Lavori atipici e nuove forme del lavoro
Arturo Salerni
Carla Serra
Maria Rosaria Damizia
Dossier a cura di Arturo Salerni, Maria Rosaria Damizia, Carla Serra dell’Associazione Progetto Diritti
Nel precedente numero di Proteo abbiamo preso in esame - sia pur sommariamente - la proposta approvata dal Senato in tema di lavori “atipici”. La proposta è attualmente all’esame della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati che ha terminato in un primo esame e sta per avviare le consultazioni delle “parti sociali”. In questo numero della rivista intendiamo ripercorrere alcune delle nuove figure in cui oggi vengono inquadrati i rapporti di lavoro, siano essi formalmente rapporti di lavoro dipendente o rapporti di lavoro caratterizzati da una sostanziale subalternità del lavoratore al datore o al committente e sia pur definiti in termini diversi.
Riteniamo di svolgere un servizio utile al lettore pubblicando in appendice il testo della proposta cosiddetta Smuraglia, approvata dal Senato della Repubblica. |
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6. Le prestazioni coordinate e continuative
Pur essendo presente nella realtà del mondo del lavoro da diversi
anni, tale forma di lavoro parasubordinato, soffre ancora oggi di un’incertezza
circa la sua collocazione all’interno del lavoro subordinato, di quello autonomo
o di un tertium genus di attività non inquadrabile negli schemi tradizionali.
L’inserimento della collaborazione coordinata e continuativa,
nell’ambito del lavoro subordinato, si fonda sulla dimostrata presenza, nella
maggioranza di tali rapporti, di una debolezza contrattuale e di una soggezione
socioeconomica nelle quali in genere versa il prestatore di lavoro rispetto
al committente.
Il disegno di legge "Smuraglia" - che abbiamo già
analizzato ed in parte valutato (apprezzandone gli elementi positivi ma anche
evidenziando la potenzialità che lo stesso offre di collocare normalizzandoli
tutta una serie di lavori al di fuori dell’area del rapporto di subordinazione
e delle correlative garanzie) nel precedente numero di Proteo e che pubblichiamo
integralmente in appendice - definisce la collaborazione coordinata e continuativa
come un rapporto di lavoro, di carattere non occasionale, svolto in modo personale
ma senza vincolo di subordinazione, coordinato con l’attività del committente
ed avente ad oggetto prestazioni a fronte di un corrispettivo.
Tale disegno di legge, riguarda sia il caso in cui il prestatore
abbia un committente privato, sia l’ipotesi del committente pubblico, e mira
ad estendere alcune tutele previste per i lavoratori subordinati anche ai lavoratori
parasubordinati, laddove in essi si possa riscontrare la medesima situazione
di debolezza contrattuale e di soggezione socioeconomica. Solo ora con il disegno
di legge "Smuraglia" inoltre, pare venga estesa una serie di norme
che prima veniva applicata soltanto ai lavoratori subordinati.
Al riguardo basti pensare che il lavoratore coordinato era
totalmente sottratto alla tutela prevista dallo Statuto dei Lavoratori, pensiamo
alla libertà di pensiero, al conseguente divieto di indagini sulle opinioni,
alla libertà sindacale ecc.
Da alcune parti - ed in particolare da parte confindustriale
- il disegno di legge viene considerato ancora troppo legato a schemi superati
del mondo del lavoro, intendendo con ciò che lo spazio lasciato alla flessibilità
è ancora troppo ristretto. E’ chiaro che anche con riferimento a questo tipo
di rapporto di lavoro, quel che si insegue sono solo le esigenze delle imprese,
e i diritti legati ad una tutela minima del lavoratore sono considerati come
non più adeguati e quindi obsoleti rispetto all’attuale mondo del lavoro.
Si calcolano in circa 900.000 i contratti di collaborazione
coordinata e continuativa stipulati nell’anno 1997; si dovrebbe pensare che
tanti lavoratori abbiano manifestato un nuovo atteggiamento rispetto al proprio
destino professionale, privilegiando un lavoro meno sicuro. Evidentemente questi
soggetti sono stati costretti ad accettare la configurazione autonoma al momento
dell’assunzione, sperando però in una trasformazione futura del rapporto di
lavoro di collaborazione in rapporto di lavoro subordinato. Si tratta quindi
di una tendenza alla fuga dalle garanzie normative del diritto del lavoro, che
avviene a parità di costo o, sempre di più, con risparmio per il datore di lavoro.
Ancora adesso comunque, in molteplici casi, la magistratura
del lavoro - sia pure, a causa di macroscopiche carenze di organico specie nelle
grandi città, con tempi lunghissimi ed inadeguati alle esigenze dei lavoratori
- ha modo di intervenire su tali rapporti qualificati come autonomi e prestati
in forma coordinata e continuativa inquadrandoli nella loro giusta dimensione
di lavori caratterizzati invece dal vincolo della subordinazione. Ma gli interventi
della magistratura sono in proporzione una piccola parte rispetto alle politiche
aziendali che tendono a collocare il lavoratore (sostanzialmente dipendente)
al di fuori dello schema classico del lavoro subordinato, alle sue garanzie
e “rigidità”.
7. I lavori socialmente utili
Ormai da diversi anni si assiste all’adozione da parte di Governo
e Parlamento di una serie di decreti legge e di decreti legislativi che reiterano
le disposizioni in materia di prestazioni di disoccupazione e di lavori socialmente
utili. Si avverte la necessità di una disciplina sistematica dell’intera materia,
se non si vuole assistere ad una disorganica produzione di leggi e leggine che
sono solo una misura tampone con cui si cerca di fronteggiare specifiche situazioni
di crisi.
Il lavoratore utilizzato nei progetti di lavori socialmente
utili, non è considerato normativamente lavoratore subordinato.
Circa il compenso spettante al lavoratore impegnato in lavori
socialmente utili, esso è composto dal sussidio di disoccupazione e dall’eventuale
assegno integrativo a carico dell’Ente gestore del progetto, e viene assimilato,
ai fini fiscali, al reddito da lavoro dipendente.
Pare in questo modo, essersi risolto il problema sulla natura
di tali compensi, che alcuni volevano considerare assimilabili al reddito da
lavoro autonomo, o al limite parasubordinato, nel senso di applicare ad essi
le disposizioni riguardanti i redditi da lavoro dipendente.
Trattasi di compensi assolutamente inadeguati spesso in considerazione
del fatto che questo personale ormai “precariamente stabile”, al pari di tanti
altri precari utilizzati dalla pubblica amministrazione (si pensi ai trimestrali
della sanità o dei Policlinici Universitari o ai precari della scuola), svolge
in molteplici casi attività essenziali per l’espletamento dei compiti istituzionali
dell’Ente presso cui presta servizio.
La corresponsione dell’assegno integrativo è condizionata alle
giornate di effettiva presenza.
Con riferimento alla esigenza di trasformare in giuridicamente
stabili queste posizioni lavorative da circa un anno l’associazione Progetto
Diritti, il Centro Studi Trasformazioni Economiche e Sociali (CESTES-Proteo)
e la Federazione delle Rappresentanze Sindacali di Base, con il sostegno di
alcuni parlamentari, hanno promosso una proposta di legge (che questa rivista
ha già pubblicato) per la trasformazione dei lavori socialmente utili in stabili
rapporti di dipendenza presso le Pubbliche Amministrazioni, a partire dalla
rilevazione delle carenze di organico degli Enti Pubblici.
Si tratta - anche con riferimento ad una poderosa mobilitazione
che ha visto questi lavoratori attivi e determinati - di determinare condizioni
per una inversione di tendenza rispetto a quelle linee generali perseguite dal
padronato, con l’avallo dei partiti della maggioranza e dell’opposizione di
destra e con la chiara subalternità delle grandi centrali sindacali, attraverso
la predisposizione di sempre nuovi strumenti giuridici e contrattuali, che tendono
a mantenere e ad accrescere una massa di forza lavoro mai stabile e sempre alle
prese con il problema del rinnovo del periodo di lavoro, sia esso prestato in
favore di gruppi privati o di enti pubblici, per ciò stesso non sindacalizzata,
e che genera spirali al ribasso nel trattamento complessivo del lavoro dipendente.
8. Il rapporto di lavoro a tempo parziale
Soltanto con la legge n. 863/84 - ai tempi di Craxi e del taglio
dei punti di scala mobile - si è pervenuti ad una prima regolamentazione del
rapporto di lavoro a tempo parziale.
Tale rapporto di lavoro si caratterizza per le particolari
modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa, la quale infatti
viene eseguita ad orario inferiore rispetto a quello ordinario previsto dai
contratti collettivi di lavoro, ovvero per periodi di tempo predeterminati nel
corso della settimana, del mese o dell’anno.
Da ciò emerge che la distribuzione oraria della prestazione
può configurarsi in due diversi modi: il primo prevede una dislocazione dell’attività
lavorativa nell’arco dell’intera settimana, ma con un orario ridotto rispetto
a quello stabilito per il lavoro ordinario; si parla in tal caso di part-time
orizzontale. Nel secondo tipo, la prestazione viene eseguita con un orario di
lavoro ordinario, ma soltanto per periodi di tempo predeterminati nel corso
della settimana, del mese o dell’anno. Si parla in questa seconda ipotesi di
part-time verticale. A tali forme, lo abbiamo visto, si è andato ad aggiungere
nel tempo, il part-time ciclico (ovvero stagionale).
La norma non dà una definizione del lavoro a tempo parziale,
sul modello della nozione stabilita dalla O.I.L. (l’organizzazione internazionale
del lavoro), che si riferisce al lavoro svolto in maniera regolare e volontaria
per una durata sensibilmente inferiore a quella normale. In assenza di una definizione,
la menzione di un orario inferiore a quello ordinario, deve essere intesa nel
senso di una riduzione abbastanza considerevole per potervi fondare la diversità
del rapporto di lavoro rispetto a quello a tempo pieno, e per evitare quindi
che un rapporto di lavoro a tempo parziale mascheri invece un rapporto di lavoro
nel quale la riduzione dell’orario di lavoro sia di poco inferiore all’orario
massimo previsto per il lavoro a tempo pieno (ciò che invece a quindici anni
di distanza dalla prima regolamentazione legislativa del rapporto di lavoro
a tempo parziale sembra stia accadendo).
Nella legge inoltre vi è il divieto di prestazioni di lavoro
supplementare, in aggiunta al tempo parziale di lavoro; anche qui la legge intendeva
evitare che il lavoro a part-time perda la sua natura, assimilandosi con l’incremento
della prestazione lavorativa, al lavoro normale. Ciò perché la retribuzione
spettante è soggetta ad una proporzionale diminuzione rispetto a quella del
lavoratore a tempo pieno; e perché inoltre sono previste agevolazioni fiscali
e contributive a favore del datore di lavoro.
E’ stato infatti stabilito con legge n.389/89 che la retribuzione
minima oraria da assumere quale base per il calcolo dei contributi previdenziali
dovuti per i lavoratori a tempo parziale, si determina rapportando il minimale
giornaliero alle giornate di lavoro settimanale ad orario normale, e dividendo
l’importo così ottenuto per il numero delle ore di orario normale settimanale
previsto dal C.C.N.L. di categoria per i lavoratori a tempo pieno.
Particolari agevolazioni contributive sono state introdotte
al fine di promuovere il ricorso al lavoro a tempo parziale, dalla legge n.
451/94. Vi è ancora per i datori di lavoro, la possibilità di conteggiare i
lavoratori a tempo parziale, in proporzione all’orario svolto, nel computo dei
limiti numerici previsti dalle leggi per l’applicazione dei benefici di carattere
finanziario e creditizio.
Emerge immediatamente la distinzione tra questo tipo di rapporto
di lavoro e il rapporto di lavoro a termine, poiché il rapporto di lavoro a
part-time, si caratterizza comunque per la continuità della prestazione, pur
essendo questa temporalmente ridotta.
Nella legislazione di altri ordinamenti, esiste un altro tipo
di rapporto di lavoro che va tenuto distinto dal rapporto di lavoro in questione,
detto "lavoro ripartito", o "lavoro a coppia" o ancora "job
sharing", nel quale il medesimo posto di lavoro viene contemporaneamente
occupato da due persone, e ogni lavoratore esegue una parte della prestazione
di lavoro, ma è obbligato solidalmente per l’interezza della prestazione, con
facoltà per i lavoratori di distribuirsi tra loro, secondo le proprie esigenze
l’orario e la quantità di lavoro, considerato anch’esso efficace strumento di
flessibilizzazione dell’orario di lavoro.
Di recente il Ministero del Lavoro con una circolare, ha stabilito
che si può ricorrere a questa forma di lavoro, anche in mancanza di una legge
che la regoli, potendo la sua disciplina essere rimessa alla contrattazione
collettiva o addirittura all’autonomia negoziale delle parti.
Alcune regole sono previste per il contratto di lavoro a part-time;
innanzitutto il contratto deve essere stipulato per iscritto.
Poiché il legislatore, pur prevedendo la forma scritta al momento
della stipulazione del contratto, nulla ha detto circa la natura di tale requisito
formale, dottrina e giurisprudenza hanno cercato di risolvere tale problema,
soprattutto al fine di chiarire quali debbano essere gli effetti della eventuale
violazione del requisito.
La dottrina prevalente ha dato al requisito della forma scritta
mera rilevanza probatoria; il legislatore cioè l’avrebbe richiesto soltanto
al fine di garantire la certezza del contenuto del contratto, in tal caso, in
presenza di una controversia, le parti potrebbero dimostrare la pattuizione
relativa alla limitazione dell’orario di lavoro.
La giurisprudenza prevalente invece (vedi per tutte Cass.n.1121/96)
è orientata nel senso che il requisito della forma scritta, sarebbe prescritto
come elemento sostanziale ed inderogabile, poiché la vera motivazione della
previsione legislativa starebbe "nell’esigenza di tutela dei diritti fondamentali
dei lavoratori, in correlazione all’obiettivo di favorire l’espansione dell’occupazione
secondo le necessità contingenti e particolari dei lavoratori e delle imprese".
Da ciò discende che nel caso di inosservanza del requisito della forma scritta,
il contratto a tempo parziale dovrebbe ritenersi nullo, con la conseguenza che
sarebbe il lavoratore a pagarne il prezzo più alto, venendo ad essere compromesso
il suo posto di lavoro. Alcuni giudici di merito per correggere tale stortura
hanno affermato che nel rapporto di lavoro subordinato, sarebbe configurabile
una sorta di presunzione di lavoro a tempo pieno, in base alla quale, nel caso
di inosservanza della forma scritta, il rapporto di lavoro si intenderebbe costituito
a tempo pieno. Tali orientamenti sono stati disattesi dalla giurisprudenza di
legittimità, che con un orientamento che appare attualmente consolidato, afferma
che il contratto di lavoro a tempo parziale, dichiarato nullo per difetto di
forma, non può convertirsi in contratto a tempo pieno. Per cui l’unica tutela
riconosciuta al lavoratore sarebbe quella prevista dall’art.2126 del codice
civile, in base al quale la nullità del contratto non produce effetto per il
periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, con il conseguente diritto del
prestatore di lavoro alla retribuzione. Altro dubbio sussiste con riferimento
alla indicazione nel contratto, della distribuzione dell’orario con riferimento
al giorno, alla settimana, al mese o all’anno. La ratio sta nella necessità
di garantire al lavoratore una agevole programmazione del proprio tempo, anche
al fine di consentirgli di stipulare più contratti di lavoro a tempo parziale.
Il Ministero del Lavoro ha ritenuto che la variazione della
dislocazione temporale dell’orario di lavoro sia possibile mediante l’acquisizione
di volta in volta ed in forma scritta del consenso del lavoratore.
La Corte di Cassazione è tornata sul punto, e con le sentenze
nn. 1151, 2340, 2691 e 6378 del 1997, ha stabilito che la semplice reperibilità
deve essere remunerata; il datore di lavoro, deve pagare anche la chiamata,
la cui quantificazione è rimessa in caso di giudizio, alla valutazione del giudice.
La Cassazione tuttavia, non ritiene che l’eventuale "clausola elastica"
inserita renda nullo l’intero contratto: infatti attraverso il meccanismo previsto
dall’art.1339 del codice civile è possibile sostituire le clausole nulle, riconoscendo
al lavoratore un maggior compenso per la disponibilità concessa al di là della
pattuizione contrattuale.
Copia del contratto deve comunque essere inviata entro trenta
giorni al competente Ispettorato provinciale del lavoro.
La legge prevede inoltre che i lavoratori, disponibili a tale
forma di occupazione, debbano chiedere l’iscrizione in un’apposita lista di
collocamento, pur sempre compatibile con l’iscrizione nella lista ordinaria,
in modo che il lavoratore possa mantenere l’iscrizione in entrambe le liste.
La legge provvede altresì a regolare la duplice eventualità
della trasformazione del rapporto di lavoro dal tempo parziale al tempo pieno
e viceversa, anche se la vicenda che può essere pregiudizievole per il lavoratore,
è soltanto quella del passaggio al tempo parziale. In presenza di tale trasformazione,
l’accordo delle parti, risultante da atto scritto, deve essere convalidato dal
competente ufficio del lavoro, sentito il lavoratore. Per quanto riguarda invece
la trasformazione in contratto a tempo pieno, i lavoratori già impiegati a tempo
parziale, nel caso di nuove assunzioni a tempo pieno all’interno dell’unità
produttiva nella quale prestano il proprio lavoro, ma anche per le assunzioni
effettuate dallo stesso datore in altri reparti o unità produttive, hanno il
diritto di precedenza.
Questo peculiare rapporto di lavoro potrebbe offrire occasioni
di lavoro a quanti non siano in grado di lavorare a tempo pieno, pensiamo alle
donne o agli studenti e per tanto tempo è stato utilizzato e visto come strumento
a disposizione della donna lavoratrice; ultimamente la situazione sta cambiando,
sulla spinta delle ristrutturazioni, dei contratti "week-end", dei
part-time nella grande distribuzione.
In Italia comunque il lavoro a tempo parziale non è ancora
in linea con quello degli altri paesi dell’Unione Europea, se si pensa che a
fronte di un 25-30% riscontrabile in Olanda o in Germania, da noi ci attesta
su misure di molto minori.