l ruolo delle imprese multinazionali nel mercato globale

Carmine Giannì

Il termine globalizzazione è stato proposto per la prima volta da Levitt T. il quale affermava che: “Una forza di grande potenza, la tecnologia spinge il mondo verso modelli sempre più uniformi e convergenti. Questa forza ha reso accessibili a tutti le comunicazioni, i trasporti, i viaggi. Essa ha fatto si che anche nei luoghi più isolati e fra le popolazioni più povere sia finito il richiamo del mondo moderno. Praticamente ogni uomo della terra desidera tutte le cose di cui ha sentito parlare o che ha potuto vedere o sperimentare grazie alle nuove tecnologie. Da tutto ciò nasce una nuova realtà commerciale e cioè l’emergere dei mercati globali per i prodotti di consumo standardizzati di dimensioni inimmaginabili in precedenza”. Con questo termine solitamente ci si riferisce alla crescente integrazione ed interdipendenza delle economie nazionali che negli ultimi venti anni ha preso la forma dell’apertura di mercati precedentemente protetti. Tale integrazione è avvenuta non solo attraverso gli scambi commerciali, ma in misura crescente attraverso gli investimenti diretti esteri, le fusioni e le acquisizioni internazionali in un mondo che da gerarchizzato sotto gli Stati Uniti si è trasformato in tripolare coinvolgendo anche l’Unione Europea ed il Giappone. È proprio nello spazio geografico identificato con la triade Stati Uniti, Unione Europea e Giappone che, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, si è concentrata la maggior parte dei flussi di investimenti diretti esteri [1].

Spostando l’attenzione da una dimensione nazionale ad una dimensione aziendale al concetto di globalizzazione si fa assumere una nuova valenza. Infatti con questo termine si usa definire l’allargamento degli orizzonti d’interesse delle grandi imprese che sono passati da una scala nazionale ad una scala internazionale, continentale e addirittura, in alcuni casi, mondiale. Pertanto tale accezione è restauratrice del modello dell’impresa multinazionale classica, che a sua volta si basa sul modello fordista. Infatti l’allargamento all’infinito del mercato permette il perseguimento sia di strategie di leadership di costo globale sia strategie di differenziazione. Con le prime, attraverso una strategia di marketing indifferenziata e concentrata a livello globale, si possono raggiungere delle economie di scala che non sono alla portata delle aziende nazionali. Con le seconde, attraverso l’aggregazione di segmenti di domanda presenti nei vari Paesi, le multinazionali sono in grado di ottimizzare i propri investimenti, di bilanciare il rapporto qualità/prezzo, di ottenere dei vantaggi negli investimenti in immagine. L’internazionalizzazione così attiva il circolo virtuoso tra minori costi unitari, derivanti dalla più ampia base di mercato raggiungibile, e il rinvenimento di risorse finanziarie sufficienti per ulteriori investimenti finalizzati al rafforzamento del vantaggio competitivo [2].

Un elemento caratterizzante dei mercati globali diviene allora la propensione a stringere accordi ed a creare reti internazionali di alleanze tra imprese, i cui rapporti di cooperazione [3] e di collaborazione si articolano in architetture più o meno complesse. In questo contesto l’innovazione tecnologica ha reso possibile il costituirsi di fitti reticoli di accordi e di alleanze tra imprese e ne ha caratterizzato la competizione a livello internazionale.

L’internazionalizzazione e l’inserimento dell’impresa nell’economia globale fanno sì che le nuove multinazionali si trovino a competere in un ambiente sempre più complesso. Tale contesto, caratterizzato da una concorrenza sempre più acerrima, rende necessaria la prospettiva di una competizione incentrata sull’innovazione. Le imprese sono costrette ad adottare strategie di cooperazione con altre imprese e con le istituzioni per poter accedere a nuove risorse e competenze esterne.

Nell’ambito dell’internazionalizzazione produttiva sono due i fenomeni che hanno maggiore incidenza: la delocalizzazione produttiva ed il raggiungimento o il mantenimento di determinate quote di mercato.

I primi processi di delocalizzazione produttiva risalgono alla seconda metà degli anni settanta, quando forti conflittualità sociali e la crisi petrolifera resero necessario il trasferimento di molte produzioni all’estero, soprattutto nei settori ad alto contenuto di lavoro. Negli anni successivi il continuo incalzare della soglia di competitività, a seguito dell’incessante innovazione tecnologica e della globalizzazione dei mercati, ha comportato una crescente mobilità dei fattori produttivi, in particolare del fattore capitale; tale processo è stato favorito da una serie di eventi politici ed economici che hanno caratterizzato l’ultimo decennio. In particolare possiamo considerare la crescente apertura verso i mercati internazionali e la possibilità di sfruttare i vantaggi, in termini di costo dei fattori produttivi e di imposizione fiscale, provenienti dalle economie dei Paesi dell’Europa Centro Orientale [4].

Le motivazioni che spingono un’impresa a delocalizzare all’estero una parte o l’intero processo di produzione non fanno capo esclusivamente alla possibilità di ottimizzare il mix di fattori produttivi attraverso la ricerca di manodopera a basso costo del lavoro, di Paesi con una bassa imposizione fiscale o di un costo delle materie prime inferiore rispetto al mercato interno. La delocalizzazione dipende da fattori strategici, manageriali e dalle politiche di marketing, quindi coinvolge la gestione d’impresa a livello globale [5].

Si pone quindi il problema per l’impresa di dare una struttura ben precisa all’organizzazione dei propri rapporti con il mercato globale.

L’impostazione più frequentemente seguita, è quella del mantenimento nella casa madre delle funzioni aziendali come marketing, ricerca e sviluppo e tutto ciò che riguarda gli aspetti intangibili del processo produttivo; parallelamente vi è un’apertura verso il mercato estero di gran parte delle fasi di produzione.

Tutto ciò comporta una serie di vantaggi per l’impresa. Infatti, con questa nuova organizzazione, l’azienda ha più possibilità di dedicarsi alla cura del prodotto da un punto di vista qualitativo, grazie ad un maggiore apporto della pubblicità e della conseguente acquisizione di un marchio per il prodotto. In questo contesto diventano fondamentali i rapporti di partnership tra le grandi multinazionali e le piccole e medie imprese. Infatti, grazie a tali relazioni, le imprese di grandi dimensioni operanti nel mercato internazionale, possono avviare politiche di diversificazione del prodotto e di acquisizione di imprese di più piccole dimensioni, con il fine di affrontare diversi segmenti di mercato con prodotti con un contenuto qualitativo e tecnologico diverso, soddisfacendo al massimo le esigenze del consumatore. D’altro canto, le imprese di più piccole dimensioni riescono ad affrontare il mercato globale, caratterizzato da livelli di competitività e concorrenza più alti rispetto a quello interno, grazie alla guida di una grande multinazionale [6]. Si viene così a creare una vera e propria “rete internazionale” nella quale sono coinvolte, attraverso rapporti bidirezionali, imprese di diverse dimensioni. Vediamo, quindi, come si viene a creare uno stretto legame tra i processi di delocalizzazione produttiva e le filiere internazionali che caratterizzano i processi produttivi attuali.

Da un punto di vista geografico l’interesse per la delocalizzazione delle imprese europee si è indirizzato prevalentemente verso tre grandi aree: Unione Europea, Europa Centro Orientale e America Latina. La scelta della destinazione geografica verso la quale indirizzare una parte o l’intero processo produttivo dipende essenzialmente da fattori logistici, di vicinanza geografica, di facilità di comunicazione, di trasporto e di controllo della produzione e più in generale geoeconomico, ricerca di garanzie di affidabilità e di autonomia.

In questo contesto risultano fondamentali le politiche di privatizzazione, di liberalizzazione dei mercati, di protezione e promozione degli investimenti diretti esteri che sono state avviate soprattutto nei Paesi in procinto di entrare nell’Unione Europea come Polonia, Romania e Repubblica Ceca [7].

La strategia che è alla base di questo tipo di operazioni è data dalla sottoscrizione di accordi di subfornitura che rappresentano una vera e propria leva strategica per la competitività dell’industria e per le strategie d’innovazione delle grandi imprese. Il rapporto di subfornitura è caratterizzato dalla specializzazione del fornitore nel portare a termine i compiti che gli sono stati assegnati e dal rapporto di collaborazione più o meno rigido che si è venuto ad instaurare tra fornitore e committente. La subfornitura può essere, dunque, organizzata in molteplici modi a partire dall’esecuzione di una determinata lavorazione fino ad arrivare alla delocalizzazione all’estero di alcune fasi o dell’intero processo produttivo. Tale processo, se analizzato da un punto di vista esclusivamente produttivo, è giustificato quando il costo del lavoro per unità di prodotto è particolarmente alto e quando la produzione è relativamente standardizzata e pertanto organizzabile per lotti abbastanza grandi. Si può facilmente notare come la convenienza al decentramento non sia inversamente proporzionale alla crescita degli standard qualitativi del prodotto, bensì, spesso conviene decentrare quelle fasi del processo produttivo richiedenti conoscenze e livelli organizzativi specifici e particolari.

Una delle principali modalità attraverso le quali si concretizzano tali accordi di subfornitura e, di conseguenza, la gran parte delle strategie di delocalizzazione produttiva è data dal traffico di perfezionamento passivo.

Con tale termine si indica il regime doganale della temporanea esportazione verso paesi esteri, per lavorazione o riparazione, di merci da reimportare sotto forma di prodotti finiti o di semilavorati. Generalmente vengono trasferite all’estero, in Paesi a basso costo del lavoro, fasi della produzione precedentemente sviluppate nella casa madre [8]. Si tratta per lo più di operazioni a carattere manifatturiero, più facilmente trasferibili all’estero e nelle quali l’incidenza di lavoro non qualificato è maggiore e, quindi, vi è un vantaggio comparato in termini di costo dei fattori della produzione, in particolare del fattore lavoro. Tuttavia, grazie alle politiche di sviluppo che stanno coinvolgendo i Paesi in fase di transizione, negli ultimi anni, la dotazione di lavoro qualificato a basso costo non è scarsa, di conseguenza anche fasi che richiedono lavoro più qualificato lentamente vengono trasferite all’estero [9].

La diffusione del traffico di perfezionamento passivo è conseguenza del diffondersi rapido delle strategie di delocalizzazione da parte dei produttori europei. Questa tendenza è dovuta sia a mutamenti sul versante della domanda (i consumatori tendono a voler massimizzare il rapporto tra qualità e prezzo) che su quello dell’offerta (aumento della concorrenza ed incremento degli standard qualitativi).

Le principali aree geografiche coinvolte in questi flussi sono l’Europa Centro Orientale (41,2%) e l’Unione Europea (36,9%). In questo contesto il peso dei Paesi dell’Europa Centro Orientale è legato a ragioni di costo, know-how e convenienza logistica. Inoltre, più di un indizio fa supporre che in futuro intensi flussi di esportazioni temporanee saranno diretti verso il Nord Africa e la Turchia.

Al fine di completare e di rafforzare i concetti esposti nelle pagine precedenti, si ritiene utile illustrare i risultati ottenuti nella parte applicativa e metodologica della tesi di laurea di chi scrive [10]. In questo lavoro sono stati analizzati i dati di bilancio delle maggiori multinazionali operanti nel mercato mondiale e quelli relativi ai flussi di investimenti diretti esteri e delle fusioni ed acquisizioni oltre confine facenti riferimento alla triade di potenze economiche individuata negli Stati Uniti, Unione Europea e Giappone. Dopo aver analizzato il comportamento delle grandi multinazionali ed aver messo in evidenza le differenti strategie attuate nelle politiche di internazionalizzazione produttiva dalle imprese operanti in diversi settori ed aree geografiche, si è ritenuto importante approfondire il discorso relativo alla caratterizzazione delle performance aziendale in funzione dell’appartenenza ad una determinata area geografica (effetto area geografica) o mercato caratterizzante il core business (effetto settore). -----

È stato possibile dimostrare che, a prescindere dall’area geografica di provenienza e dal settore produttivo di appartenenza, l’assunzione di un modello di gestione reticolare è sinonimo per l’impresa multinazionale di miglioramento delle proprie performance, di acquisizione di maggiori quote di mercato, di avvento a nuove tecnologie e conoscenze e di rafforzamento della propria posizione a livello internazionale.

Concentrando invece l’attenzione sui settori produttivi e sulle aree geografiche studiate, è stato possibile vedere come l’apertura al mercato mondiale si concretizzi con caratteristiche differenti tra i vari settori e Paesi in funzione sia delle necessità di mercato che delle politiche di sviluppo intraprese dai vari Governi. [11]

Dopo aver esaminato le strategie di delocalizzazione, ed alcuni aspetti dinamici ed organizzativi che caratterizzano i comportamenti delle imprese che affrontano il mercato globale, è ora opportuno affrontare il problema da un punto di vista quantitativo. Uno degli aggregati che meglio spiega l’attività delle imprese multinazionali è sicuramente l’investimento diretto estero (IDE). [12]

Gli investimenti diretti esteri, visti come flussi finanziari che si muovono da un’impresa investitrice verso le sue affiliate operanti all’estero, negli ultimi anni hanno intrapreso un trend decisamente crescente. Gli IDE hanno iniziato una fase d’espansione a partire dal 1997. Analizzando i flussi in entrata ed in uscita [13] è possibile vedere come, a partire da tale anno, i tassi di crescita annuali si siano mantenuti decisamente sopra alla media dei periodi precedenti [14]. Nel 1999 i flussi in uscita di investimenti hanno raggiunto gli 800 miliardi di dollari con un incremento del 16,4% rispetto all’anno precedente mentre i flussi in entrata hanno raggiunto gli 865 miliardi di dollari con un incremento del 27,5% rispetto al 1998 [15].

Questi andamenti hanno fatto si che gli IDE divenissero la più importante componente tra i flussi di capitali privati verso le regioni in via di sviluppo. Questi livelli sono stati raggiunti nonostante la presenza di numerose condizioni sfavorevoli nell’economia mondiale; come per esempio la recessione dei mercati finanziari in Asia (compreso il Giappone), e l’instabilità dei mercati dell’ex Unione Sovietica e dell’America Latina, che avrebbero dovuto spingere in basso gli IDE nel 1998, ma ciò non è successo.

I flussi complessivi di investimenti diretti esteri (IDE) nel 2000 sono aumentati del 18% ed hanno raggiunto la cifra record di 1.300 miliardi di dollari. Sia la crescita del 2000 che il previsto calo del 2001 sono dovuti principalmente alle fusioni e acquisizioni di società straniere, che costituiscono una cospicua quota degli IDE in tutto il mondo. Tuttavia, dopo il picco dell’anno scorso, 1.100 miliardi di dollari nel 2000, in aumento di quasi il 50% rispetto all’anno precedente, le M&A (fusioni ed acquisizioni oltre confine) di società straniere mostrano ora una tendenza al calo. Tale fenomeno è a sua volta legato al rallentamento generale della crescita economica.

Un altro elemento che bisogna sottolineare è dato dalla ripresa dei Paesi in via di sviluppo e, al loro interno, delle cosiddette economie emergenti. Infatti la recente esplosione degli investimenti diretti esteri non riguarda soltanto i Paesi industrializzati, ma anche le economie emergenti che stanno occupando un ruolo sempre più importante come destinatari di numerosi progetti d’investimento. Nel corso degli anni Ottanta, a seguito della crisi del debito, il peso di tali Paesi sui flussi (ma anche sugli stock) di IDE si era drasticamente ridotto, anche a seguito di rilevanti disinvestimenti. Nel corso degli anni Novanta si è verificata una ripresa di tali flussi che, nel 1997, hanno superato i 170 miliardi di dollari raggiungendo livelli record. Nell’anno successivo vi è stata una leggera flessione a seguito della crisi finanziaria che ha colpito alcune economie di quest’area; nel 1999 è stato nuovamente intrapreso un trend crescente con un incremento del 15,7% rispetto all’anno precedente. In questo contesto particolarmente attiva risulta l’Asia, la quale riceve circa il 30% dei flussi di IDE destinati ai Paesi in via di sviluppo. La cosa sorprendente è data dal fatto che questi Paesi ricevono più flussi di IDE di quanti se ne potrebbero aspettare sulla base delle condizioni del mercato. Una spiegazione di questo fenomeno è data dal fatto che i fattori di attrazione degli investimenti diretti esteri non sono esclusivamente legati alla dimensione del mercato di sbocco, bensì dipendono fortemente dalle risorse umane e materiali presenti nelle aree di destinazione. In America Latina si registrano forti fluttuazioni dei flussi in entrata, dovute all’andamento del ciclo economico e alle fasi dei processi di privatizzazione, mentre l’Africa resta del tutto marginale, scendendo al di sotto del 2% dei flussi mondiali.

Anche per quanto riguarda i flussi mondiali in uscita possiamo vedere come vi è stato un forte incremento. La principale origine di tali flussi è sicuramente costituita dall’area che comprende tutti i Paesi industrializzati; tale area rappresenta ormai oltre il 90% del totale mondiale. Globalmente si può affermare che tali flussi hanno vissuto una fase di crescita in tutto il periodo considerato. I flussi di IDE in uscita risultano fortemente concentrati; infatti i tre principali investitori (Unione Europea, Stati Uniti e Giappone) rappresentano oltre i due terzi dei flussi mondiali in uscita. Bisogna evidenziare come negli anni Novanta gli Stati Uniti siano tornati ad essere il principale Paese investitore dopo la fase di declino relativa agli anni Ottanta. Per quanto riguarda il Giappone, in quest’area si registrano le conseguenze della crisi finanziaria che ha colpito l’Asia nella metà degli anni Novanta; infatti i flussi appaiono in rallentamento.

Un’ulteriore considerazione riguarda il fatto che le differenze, in tal senso, tra le economie sviluppate e quelle in via di sviluppo stanno lentamente diminuendo, nonostante il fatto che la gran parte degli investimenti ad alto contenuto tecnologico provengono dalle imprese multinazionali con sede principale situata nelle grandi potenze economiche.

Una spiegazione può essere fornita dal fatto che le multinazionali provenienti dalle aree economiche in via di sviluppo basano la loro forza non soltanto su una produzione ad alto contenuto tecnologico, bensì su fattori di competitività e sui vantaggi legati alle politiche di liberalizzazione dei mercati che da qualche anno a questa parte coinvolgono i Paesi di quest’area [16].

Concentrando l’attenzione sul 2000 si evidenziano i seguenti sviluppi a livello regionale.

Sia nei paesi industrializzati sia a livello globale, la cosiddetta Triade (Unione Europea, Stati Uniti e Giappone) continua a dominare i flussi di IDE in entrata (71%) ed in uscita (82%), ancora una volta soprattutto grazie alle M&A di società straniere. Il Regno Unito e la Francia sono subentrate agli Stati Uniti nel ruolo di primo investitore estero e sebbene gli USA, a livello mondiale, siano ancora il principale paese ricevente, i loro flussi in entrata e quelli in uscita sono diminuiti l’anno scorso rispettivamente del 5% e del 2%. La Germania ha superato il Regno Unito diventando il principale paese ricevente in Europa ed il secondo per i flussi globali in entrata. Il Regno Unito è per il secondo anno consecutivo il primo paese di provenienza degli IDE a livello mondiale. Gli IDE verso l’Europa centrale ed orientale sono aumentati del 7%, per un totale di 27 miliardi di dollari concentrati nella Federazione Russa, in Polonia e nella Repubblica Ceca. Complessivamente, questa regione conserva la sua quota del 2% dei flussi globali in entrata. Nell’insieme gli IDE hanno preso la forma di transazioni legate alle privatizzazioni, che continueranno a generare flussi regionali in entrata almeno per tutto il 2002. La parte più consistente degli investimenti continua a provenire dall’Europa occidentale, segnatamente dai paesi membri dell’UE. Per quanto riguarda i flussi di IDE in uscita, l’anno scorso sono aumentati ancora più rapidamente di quelli in entrata, raggiungendo i 4 miliardi di dollari. I principali settori interessati dai flussi in uscita sono i trasporti, il petrolio, il gas naturale e i prodotti farmaceutici. Gli IDE da e verso i paesi asiatici in via di sviluppo hanno registrato livelli record l’anno scorso, con una importante concentrazione a Hong Kong (Cina), che ha superato la Cina continentale in qualità della prima fonte e della prima destinazione degli IDE in Asia. Con un flusso di investimenti di 143 miliardi di dollari, l’Asia ha registrato un aumento del 44% rispetto al 1999; i flussi in uscita hanno raggiunto gli 85 miliardi di dollari, pari ad un aumento del 140%. L’anno scorso, i paesi dell’America Latina e dei Caraibi hanno registrato un brusco calo del 22% dei flussi in entrata, scesi a 86 miliardi di dollari dopo esser triplicati nella seconda metà degli anni 90. Tale declino riflette in realtà una correzione rispetto al 1999, quando i flussi in entrata furono gonfiati da alcune grandi acquisizioni infra-gruppo. I principali paesi destinatari sono stati il Brasile con 34 miliardi di dollari, ed il Messico con 13 miliardi di dollari, mentre il Cile è stato il principale investitore della regione. A livello settoriale, il terziario e le risorse naturali hanno assorbito la maggior parte degli IDE della regione, mentre in Messico sono prevalsi la produzione manifatturiera ed i servizi finanziari. Nel 2000, le fusioni e acquisizioni sono rimaste importanti ed hanno interessato soprattutto il settore dei servizi. I flussi in entrata di IDE in Argentina e Cile sono diminuiti, in parte perché tre grandi fusioni e acquisizioni avevano prodotto un aumento consistente l’anno precedente. L’instabilità politica ed economica ha provocato un calo degli IDE in alcuni paesi quali la Colombia e il Perù, mentre sono aumentati i flussi verso il Venezuela. Nel 2000 una diminuzione dei flussi verso l’Africa di 9,1 miliardi di dollari, pari al 13%, ha fatto scendere la quota di IDE di questo continente a meno dell’1% del totale mondiale, soprattutto a causa del rallentamento dell’economia in Sud Africa, Angola e Marocco. È stato registrato un calo anche nell’Africa sub-sahariana, che comprende i 14 paesi membri della Comunità di Sviluppo dell’Africa meridionale (SADC) e i 34 paesi meno sviluppati dell’Africa; la situazione è rimasta invariata solo in Nord Africa. Il Sud Africa è il primo paese fonte di IDE del continente col 40% del totale dei flussi esteri, pari a 1,3 miliardi di dollari lo scorso anno. I principali paesi riceventi sono stati, nell’ordine, l’Angola, l’Egitto, la Nigeria, il Sud Africa e la Tunisia.


[1] Cfr.: Vasapollo L.,”La geoeconomia dei processi di internazionalizzazione post-fordista”, Relazione del Convegno internazionale di Matanzas, Cuba, Marzo 2000.

[2] Cfr. Martufi R., Vasapollo L.: „ EUROBANG: La sfida del polo europeo nella competizione globale: inchiesta su lavoro e capitale”, Media Print Edizioni, Ottobre 2000.

[3] In tal senso la cooperazione rafforza la capacità di competizione e lo sviluppo della differenziazione tecnologica dei processi produttivi.

[4] Cfr.: Vasapollo L.: “La Uniòn Europea: entre polo geoeconòmico y desarrollo desigual”, Estratto dagli atti del Congresso Internazionale: VIII Conferencia Internacional de Estudios Europeos, En Ciudad de la Habana (Cuba), dal 3 al 6 Ottobre 2000.

[5] Cfr.: Unioncamere: “Delocalizzazione produttiva e investimenti all’estero delle imprese manifatturiere lombarde” COLLANA STUDI, quaderno n.7, 1998.

[6] Cfr.: Grandinetti R.: “Il marketing delle grandi e delle piccole imprese: dalla separazione alla convergenza” da Economia e Politica Industriale, n.63 1989; cfr. AA.VV. “No/Made Italy”, Media Print, 2002.

[7] Cfr.: Vasapollo L.: “La Uniòn Europea: entre polo geoeconòmico y desarrollo desigual”, Estratto dagli atti del Congresso Internazionale: VIII Conferencia Internacional de Estudios Europeos, En Ciudad de la Habana (Cuba), dal 3 al 6 Ottobre 2000.

[8] Cfr. A. Forti e F. Silva: “Deindustrializzazione e delocalizzazione pr0.1oduttiva” da: La ricostruzione industriale, settimo rapporto CER/ISR sull’industria e la politica industriale italiana, 1995; cfr. AA.VV.: “No/Made Italy”, Media Print, 2002.

[9] Cfr.: Quaderni Cestes n.6: “Atti del Seminario Internazionale: La integraciòn europea y las politicas sociales y del trabajo:expectativas y confrontacion internacional”. A cura di Cestes Proteo, 19 giugno 2001.

[10] “Le strategie di internazionalizzazione produttiva nell’era della globalizzazione, analisi di alcuni settori produttivi” Relatore: Prof. Luciano Vasapollo, Correlatore: Prof. Roberto Zelli, Facoltà di Scienze Statistiche, Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, 5 marzo 2001.

[11] Cfr. R. Martufi e L. Vasapollo, “ EuroBang”, op. cit.

[12] Cfr. AA.VV., “No/Made Italy” op. cit. e lavori vari di L. Vasapollo già citati.

[13] Cfr. UNCTAD “World Investment Report 2001”.

[14] Per il periodo 1997-1999 il tasso medio di crescita degli IDE è stato pari al 31,9% mentre quello degli IDE in uscita è stato pari al 26%.

[15] Cfr.: International Monetary Found: “International Financial Statistics”, Washington D.C., 1999.

[16] Cfr.: OECD “Per l’apertura dei mercati, i vantaggi della liberalizzazione degli scambi e degli investimenti”, 1999.