NO/MADE: produzione, accumulazione, flessibilità e precarizzazione

Andrea Fumagalli

No/Made Italy è un libro importante. Per vari motivi. Da un punto di vista metodologico e da un punto di vista analitico.

1. Del metodo

Rartiamo dal primo aspetto, non meno importante. Abbiamo di fronte un libro con una messe di dati enorme. Dovrebbe essere normale in un’analisi economica, ma non è sempre così. Nell’accademia nostrana, sempre più servile ai dettami che vengono da oltreoceano e da oltremanica, i dati statistici non vengono più considerati elementi su cui imbastire uno straccio di analisi descrittiva dei fenomeni economici per meglio comprenderne la dinamica, ma piuttosto la base per sviluppare fantasmagoriche analisi econometriche tese a provare in modo fittizio e spesso puramente ideologico tesi precostituite. Basti un esempio solo: nei primi anni ‘90, nel pieno della campagna a favore del sistema elettorale maggioritario, l’European Economic Review pubblicava un paper di Grilli (oggi al Fmi), Tabellini (consulente di politica monetaria alla Bce), Masciandaro (docente all’università L.Bocconi) in cui veniva presentato un esercizio econometrico per mostrare l’esistenza di una correlazione positiva tra sistema maggioritario uninominale e stabilità e crescita economica nel corso degli ultimi 20 anni. Variabili e concetti inerente la sfera politica come il tasso di democraticità e/o di rappresentanza sociale, vale a dire concetti antropomorfici, venivano piegati a concetti aritmomorfici, attraverso proxies quantitative. Il tutto era, ovviamente finalizzato, a dimostrare l’efficienza capitalistica del sistema uninominale, senza prendere in considerazione alcune divergenze strutturali nel campo economico e politico tra i paesi analizzati

Stesso procedimento viene usato per le analisi relative al mercato del lavoro. In lavori più recenti, ricercatori affermati come Bertola (Università di Torino) o Ichino (Istituto Europeo di Firenze) presentano risultati econometrici in cui si afferma la corrispondenza tra disoccupazione e rigidità del mercato del lavoro o tra disoccupazione e esistenza di elevati sussidi al reddito che impongono maggiori costi di licenziamento. Il tutto attraverso la stima di una relazione funzionale, spesso senza alcuna analisi delle caratteristiche e delle specificità dei diversi mercati dei lavoro o dei diversi sentieri di specializzazione produttiva: analisi che potrebbe rendere inutile qualsiasi tentativo di comparazione tra realtà disomogenee.

Il primato dell’analisi econometrica sull’analisi statistico-descrittiva dipende dal fatto che la prima è normativa, la seconda puramente analitica. Grazie a risultati costruiti ad hoc, ma presentati come risultati oggettivi del linguaggio logico-formale, si giustificano interventi normativi che poco o nulla hanno a che fare con la reale situazione fenomenica che si pretende di analizzare. L’analisi statistico-descrittiva, invece, è strumentale al linguaggio argomentativo, ovvero all’interpretazione storica dei fenomeni economici.

No Made in Italy è un esempio riuscito di analisi statistico-descrittivo e quantitativa che consente risultati interpretativi, che, seppur soggettivi, sono di gran lunga superiori ad una semplice regressione econometrica. La scienza economica, in quanto scienza sociale, è arte dello studio, comprensione e interpretazione non riducibile a puro calcolo quantitativo. A meno che non sia scienza servile.

2. Alcuni fatti stilizzati

Veniamo ora alle interpretazioni contenuto nel libro.

Oggetto dell’analisi è la posizione dell’Italia all’interno dei processi di internazionalizzazione selettiva produttiva. Per cogliere questo aspetto è necessario una premessa sull’attuale fase del processo di internazionalizzazione e sul ruolo dell’innovazione tecnologica e dei saperi nel definire le gerarchie economiche.

 

2.1. Il concetto di internazionalizzazione produttiva della produzione

Lo sviluppo delle tecnologie flessibili basate sul paradigma linguistico-telecomunicativo ha consentito il controllo della produzione a distanza. Si è trattato non solo di una rivoluzione tecnologica, ma anche e soprattutto organizzativa. Il venir meno del modello disciplinare taylorista progettazione fi esecuzione fi commercializzazione come unico paradigma di organizzazione d’impresa e del lavoro ha liberato una poliedricità di opportunità di produzione che ha il proprio referente nella struttura a rete e nella definizione di diversi livelli di gerarchia. La restrizione imposta dai modelli nazionali di produzione sulla base di differenti modalità redistributive è stata abolita dai processi di internazionalizzazione della produzione lungo precise coordinate geo-economiche. Tra queste le più rilevanti sono le direttrici di delocalizzazione ed esternalizzazione lungo gli assi:

• Nordamerica versus Centroamerica e Sudamerica

• Nordamerica versus Sud-Est asiatico

• Europa Occidentale versus Europa Orientale, Medio Oriente, NordAfrica e Sud-Est asiatico

• Giappone versus Sud-Est asiatico.

L’incremento di competizione nel controllo degli assi della subfornitura e del lavoro contoterzi, favorito anche dal minor sviluppo quantitativo della produzione, ha portato alla ricerca spasmodica della riduzione continua e costante dei costi di produzione (sia salariali che ambientali) da un lato e all’accentramento del controllo tecnologico e delle risorse strategiche dall’altro. Ciò che potrebbe apparire un paradosso, vale a dire una produzione mercantile sempre più globale e un processo di concentrazione del controllo produttivo sempre più marcato tramite strategie di fusioni e acquisizioni (come mai si e verificato in due secoli di capitalismo), in realtà non sono altro che le due facce della stessa medaglia.

In questo quadro, appare fuori luogo parlare di vera e propria globalizzazione della produzione, in quanto tale processo non interessa l’intero pianeta, bensì solo specifiche aree geografiche. Ad esempio, il continente africano e alcune aree asiatiche, ne sono in parte del tutto escluse. È più appropriato al riguardo parlare di internazionalizzazione selettiva della produzione.

 

2.2. La tecnologia e i saperi

Il controllo delle traiettorie tecnologiche rilevanti (informatica, biotecnologie, farmaceutica, aereospaziale, robotica, logistica di rete) è la variabile strategica per eccellenza per essere in grado di competere su scala mondiale. Condizioni necessarie (anche se non sufficienti) per stare sulla frontiera tecnologica sono:

• capacità continua di generazione di nuove tecnologie (attività innovativa e brevettibilità delle innovazioni);

• elevata capacità di apprendimento e di controllo sul sapere tacito e sulle competenze esclusive;

• elevata disponibilità di risorse finanziarie e immateriali per l’attività in ricerca e sviluppo.

Si tratta di fattori che solo organizzazioni produttive complesse sono in grado di garantire e sviluppare. Non è un caso, quindi, che più dell’80% della spesa di ricerca e sviluppo per la creazione e generazione di nuove tecnologie sia svolta da imprese di medio-grandi dimensioni. Ciò non toglie che esistano piccole imprese schumpeteriane in grado di “bucare” la frontiera tecnologica. Ma esse hanno di fronte due alternative: crescere in fretta e divenire grandi oppure essere acquisite da imprese concorrenti di grandi dimensioni. La piccola dimensione, in seguito agli alti costi di apprendimento tecnologico e alle nuove barriere all’entrata dettate dalle economie dinamiche di scala, è quindi adibita alla diffusione dell’innovazione tecnologica, all’interno di strutture produttive a rete, con diversi livelli di gerarchia a seconda del grado di specializzazione della subfornitura o della rete di appartenenza. Il comando sulla piccola dimensione è essenzialmente comando tecnologico e finanziario, ai quali la piccola impresa può ovviare con un elevato grado di efficienza capitalistica, vale a dire costi di produzione più bassi e maggiore produttività (alias maggior sfruttamento del lavoro). Ciò implica una sorta di divisione internazionale della produzione che vede il dominio tecnologico nelle grandi corporations del nord del mondo e l’attività produttiva materiale demandata agli assi internazionali e/o nazionali della subfornitura, in un rapporto di interdipendenza comunque essenziali per gli assetti produttivi. Non dimentichiamo che questi temi sono stati oggetto dell’incontro internazionale dell’Ocse tenuto a Bologna il 14-15 giugno del 2000, non a caso aperto anche ai principali paesi subfornitori del terzo e quarto mondo

Ciò di cui invece non si discusse in quella sede è il comando sui saperi e sui brevetti detenuto dalle grandi imprese multinazionali. L’internazionalizzazione della produzione ha infatti comportato il più grande processo di concentrazione tecnologica e dei saperi che mai si sia verificato nella storia del capitalismo.

In particolare la questione dei “saperi” ha assunto un valore strategico. Quando si parla di saperi è necessario distinguere tra saperi “codificati” e saperi “taciti”.

I primi si riferiscono a tutte quelle nozioni e competenze che sono trasmettibili da persona a persona grazie alle tecnologie informatiche e che sono essenziali per lo svolgimento delle mansioni produttive sia a livello materiale che immateriale. Costituiscono il principale strumento per la diffusione delle tecnologie e variano in funzione della specializzazione professionale. Sono l’essenza di ciò che comunemente viene definita “formazione professionale”. Più essi si diffondono, più coloro che ne sono portatori possono essere interscambiabili e ciò, all’interno di un crescente individualizzazione della prestazione lavorativa e contrattuale, porta all’incremento di concorrenza tra i lavoratori e di flessibilità ad esclusivo vantaggio delle imprese con effetti depressivi sulle remunerazioni e sull’omogeneità del mercato del lavoro. Essi riguardano in maggior misura i settori che non si collocano sulla frontiera tecnologica e le prestazioni che meno richiedono esclusività di competenze, con conseguene maggior flessibilità di adozione e di dismissione [1]..

I “saperi taciti”, invece, si riferiscono a quelle nozioni e competenze che, in quanto non codificati, rimangono patrimonio, per un tempo più o meno limitato, dell’individuo che li possiede. Costui rappresenta l’”elite” del mercato del lavoro ed è essenziale soprattutto per la generazione e la creazione di nuove tecnologie nel campo della ricerca, dei prodotti e delle metodologie di produzione. È questo il sapere che è normalmente protetto da brevetti e non è scambiabile sul mercato dell’informazione. Esso costituisce il “core” della capacità tecnologica di un impresa e richiede continui investimenti di supporto, che solo le grandi corporations sono in grado di effettuare. È l’essenza del comando tecnologico e pertanto non sottoposto a processi di globalizzazione e liberalizzazione.

L’aspetto del controllo dei saperi taciti e, pertanto, della generazione di nuove tecnologie è quello che viene meno citato dagli apologeti della globalizzazione. E non può essere altrimenti, visto che tale aspetto, il sapere e il lavoro immateriale legato ai processi della conoscenza, è la chiave interpretativa principale per comprendere le leve di comando imperiale delle imprese multinazionali del Nord del mondo sugli assi della produzione materiale del Sud del Mondo. L’unico aspetto che viene enfatizzato è, invece, la formazione professionale, cioè la conoscenza “usa e getta”, che facilita la flessibilità della produzione e la frammentazione del mercato del lavoro e non mette in discussione le gerarchie di comando.

 

2.3. L’attività di ricerca e sviluppo in Italia

Nel periodo 1991-95 la ricerca finanziata dallo stato diminuisce in Italia con ritmi più sostenuti (-2.5%) rispetto alla media europea (-1.7%), statunitense (-1.2%) e giapponese (+6%). Il numero dei ricercatori su 10 mila lavoratori è il 63% della media Ue e il 41% degli Stati Uniti. Se poi nell’Unione la crescita del personale di ricerca è del 2.9% all’anno (e negli Usa addirittura del 6.2%), in Italia la crescita è allo 0.3%. Nel decennio ’85-’95 in Italia la quota di valore aggiunto prodotto dai settori high-tech sul totale del manifatturiero passa dal 7.2% al 6.4%, mentre in Germania passa dal 10.6% all’11%, nel Regno Unito dal 13% al 13.9% e in Spagna dal 5.5% al 7.6%. Interessante il dato sull’aumento dei dottorati di ricerca scientifici per i giovani tra i 25 e i 34 anni: nella Ue aumentano dello 0.6% all’anno, in Italia dello 0.2%. Gli ultimi in classifica. Il rapporto dell’Unione Europea sottolinea con preoccupazione che il gap fra Europa e Usa cresce: gli Stati Uniti spendono il 2.6% del Pil, mentre l’Unione Europea l’1.9%. Meno dell’Italia spendono solo la Spagna, il Portogallo e la Grecia, mentre la Svezia spende il 3.7%. L’aumento dei finanziamenti privati alla ricerca dal 1995 è negli Usa dell’8.2%, nella Ue del 4.9%, in Italia del 3.8%. L’incremento delle spese governative in ricerca e sviluppo dal 1995 sono per il Giappone del 6.3%, per gli Usa dell’1.5%, per la Ue dello 0.6%; l’Italia, in controtendenza, le diminuisce dello 0.1%. Nel 1999 negli Usa sono state presentate 144 domande di brevetti per milione di abitanti, nella Ue 135, in Italia 61. C’è almeno un dato positivo per l’Italia: i ricercatori italiani hanno 346 pubblicazioni ogni 1000 ricercatori, contro le 269 della media Ue, le 200 Usa e le 104 giapponesi.

 

3. Conclusioni ovvie ma non sempre dette

Sulla base di quanto detto, il sentiero di specializzazione dell’industria italiana è strutturalmente debole. È questa la tesi sostenuta dal libro. Una tesi ovvia e scontata se il cd. “made in Italy” viene inserito nell’analisi ben più globale delle filiere internazionali della produzione. Due sono infatti i limiti strutturali dell’industria italiana: l’aver perso qualsiasi competizione nei settori che si collocano sulla frontiera tecnologica e l’inadeguatezza della struttura formativa e di ricerca in seguito ad una mentalità manageriale e imprenditoriale retriva. Nel primo caso, nonostante la continua enfasi sulla supposta e tanto decantata creatività imprenditoriale italiana, la responsabilità è tutta da ricercare nell’insipienza e nell’incapacità storica della stessa classe imprenditoriale italiana, più capace a creare imprese di corto respiro e a struttura familistica che a competere sul piano internazionale. Con poche ma lodevoli eccezioni (pensiamo ad esempio al settore delle macchine utensili), non appena il grado di competizione cresce, il posizionamento della grande impresa italiana arretra. È il caso delle (dis)avventure europee post 1990 delle grandi oligarchie capitalistiche italiane (Agnelli, Pirelli e De Benedetti) ed è il caso emblematico della crescita e del rapido declino del settore informatico italiano (cfr. Olivetti, dopo il successo del M24).

Dove l’industria italiana riesce a tenere, seppur con crescente fatica, sono i settori a basso contenuto tecnologico, dove il costo del lavoro è minimo e dove la competizione di prezzo, favorita dalle continue politiche di svalutazione competitiva (o tramite la lira o tramite l’euro), consente di mantenere quote stabili di mercato internazionale.

Nel testo, la strategia della delocalizzazione produttiva alla ricerca del costo minore mette in luce tutta la sua debolezza, soprattutto oggi all’interno della fase di internazionalizzazione selettiva della produzione. Per un’economia fondata sul primato della piccola dimensione e su una grande impresa incapace di reggere le sfide tecnologiche del paradigma linguistico-comunicativo, la prospettiva sempre più reale è quella del scivolamento progressivo verso la fascia della subfornitura internazionale, fuori dal core di nazioni che decidono le sorti dell’accumulazione capitalistica. Tale situazione non può che essere peggiorata dalla tendenza dell’attuale governo di destra a perseguire strategie corporative e nazionalistiche, strategia che come risultato immediato porta a scaricare sul peggioramento delle condizioni del lavoro le contraddizioni del depauperamento progressivo e relativo dell’economia italiana (rispetto all’Europa e agli Usa). L’attuale attacco allo Statuto dei Lavoratori ne è solo l’esempio più eclatante.

4. Postilla

La discussione che ha caratterizzato la presentazione del libro (5 Dic. 2001 al CNEL) ha interessato in particolare due argomenti: i cambiamenti strutturali avvenuti nel passaggio dal paradigma fordista a quello dell’accumulazione flessibile e il ruolo della produttività. In estrema sintesi, mi pare che si possano cogliere i seguenti elementi strutturali (almeno nel medio termine), che cercherò di presentare in modo sintetico e sotto forma di nuove contraddizioni (avvalendomi del saggio di Andrea Tiddi, Precari. Lavoro e non lavoro nel postfordismo, di prossima pubblicazione nella collana Map., DeriveApprodi, Roma).

Prima coppia di tensioni

Socializzazione del processo di produzione contro individualizzazione del rapporto di lavoro

Le relazioni tra i soggetti reali, la costituzione spontanea di legami comuni tra questi soggetti, sono particelle elementari della produzione sociale. Il postfordismo apre a una configurazione largamente socializzata dei processi produttivi, ma a fronte di questa apertura impone rapporti individualizzati, dettata dalle esigenze d’autolegittimazione del rapporto di capitale - di confermare una propria legittimità in crisi -. Rapporti individualizzati che funzionano da contenimento della tensione alla comunanza che la produzione indica e mette in atto, per affermare, attraverso il ricatto della necessità e l’imposizione della legge della concorrenza, un’antropologia individualistica ostacolando il processo d’autocostituzione dei soggetti e della società. Questo processo di repressione delle istanze autocostituenti della società attraverso la sottomissione biopolitica alle leggi dell’economia di mercato è un dispositivo di soggettivazione che produce individui, soggetti giuridicamente isolati e separati tra loro, soggetti "proprietari", soggetti "privati", soggetti separati, non-divisibili, perché solo chi è giuridicamente unico e indivisibile può presentarsi in un rapporto di scambio come proprietario, indivisibile come la proprietà che possiede: la legge di mercato funziona solo su "individui" e sulla loro eguaglianza formale.

L’individualizzazione dei contratti di lavoro persegue esattamente questa modalità di governo della società, un governo realizzato attraverso la separazione. I dispositivi della società di controllo agiscono proprio sull’articolazione tra socializzazione dei processi produttivi e persistenza dell’accumulazione privata della ricchezza, gestiscono la contraddizione della produzione di valore nel momento irreversibile della sua crisi, gestiscono la crisi permanente tra capitale e lavoro vivo. La deterritorializzazione della produzione, il suo dispiegamento sul territorio, ha come contropartita la pretesa di localizzazione della forza lavoro dentro i limiti dei tempi e degli spazi formali del lavoro. Una collocazione formale che l’esistenza del precariato, come soggetto del non-lavoro, sta mettendo in crisi. Con il precariato si è aperta la contraddizione tra il lavoro sociale realmente dispiegato e il tempo di lavoro formale, una contraddizione solo contenuta dalla pretesa individualità del rapporto di lavoro.

Seconda coppia di tensioni

Relazioni spontanee dello scambio tra soggetti sociali contro relazioni strumentali dello scambio di mercato

Questa prima dualità contraddittoria interna al rapporto di produzione, e formalizzata dall’imposizione di un rapporto contrattuale individualizzato, introduce una seconda coppia antagonistici che si crea tra contenuti sociali della produzione e rapporti formali del mercato, tra rapporti di scambio sociale e rapporti di scambio di mercato, tra la spontaneità dei primi e la strumentalità dei secondi. I contenuti sociali del lavoro immateriale, dell’attività di relazione, che altro non sono che sintesi di una materia grezza composta di sentimenti, pensieri, affetti, logiche, estetiche, pratiche, cioè sintesi del lavoro sociale spontaneo, non hanno più nemmeno l’apparenza di una proprietà privata. Possono essere parte della nostra intimità, ma di un’intimità che è ormai assolutamente scoperta, esteriore, comune a una moltitudine, che si costruisce dentro la ricchezza della moltitudine.

La produzione di questa moltitudine crea continuamente aggregati di senso, comunicazione, particelle di densità immateriale che sono gli elementi di base su cui si realizza il valore nel capitalismo della sussunzione reale, della sussunzione della vita comune. Un contenuto proprio dell’attività di relazione la quale, in sé, non potrebbe darsi come strumentale senza essere necessariamente scissa. L’investimento gratuito di passioni e d’attenzioni, come per esempio nel lavoro di “cura”, è continuamente contraddetto dalle relazioni strumentali dell’economia di mercato. Il mercato pretende per sé il ruolo di mediazione tra società e produzione, tra consumo e società, tra società e società. Ma il mercato non è che il luogo di un falso movimento, mediatore di momenti che la sua stessa istituzione formale ha separato. Il ciclo della produzione - che possiamo esprimere nella serie produttività-prodotto-consumo - non presenta se non stadi differenti della materia sociale, il mercato assume il ruolo di mediatore dei passaggi di stadio dall’uno all’altro. La produttività di particelle libere del lavoro sociale si cristallizza in una forma prodotto, così torna alla fluidità del consumo sociale che a sua volta si condensa in ulteriori particelle di senso che rideterminano i parametri per la produttività. Sono passaggi di stadio della materia sociale, il primo, tra produttività e prodotto, è mediato dal mercato del lavoro, il secondo, tra prodotto e consumo, è mediato dal mercato della merce inanimata. In sé questi passaggi appaiono come movimenti interni alla cooperazione sociale (nella dinamica di concrezione e dispersione del sapere sociale, di espansione, saturazione e sintesi). Il mercato è il rapporto formale attraverso il quale questi movimenti vengono riconosciuti dell’economia finanziaria, come movimenti di denaro, che sono "falsi movimenti" per l’economia reale.

Terza coppia di tensioni

Partecipazione orizzontale alla produzione contro verticalizzazione gerarchica dei processi decisionali

Socializzazione dei processi vuol significare orizzontalizzazione delle dinamiche di decisione, vuol dire stimolazione a partecipare. Nel postfordismo si aprono per la forza lavoro possibilità di autodeterminazione cooperativa delle procedure operative, nonché possibilità di partecipazione attiva alla ricerca delle soluzioni, in maniera più ampia di quanto fosse consentito nei processi meccanizzati del fordismo. Produrre per progetti, per esempio, vuol dire che alla forza lavoro precaria è consentito autodefinire le modalità di realizzazione degli obiettivi produttivi, essa è stimolata a collaborare e cooperare. L’operatore precarizzato dei servizi stabilisce una relazione organizzativa permanente con i propri colleghi, con i quali ridefinisce i processi produttivi in ogni momento, ma anche con gli utenti, con i quali interagisce acquisendo informazioni e possibilità di miglioramento dell’attività, operando complessivamente per una maggiore efficienza del servizio.

Questa orizzontalizzazione dei processi e questo invito a partecipare sono, in realtà, di nuovo frenati da dispositivi di contenimento e di comando, in particolare dalla verticalizzazione dei processi decisionali. L’orizzontalità, quando si tratta di decidere, non più dei processi immediati del lavoro, ma di quelli finanziari, delle commissioni e della direzione d’impresa, finisce. L’impresa qui non è più democratica, ma scopre il suo volto autocratico e dispotico. La verifica del progetto sugli standard di produzione non è cosa da lasciare ai "collaboratori", bisogna imporre una gerarchia nelle decisioni, una verticalità dei processi di governo.

La forza lavoro è dislocata su queste traiettorie quantomeno ambigue, soggetta a una doppia referenza operativa che da un lato le chiede di partecipare alla produzione "perché siamo parte di una stessa famiglia e si lavora tutti per il bene comune dell’impresa", dall’altra la spinge fuori dai consigli d’amministrazione perché lì solo pochi hanno il diritto di partecipazione. All’astrazione reale del lavoro che si dà nel divenire generale della cooperazione si contrappone un’astrazione trascendente del comando, a misura di tutto il potere di decisione e autogoverno sottratto al lavoro vivo. Un comando dietro il quale si cela la volontà di dominio dell’impresa, il dispotismo delle dinamiche di mercato, del capitale circolante sulla produzione reale e sul lavoro vivo. Ma a questo punto si dimostra anche il carattere solamente parassitario di queste gerarchie, che vincolano una cooperazione che viaggerebbe anche senza di esse, a dimostrare dell’inutilità del rapporto di capitale per la produzione, del suo carattere parassitario e depotenziante.

Quarta coppia di tensioni

Flessibilità del lavoro rispetto alle esigenze della vita contro flessibilità della vita rispetto alle esigenze del lavoro

Abbiamo visto gli antagonismi del lavoro precario prodursi su tutti momenti d’attività della forza lavoro. Abbiamo anche visto che questi antagonismi si danno sempre dentro la crisi tra lavoro e non lavoro, tra prestazione formale e contenuti sociali della produzione. Abbiamo visto la crisi trapassare oltre il lavoro e invadere lo spazio di vita nel punto stesso in cui il lavoro coinvolge i processi della vita associata dentro le dinamiche della produzione. Abbiamo visto la flessibilità. Una flessibilità che è intesa, nel rapporto di capitale, come flessibilità della vita rispetto alle esigenze del lavoro e del profitto, come dispositivo di sussunzione della produzione sociale.

Eppure è su questo punto, sulla flessibilità, che il precariato mostra avere una tensione concreta al ribaltamento del rapporto con il lavoro, perché se ora flessibilità vuol dire sottomissione alle discontinuità, essa potrebbe voler anche indicare un’apertura oltre il lavoro. Una flessibilità del lavoro rispetto alle esigenze della vita è un possibile ribaltamento del rapporto di sottomissione e di sfruttamento. La flessibilità può essere ribaltata e pensata a partire dalle esigenze della vita, questo i precari lo percepiscono. Difficilmente, soprattutto i giovani, sentono di poter realizzare la loro vita dentro le dinamiche lavorative, anzi ritengono il lavoro continuato una specie di oppressione e una violenza in qualche modo maggiore di quanto lo sia un lavoro discontinuo. La discontinuità che essi temono non è quella del rapporto di lavoro, ma quella del rapporto con il reddito, cioè con la fonte del loro sostentamento materiale. Difficilmente pensano di voler tornare al posto fisso, di tornare a quanto la forza lavoro aveva già rifiutato nel fordismo. Il problema è che, nei periodi d’inattività, non esiste per loro una copertura, in questi periodi viene negato loro il diritto d’esistenza, perché senza lavoro non solo non si percepisce reddito, ma si è anche esclusi dai diritti civili, per esempio senza un contratto di lavoro solido (cioè continuato) non si può prendere un prestito in banca, come è altrettanto difficile affittare un appartamento. Il contratto di lavoro è un lasciapassare per la vita, uno strumento di discriminazione sociale, un apartheid su base sociale. Non è vero che i giovani non vogliono il posto fisso perché, come si dice, "non hanno ancora fatto i conti con la vita" o perché "hanno ancora la famiglia alle spalle". È proprio perché vogliono vivere che non vogliono più essere soggiogati dal lavoro, ma vogliono che siano loro riconosciuti tutti i diritti di piena cittadinanza che sono riconosciuti a coloro che hanno un posto fisso (che per altro sono sempre meno). La variabilità delle esperienze di lavoro è ormai un fattore da loro accettato di crescita della propria soggettività, una possibilità di sperimentarsi, di arricchirsi, senza dover annoiare la propria unica vita nella routine delle mansioni e nella ripetizione degli orari. E sanno che il lavoro priva di occasioni la propria socialità, quindi indebolisce più che rafforzare. In questo i giovani precari del XXI secolo sono davvero i figli del rifiuto del lavoro degli anni Settanta.

Queste quattro tensioni contradditorie non riguardono tutta la forza-lavoro oggi presente nell’economia sviluppata. Riguardano soprattutto le fascie dei nuovi soggetti che entrano nel mercato del lavoro. È il secondo lato della medaglia della delocalizzazione produttiva lungo filiere internazionali selezionate. Se nei paesi in via di industrializzazione, il lavoro è dipendente, taylorista, senza diritti, da noi è lavoro precario, senza diritti, a fronte di un nucleo di lavoratori dipendenti che sempre più vengono precarizzati, perdendo man mano le loro garanzie sindacali conquistate in anni di lotta. La precarizzazione diventa fattore di omogeneità tra i lavoratori, seppur non immediatamente percepita, perché assume connotazioni contrattuali contrastanti fra loro, spesso vissute come situazioni lavorativi concorrenti.

In questo contesto, anche se le statistiche non la misurano, si assiste ad un incremento di produttività reale del lavoro. Nel Sud del mondo, dove la produzione materiale fordista è dominante, l’analisi quantitativa della produttività vede un forte incremento, in quanto legata all’aumento della produzione industriale. Nel Nord del mondo, dove il contributo (o forse sarebbe meglio dire lo sfruttamento) del lavoro assume aspetti di tipo qualitativo-cognitivo-immateriale, l’incremento di produttività non viene percepito da indici meramente quantitativi. Mancano in proposito indici qualitativi che misurino il crescente coinvolgimento cerebrale e quindi la crescente produttività immateriale che ne consegue. Forse, un indicatore più appropriato potrebbe essere l’allungamento dell’orario di lavoro, orario di lavoro che, dopo una secolare riduzione, ha cominciato ad aumentare in coincidenza con il dispiegarsi del paradigma dell’accumulazione flessibile.


[1] Il sapere codificato riguarda anche i settori ad alta tecnologia ed è estremamente flessibile. Al riguardo, risulta emblematica la vicenda dei numerosi tecnici richiesti dalle grandi imprese multinazionali dell’informatica e della logistica della comunicazione via rete (Intel, Cisco, Microsoft, ecc.) e poi facilmente rispediti a casa. Sul tema del lavoro cognitivo, cfr. F.Berardi (Bifo), La fabbrica dell’infelicità. New Economy e movimento del cognitariato, DeriveApprodi, Rapprodi, Collana Map, Roma, 2001