L’evoluzione del debito e la rinegoziazione, nel contesto della situazione economica attuale e futura
Miriam Fernandez Baquero
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1. Introduzione
Alla fine del 2001, nel bel mezzo della più
grave crisi della sua storia, l’Argentina decretò la cessazione dei pagamenti
in quello che è stato considerato il maggior default finanziario degli
ultimi anni. Nel paese crollava l’attività economica, il prodotto per
abitante scendeva a livelli inferiori a quelli di un decennio prima e la moneta
perdeva un terzo del suo valore. Si presentavano, in tutta la loro gravità, i
ritardi sociali acuiti dalla crescita degli anni novanta: la povertà, la
disoccupazione e la tendenza al ribasso dei costi lavorativi. Aumentava, di
conseguenza, la conflittualità sociale e politica, fino ai gravi scontri
sociali nel dicembre del 2001, che hanno provocato la caduta del governo di
Fernando de la Rùa.
A seguito delle politiche neoliberiste applicate nel paese, l’indebitamento
estero continua ad aumentare. Inoltre, nel caso argentino, vale la pena
ricordare la tesi dell’informazione asimmetrica: quella ricevuta dai titolari
del debito e dai risparmiatori del paese sull’evoluzione dell’economia. In
realtà sono stati diretti fondi verso titoli con alti rendimenti, titoli di un
paese la cui capacità di pagamento era in continuo deterioramento. Per questo,
una parte di responsabilità ricade sulle banche e sulle strutture finanziarie
che non sono riuscite a prevedere quelle conseguenze che alcuni definiscono come
sorprendenti ma che, in realtà, erano prevedibili.
L’attuale Presidente, Nestor Kirchner, ha sottolineato
recentemente, in un discorso alle Nazioni Unite: “Ci facciamo carico, come
paese, di avere adottato politiche sbagliate che hanno portato a questo punto il
nostro indebitamento. Però reclamiamo che quegli organismi internazionali che -
con l’imporre queste politiche - hanno contribuito, incoraggiato e favorito la
crescita di questo debito, assumano la loro parte di responsabilità. Risulta
quasi un’ovvietà segnalare che quando un debito acquisisce tale grandezza, la
responsabilità non è solo del debitore, ma anche del creditore”.
Oggi si vede un certo recupero. L’Argentina, ricca di
risorse naturali e umane, con eccedenze per quanto riguarda gli alimenti e l’energia
e con una riconosciuta capacità materiale e umana, basa la “capacità di
reagire” sull’utilizzo delle sue risorse e il dinamismo esportatore,
principalmente nel settore agricolo, oltre che su alcuni settori industriali che
sostituiscono le importazioni, favorite dalla svalutazione. Allo stesso modo
aumentano i consumi interni e gli investimenti nazionali, tenendo conto che il
paese è messo al bando dal mercato dei crediti internazionali.
Sono significativi i termini proposti dall’Argentina nella
negoziazione con i creditori privati, in particolar modo lo sconto del valore
nominale del 75% (condono) e il non pagamento degli interessi accumulati a
partire dal dicembre 2001. Il governo enfatizza lo “sforzo fiscale”, che
significa destinare fondi del bilancio pubblico al pagamento del debito,
stabilendo che i suoi impegni resteranno “entro i margini che le circostanze
impongono, senza l’abbandono delle mete sociali”. All’esterno i termini
proposti vengono qualificati come duri, all’interno prevale il “consenso”
in quanto essi sono corrispondenti alle possibilità presenti, ma allo stesso
tempo si dibatte sul futuro dell’economia e sulla necessità di disegnare
azioni a più lungo termine per avanzare verso una crescita equa.
2. Evoluzione del debito estero fino alla crisi attuale
Il debito dell’Argentina è passato in 25 anni da 7.000 a
180.000 milioni di dollari. Si distinguono comunque diverse tappe, come faceva
notare la stampa nazionale.
“Il debito estero è stata la causa per cui, negli ultimi
tre decenni, l’Argentina non ha smesso di cadere. Isabel Peron è stata
rovesciata quando il debito estero era di 7.800 milioni di dollari, che
equivalevano a 320 per abitante. José Alfredo Martinez de Hoz cominciò un
processo di depredazione produttiva in cui l’indebitamento superava la
creazione di ricchezza. Aumentò le obbligazioni del 364% lasciando un’ipoteca
di 45.100 milioni di dollari. Ora - 20 anni dopo Raul Alfonsin - ogni
abitante deve quasi 5.000 dollari all’estero. Il debito è salito del 44% con
Alfonsin, di un altro 123 % con Carlos Menem, del 9%, in appena due anni, con
Fernando de la Rua, e dopo la svalutazione è cresciuto del 22%” [1].
Questa crescita, secondo l’economista emergente Aldo
Ferrer, riflette “una situazione cronica instaurata da quando, con il colpo di
stato del 1976, si è attuata una politica di indebitamento e subordinazione
alla speculazione finanziaria” [2].
Nel cosiddetto “decennio perso” degli anni ottanta, il
debito è passato da 27 milioni di dollari nel 1980 a più di 57.000 milioni nel
1989. In quegli anni si sperimentava una crisi iperinflazionistica che ha
deteriorato la competitività e l’attività economica, mentre imperava nel
paese la non conformità (inconfermidad) con la politica economica. Con l’ascesa
di Carlo Menem, si stabilì il Programma di Convertibilità, che aveva come
priorità il contenimento dell’inflazione e la ristrutturazione dell’economia
e dell’apparato statale.
Nel 1991, la Legge di Convertibilità ha stabilito un cambio
fisso con il dollaro nordamericano, conosciuto come cassa di conversione, che
diminuiva le facoltà di emissione, per eliminare il finanziamento monetario del
deficit. Allo stesso modo si stabilì la deregolamentazione dell’economia, l’apertura
commerciale e finanziaria e la privatizzazione delle proprietà pubbliche (activos
publicos) acquistati con titoli di debito estero. Nei primi anni si riuscì
a frenare l’aumento dei prezzi e a incentivare la domanda, gli investimenti e
i crediti, poi cominciarono ad avvertirsi gli alti costi economici e sociali che
ne derivavano.
In quello stesso periodo, si fece chiara la vulnerabilità
del paese di fronte ai fattori esterni, soprattutto le congiunture dei prezzi
esteri e le crisi finanziarie di altri paesi. Il primo episodio è legato alla
crisi finanziaria messicana del 1994, seguita da quella del Brasile, suo vicino
e principale socio; poi le crisi del sudest asiatico nel 1997-1998 e della
Russia nel 1998. Tutte queste crisi hanno influito sulla riduzione dei flussi di
capitale e sull’aumento di rischio dei titoli.
Negli anni novanta, nell’ambito del Piano Brady, l’Argentina
ha rinegoziato il debito estero - a medio e lungo termine. Con questo accordo si
è ridotto sia il totale del debito che gli interessi e una buona parte degli
arretrati sono stati finanziati con le emissioni di buoni. Durante gran parte
degli anni novanta, il paese veniva considerato come un modello di riforme, con
una crescita annuale media del 6% tra il 1991 e il 1998, raggiungendo gli 8.500
dollari pro capite (il ciclo si interruppe brevemente nel 1994-1995).
Senza dubbio, già prima della grande crisi, che si
manifestò a partire dal 1998, si discuteva dei punti vulnerabili del modello,
cosa che pare avere influito sulla enorme disponibilità finanziaria e
immobiliare che gli argentini andavano accumulando all’estero per proteggersi,
una somma che va dai 140.000 ai 170.000 milioni di dollari. Soltanto nel 2001
sono usciti dal paese 13.000 milioni.
L’indebitamento in un ciclo di forte crescita e indebitamento estero
1990-1998
Si parlava di “fondamenti macroeconomici solidi” in
Argentina e molti studiosi avvertivano l’aumento degli squilibri strutturali:
uno dei più trattati era quello fiscale, erosione delle entrate tributarie e
aumento delle spese pubbliche oltre ai pagamenti del debito pubblico, che
cresceva di anno in anno. Il debito - nazionale, provinciale e municipale -
veniva coperto con le agevolazioni di crediti (facilidades de créditos) e la
collocazione di titoli pubblici.
Allo stesso modo veniva sottolineato lo squilibrio
commerciale, i livelli di crescita e l’aumento della capacità produttiva
incrementavano le importazioni, senza che ci fosse una corrispondente crescita e
diversificazione delle esportazione (Tavola 1).
Lo squilibrio commerciale è stato spiegato con la
sopravvalutazione della moneta in un contesto di apertura unilaterale del
commercio. Nella misura in cui il dollaro nordamericano diventava più forte si
sopravvalutava la moneta, il che avveniva sia nelle produzioni agricole e
zootecniche che in quelle industriali. Nel caso delle vendite di materie prime e
di manufatti di origine agricola e zootecnica, si aggiungevano le difficoltà
nelle coltivazioni e le epidemie - come la febbre AFTOSA - e la tendenza
sfavorevole delle commodities internazionali. Nel settore industriale, le
produzioni di beni intermedi e di capitale, che si erano sviluppate con il
processo di sostituzione delle importazioni, si sono trovate di fronte ad una
forte competizione dei beni importati.
Allo stesso modo ha inciso il tipo di investimenti instaurati
durante la privatizzazione, che tendevano soprattutto al mercato interno invece
di promuovere le esportazioni, il che ha reso praticamente invariata la
struttura delle vendite estere, sia dei prodotti agricoli e zootecnici che di
combustibile, mentre le manifatture, tanto quelle tessili quanto i prodotti dell’industria
metalmeccanica, diminuivano la loro incidenza. Come eccezione, si mantennero le
vendite dell’industria manifatturiera al mercato latinoamericano e al
MERCOSUR.
Inoltre, come abbiamo detto, aumentava la propensione a
importare, un effetto delle privatizzazioni, favorito dall’apertura
commerciale e dalla riduzione del cambio. Di conseguenza, l’incidenza delle
importazioni sul consumo apparente si quadruplicò passando dal 4,5% nel 1990 al
18,6% nel 1996. In queste circostanze, l’Argentina passò da un surplus
commerciale del 6% del PIL, nel 1990 a un deficit del 7,7% nel 1996, compensato
con entrate di capitali, in forma di crediti, introiti derivanti da
privatizzazioni e collocazione del debito pubblico.
Vale la pena segnalare l’influenza del sistema bancario e
finanziario nel passaggio da deficit a indebitamento. Influì l’alto grado di
dollarizzazione dell’economia e la possibilità di accedere ai crediti e avere
depositi in dollari; alla fine degli anni novanta, circa il 70% dei depositi e l’80%
dei crediti erano in dollari. In periodi di crisi aumentavano solo i depositi in
dollari [3]. Inoltre, le banche operavano
in condizioni di facile accesso a linee di credito estero e con abbondanti
depositi, il che si rifletteva sul finanziamento bancario. Nonostante la domanda
fosse molto forte, i tassi di interesse e gli spreads bancari si
mantenevano alti.
Nel 1994, come conseguenza dell’ “effetto tequila”, il
sistema di convertibilità subì un duro colpo seguito dalla contrazione dei
capitali e dal ritiro dei depositi. Da quel momento, fu chiaro che il Regime di
Convertibilità, limitando l’espansione della base monetaria alla
contropartita di disponibilità finanziaria (activos) estera, riduceva i
compiti della Banca Centrale nella politica monetaria e le sue funzioni di
prestito. In quel momento il paese riuscì ad uscire dalla crisi, grazie all’appoggio
del FMI e delle banche straniere e grazie al fatto che i soggetti indebitati non
liquidarono in maniera massiccia le loro posizioni (posiciones). Allo
stesso tempo il governo modificava alcuni dei principi della cassa di
conversione.
Senza dubbio, la crisi influì sulla riduzione del numero
delle banche e degli enti non bancari, sulla concentrazione del sistema
finanziario e sull’incremento nella partecipazione delle banche straniere. Questa
situazione, in ultima istanza, facilitò tanto le entrate quanto le uscite di
capitali dal paese. In realtà, le banche straniere risposero
attivamente all’apertura e i risparmiatori locali accolsero con favore le loro
garanzie, ma, all’arrivo della crisi, le banche straniere limitarono la
propria esposizione nel paese.
L’aggravarsi della situazione a partire dal 1998-1999
Nella seconda metà del 1998 gli squilibri divennero più
evidenti e nel 1999 li resero espliciti tutti gli indicatori (Tavole 3 e 4). È
da notare che le entrate di capitali, in quell’anno, riflettono la vendita di
quasi tutto il pacchetto azionario dell’impresa pubblica YPF alla spagnola
Repsol, circa 15.000 milioni di dollari, una delle maggiori privatizzazioni del
governo di Menem. Il processo di privatizzazione si era esaurito, erano state
privatizzate l’elettricità, l’acqua, il gas, i telefoni, le compagnie aeree
e le aree petrolifere (vedi Appendice) mentre, nel frattempo, cresceva la
resistenza alle privatizzazioni.
L’indebitamento stava diventando insostenibile: il
debito estero nel 1999 aveva raggiunto la cifra di 144.000 milioni di dollari,
che rappresentava più della metà del PIL e gli interessi sul debito erano
arrivati a 11.000 milioni di dollari. Nel 2000, il debito aveva superato i
200.000 milioni di dollari, di cui il 60% corrispondeva al settore pubblico non
finanziario e alla Banca Centrale.
L’allora Ministro dell’Economia, José Luis Machinea -
nominato recentemente Segretario della CEPAL - tentò di affrontare la
situazione aumentando le imposte sui guadagni - per affrontare il deficit
fiscale - e con una operazione di megascambio (megacanje) di titoli,
denominata “blindaggio finanziario”, attraverso la quale il
paese doveva ricevere fondi straordinari, circa 140,300 milioni, dal FMI, dalla
Banca Mondiale, dal BID e da altre istituzioni ufficiali, pagando tassi d’interesse
molto alti, circa il 16%. Con il “blindaggio” il debito estero aumentava,
passando da creditori privati a creditori pubblici. Machinea rinunciò all’incarico
tre mesi dopo, rimpiazzato per breve tempo da Ricardo Lopez Murphy, finché al
ministero dell’Economia tornò nuovamente Domingo Cavallo.
In piena crisi, senza modificare lo schema di
convertibilità, Cavallo cercò la soluzione affrontando il deficit fiscale con
la promulgazione della Legge del Deficit Zero che aggravò ulteriormente le
condizioni sociali a causa del congelamento o della diminuzione dei salari
pubblici e delle pensioni. Per posporre il default negoziò con il FMI un
prestito stand-by per 8.000 milioni di dollari e organizzò un’operazione
chiamata Megacanje (megascambio), che prorogava i debiti del 2002 al
2005, in cambio di “prestiti garantiti” che ne aumentavano il valore
nominale e il rendimento. Il debito continuava a crescere e le banche che
parteciparono a questa operazione imposero commissioni scandalose.
Secondo molti studiosi, queste operazioni fornirono il tempo
necessario per l’uscita dal paese di grandi capitali. Il Fondo concesse un
prestito di emergenza, 21.000 milioni di dollari, che poi non concretizzò,
facendo così precipitare la crisi. In quel momento, il grado di esposizione del
sistema bancario nei confronti del settore pubblico era molto alto e il debito
che si collocava nel mercato interno continuava a crescere, fino a che il
settore finanziario interno decise volontariamente di sospendere il prestito
allo Stato. In quel periodo, Cavallo diede il via un’altra operazione, di
cosiddetto rifinanziamento forzato, con la quale offriva alle banche e ai fondi
pensione (AFJP) titoli di Stato nuovi e garantiti dalle entrate fiscali.
La contrazione del finanziamento coincideva con l’aumento
del “rischio paese”, fino a livelli tali che indicavano il timore di una
cessazione dei pagamenti; esso coincideva inoltre con l’aumento della
pressione sul mercato dei cambi, il che portò, a giugno di quell’anno, alla
modifica del regime di cambio e il peso argentino passò dalla parità fissa con
il dollaro a una parità fissa con un paniere di monete, ottenuta con una media
ponderata tra dollaro ed euro, chiaramente per beneficiare della debole
quotazione dell’euro; questa operazione fece svalutare la moneta dell’8%.
Né questa svalutazione, né le intenzioni di aggiustamento fiscale riuscirono a
frenare la fuga di capitali e alla fine del 2001 si erano “drenate” la metà
delle riserve del paese. Si motivò l’applicazione di controlli di cambio e di
restrizioni al ritiro di fondi dal sistema bancario, con il cosiddetto “corralito”
(box).
[1] «Citado
Diario», p. 12, 13 settembre 2003.
[2] Aldo Ferrer a proposito dell’Accordo dell’Argentina
con il FMI del gennaio 2003.
[3] Fanelli J.M. Il sistema finanziario argentino: le crisi e le sfide.
Pubblicato in Perché è successo? Le cause economiche della recente crisi
argentina. Secolo XXI Argentina. Cenit. 2003