La crisi economica e il capitalismo italiano alla ricerca di una nuova identità
Federico Merola
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7. Capitalismo contro capitalismo
Dopo il crollo del muro di Berlino, nel 1989, mentre una
parte del mondo celebrava la “fine della storia”, i rapidi cambiamenti che
ne sono scaturiti hanno portato alla luce la nuova forza motrice del futuro: la
competizione tra diverse formule e visioni del capitalismo. Sparita la seconda
“via” di organizzazione sociale ed economica e, con essa, anche la ricerca
di una “terza”, forse mai nata, il capitalismo è rimasto nello scenario
mondiale l’unico modello di riferimento. Ma a quel punto ci si è accorti
contemporaneamente di due cose importanti, prima celate alla coscienza
collettiva dalla contrapposizione est-ovest. Innanzitutto che il capitalismo non
è un modello unico ma, anzi, al proprio interno consente molte interpretazioni
diverse che possono dare luogo a società profondamente differenziate. Ogni
paese, quindi, può scegliere la propria formula ideale purché non risulti
perdente nel confronto con gli altri. La seconda “scoperta” è stata che i
paesi industrializzati occidentali, alleati militarmente, sono tra loro in un
duplice e controverso rapporto di cooperazione - competizione, che li pone a
seconda dei casi in linea o meno rispetto a paesi terzi nonché, al proprio
interno, alleati e antagonisti di volta in volta, l’uno con l’altro.
Il dibattito su scelte di fondo così importanti è però
rimasto decisamente secondario nell’angusto scenario politico italiano degli
anni ’90, dominato dall’uscita (o la non uscita) da tangentopoli e la
necessità di recuperare gli squilibri ereditati dal passato. Lasciando la
sensazione che l’intera classe politica, da destra a sinistra, non abbia in
realtà maturato né una propria visione delle cose né, di conseguenza, una
convincente proposta di governo. Insomma, trainato dall’emergenza più che
dalla strategia e gestito da tecnocrati, il paese è andato avanti a tentoni.
8. Privatizzazioni e concorrenza sullo sfondo dell’emergenza
Tra il 1993 e il 2003 lo Stato Italiano ha realizzato un
piano di privatizzazione di circa 100 miliardi di Euro [1], concentrato soprattutto nel triennio 1997-1999 durante
il quale si è posto in essere oltre la metà del programma. Si tratta di un
valore pari a circa il 20% dell’attuale PIL nazionale che, peraltro, esclude
le privatizzazioni avvenute a livello locale. Uno sforzo che non ha eguali negli
altri paesi industrializzati, almeno in un periodo così ristretto di tempo. E
non sembra ancora finita. Nonostante l’intensa privatizzazione dell’economia,
infatti, nel 2003 il 70% degli utili dei 20 maggiori gruppi italiani è andato
nelle casse pubbliche. Inoltre, l’attuale patrimonio dello Stato è stimato in
circa 1.771 miliardi di Euro, di cui il 40% è stato dichiarato dall’attuale
Governo “disponibile” per prossime privatizzazioni, da realizzarsi entro il
2008. Si tratta di circa 700 miliardi di Euro, pari ad oltre il 136% del PIL. Un
programma sette volte superiore a quello già realizzato in dieci anni, che
dovrebbe avere inizio con la prima tranche da 100 miliardi di Euro nel biennio
2004-2005 (in un po’ più di un anno, cioè, si vuole fare quanto si è fatto
in precedenza nel corso di dieci anni). Difficile dire, in queste condizioni,
chi sarà al vertice del sistema industriale italiano alla fine del primo
decennio del XXI secolo. E come ci sarà arrivato. Di sicuro questo ulteriore
programma di privatizzazione sarà importantissimo nel delineare il futuro
profilo del nostro sistema economico. La lezione del decennio appena trascorso
è in questo senso per molti versi amara. L’Italia, infatti, è sembrata
avviarsi verso un capitalismo che potremmo sinteticamente definire “delle pari
opportunità e della concorrenza”, nel quale il soggetto pubblico mantiene le
funzioni di programmare e regolare ma perde ogni diretto coinvolgimento nella
gestione di aziende. E nel quale diventa illegittima ogni posizione
monopolistica, oligopolistica e dominante. Non sembra, tuttavia, che in concreto
questo modello - appena abbozzato e mai spiegato pienamente agli italiani - sia
stato effettivamente perseguito fino in fondo nel corso degli anni ’90, se non
nell’istituzione di autorità (antitrust, autorità di controllo per le
Telecomunicazioni, per l’energia, ecc.) che ogni giorno trovano maggiori
difficoltà ad esercitare le loro prerogative istituzionali. In realtà è
mancata un’effettiva visione politica di indirizzo del paese. Certamente, l’entrata
nell’Europa monetaria è stato un obiettivo necessario, voluto e perseguito
con determinazione e chiarezza dai governi di centro-sinistra. Ma la scelta di
un modello di capitalismo è stata rinviata, come anche quella del rilancio di
un’effettiva politica industriale. Le privatizzazioni sono state gestite in
gran parte con una logica di cassa, che solo di rado, e marginalmente, ha
effettivamente comportato la liberalizzazione di un settore economico. Più
spesso si è semplicemente sostituito un monopolista pubblico con uno privato e
una rendita monopolistica (o oligopolistica) pubblica con quella privata. Fino
al paradosso estremo, che qualcosa vorrà pur dire, di un paese governato da un
imprenditore monopolista, in un contesto in cui, oggettivamente, non si può
imputare al capo del Governo di essere una mosca bianca. Il che, però, ha
creato nuove tensioni nel corpo sociale italiano, derivanti dal tradimento di
quell’implicito patto sociale sottoscritto con i cittadini e i lavoratori all’inizio
degli anni ’90.
9. Il patto sociale tradito e il riformismo aprioristico
Dopo tangentopoli, è stato sottoscritto in Italia un patto
sociale implicito tra Governo e corpo sociale. Semplicisticamente, i lavoratori
hanno accettato aumenti salariali pari all’inflazione programmata dal governo,
anziché pari a quella effettiva, in cambio - attraverso la liberalizzazione
dell’attività economica - della prospettiva di un maggiore sviluppo e di una
diminuzione dei prezzi nonché, per questa via, di un aumento del loro salario
reale. Purtroppo, le privatizzazioni senza liberalizzazioni hanno comportato un
ampio e generalizzato aumento reale dei prezzi e delle tariffe, soprattutto nel
comparto dei servizi e dell’energia. I recuperi di efficienza sperati stentano
a manifestarsi e il tenore medio di vita sembra essersi, nel complesso, ridotto.
L’inflazione da Euro e da “caro-petrolio”, in questo contesto, è solo il
cappello congiunturale di un fenomeno endemico. Uno scenario di questo tipo ha
poi fatto da sfondo ad un certo riformismo aprioristico, che giudica positivi
alcuni provvedimenti anche a prescindere dal contesto più ampio di politica
economica e dei redditi nel quale vengono proposti e realizzati. Con il rischio
di provocare una reazione, a sua volta aprioristica, di netto e radicale rifiuto
di riforme che in qualche caso potrebbero anche essere utili o necessarie. Così
è stato, ad esempio, con la riforma delle pensioni (improponibile nell’ambito
dell’attuale politica dei redditi e senza che abbia ancora trovato sviluppo il
secondo pilastro dei fondi pensione) oppure con l’aumento della “flessibilità”
del lavoro (contrabbandata come urgente in un paese che già conosceva ben 30
diverse tipologie di contratto). Ma in un contesto del genere il riformismo
forse più pericoloso è certamente quello istituzionale, che riguarda cioè le
stesse regole costituzionali della nostra democrazia.
10. La proiezione istituzionale dell’economia: democrazia senza
libertà?
Tra le conquiste del pensiero filosofico ormai comunemente
accettate c’è l’idea che le strutture di governo di un paese riflettano in
modo particolare la struttura dei rapporti di produzione. Il che significa, per
dirla in parole semplici, che la democrazia è solo la proiezione istituzionale
e politica del capitalismo liberale (non liberista) fondato sulla libertà di
iniziativa, le pari opportunità e il divieto di costituire monopoli, oligopoli
o posizioni dominanti [2]
. Il capitalismo, insomma, non basta di per sé a preservare
la democrazia. Quello che serve è un “certo” tipo di capitalismo, aperto e
concorrenziale, capace di valorizzare la dialettica tra le forze sociali nonché
contrario alla logica del trust e della concentrazione di potere economico. In
questa particolare ottica, la concentrazione di potere economico non solo
distrugge valore “sociale” per la sua relativa inefficienza economica, ma è
negativa anche in quanto produce una concentrazione di potere politico che
rischia di far saltare la democrazia e la qualità della vita che essa comporta.
L’allarme sull’argomento è stato recentemente lanciato in molte circostanze
e da voci autorevoli, non necessariamente con riferimento all’Italia. Perché
gli anni più recenti sono stati in molti paesi, Stati Uniti inclusi, abbastanza
favorevoli alla rendita monopolistica privata. Un costituzionalista americano,
Fareed Zakaria, ha proposto le sue perplessità sull’attuale sistema americano
in un testo dal titolo (e dal contenuto) altamente significativo: “democrazia
senza liberta”. Nel nostro piccolo, anche noi italiani stiamo sperimentando un
calo vistoso della dialettica democratica, il cui culmine è rappresentato dalla
concentrazione della possibilità di espressione mediatica. Con la prospettiva,
peraltro, di assistere presto ad una formale ratifica della riduzione di
democrazia attraverso l’approvazione di una riforma costituzionale da parte
delle sole forze del Governo in carica. Come dire, che le regole del gioco
vengono scritte solo da una parte dei giocatori e non da tutti, come la logica
vorrebbe. Con il rischio che ogni maggioranza di governo si metta a cambiare le
regole del gioco, provocando una instabilità istituzionale inefficiente e
pericolosa. Il contesto generale, anche europeo, potrebbe indubbiamente venire
in nostro soccorso ancora una volta. Ma salvaguardare i nostri interessi, la
nostra qualità di vita, le nostre ambizioni dipende soprattutto da noi. E in
modo particolare dalla nostra capacità di comprendere che nessuna legge
elettorale o struttura costituzionale, per quanto abile possa essere il
costituzionalista che la propone, può risultare realmente efficace nel
preservare il gioco democratico, in assenza del necessario propellente fornito
da rapporti economici adeguatamente dialettici. Non c’è democrazia politica,
insomma, in assenza di un’effettiva democrazia economica.
Bibliografia
Albert Michel, “Capitalismo contro capitalismo”,
Edizioni Il Mulino (1993)
Gallino Luciano, “La scomparsa dell’Italia
industriale”, Giulio Einaudi Editore (2003)
Gallino Luciano, “Se tre milioni vi sembran pochi”,
Giulio Einaudi Editore (1998)
Martufi Rita - Vasapollo Luciano, “Vizi privati ...
senza pubbliche virtù”, Edizioni Media Print (2003)
Mucchetti Massimo, “Licenziare i padroni????”,
Editore Feltrinelli (2004)
Nardozzi Giangiacomo, “Miracolo e declino: l’Italia
tra concorrenza e protezione”, Editori Laterza (2004)
Turow Lester, “Testa a testa”, Arnoldo Mondatori
Editore (1993)
Zakaria Fareed, “Democrazia senza libertà”,
Rizzoli Editore (2003)
[1] Al dato 2003, indicato
dalla Banca d’Italia, si dovrebbero aggiungere altri 16 miliardi di Euro
relativi alle cessioni di quote di ENLE, ENI, Poste e Cassa Depositi e Presiti
realizzate nel 2004.
[2] E in quanto tale non può essere esportata con la forza e
innestata in sistemi economici e sociali di qualsiasi tipo.