Rappresentanza sindacale. La legge che non c’è

Arturo Salerni

I percorsi normativi nel pubblico e nel privato

1. Libertà ed attività sindacale

Ai sensi dell’articolo 39 della Costituzione repubblicana “l’organizzazione sindacale è libera”. L’art. 14 dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n.300) recita: “Il diritto di costituire organizzazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro”. Quindi nessuna forma particolare è prevista per la costituzione di organizzazioni sindacali, siano esse associazioni articolate in un solo posto di lavoro o che riguardino una sola figura professionale, nè sono previste forme particolari per associazioni di lavoratori appartenenti ad una determinata categoria o che siano addirittura inseriti in diversi settori produttivi o lavorativi. Inoltre va ricordato che, aldilà della previsione di alcune forme specifiche di tutela del dirigente delle rappresentanze sindacali aziendali previste dall’art. 22 dello Statuto, l’art. 15 della legge 300/70 considera nullo qualsiasi patto od atto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte. E’ considerato affetto da nullità radicale licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero, o comunque per fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso. L’art. 17 dello Statuto fa inoltre divieto ai datori di lavoro ed alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere associazioni sindacali di lavoro (cosiddetti sindacati di comodo).

2. Repressione

dell’attività antisindacale

Lo Statuto dei Lavoratori prevede all’art. 28 uno speciale procedimento mirante alla repressione della condotta antisindacale. Infatti qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale o del diritto di sciopero è possibile chiedere al Pretore di dichiarare l’antisindacalità del comportamento e di ordinare con decreto al datore di lavoro la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti di esso. Tale speciale procedura giudiziale può essere esperita soltanto dagli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali. Quindi, il ricorso previsto dall’art. 28 non può essere proposto dal rappresentante sindacale aziendale ma deve essere proposto dal rappresentante locale (regionale, provinciale, cittadino) dell’organizzazione sindacale (si intende qui generalmente l’organizzazione di categoria). Tale organizzazione deve però possedere il requisito della nazionalità (e non necessariamente della maggiore rappresentatività), cioè deve essere diretta a svolgere la propria attività in gran parte del territorio nazionale. Qualora il datore di lavoro non ottemperi all’ordine del Pretore può essere avviato nei suoi confronti procedimento penale.

La legge 146/90 (ovvero la legge sull’esercizio del diritto di sciopero) ha esteso l’applicabilità della procedura di repressione della condotta antisindacale a tutte le amministrazioni pubbliche. Questa legge ha attribuito la competenza a conoscere la questione al Pretore, nel caso in cui sia leso il diritto della sola organizzazione sindacale (ad esempio mancata concessione del locale per lo svolgimento dell’attività sindacale) ed al Tribunale Amministrativo Regionale qualora si intenda rimuovere il comportamento antisindacale lesivo, oltre che delle prerogative del sindacato, anche di situazioni giuridiche soggettive inerenti al rapporto di pubblico impiego (si pensi al trasferimento per motivi sindacali del dirigente sindacale). La competenza del T.A.R., peraltro, viene oggi messa in discussione dallo spostamento di competenze in materia di pubblico impiego dal giudice amministrativo al Pretore del Lavoro.

3. Associazione e diritti sindacali

Ma nonostante tale espressa indicazione normativa, ed innanzitutto costituzionale, che garantisce ad ogni associazione sindacale la possibilità di esistere, di svolgere attività di proselitismo dentro e fuori i posti di lavoro, di aprire e condurre vertenze, di promuovere azioni di sciopero (salvo i rilevantissimi limiti posti nell’ambito dei servizi pubblici dalla legge 146/90, di cui ci occuperemo in un futuro numero della rivista), non tutte le associazioni hanno gli stessi diritti.

Le regole dettate per il riconoscimento dei diritti sindacali variano a seconda che ci si trovi nel settore privato (o regolato da norme di tipo privatistico) o che ci si muova nell’ambito del pubblico impiego.

4. L’art. 19 dello Statuto dei lavoratori

Il titolo III della legge 300 del 1970 riconosce - nell’ambito del settore privato - la titolarità di alcuni diritti (assemblea, referendum, tutela dei dirigenti sindacali, permessi, affissioni, locali per lo svolgimento delle attività sindacali) alle rappresentanze sindacali aziendali. Prima dello svolgimento dei referendum abrogativi del giugno 1995, ai sensi dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, rappresentanze sindacali aziendali potevano essere costituite, in ogni unità produttiva, “a) nell’ambito di associazioni sindacali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” o “b) nell’ambito delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva”.

La giurisprudenza di merito (Pretori e Tribunali) e di legittimità (Corte di Cassazione) aveva, sotto la variegata spinta delle diverse aggregazioni nate nel mondo del lavoro a partire dalla fine degli anni settanta intorno alla “rottura del monopolio della rappresentanza sindacale”, enucleato nel tempo alcuni criteri per individuare quali fossero da considerare le confederazioni sindacali dotate del requisito della maggiore rappresentatività sul piano nazionale. Tali criteri venivano rintracciati nel numero degli aderenti, nella diffusione a livello territoriale, nella diffusione intercategoriale, nella capacità di autotutela (e cioè di promuovere iniziative di lotta e di partecipare alla contrattazione collettiva). I criteri ritenuti più probanti dalla giurisprudenza largamente prevalente erano quelli della diffusione territoriale e categoriale.

La giurisprudenza affermava ormai concordemente che il termine “maggiormente rappresentativo” non doveva implicare in alcun modo un giudizio di comparazione tra le diverse organizzazioni sindacali. Per fare un esempio: negli ultimi anni, ed anche nel periodo a cavallo dei referendum del 1995, diverse pronunzie dei Pretori e dei Tribunali del lavoro (in aggiunta ad un decreto del Ministro della Funzione Pubblica) riconoscevano il requisito della maggiore rappresentatività sul piano nazionale in capo alla Confederazione Unitaria di Base, una confederazione relativamente giovane, con diverse decine di migliaia di iscritti, presente soprattutto nel pubblico impiego, nel settore dei trasporti e nel settore metalmeccanico, confederazione che ha messo insieme le forze di diverse organizzazioni di categoria ed intercategoriali (tra le quali le Rappresentanze Sindacali di Base e la F.L.M.U.), e che è attiva su gran parte del territorio nazionale.

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5. Il referendum del giugno 1995

Dopo una intensa e pluriennale battaglia condotta tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta da diverse forze sindacali e democratiche, che ha visto anche una diffusa partecipazione di esponenti della magistratura e dell’avvocatura del lavoro, l’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori è stato oggetto di due distinte proposte referendarie che puntavano alla sua abrogazione totale o parziale. Peraltro, nell’ambito dell’allora vigente legislatura - ed in quella che la precedette - sono state formulate diverse proposte di modifica del testo dell’art. 19 dello Statuto, ed alcune di iniziativa popolare, in considerazione anche del mutamento della realtà delle aggregazioni e delle relazioni sindacali verificatosi dal 1970 in poi e delle considerazioni critiche espresse alla normativa in vigore dalle pronunzie della Corte Costituzionale.

Per comprendere fino in fondo la necessità di un mutamento legislativo - prima e, ancor più dopo il risultato del referendum abrogativo - va ricordato che, nel settore privato, secondo la giurisprudenza dominante, non esisteva e non esiste per le organizzazioni sindacali alcun diritto alla partecipazione al tavolo delle trattative. Va anche ricordato che, prima del referendum del 1995 (promosso in funzione antisindacale dalla Lista Pannella) sull’art. 23 dello Statuto dei Lavoratori, le diverse organizzazioni sindacali - rientrassero o meno tra quelle indicate dall’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori - avevano diritto di percepire i contributi sindacali che i lavoratori avessero loro inteso versare tramite ritenuta sul salario da operarsi a cura del datore di lavoro.

6. Le relazioni sindacali nel pubblico impiego

La legge quadro 29 marzo 1983 n. 93 disciplinava la materia delle relazioni sindacali nell’enorme settore del pubblico impiego. In sostanza questa legge individuava le materie che dovevano essere disciplinate attraverso la contrattazione collettiva ed il procedimento attraverso il quale gli accordi risultanti dalla negoziazione dovevano essere recepiti in atti aventi una portata generale. Infatti nel pubblico impiego la contrattazione collettiva sfociava, a seguito della legge quadro, in provvedimenti normativi (per esempio in Decreti del Presidente della Repubblica) che conferivano agli accordi una portata generale (la cosiddetta validità erga omnes) a differenza di quanto accade nel settore privato, ambito nel quale - non essendo mai stata attuata la disposizione contenuta nell’art. 39 della Costituzione - per determinare l’estensione della validità di un accordo a tutti i lavoratori è necessaria una legge. Con il cosiddetto Decreto Amato, dal nome dell’allora presidente del Consiglio dei Ministri, ovvero con il Decreto Legislativo 29/93, nell’avvio del processo di privatizzazione del pubblico impiego, si è ridotto notevolmente l’ambito delle materie sottoposte alla contrattazione decentrata e si sono parallelamente estesi i poteri dispositivi dei dirigenti.

La legge quadro del 1983 individuava tre ambiti di contrattazione collettiva nel settore del pubblico impiego: l’ambito intercompartimentale, la negoziazione di comparto, e la negoziazione decentrata. Tale tripartizione permane sostanzialmente ancora oggi, ovvero dopo i decreti legislativi 29 del 1993 (Amato) e 395 del 1997 (Bassanini).

Con il Decreto del Presidente della Repubblica n. 68 del 1986, a seguito di accordo sindacale interessante la globalità del pubblico impiego, sono stati individuati otto comparti di contrattazione collettiva.

I comparti, allora delineati ed ancora sostanzialmente esistenti, sono i seguenti: Stato, Parastato (ovvero enti pubblici non economici), Aziende ed Amministrazioni Autonome (che a seguito della trasformazione/privatizzazione delle Poste e di altri enti si è di molto ridotto), Scuola, Regioni ed Enti Locali, Università, Ricerca, Servizio Sanitario Nazionale.

A seguito di un accordo intercompartimentale del 1988 il Ministero per la Funzione Pubblica ha - con successive circolari dell’ottobre 1988 (cosiddetta circolare Pomicino) e del marzo 1991 (cosiddetta circolare Gaspari) - disposto in ordine al riconoscimento del requisito della maggiore rappresentatività alle diverse associazioni sindacali.

Solo le associazioni dotate del requisito della maggiore rappresentatività hanno la titolarità a partecipare alle trattative nei diversi ambiti di contrattazione (intercompartimentale, di comparto, decentrata). Per tutte le associazioni cui viene riconosciuta la titolarità a far parte dei diversi tavoli negoziali consegue generalmente il riconoscimento dei diversi diritti sindacali (locali, permessi, bacheche, assemblee, tutela specifica per i dirigenti sindacali, in alcuni casi distacchi sindacali).

L’art. 11 della legge quadro sul pubblico impiego prevedeva una ulteriore condizione - oltre al possesso del requisito della maggiore rappresentatività con riferimento all’ambito di contrattazione - per permettere alle associazioni sindacali di far parte della delegazione trattante, e cioè il fatto di aver adottato codici di autoregolamentazione dell’esercizio del diritto di sciopero.

La negoziazione decentrata nell’ambito del pubblico impiego è stata dapprima disciplinata dall’art. 14 della legge quadro del 1983. Essa è prevista “per singole branche della pubblica amministrazione e per singoli enti, anche per aree territorialmente delimitate”. E’ quindi possibile una contrattazione decentrata nazionale che riguardi l’intero Ente, così come una contrattazione decentrata locale, ed anche una negoziazione relativa a singoli ambiti lavorativi (nazionali o locali). Anche tale strutturazione, sia pur nelle grandi linee e con variazioni relative all’insieme delle materie da trattare ed alla attribuzione delle singole questioni ai diversi ambiti, resta sostanzialmente simile a seguito dei decreti Amato e Bassanini.

Le già citate circolari degli allora Ministri per la Funzione Pubblica Pomicino e Gaspari dettavano precise regole per il riconoscimento del requisito della maggiore rappresentatività in capo alle diverse associazioni sindacali.

Per il livello intercompartimentale (che riguarda la totalità dei pubblici dipendenti) venivano considerate maggiormente rappresentative su base nazionale le confederazioni presenti nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (organo previsto dalla Costituzione ed avente funzione consultiva del Parlamento e del Governo) e quelle per le quali era accertata la maggiore rappresentatività in almeno due comparti di contrattazione collettiva. Per ciascun comparto di contrattazione collettiva venivano considerate maggiormente rappresentative sul piano nazionale le organizzazioni sindacali che avessero un numero di iscritti - risultanti dalle deleghe per la ritenuta del contributo sindacale - non inferiore al cinque per cento delle deleghe complessivamente espresse dai lavoratori dell’intero comparto (ovvero il cinque per cento dei sindacalizzati) oppure quelle che avessero ottenuto nei procedimenti elettivi (per la nomina dei rappresentanti del personale nelle commissioni del personale o nelle commissioni di disciplina o nei consigli di amministrazione) una percentuale di voti pari almeno al cinque per cento del numero complessivo dei votanti per ciascun comparto.

Oltre al possesso di uno o dell’altro dei requisiti indicati si richiedeva che le organizzazioni sindacali avessero strutture territoriali di una certa consistenza in almeno un terzo delle regioni e delle province. Il criterio del cinque per cento delle deleghe o dei voti espressi nell’area decentrata interessata era criterio valido anche per l’individuazione delle organizzazioni maggiormente rappresentative degli interessi collettivi dei dipendenti nelle aree decentrate cui detti accordi si riferivano.

La circolare Gaspari dell’11.3.1991 stabiliva inoltre criteri specifici per l’individuazione delle associazioni maggiormente rappresentative di alcuni interessi particolari. Si tratta delle associazioni sindacali del personale dell’“area medica” del Servizio Sanitario Nazionale, dei dirigenti, del personale dipendente da amministrazioni aventi caratteri di assolute peculiarità (si pensi al Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco), del personale appartenente a particolari categorie che vantano una specificità professionale tale da renderle assolutamente eterogenee rispetto alle altre comprese nello stesso comparto (si pensi ai chimici nel S.S.N.).

Attraverso l’effettuazione delle ritenute - nel pubblico impiego - si giungeva, per espressa previsione normativa, a calcolare il numero degli iscritti al fine di verificare la consistenza associativa (come rapporto tra il numero dei propri iscritti ed il totale del personale sindacalizzato nel determinato ambito di riferimento) da considerare per il riconoscimento della maggiore rappresentatività. Il riconoscimento della maggiore rappresentatività, lo abbiamo visto, comportava - per le richiamate norme e circolari - l’ammissione al tavolo negoziale e la conseguente possibilità… di fruire degli altri diritti sindacali previsti dalle norme.

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7. Considerazioni sulla portata dei referendum

Con questa situazione normativa, articolata e spesso contraddittoria, oltre che fortemente differenziata tra ciò che rientra nel pubblico impiego e tutto quello che da tale settore sta fuori (e che cresce in relazione alla progressiva trasformazione e privatizzazione di enti significativi, erogatori di pubblici servizi), si giunge ai quattro referendum in materia sindacale del giugno 1995.

Il primo, promosso dai radicali, riguarda l’attribuzione delle ritenute sindacali operate - su richiesta dei lavoratori - dal datore di lavoro: il referendum passa, e si giunge ad un ulteriore rafforzamento della posizione “oligopolistica” delle sigle più tradizionali. Ad esse infatti tale possibilità viene riconosciuta non in forza di legge ma in quanto organizzazioni firmatarie di contratti che prevedono per le associazioni stipulanti la possibilità appunto di ottenere la ritenuta diretta del contributo. Di fatto si giunge ad impedire che le organizzazioni che non abbiano stipulato il contratto collettivo nazionale possano fruire della ritenuta diretta - sulla busta paga dei lavoratori loro aderenti - del contributo associativo. Attraverso la qualunquistica agitazione della bandiera per cui “la colpa è dei sindacati”, si è determinato un indiscutibile relativo rafforzamento delle posizioni di alcuni privilegiati rispetto a quelle di tutti.

Il secondo referendum ha prodotto l’abrogazione dell’art. 47 del Decreto Legislativo 29 del 1993, e cioè la possibilità di determinare a mezzo di un accordo sindacale le regole in ordine all’individuazione dei criteri di rappresentatività, alla titolarità della contrattazione, all’esercizio dei diritti sindacali nell’ambito del pubblico impiego. Si voleva evitare cioè che alcuni giocatori stabilissero le regole del gioco. Attraverso una interpretazione operata dal Consiglio di Stato - per la verità forzata - in ordine alla portata abrogativa del referendum si è giunti a ritenere che l’abrogazione dell’art. 47 conducesse alla caducazione di tutta la complessa normativa (legge quadro, accordi intercompartimentali, circolari della Funzione Pubblica) che aveva sino ad allora regolato la materia, e che abbiamo descritto.

Gli altri due referendum, come è più noto, investivano l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori. Quello cosiddetto massimalista puntava all’eliminazione dei due indici di rappresentatività contenuti nell’art. 19 (essere associati a confederazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale o essere firmatari di contratti collettivi di lavoro nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva): l’eventuale abrogazione in tal caso avrebbe costretto il legislatore a riformulare la norma individuando criteri di effettiva e verificata rappresentatività delle strutture sindacali. Il secondo - quello che è passato - puntava ad eliminare il requisito di cui alla lettera a) dell’art. 19 quale criterio per la costituzione di rappresentanze sindacali aziendali, titolari dei diritti attribuiti dallo Statuto dei Lavoratori.

Sta di fatto che l’abrogazione dell’art. 19 nella forma “minimalista”, quale che sia stata la reale intenzione dei proponenti, ha chiuso una delle strade per l’accesso ai diritti sindacali in azienda, determinando le distorsioni di cui diremo appresso.

E’ innegabile che l’esito del referendum popolare del giugno 1995 in tema di diritti sindacali è stato quello di andare in direzione opposta alla richiesta - pur emersa dalle urne - di maggiore democrazia e di maggiore pluralismo sindacale.

Per pochissimi voti non è passato il referendum “secco” sull’art. 19 legge 300/70, e si è così determinato un restringimento della possibilità per tanti soggetti sindacali rappresentativi di addivenire al riconoscimento dei diritti sindacali.

A seguito del referendum viene a mancare quale requisito per il riconoscimento dei diritti sindacali quello indicato dalla abrogata lettera a) dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori (ovvero l’affiliazione dell’associazione sindacale nel cui ambito viene costituita la rappresentanza sindacale aziendale ad una Confederazione maggiormente rappresentativa sul piano nazionale).

Resta questo strano art. 19 mutilato dal referendum, per cui il riconoscimento dei diritti sindacali (compreso quello relativo alla ritenuta del contributo sindacale) dipende dall’atteggiamento datoriale (e cioè dalla scelta dell’imprenditore di trattare e siglare accordi con questa o quella sigla sindacale e di escludere questa o quell’altra).

Va ricordato con riferimento a tale situazione che, come sostenuto nella sentenza n. 39 del 1990, la Corte Costituzionale riteneva troppo restrittivo il criterio di accesso ai diritti sindacali individuato dal legislatore del ‘70, nella configurazione che offriva - naturalmente - più strade di quelle offerte a seguito dell’esito referendario. Peraltro va considerato che la Corte Costituzionale nell’ammettere il referendum (cosiddetto non massimale) richiesto dal Signor Cagna ed altri sull’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori affermava che dal quesito “risulta l’intendimento (minimale) di ottenere almeno l’abrogazione dell’indice presuntivo di rappresentatività previsto dalla lett. a) e l’abbassamento al livello aziendale della soglia minima di verifica della rappresentatività effettiva prevista dalla lettera b)”.

Anche su tale affermazione della Corte dobbiamo poggiare oggi la nostra battaglia per una nuova legge sulla rappresentatività ed i diritti sindacali. Va ricordato sul punto che il nuovo testo dell’art. 19 inserisce anche il contratto aziendale tra quelli la cui sottoscrizione comporta la possibilità di costituzione della rappresentanza sindacale aziendale, con conseguente riconoscimento dei diritti previsti dal titolo III della legge 20 maggio 1970 n. 300.

Va affermato con forza che “abbassamento al livello aziendale della soglia minima di verifica della rappresentatività effettiva” deve significare qualcosa di diverso rispetto all’attuale situazione normativa che vede quale unico indice la sottoscrizione del contratto applicato nell’unità produttiva.

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8. Una significativa pronunzia della Corte Costituzionale (sentenza n. 492 del 1995)

Critiche all’attuale assetto normativo

Sulla Gazzetta Ufficiale del 13 dicembre 1995 è stata pubblicata la sentenza della Corte Costituzionale n. 492 del 1995. Questa pronunzia del giudice di legittimità costituzionale costituisce un autorevole intervento sulla materia relativa al riconoscimento dei diritti alle rappresentanze sindacali aziendali e sulla nozione di maggiore rappresentatività delle associazioni sindacali. Pur non intervenendo direttamente sulla nuova formulazione dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, la sentenza della Corte richiama il principio della “maggiore rappresentatività”: criterio “da accertarsi non una volta per tutte, ma in modo da consentire una periodica verifica, tenuto conto del suo mutevole grado di effettività”. Afferma infatti la Corte che “fra gli indici di rappresentatività il dato quantitativo, costituito dalla misura di adesione formale al sindacato, ha una grande rilevanza, ma non possono essere trascurati altri indici come quello della maggiore attitudine ad esprimere gli interessi dei lavoratori, specie in relazione all’attività svolta per la composizione dei conflitti”.

Ed ancora: “La ‘maggiore rappresentatività risponde ad un criterio di meritevolezza e alla ragionevole esigenza [...] di far convergere condizioni più favorevoli o mezzi di sostegno operativo verso quelle organizzazioni che sono maggiormente in grado di tutelare gli interessi dei lavoratori”.Occorre riportare a questo punto un passo essenziale, rispetto all’indagine che ci interessa, della sentenza della Corte: “Ai fini di queste operazioni selettive, il criterio della ‘maggiore rappresentatività delle organizzazioni sindacali è stato ampiamente affermato in dottrina e giurisprudenza, ed è desumibile da numerose norme del nostro ordinamento. Già nell’art. 39 Cost. - a proposito della stipula di contratti collettivi efficaci per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce - si parla delle rappresentanze dei sindacati ‘in proporzione dei loro iscritti. La rilevanza del diverso grado di rappresentatività delle associazioni di categoria - prevista frequentemente per diverse finalità e con formule non sempre uguali nella legislazione ordinaria - viene riferita dalle disposizioni a vari elementi di carattere anche indiziario. Proprio dalla molteplicità di questi elementi consegue che il predetto principio resta un parametro giuridicamente rilevante anche per quelle norme che fanno rinvio alla nozione contenuta nell’art. 19 dello statuto dei lavoratori (l. n. 300 del 1970).”

Richiamata la precedente propria giurisprudenza in materia, la Corte afferma ancora: “La finalità promozionale e incentivante dell’attività delle organizzazioni sindacali che riescono ad essere portatrici di interessi più ampi di quelli di un ristretto ambito di lavoratori è stata poi evidenziata dalla sentenza n. 30 del 1990 e l’esigenza di questa tutela speciale permane - come si è detto - anche dopo il menzionato recente referendum”.

Abbiamo voluto richiamare la pronunzia della Corte Costituzionale di poco successiva al referendum del 1995, perchè è possibile ricavare dalla sentenza alcuni elementi importanti con riferimento ad un futuro ed auspicabile intervento legislativo in materia. Va infatti innanzitutto in sede di applicazione della nuova eventuale disciplina la conformità della stessa con il principio di libertà sindacale (contenuto nel primo comma dell’art. 39 della Costituzione), che è garantita senza distinzioni a tutte le associazioni sindacali e che non può sopportare una eccessiva contrazione in ragione del maggior favore accordato solo ad alcune organizzazioni (ovvero quelle firmatarie dei contratti applicati nell’unità produttiva), nonchè con i principi di eguaglianza e ragionevolezza, per cui è necessario un controllo sulle ragioni che giustificano un trattamento differenziato e quindi sul perchè il sindacato destinatario sia meritevole di maggior tutela. Appare evidente che il nuovo art. 19 della legge 300/70 appare estremamente restrittivo, potendo portare alla esclusione dalla possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali (e quindi in concreto di fruire delle tutele e dei benefici di cui al titolo III dello Statuto dei Lavoratori) di organizzazioni sindacali in concreto maggiormente rappresentative nel posto di lavoro. Appare anche dubbia “una più favorevole disciplina differenziata di sostegno ove il sindacato, ancorchè firmatario di un accordo collettivo, associ solo lavoratori di una particolare categoria o qualifica o con determinate mansioni.” (Giovanni Amoroso, Il foro italiano, n. 1/1996, I, 8).

Il criterio della sottoscrizione del contratto non può essere di per sè criterio pienamente idoneo a fondare e giustificare la disciplina differenziata, e cioè collegata ad una maggiore meritevolezza, del sindacato che è firmatario di un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, ma che in concreto non raccoglie a livello aziendale il consenso dei lavoratori, rispetto al sindacato che non abbia sottoscritto il contratto (o uno dei contratti) applicato nell’unità produttiva ma che, per contro, abbia l’adesione della maggioranza (o anche della totalità) degli addetti in quel luogo di lavoro.

Si pensi ancora al sindacato che non abbia firmato alcun contratto collettivo ma che sia progressivamente riuscito a coagulare intorno a sè il consenso dei lavoratori. Anche secondo le precedenti pronunzie della Corte Costituzionale è il maggior consenso, che può essere misurato attraverso diversi criteri (e tra questi quelli elaborati nel corso degli anni dalla giurisprudenza), a giustificare la maggiore tutela.

E’ probabile che l’esito favorevole di una azione di lotta sindacale dell’organizzazione, che alla fine riesce a stipulare un contratto collettivo, possa essere indicativo del carattere effettivamente rappresentativo dell’associazione sindacale, ma la mancata stipulazione del contratto - per un insuccesso della lotta o per una scelta dell’organizzazione sindacale - non può eliminare il dato di una rappresentatività invece esistente e ragguardevole tra i lavoratori di una data categoria o tra i lavoratori addetti all’unità produttiva. Per cui il criterio selettivo che è dato ricavare dal testo attuale dell’art. 19, siccome modificato dal referendum, si rivela inidoneo “se è possibile che, ove anche tutti i lavoratori addetti ad un’unità produttiva si riconoscano in un sindacato, questo non abbia alcuna possibilità di accesso alla tutela privilegiata nel caso in cui il datore di lavoro rifiuti la stipulazione di qualsiasi contratto collettivo, vuoi regolando il rapporto con plurimi contratti individuali, vuoi applicando esclusivamente il contratto collettivo nazionale stipulato da un sindacato nazionale che non raccoglie consensi nell’unità produttiva, scegliere con chi trattare e raggiungere un accordo, e per questa via può determinare di accordare tutele e benefici a quella sigla sindacale piuttosto che all’altra.” (Giovanni Amoroso, citato)

Sempre per la più volte richiamata sentenza della Corte Costituzionale n. 30 del 1990, il sindacato maggiormente rappresentativo è quello per il quale tale requisito è verificabile sulla base di indici oggettivi, mentre “l’accesso pattizio alle misure di sostegno non offre alcuna garanzia oggettivamente verificabile”.Quello che la richiamata giurisprudenza costituzionale esclude costantemente è il fatto che - pur senza che si possa ritenere integrata la fattispecie del sindacato di comodo, vietata dallo Statuto - possa essere il datore di lavoro a riconoscere un determinato sindacato come maggiormente rappresentativo, con le conseguenze di maggior favore che da tale riconoscimento derivano. Si può dire che, anche per il fatto che la giurisprudenza ha risolto negativamente la questione dell’esistenza in capo al datore di lavoro dell’obbligo di negoziare, mentre i criteri contenuti nella lettera a) dell’art. 19 - abrogata dal referendum del 1995 - erano nella disponibilità dell’associazione sindacale che con la propria azione poteva - conquistando il consenso dei lavoratori e la diffusione nei diversi settori e nelle diverse aree geografiche del Paese - raggiungere il livello di maggiore rappresentatività, il criterio della nuova lettera b) (che - come abbiamo visto - inserisce il contratto aziendale tra i contratti collettivi la cui stipulazione comporta la possibilità di costituzione della r.s.a.) richiede comunque la collaborazione del datore di lavoro, e cioè si deve determinare la circostanza che il datore tratti con quel sindacato e che pervenga alla stipulazione del contratto collettivo.

Peraltro, va rilevato, nessuno spazio (e conseguentemente nessuna tutela) si apre con riferimento al requisito della intercategorialità e della pluricategorialità: requisito questo che era stato già valorizzato da precedenti pronunzie della Corte Costituzionale (in particolare la sentenza n. 388 del 24.3.1988), essendo tale indice giustificato dal “carattere indivisibile degli interessi dei lavoratori”, requisito perciò funzionale ad “un processo di aggregazione e di coordinamento degli interessi dei vari gruppi professionali, anche al fine di ricomporre, ove possibile, le spinte particolaristiche in un quadro unitario”. La pronunzia della Corte del novembre 1995, che abbiamo voluto richiamare, recepisce una nozione di “rappresentatività”, che non può essere ricondotta che ad una costante verifica della sua effettività. Aldilà ed oltre il criterio presuntivo di tale rappresentatività (rappresentato dalla stipulazione dei contratti collettivi) la Corte non esclude, anzi indica quale principio di carattere generale, la possibilità di verifica dell’effettiva e concreta rappresentatività del sindacato che rivendica la possibilità di costituzione della rappresentanza sindacale aziendale, e quindi l’accesso alla tutela privilegiata.

Deve discendere da tale indicazione la conseguenza per cui se la rappresentatività è evidente, in ragione del consenso proveniente da parte dei lavoratori, la mancata stipulazione del contratto collettivo non può costituire impedimento alla legittimazione alla costituzione della r.s.a..

Possiamo a questo punto, per una più completa descrizione dei riflessi in giurisprudenza del risultato referendario, richiamare alcuni passaggi dell’ordinanza con cui il Pretore di Milano, Dott. Curcio, in una causa promossa dalla F.M.L.U. contro la Fiat Auto, rimette (cosi come hanno fatto altri magistrati del lavoro) gli atti alla Corte Costituzionale, dichiarando non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori nella parte in cui attribuisce la possibilità di costituire le r.s.a. alle sole organizzazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi. Afferma il Pretore che “in particolare con la sentenza 30/90, la corte indicava con chiarezza che un correttivo al logoramento del modello statutario non poteva essere ricercato solo nell’espansione attraverso lo strumento negoziale del potere di accreditamento della controparte imprenditoriale il quale può non offrire garanzie di espressione della rappresentatività reale. Con il nuovo testo dell’art. 19 il modello ritenuto conforme alla Costituzione è venuto meno, rimanendo unico il requisito dello strumento negoziale e, dunque, dell’accreditamento da parte datoriale per il riconoscimento della rappresentatività. Il sindacato non ha più l’autonomia del proprio riconoscimento.” E si richiama ancora la sentenza n. 30 del 1990, nel passo in cui la Corte Costituzionale metteva in guardia dal favorire l’espansione del criterio dell’accreditamento datoriale, sostenendo che “sarebbe in tal modo consentito all’imprenditore di influire sulla libera dialettica sindacale in azienda sfavorendo quelle organizzazioni che perseguono una politica rivendicativa a lui meno gradita.” Afferma il Pretore: “Il sindacato, dunque, per essere veramente libero e per svolgere la sua funzione non deve essere gravato dalla necessità di stipulare accordi e di ricercare un consenso non solo dei lavoratori, ma anche dei datori di lavoro. Peraltro, la cancellazione di ogni norma che consente al datore di lavoro di ingerirsi nella dinamica interna delle associazioni sindacali, cercando direttamente o indirettamente il loro consenso, è per il nostro legislatore un preciso obbligo, che trova fonte, sebbene remota, ma certo ancora vincolante, nella ratifica della convenzione Oil che, all’art. 2, fa obbligo ad ogni ordinamento statale di fornire ai sindacati adeguata protezione contro tutti gli atti di ingerenza della controparte. Ma l’attuale art. 19 non appare contrastare solo con l’art. 39, bensì anche con l’art. 3 Cost. perchè si introduce la possibilità di costituire rappresentanze a favore di organizzazioni sindacali prive di qualsiasi effettiva rappresentatività, sia all’esterno che all’interno dell’azienda, sol che siano firmatarie di contratti collettivi e di negarla ad organizzazione che pur rappresentative, sia esternamente che nell’ambito aziendale, non abbiano sottoscritto alcun accordo.”

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9. Quadro attuale e prospettive

La situazione attuale si presenta comunque estremamente complicata a seguito del risultato referendario: la spinta al cambiamento rischia di trasformarsi in un regresso. Sappiamo che, con la nota sentenza n. 244 del 1996 - che commentiamo a parte - la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale del nuovo articolo 19 post-referendum e che la parola sul punto è tornata al Parlamento. Però qualche ulteriore riflessione va condotta; innanzitutto bisogna dire che l’ideologismo e la confusione presenti nel fronte di chi voleva un superamento delle regole “ingessate” contenute nello Statuto hanno impedito di definire l’obiettivo più serio e concreto in materia: l’estensione - sia pure con alcuni aggiustamenti - delle regole già dettate nel pubblico impiego (circolari Pomicino e Gaspari) a tutto il mondo del lavoro e l’elezione con criteri proporzionalistici di rappresentanze unitarie di lavoratrici e lavoratori. Occorre cioè pervenire ad un complesso di norme che poggi la verifica della rappresentatività effettiva delle organizzazioni sindacali nei diversi ambiti di contrattazione collettiva (intercategoriale, di categoria, di settore, di azienda) su dati certi relativi alla diffusione territoriale, al numero degli aderenti, al grado di consensi. La battaglia di carattere politico-legislativo deve essere condotta con questi semplici, e razionali, obiettivi, e oggi meno che mai può essere abbandonata, perchè al di là della confusione creata artificiosamente in occasione del referendum una richiesta di nuove regole certe è venuta prepotentemente fuori.

Il passaggio a cui stiamo assistendo, tra la fine del 1997 ed il 1998, è caratterizzato da due momenti: da un lato il varo del cosiddetto decreto Bassanini che detta regole valide soltanto per il pubblico impiego - e che sembra caratterizzato meramente dalla volontà di restringere l’area delle associazioni legittimate a partecipare alla negoziazione sia a livello di comparto che a livello decentrato nonchè di restringere l’area dei soggetti fruitori dei diritti sindacali, e ciò prima di aprire la nuova stagione contrattuale - e dall’altro dalla predisposizione, dopo diversi mesi, di una bozza di proposta di legge da parte dell’On. Gasperoni (P.D.S.), cui la Commissione Lavoro della Camera dei Deputati ha affidato l’incarico di relazionare sulle diverse opzioni presenti. Noi riproduciamo questo testo, sul quale si aprirà nelle prossime settimane la discussione, senza alcun commento: crediamo che a partire dal dibattito sui diversi punti in cui la bozza si articola possa riprendere nuovo - e forse decisivo - slancio una battaglia perchè finalmente si affermino insuperabili principi di democrazia nei posti di lavoro. Altro elemento di discussione - intervenuto proprio negli ultimi giorni - è la proposta governativa in materia, proposta che pubblichiamo anch’essa in forma integrale, e rispetto alla quale sarà necessario uno sforzo critico approfondito.