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Il punto, la pratica, il progetto

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

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Contro il Welfare dei miserabili

Luciano Vasapollo

9 ottobre 1999

Assemblea-dibattito in tema di flessibilità, nuovo mercato del lavoro e riforma del Welfare State

Relazione Introduttiva

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Lo Stato sociale impostato nel dopoguerra nei paesi occidentali era basato su un modello il cui funzionamento può essere schematizzato nel modo seguente: lo sviluppo dell’economia garantiva occupazione e posti di lavoro; lo sviluppo progrediva regolarmente, in modo che il mercato potesse essere in grado di risolvere il problema dell’occupazione, mentre lo Stato interveniva in modo residuale per coprire le temporanee interruzioni o condizioni marginali della forza lavoro e per assicurare le condizioni di pace sociale attraverso forme di “solidarietà” nei momenti in cui veniva meno il rapporto con il mercato, a causa di temporanea disoccupazione, malattia, vecchiaia, esigenze di formazione. Tale modello era incardinato su un’organizzazione sociale basata sul lavoro fordista a pieno tempo degli uomini, e sulla disponibilità delle donne a garantire le attività di riproduzione, rispetto alle quali l’intervento dello Stato era puramente residuale; su una determinante forza contrattuale espressa in termini di alta e vincente conflittualità da parte del movimento operaio. Tale modello era possibile anche per una visione lungimirante, in chiave antioperaia, dei governi conservatori e moderati, i quali ritenevano che non esistendo alcuna spontaneità del sistema verso il pieno impiego, allora l’onere di mantenere la stabilità della domanda e della piena occupazione dovesse essere a carico di uno Stato che doveva svolgere una funzione di supplenza rispetto agli imprenditori privati.

Tale modello è oggi definitivamente scomparso. Davanti all’attuale pochezza e al servilismo dei governi socialdemocratici, parlare di tale lungimiranza fa sembrare la politica economica dei vecchi conservatori come fosse l’economia e il potere dei Soviet.

Ormai i mutamenti dovuti al ciclo post-fordista dell’accumulazione flessibile che determinano anche la crisi fiscale dello Stato, fanno sì che i costi del Welfare non siano più compatibili in un sistema di alta competitività internazionale; in cui non c’è spazio di mediazione con i bisogni collettivi irrinunciabili. Per porre rimedio a questa situazione di profonda crisi nella quale lo Stato non può più aiutare la massa sempre più ampia di disoccupati e lavoratori precari, non è più compatibile con i modi dell’accumulazione capitalistica uno Stato che possa garantire una rete di protezione sociale minima per tutti e per le varie fasi della vita; non è più possibile garantire uno stabile rapporto di lavoro, affiancato da un’efficace offerta di servizi di base e da politiche di sostegno verso chi è più debole.

Scelte di politica economica che rientrano in un più generale progetto basato su una completa ricomposizione dei conflitti e delle tensioni sociali attraverso una ristrutturazione delle relazioni economiche ed industriali basate sulle logiche del capitalismo selvaggio. Tutto ciò si realizza attraverso modalità del consenso che si diffondono tramite politiche di un nuovo consociativismo che attraversa e coinvolge il sistema dei partiti, i sindacati confederali, le associazioni imprenditoriali, le istituzioni bancarie-finanziarie e il connesso sistema delle comunicazioni di massa. Se il consociativismo nasce e si sviluppa già a partire dagli anni ‘70 ,è negli anni ‘80 e negli anni ‘90 che la tendenza aclassista della cogestione e concertazione delle organizzazioni storiche dei lavoratori trova la sua massima espressione e punto di non ritorno. Il Welfare garantiva un rapporto tra economia, politica e società come progetto di governo politico della crisi con proposte di Welfare compatibile, e tendenti a definire quel patto sociale incentrato sul debito pubblico che sosteneva il vecchio modello di Stato. Al crescere del debito era inevitabile che emergesse il problema della solvibilità delle casse dello Stato e quindi dei limiti da porre a questa espansione. I governi dei paesi occidentali, che avevano digerito solo parzialmente la stessa rivoluzione keynesiana, hanno pertanto dovuto comnciare a confrontarsi con la questione del blocco della spesa pubblica. Ma non appena questo blocco è stato operato, a partire dagli anni ‘80, la disoccupazione ha cominciato a crescere ovunque vertiginosamente. L’improduttività dello Stato ha generato una vera e propria ridefinizione politica, economica e sociale di stampo restauratore, contro quella che, a causa del capovolgimento, è stata presentata come una vera dissipazione delle risorse.

Sebbene nell’immediato l’urgenza della riforma del Welfare sia di natura finanziaria, il progetto neoliberista contiene ben più che l’intento di risanamento del bilancio. Nonostante i ripetuti attacchi, il Welfare State sopravvive come residuo logoro ma ancora simbolico dell’epoca keynesiana; finché questa anomalia non verrà rimossa, la rivoluzione liberista post-fordista dell’accumulazione flessibile resterà incompiuta, perché la politica sociale deve in ogni caso stare al passo con i tempi dei nuovi processi di accumulazione del nuovo ciclo capitalista e non deve ostacolare lo sviluppo dell’egemonia sociale dell’impresa a cui serve un Welfare State ridimensionato e disponibile.

Si definisce il nuovo ruolo del Profit State, attraverso, ad esempio le soluzioni tecnocentriste che si vanno delineando nell’ Europa di Maastricht. Esse prospettano la ricomposizione di un blocco di forze economico-sociali, la cui affermazione non può non produrre la conseguenza di abbandonare gli esclusi e le aree geografiche più esposte all’emarginazione, tentando nel contempo di diffondere la cultura rampante e autoaffermativa del mercato per creare quel consenso al nuovo blocco neocentrista che si cerca di strutturare intorno al pensiero unico neo-liberista, tanto ben interpretato dai governi di centro-sinistra ad impostazione socialdemocratica.

 

 

3. Alcuni dati sulla spesa sociale in Europa: il ridimensionamento del Welfare

 

Il messaggio sociale che viene quotidianamente trasmesso in tutta Europa, anche se con modalità a volte diverse, è sempre basato sulla considerazione dogmatica della validità dei criteri di efficienza dell’impostazione capitalistica americana, realizzando così un vero e proprio darwinismo economico attraverso ogni forma di flessibilità sociale, del lavoro e salariale, finalizzata all’abbattimento di ogni comportamento che si riveli rigido, conflittuale, non omologabile alle compatibilità del profitto, alle leggi di un mercato sempre meno regolato e sempre più selvaggio, e ciò si accompagna a continui tagli alla spesa pubblica in tutta Europa .

Di seguito si presentano alcuni dati a titolo esemplificativo per evidenziare il continuo ridimensionamento del Welfare in Europa; va ricordato che i dati sulle protezioni sociali per i paesi dell’UE sono comparabili in quanto le metodologie adottate sono molto simili fra loro.

Va rilevato che anche se l’Europa spende una quota superiore al Giappone e agli Stati Uniti per la sicurezza sociale, vi sono al suo interno differenze sostanziali tra i vari paesi. Ad esempio, si registra una notevole flessione per le spese inerenti le prestazioni di protezione sociale e le spese sanitarie, ed in particolare dal 1995 in poi in tutti i paesi dell’UE. Per quanto riguarda gli assegni familiari i dati testimoniano che paesi come il Lussemburgo, la Finlandia, il Belgio contribuiscono maggiormente nelle indennità; invece tra i paesi che contribuiscono in misura inferiore troviamo la Spagna, la Grecia, il Portogallo. Ad esempio il valore degli assegni familiari segue una tendenza che cresce fino al 1993 per poi diminuire nel 1994; l’Italia con l’Olanda è tra i paesi che registra quote di spesa più bassa fra i paesi dell’UE. Per la spesa sanitaria si registrano i valori più bassi dell’area comunitaria europea in Grecia ed in Irlanda mentre le quote più alte sono da imputarsi alla Francia e la Germania; l’Italia che ha evidenziato valori crescenti dal 1986 al 1994 ha registrato nel 1995 e 1996 una consistente diminuzione.

Il paese che impiega meno risorse economiche per la protezione sociale (in % del PIL) è la Grecia che nell’arco degli anni 1985-1994 non ha mai superato il 16,1%; anche il Portogallo si attesta su valori bassi ma va rilevato che presenta una tendenza alla crescita (nel 1985 il valore era del 14,1%, nel 1994 è arrivato al 19,5%). L’Italia oscilla intorno a valori del 25%, mentre la Danimarca e l’Olanda sono i paesi che impiegato le maggiori risorse per la spesa sociale (rispettivamente nel 1994 il 33,7% ed il 32,3%). Si può osservare, però, come l’Italia sia seconda solo all’Olanda come più basso incremento della spesa pro capite per la protezione sociale fra il 1990 e il 1995.

I dati riguardanti gli ultimi anni confermano il fatto che l’Italia risulta essere tra i paesi che destinano quote minori di reddito alla protezione sociale seguita solo dall’Irlanda, la Grecia e il Portogallo. A conferma della mancanza di una corretta e coerente politica sociale che colloca l’Italia come fanalino di coda rispetto a paesi come Francia, Germania, Regno Unito per non parlare dei paesi del Nord Europa, basta considerare che nel nostro Paese le tre maggiori voci della sicurezza sociale, la previdenza (pensioni), l’assistenza (famiglia, lavoro, servizi sociali) e la sanità (ospedali, assistenza sanitaria) hanno rappresentato nel 1997 il 24% del PIL (valori a prezzi correnti); valore che risulta essere in termini assoluti il più basso almeno dal 1990 ad oggi e che evidenzia la tendenza alla forte compressione.

La nuova fase dell’economia di ristrutturazione capitalistica che stiamo vivendo in Italia, con i processi di globalizzazione e di sviluppo esasperato dei mercati finanziari che incidono fortemente sugli assetti produttivi e occupazionali ha visto anche una drastica riduzione delle forme di Welfare, come ad esempio la riforma del sistema assistenziale che ha accentuato le differenze tra classi sociali. Ricordando che per assistenza si intendono tutti gli istituti che tutelano il diritto dei cittadini all’abitazione, alla maternità e alla famiglia e che hanno la funzione di sostegno dei redditi e della disoccupazione è interessante notare che l’Italia risulta essere uno dei paesi (con il Portogallo, la Spagna e la Grecia) in cui la spesa assistenziale è tra le più ridotte tra i paesi europei.

La Tab.3 seguente conferma che l’Italia negli anni 1985- 1994 oltre ad aver ridotto ancora di più la spesa destinata alla assistenza (che già risultava estremamente bassa), non ha modificato sostanzialmente la sua composizione, e dopo tale data la situazione è ulteriormente peggiorata.

A ciò si aggiunge che, a differenza di altri paesi dell’Unione Europea, in Italia non è previsto alcun sistema di sostegno diretto alla disoccupazione e all’inserimento al lavoro (reddito sociale garantito) per chi non ha lavoro e vive in condizioni di estrema povertà, non potendo essere annoverato tra queste forme di sussidio il cosiddetto Minimo vitale attualmente in via di sperimentazione.

I risultati di un’inchiesta svolta tra i paesi dell’UE dalla OECD Employment Outlook nel 1996, rilevano che in Italia (includendo la Cassa Integrazione Guadagni e il prepensionamento) circa l’80% dei disoccupati non riceve alcuna forma di sussidio economico. E’ interessante osservare che la Spagna, paese con il maggiore tasso di disoccupazione all’interno dell’Unione Europea, presenta sussidi alla disoccupazione complessivamente tre volte superiori a quelli del nostro Paese. Si rileva in Italia, in sostanza, la totale mancanza di assistenza finale oltre il primo intervento per la perdita del lavoro (ed anche per questo primo intervento i tassi medi di copertura sono molto bassi e non omogenei tra i vari settori).

Nel 1996 gli interventi sul mercato del lavoro hanno rappresentato per il nostro Paese l’1,8% circa del PIL, a fronte del 3,8% della Germania, del 3,3% della Francia, del 3,6% della Spagna e del 2,2% del Regno Unito. Sempre in Italia nel 1997 si sono ridotte le spese per gli ammortizzatori sociali : rispettivamente del 4,6% per l’indennità ordinaria di disoccupazione e del 2,5% per la Cassa Integrazione Guadagni. Anche per quanto riguarda gli oneri sociali si è accentuata in questi ultimi anni la quota a carico dei lavoratori per il finanziamento della sicurezza sociale.

Nella Tab. 4 sono rappresentati rispetto al totale delle prestazioni gli andamenti dell’ammontare delle prestazioni sociali a favore dei disoccupati che evidenziano differenze sostanziali tra i vari paesi. Ad esempio in Italia, in Belgio e nel Regno Unito si è avuta nel periodo 1985-1994 una diminuzione elevata di tali spese sociali, in altri paesi come la Francia, il Portogallo e la Germania si registra una tendenza all’aumento. Se poi ci si sofferma ad analizzare la spesa a favore dei disoccupati e la spesa per gli incentivi all’occupazione (sempre in termini di percentuale del PIL) ci si accorge che l’Italia, in particolare in questi ultimi anni, risulta essere uno dei paesi che ha speso meno per le prestazioni sociali a favore dei disoccupati, anche se il tasso di disoccupazione è stato superiore alla media europea.