi perché la ripresa non è ancora incominciata, la realizzazione indotta dall’investimento iniziale e l’investimento indotto da questa realizzazione possono essere bassi o persino nulli: poco del maggior reddito generato dall’investimento iniziale indotto dallo Stato è speso. Se le ‘aspettative’ sono alte, perché la situazione economica ha già incominciato a migliorare, una quantità maggiore può essere spesa. In breve, la realizzazione indotta dall’investimento iniziale e i possibili investimenti indotti da essa hanno (maggior) effetto quando l’economia si trova in una fase di ripresa (cioè quando sono meno necessari perché le condizione per la profittabilità nel settore privato sono già state ristabilite) che nel caso contrario, quando questo effetto è maggiormente necessario. Tale realizzazione (chiamata erroneamente moltiplicatore) e investimenti non possono causare la ripresa, essi possono solo accelerarla dopo che essa è incominciata, cioè dopo che una quantità sufficiente di capitale come relazioni sociali è stata distrutto.

Quanto detto in questa sezione è necessario per capire non solo l’inevitabilità delle crisi e l’impotenza delle politiche Keynesiane ma anche gli effetti delle crisi sui lavoratori. Quest’ultimo punto sarà al centro della prossima sezione.

 [14]


[1] Questo è l’assunto basilare dell’economia marxista. Come in tutte le teorie, l’assunto iniziale non deve essere necessariamente dimostrato. Tuttavia, in questo caso, tale assunto può essere dimostrato indirettamente, per esclusione, cioè dimostrando che tutti gli altri assunti conducono, a differenza di questo, a teorie del valore internamente incoerenti.

[2] Il plusvalore è il valore prodotto dai lavoratori eccedente il valore della propria forza lavoro. È appropriato dai capitalisti.

[3] Il tasso di profitto è il plusvalore diviso per il capitale investito.

[4] Altri approcci sostengono che, dato che l’innovatore tecnologico realizza un più alto tasso di profitto, tanto più sono gli innovatori, tanto più alto è il tasso medio di profitto. La teoria del valore lavoro giunge ad una conclusione esattamente opposta, supportata dall’osservazione empirica.

[5] Questa è la tendenza. Vi sono molte contro-tendenze che però non possono essere analizzate in questa sede.

[6] Per un trattamento più dettagliato di questi temi, il lettore può consultare Carchedi, 1991, 1999, 2001.

[7] Le politiche keynesiane sono solo una delle tante politiche economiche anti-congiunturali alle quali i governi ricorrono. Le altre due più importanti sono le politiche monetarie e quelle fiscali.

[8] Il tasso di plusvalore è il plusvalore diviso per il valore della forza lavoro.

[9] Il lettore non interessato all’esempio numerico può saltare le righe seguenti

[10] Torniamo all’esempio numerico iniziale. Supponiamo che il capitale eccedente in mano ai mancati compratori (che corrisponde alla perdita dei venditori) sia appropriato dallo stato il quale commissiona infrastrutture per quel valore, 10.
I produttori di infrastrutture investono solo in mano d’opera. Cioè non si compra capitale costante, solo capitale variabile e quindi vi è la massima produzione di plusvalore. Con un tasso di plusvalore di 100%, 10v producono 10s. In totale, si investe 80c+(20v+10v=)30v=110. Il plusvalore prodotto e realizzato è di 20-10+10=20. Il tasso medio di profitto è 20/110=18% che è maggiore del tasso medio di profitto in caso di investimenti nelle infrastrutture con una relazione tra capitale costante e capitale variabile uguale a quella media iniziale (10.9%) ma pur sempre inferiore al tasso medio di profitto prima della caduta degli investimenti (20%). Con questo tasso di plusvalore medio, il tasso medio di profitto non può risalire al livello di prima della caduta degli investimenti anche se tutto il capitale eccedente è investito in forza lavoro. La profittabilità può essere ristabilita solo se il tasso di plusvalore medio è maggiore del 100%. Per esempio, con un tasso di plusvalore del 200%. In questo caso, 80c+20v danno un plusvalore di 40s. Se gli investimenti nelle infrastrutture sono 3c e 7v (cioè la relazione tra capitale costante e capitale variabile è minore della media), il plusvalore prodotto nelle infrastrutture è di 14s. In totale, si sono investiti (80+3)c e (20+7)v, cioè 110. Il profitto realizzato è 40-10+14 = 44 cosicché il tasso medio di profitto è 44/110= 40%, il livello di prima della crisi.

[11] Si noti, tuttavia, che in tempo di crisi prolungata, i consumatori potrebbero già essere molto indebitati cosicché le politiche keynesiane basate sul prestito dei risparmi dei lavoratori sono limitate.

[12] Assumendo che, nel migliore dei casi, i produttori di infrastrutture comprino esattamente la forza lavoro e mezzi di produzione che erano rimasti invenduti. Se questo non è il caso, vi saranno degli scompensi che però sono autocorrettivi.

[13] Durante il New Deal, le spese statali per uso civile negli USA aumentarono da US$10.2 miliardi nel 1929 a US$17.5 miliardi nel 1939. Tuttavia, nello stesso periodo, il PIL cadde da US$104.4 miliardi a US$91.1 miliardi e la disoccupazione aumentò dal 3.2% al 17.2% della forza lavoro totale. Fu solo nel Dicembre del 1941, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, che l’economia Americana uscì dalla crisi (Giacchè, 2001, pp. 111-112). Come vedremo più sotto, contrariamente alle politiche keynesiane, le guerre possono creare le condizioni per un rilancio dell’economia a causa della massiccia distruzione del capitale come merci.

[14] Continua nel prossimo numero; la bibliografia di riferimento è alla fine della seconda sezione nel prossimo numero.