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La transizione difficile

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Annamaria Crescimanni
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Professoressa di Teoria dell’inferenza Statistica, Fac. di Scienze Statistiche, Università “La Sapienza”, Roma; membro del Comitato Scientifico di CESTES-PROTEO

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Verso quale università?

Annamaria Crescimanni

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Le coorti di immatricolati mediamente si dimezzano l’anno successivo e il tempo medio di chi si laurea è di 7 anni e sono numerose le presenze di studenti per i quali, dopo 10 anni di iscrizione, ancora non si è in grado di valutare la probabilità di laurea.

Come abbiamo già detto, i risultati della Sapienza sono perfettamente coerenti con i dati di tutti gli atenei italiani e se in alcune facoltà di una sede si hanno risultati peggiori che in altri casi, si può dire che il 60% di abbandoni stia a significare qualcosa di diverso del 50%?

A solo titolo d’esempio, nelle tabelle 2 e 3, si riportano dati dell’università di Pisa e nella tabella 4 dell’università di Torino, in entrambi i casi tratti dal volume di Bottiroli, Camiz di cui alla nota 2.

Alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, degli immatricolati nell’anno accademico 1981-82, a laurearsi entro i primi 12 anni è il 12%, impiegando in media quasi 7 anni ma essendoci un 6% di studenti ancora iscritti alla fine del periodo di osservazione, periodo triplo della durata legale del corso. Non è migliore la situazione degli studenti dell’ateneo di Pisa, dove a restare iscritto, dopo 3 anni dall’immatricolazione è intorno al 50% degli studenti, con un numero medio di esami superati che non da certo garanzie per quanti risultano ancora iscritti.

Tanto per completare il quadro, nella tabella 5, si riportano i dati retrospettivi (di fonte ISTAT) che mostrano l’evoluzione dell’università italiana, dall’anno accademico 1936-37 al 1993-94. Nelle ultime tre colonne sono riportati tre rapporti indicatori del livello di efficacia nel tempo, ottenuti rapportando il numero dei laureati rispettivamente agli iscritti in totale, agli iscritti al primo anno contemporanei dei laureati e (anche come indicatore di costo) al numero di professori utilizzati per ottenere il risultato.

 

 

3. L’innovazione dei corsi di studio... sarà il risultato del disegno autonomistico degli atenei

 

La soluzione di tutti i problemi, la sostanza di tutte le riforme, ci viene detto, è nell’autonomia didattica, ”il disegno autonomistico degli atenei condizione e punto di approdo della riforma universitaria” è un processo che dovrà impegnare la comunità universitaria.

Nel febbraio del 1997 è stato istituito un “Gruppo di lavoro su Autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio a livello universitario e post-universitario” presieduto dal sociologo, prof. Martinotti. Alla fine di ottobre dello stesso anno il gruppo di lavoro ha reso pubblico un documento che è, a detta dello stesso, conclusivo di una prima fase dei lavori, svoltisi dal 14 febbraio al 3 ottobre del 1997 (per la lettura del testo si veda l’indicazione bibliografica della nota n.3).

Ho riportato il decreto istitutivo della commissione perché mi sembra interessare evidenziare come la commissione abbia ritenuto di invertire l’ordine delle esigenze da soddisfare. Come può una commissione, cui sia stato affidato il compito di verificare lo stato di attuazione di normative importanti, di valutare i fabbisogni formativi e di proporre “dei criteri generali” per l’attuazione dell’autonomia didattica delle università, cominciare non dal primo ma dall’ultimo dei suoi impegni. Come si può proseguire sul cammino intrapreso, magari modificando la strada, senza valutare la qualità dei risultati conseguiti?

Si tratta di un documento che ha avuto una certa risonanza all’interno del mondo accademico, anche se la sua lettura non è sempre agevole.

Vi domina una parola d’ordine, che è appunto autonomia. Sono convinta anch’io che l’autonomia organizzativa e finanziaria potrà favorire l’iniziativa della parte più vitale dell’accademia e che da ciò potrà poi derivare un miglioramento di tutto il sistema, ma solo a fronte di una politica attiva; è troppo semplicistico e generico dire che è “uno strumento per ottenere un deciso miglioramento qualitativo dell’insegnamento e delle condizioni di funzionamento dell’università italiana”, sembrerebbe che questa fiducia discenda dalla convinzione che l’uomo è naturalmente buono.

“Il processo di autonomia delle università, iniziato da alcuni anni, giungerà al suo completamento, almeno da un punto di vista giuridico, con l’emanazione dei decreti previsti dalla legge 127/97, ma non potrà dirsi realizzato senza un complesso e graduale processo di revisione dell’intero sistema universitario, di carattere sia strutturale che culturale, che pur ne tuteli i numerosi aspetti positivi”, tutto quello che ci viene proposto sarà fatto “nella prospettiva di una università aperta al territorio, in grado di offrire una didattica di qualità e di preparare i giovani alla competizione che li attende nel mondo del lavoro nazionale ed internazionale.”

Tutte le frasi virgolettate sono, come le precedenti, del Ministro e sono usate a presentazione o a difesa del documento all’interno di pubblicazioni [i] dirette al mondo accademico e quindi non per informare una popolazione poco coinvolta o poco a conoscenza della natura dei problemi, si poteva essere più precisi circa le azioni positive, così entrare nel merito è difficile, ho l’impressione che prevalga una generica volontà e una ancora più generica proposta di mutamenti.

Qui non si vuole certo contestare l’intenzione di rendere le strutture didattiche più autonome. L’autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile delle Università è sancita e ha trovato regolamentazione nelle leggi, la 168 del 1989 e la 341 del 1990. In queste leggi sono contenuti i principi fondamentali delle successive leggi 537 del 1993 o 127 del 1997, finalizzate, non tanto ad innovare ma, come recita la n.127, a snellire l’attività amministrativa e i procedimenti di decisione e di controllo.

In realtà lo spirito innovativo, efficientista, in alcuni casi ha portato a decisioni molto discutibili perché hanno rimesso in discussione proprio quella autonomia in altri casi enfatizzata.

Si sa, la democrazia non è sempre comoda, qualche volta decisioni accentrate potrebbero essere più efficienti, perché fatte nel superiore, comune interesse, ma questo non giustifica un drastico ridimensionamento delle istanze di rappresentanza. Questo però è proprio quello che si è fatto.

Innanzi tutto si è attuato un forte ridimensionamento di organi elettivi come il Consiglio universitario nazionale (CUN), organo di rappresentanza delle istituzioni autonome universitarie, che si è visto ridimensionato nel numero e, quel che è peggio, nelle competenze. E’ vero che nel CUN in qualche caso ha prevalso l’imposizione di interessi assolutamente di parte, ma la medicina ha ucciso il malato!

Inoltre, con l’intento dichiarato (e in sé corretto) di evitare finanziamenti a pioggia si è in realtà rinviato ad un piccolo gruppo di saggi, cinque in tutto, la delicata decisione sulle ricerche da finanziare da parte del Ministero della Ricerca Scientifica e Tecnologica.

Oltre a ciò è stato decurtato il finanziamento pubblico che, almeno rispetto alla Sapienza, sembrerebbero non coprire neppure le esigenze per le retribuzioni del personale dell’ateneo. Questi fatti forse vogliono invitare gli Atenei ad una maggiore attenzione alle leggi del libero mercato. Ma niente paura, anche se l’accademia sarà occupata a far soldi per pagarsi lo stipendio, la scarsa efficacia del sistema sarà risolta... col principio della contrattualità tra studenti e ateneo.

 

 

4. Studente - contraente

 

Sembrerebbe che la constatazione della parziale inefficacia del nostro lavoro induca la classe docente nel suo insieme a mettere più in discussione il senso del ruolo dello studente piuttosto che quello proprio.

Lo studente viene a volte assimilato ad un cliente e infatti in questionari di facoltà, per misurare il loro grado di soddisfazione vengono utilizzate le tecniche di valutazione della soddisfazione del consumatore; chiedendo loro ad esempio se ritengono che il professore abbia svolto compiutamente il programma, piuttosto che limitarsi a chiedergli qual è la percentuale della lezione risultata chiara o quante delle lezioni previste sono state effettivamente svolte o quanto sono stati utili gli strumenti didattici utilizzati.

Un punto chiave, indubbiamente nuovo, sviluppato dal gruppo di lavoro per l’autonomia è quello del “principio di contrattualità, cioè la trasformazione dell’attuale meccanismo di iscrizione in cui studentesse e studenti sono poco più che passivi soggetti d’imposta, in un accordo trasparente mediante il quale entrambi i contraenti si obbligano a una serie di prestazioni i cui contenuti in termini di obblighi e diritti sono trasparenti e verificabili da entrambe le parti”.

Mi sembra che la proposta evidenzi la presenza di una certa confusione circa la natura del rapporto docente (che insegna) - discente (che apprende). Alla voce studente, il vocabolario dell’enciclopedia Treccani, dice semplicemente: giovane che segue con regolarità un corso di studi. Il problema non è dunque di attribuire un nuovo ruolo (da soggetto di imposta a contraente) ma di capire perché il corso di studi è divenuto così impervio e poi intervenire con azioni concrete, tra cui anche semplicemente lo snellimento dei programmi e riconsiderando le forme di didattica.

Ma andiamo a vedere più da vicino cosa si intende fare col “principio di contrattualità”.

Se l’ipotesi di riforma sarà attuata, non solo il docente, anche lo studente deciderà se essere tale a tempo pieno o a tempo definito, il tempo sarà inserito nel suo titolo di studio e un titolo temporalmente più breve costerà di più di uno lungo.

Ma la commissione risolve anche un altro grave problema, quello che, da quando è stato eliminato l’obbligo di seguire un percorso formativo, gli abbandoni degli studi avvengano sempre più spesso dopo aver superato un certo numero di esami.

Si prevede infatti l’istituzione del c.u.b. (certificato universitario di base), che non sembra essere nulla di diverso dell’attuale certificato degli esami sostenuti, cui però verrebbe riconosciuta la dignità di titolo. Si tratta dell’attestazione che lo studente ha acquisito un certo numero di competenze, finalizzate singolarmente a professionalità, in campi diversissimi e dunque ha svolto attività globalmente non professionalizzante. Il cub è una specie di premio di consolazione per chi ha messo insieme un certo numero di esami e una certa quantità di attività, variamente affastellati e costituenti credito didattico.

Volevamo che tutti i giovani diplomati della scuola media potessero accedere all’università e così è stato, li abbiamo fatti venire quel tanto che bastasse per pagare meno le tasse dei giovani più aderenti al modello cui abbiamo continuato a riferirci nell’organizzazione della didattica. Ora, presi dallo scrupolo, rilasceremo ricevuta.

La cosa non è di secondaria importanza perché con questa bella idea assicuriamo la risalita della nostra efficacia di docenti. Non siamo salvi solo noi, è la nazione ad essere salva, il numero delle persone con titolo universitario corrisponderà a quello degli altri paesi della comunità.


[i] Università Ricerca, Notiziario bimestrale del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, n.6 anno 1997 e n.1 anno 1998