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L’analisi-inchiesta: eurobang e diritti

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Vladimiro Giacché
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L’Europa che non c’è

Vladimiro Giacché

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2. I cinque “vizi capitali” della “Costituzione” europea

Con la “Costituzione” europea l’Europa è stata vittima di se stessa in un senso ben preciso: è stata vittima, cioè, di alcuni vizi e dogmi di fondo che da sempre caratterizzano il processo di costruzione europea, e che nel testo di Costituzione sono per l’appunto emersi con grande chiarezza. Proverò a passare brevemente in rassegna questi “vizi” e questi “dogmi”:

1) Il vizio oligarchico. Come è noto, l’intero processo di costruzione dell’Europa è stato diretto dall’élite economica e politica degli Stati europei. Ben di rado i cittadini europei sono stati chiamati ad esprimersi sulla situazione, o a contribuire in prima persona ad essa. Le elezioni europee sono tradizionalmente ritenute “elezioni di serie B”, e lo stesso strumento del referendum (del resto esso stesso assai manchevole dal punto di vista democratico) è stato adoperato solo in casi in cui le opinioni pubbliche di alcuni Paesi lo chiedevano a gran voce - e varrà la pena di notare che in questi casi i risultati non hanno secondato l’integrazione europea, anzi. Questo vizio oligarchico si è espresso in forme estreme nella tessitura della “Costituzione” europea: i cui contenuti sono stati decisi da un plenum di parlamentari e personalità decise dai Parlamenti nazionali, i quali per giunta originariamente non dovevano preparare alcuna “Costituzione”. Non solo non è stata eletta dai cittadini europei alcuna “Assemblea Costituente”, ma addirittura il prodotto degli sforzi di Giscard & C., ossia la bozza di Costituzione, è ignota nei suoi contenuti alla massima parte dell’opinione pubblica europea: i sondaggi effettuati al riguardo in diversi Paesi parlano chiaro (del resto la maggioranza dei cittadini europei, nel pieno dei lavori della cosiddetta “Convenzione” diretta da Giscard, non sapeva neppure che vi si stesse discutendo di una Costituzione europea!).

2) Connesso con il precedente è il dogma economicistico. L’idea, cioè, che il procedere dell’integrazione economica avrebbe naturalmente condotto anche all’integrazione politica. Mentre è (o dovrebbe essere) ovvio che quella rappresenta la condizione necessaria - ma non sufficiente - di questa. Di più: è ormai evidente che soltanto un adeguato assetto istituzionale può impedire che l’integrazione economica europea regredisca, o comunque che assuma aspetti socialmente distruttivi.

3) Il dogma liberista trova chiara espressione nel testo della Costituzione. In particolare nel rifiuto di qualsivoglia politica di regolazione del mercato. Chiunque ponga anche superficialmente a confronto il testo della proposta di Costituzione europea con la Costituzione italiana del 1948 si accorge del fatto che quest’ultima è molto più avanzata da questo punto di vista: sino a subordinare la stessa attività economica privata agli interessi generali (più precisamente: a “fini sociali”).  [1]

Se prendiamo la Costituzione europea ci accorgiamo invece che l’impostazione è per così dire rovesciata: le funzioni dei poteri pubblici sono infatti desunte dal principio di “sussidiarietà”. Lo Stato (e più in generale la pubblica amministrazione ai suoi vari livelli) deve cioè svolgere una funzione residuale, di semplice supplenza delle “forze del mercato”, svolgendo soltanto i compiti che gli attori economici privati non svolgono con efficienza, e non può in genere intervenire su di essi. Da questo punto di vista, è estremamente significativo il rifiuto, da parte dei membri della Convenzione, di inserire nella Costituzione il concetto di “servizi di interesse generale”. [2]

Alla base dell’adozione del principio di sussidiarietà c’è il dogma della superiorità della concorrenza pura (o, come si dice nel testo, della “concorrenza libera e non falsata”). È esso a permeare di sé non soltanto l’intero Titolo III della Costituzione (gli articoli del Trattato dedicati al “mercato interno”), ma più in generale le parti della Costituzione relative all’economia. In questo senso ha perfettamente ragione Rossana Rossanda a definire il testo partorito dalla Convenzione come “la costituzione sovietica alla rovescia”: [3] non si tratta di una Costituzione “formale”, bensì di una Costituzione che assume esplicitamente alcuni princìpi di fondo circa la “costituzione materiale” della società.

4) Connesso con il dogma liberista è quello monetarista. Esso presuppone che, in presenza del “libero agire delle forze di mercato”, l’unica politica economica possibile sia quella rappresentata dalle “politiche macroeconomiche” (ossia monetarie): in altri termini, mercato + politica monetaria sarebbero in sé sufficienti per garantire lo sviluppo economico. Questo dogma è all’origine dell’assoluta autonomia della Banca Centrale Europea da qualsivoglia organismo politico prevista dal Trattato di Maastricht e riconfermata dalla Costituzione. Tale autonomia pone un problema molto serio, ossia quello della legittimità democratica delle decisioni di portata generale che la Banca Centrale assume: di fatto, in assenza di un “diritto di ingerenza” su una materia così importante, alla decisione democratica è sottratto un àmbito essenziale delle leve di governo dell’economia (tanto da far ritenere ad alcuni osservatori che questa autonomia renda “radicalmente impensabile” un governo dell’economia). [4] Dal punto di vista concreto, tale autonomia ha già prodotto decisioni piuttosto controverse: infatti, siccome le concezioni dei banchieri centrali di preminente importanza all’interno della Bce (ossia quelli tedeschi e dell’area economica ex-marco) vedono nell’inflazione il nemico principale, la Bce ha seguito una politica dei tassi molto rigida che non ha giovato alla crescita in Europa. Nella Costituzione europea non c’è nulla che impedisca alla Banca Centrale Europea di continuare ad assumere decisioni del genere anche qualora le opinioni pubbliche e le autorità politiche dell’Unione fossero di diverso avviso.

5) Infine, il vizio intergovernativo. La proposta di Costituzione rafforza i poteri del Consiglio Europeo (ossia del consesso dei premier e presidenti dei diversi Stati che compongono l’Unione), sottraendone per contro alla Commissione Europea e senza aumentare in misura significativa, come sarebbe stato assolutamente indispensabile, quelli attribuiti al Parlamento Europeo. In tal modo si rinazionalizzano di fatto le politiche, anche grazie all’ampiezza delle materie su cui la Costituzione prevede che si debba decidere soltanto all’unanimità (ciò che consente anche a singoli Stati di esercitare il diritto di veto). Si tratta di un vizio che, in maniera piuttosto ironica, ha già dispiegato i suoi effetti negativi: ostacolando l’approvazione della Costituzione stessa.

3. Diritti di Carta

I “vizi” e i “dogmi” sopra richiamati hanno condizionato pesantemente i lavori della Convenzione, diretta da Giscard d’Estaing, che ha elaborato il progetto di Costituzione.

Il risultato, come ho già ricordato, è stato un testo che prevede che molte delle decisioni più importanti per l’Unione Europea siano assunte all’unanimità. L’elenco delle decisioni che restano all’unanimità in materia economica è impressionante. Abbiamo infatti: l’armonizzazione delle politiche fiscali (artt. III-62 e 63), ma anche il ravvicinamento delle legislazioni ai fini del funzionamento del mercato interno (art. III-64) e la fissazione del tasso di conversione all’euro delle valute dei nuovi membri dell’Unione (art. III-92). Tra le politiche sociali, in particolare i seguenti temi: sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori, protezione in caso di licenziamento, rappresentanza e difesa collettiva di lavoratori e datori di lavoro, condizioni di impiego dei lavoratori extracomunitari (art. III-104 e 106). Tra le politiche che riguardano l’ambiente: le misure fiscali, quelle riguardanti l’assetto territoriale e la gestione delle risorse idriche (art. III-130). Nell’ambito della politica commerciale, gli accordi nel settore dei servizi che abbiano implicazioni sugli spostamenti delle persone e la proprietà intellettuale (art. III-217); inoltre gli accordi di associazione con Paesi terzi, gli accordi con Paesi candidati all’ingresso nell’Unione Europea (art. III-221), e gli accordi internazionali sui tassi di cambio dell’euro rispetto ad altre valute (art. III-228). Per quanto i riguarda i fondi strutturali, le decisioni a maggioranza qualificata sono rimandate al 2007 (art. III-119).

È vero che in alcuni casi il progetto di Costituzione prevedeva poi le cosiddette “passerelle”, ossia la possibilità che il Consiglio europeo possa decidere all’unanimità di passare a votazioni a maggioranza qualificata (si vedano ad es. agli art. III-104 e 130). Questa possibilità (che rappresentava comunque una ben magra consolazione) è stata poi fortemente limitata da un’iniziativa, assunta durante il semestre italiano di Presidenza della UE, per soddisfare la Gran Bretagna, contraria anche a questa poco più che teorica possibilità di passare dal meccanismo dell’unanimità a quello della maggioranza qualificata. E qui si apre uno dei capitoli più dolenti: il testo della Costituzione, già molto insoddisfacente, è stato poi ulteriormente peggiorato dai negoziati tra i governi. In particolare, la Gran Bretagna ha giocato questa partita contrastando in modo molto aggressivo ogni possibile passo avanti sulla strada dell’integrazione europea. Sotto il profilo economico, ha sinora [5] ottenuto in particolare: l’ampliamento del voto all’unanimità alle materie fiscali nel loro complesso; ulteriori limitazioni alla possibilità di effettuare “cooperazioni rafforzate” tra alcuni Stati membri (ossia di procedere a livelli di integrazione maggiori); infine, ha ottenuto (da Berlusconi) che fosse inserita nel trattato una clausola interpretativa tale da limitare la portata dell’inclusione, nel testo della Costituzione europea, della “Carta dei diritti fondamentali”.

È utile spendere qualche parola su quest’ultimo aspetto. La “Carta dei Diritti fondamentali” è stata approvata dal Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000. Essa era però soltanto una sorta di dichiarazione politica e non era quindi vincolante. Con il suo inserimento nella Costituzione, la Carta dei Diritti acquisisce maggiore peso giuridico. Si tratta di un passo importante, soprattutto in quanto la Carta comprende anche i diritti sociali, individuali e collettivi, ivi inclusi il diritto di associazione sindacale, nonché il diritto alla contrattazione collettiva ed allo sciopero. La successiva introduzione surrettizia del diritto dei diversi Stati di interpretarne la portata sulla base della legislazione nazionale può renderla praticamente inefficace. Il problema, però, non è solo questo. Il fatto è che la concreta operabilità di molti di quei diritti era già vanificata di fatto da altre parti del Trattato.

In primo luogo, nella Costituzione non vi è alcuna coerenza tra gli obiettivi contenuti nella Carta dei Diritti (inclusa nella seconda parte del Trattato) e le politiche di cui si tratta nella terza parte della Costituzione, che come abbiamo visto è caratterizzata da un assoluto appiattimento su una prospettiva per cui “il mercato è il re”. Al riguardo è stato scritto che “è sufficiente leggere il capitolo III, sezioni 1 e 2, dedicate all’occupazione e alla politica sociale, per rendersi conto che le innovazioni in termini di principi e di obiettivi introdotte nella Prima parte non trovano per nulla riscontro nella Terza, là dove si definiscono i contenuti concreti e gli strumenti d’attuazione delle politiche sociali e del lavoro dell’Unione”. [6]

In secondo luogo, il fatto stesso di prevedere su materie chiave meccanismi decisionali imperniati sull’unanimità determinerà necessariamente un andamento delle politiche concrete in contraddizione con gli obiettivi sociali che sono solennemente enunciati nella seconda parte del Trattato. Questo punto richiede qualche parola di spiegazione, perché - pur essendo di cruciale importanza - è stato indebitamente trascurato da tutti o quasi i commentatori della Costituzione.

Prendiamo la politica fiscale e la politica sociale: come abbiamo visto, il testo della Costituzione prevede che su tali materie le decisioni circa politiche comuni siano assunte soltanto all’unanimità. L’ovvia conseguenza sarà l’assenza di politiche comuni in questi settori (cosa, del resto, in linea con l’ideologia liberista che impronta la Costituzione). In assenza di politiche coordinate si produrrà il livellamento verso il basso dello standard delle politiche poste in essere dai differenti Stati europei in materia di fiscalità e di protezione dei lavoratori: in altri termini, si avranno da un lato politiche fiscali più convenienti per le imprese (sul modello dei paradisi fiscali che sussistono anche nel territorio dell’Unione Europea), [7] dall’altro minore protezione sociale per i lavoratori, importando così importano il “dumping sociale” all’interno dell’Europa. Sotto il profilo dell’aggravamento delle ingiustizie sociali, le conseguenze di questi processi sono esplosive: anche perché entrambe convergono verso un abbattimento delle garanzie e della protezione sociale dei lavoratori. Il perché è presto detto.

Da un lato abbiamo: l’assenza di coordinamento delle fiscalità. Essa comporta una generalizzata fiscalità al ribasso per le imprese, in quanto in assenza di regole comuni (ossia soglie minime di tassazione delle imprese) i Paesi si faranno concorrenza utilizzando la riduzione delle tasse alle imprese per attrarre investimenti (o anche solo per impedire che le imprese con sede sociale nel Paese debbano patire uno svantaggio competitivo nei confronti di imprese situate in altri Paesi membri che praticano una tassazione d’impresa inferiore). Però i vincoli di Maastricht (il cosiddetto “patto di stabilità”) impongono il mantenimento di soglie molto basse di deficit pubblico: pertanto, venendo meno il gettito proveniente dalle imprese, sarà inevitabile aggravare il carico fiscale sulle persone fisiche (ed in particolare sui lavoratori a reddito fisso) e/o tagliare le spese sociali. Questo è il primo fronte, indiretto, di attacco al Welfare (oltreché della riduzione del salario reale).

Il secondo fronte è aperto dall’unanimità in materia di politiche sociali: in questo caso, il mancato coordinamento porta direttamente al “dumping sociale”, ossia alla riduzione del salario e della protezione sociale dei lavoratori. Ancora una volta, attacco al Welfare (o a quello che ne resta...).

A questo dobbiamo aggiungere le modalità con le quali è avvenuta l’annessione all’Unione Europea dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale: ossia ingresso immediato nell’Unione, ma non nell’area dell’euro (sino almeno al 2010); e libera circolazione dei capitali, delle merci e dei servizi, ma non delle persone. [8] In tal modo si creerà una sorta di “periferia fordista” dell’Unione Europea, deputata alla produzione industriale (ed in generale a produzioni mature e ad alta intensità di forza-lavoro): in questa periferia, nella quale saranno ancora possibili svalutazioni competitive, si potranno realizzare delocalizzazioni di produzioni (o anche solo minacciarle, al fine di abbassare gli standard sociali a casa propria...). [9] Anche per questa via si produrrà un attacco agli standard sociali dei lavoratori dell’“Europa dei 15”.

4. Cambiare rotta

Posta in questi termini, la situazione sembra chiara: a quanto pare, abbiamo a che fare con un “delitto perfetto” ai danni del lavoro. Sotto le false sembianze dell’Europa sociale, di una Costituzione che è addirittura così democratica da costituzionalizzare i diritti del lavoro, si celano tutti i presupposti di un formidabile attacco alle condizioni di vita e di lavoro. Mentre a parole si loda il modello sociale europeo, l’”economia sociale di mercato”, con i fatti si va in tutt’altra direzione: e i ministri dell’economia di Gran Bretagna, Francia e Germania (appartenenti a partiti diversi) giungono a cofirmare un articolo in cui viene riproposto come ricetta per lo sviluppo il solito mantra liberista. [10] Mentre si contrappone retoricamente il “capitalismo ben temperato” europeo al darwinismo sociale trionfante negli Usa, nella pratica si assumono questi ultimi come modello competitivo: precarizzazione dei rapporti di lavoro, detassazione dei redditi di impresa, riduzione delle prestazioni sociali.

Ma c’è un ma. In questo quadro, le contraddizioni non mancano. A cominciare dai rischi derivanti dall’assenza di un quadro istituzionale adeguato e di politiche economiche coordinate. Non ci riferiamo ai rischi per il lavoro (questi l’abbiamo già visti, e per il capitale rappresentano altrettante opportunità), bensì a rischi di ordine sistemico (che preoccupano in primo luogo il capitale).

Il punto è che non è pensabile, nel medio-lungo periodo, un’unione monetaria alla quale non corrisponda un’unione politica. E non è un caso che i più fermi oppositori di quest’ultima, ossia gli Inglesi, siano anche fuori dell’unione monetaria. Lo stesso deve dirsi delle politiche economiche. L’assenza di politiche economiche coordinate (anch’esse osteggiate in primis dal governo britannico) è sicuramente utile per combattere la battaglia contro il lavoro. Però presenta anche pesanti controindicazioni. Ad esempio, una fiscalità non omogenea (e più in generale la persistenza di quadri normativi nazionali non armonizzati) priva le multinazionali europee di uno dei principali vantaggi dell’Unione economica e monetaria, ossia l’abbattimento di alcuni “falsi costi di produzione” (necessità di costruire società ad hoc in ogni Paese per seguire le legislazioni nazionali ecc.) ed il pieno sfruttamento delle economie di scala; e inoltre è di ostacolo alla creazione di un mercato finanziario europeo pienamente integrato. Ma c’è di più. L’assenza di politiche economiche armonizzate può risultare pericolosa per la sopravvivenza stessa dell’unione monetaria. Infatti essa rende possibili shock asimmetrici, ossia crisi economiche che colpiscano alcuni Paesi dell’Unione e non altri. [11] Ora, i Paesi più colpiti, qualora la crisi fosse di eccezionale gravità ed in assenza di altri strumenti per farvi fronte, potrebbero essere tentati di tornare alla scorciatoia rappresentata dalle svalutazioni competitive. Il risultato sarebbe la fine dell’unione monetaria e la regressione dell’Unione Europea ad un area di libero scambio - e il ritorno all’egemonia incontrastata del dollaro quale valuta internazionale di riserva. Sembra fantascienza: ma se pensiamo anche solo alle dinamiche dei prezzi, è evidente che già oggi assistiamo ad una marcata e crescente divergenza tra diversi Paesi di Eurolandia.

Tutto questo cosa significa? Significa che le contraddizioni (per fortuna) non sono soltanto “in seno al popolo”, ma anche in seno al capitale. La riprova: la richiesta avanzata da Francia e Germania di adottare una tassazione minima unica a livello di Unione Europea. A cui si oppongono Gran Bretagna, Irlanda, e qualche altro Paese minore. In ogni caso, è chiaro che entro il capitale europeo si combattono due tendenze: quella che ha tutto da guadagnare da una sempre più stretta integrazione europea (le grandi multinazionali europee, in particolare quelle franco-tedesche), ed un’altra che vede la sopravvivenza nel mantenimento di nicchie e rendite di posizione (è il caso di molte piccole e medie imprese italiane), o in atteggiamenti opportunistici e “corsari” tipici di chi deve ancora scegliere tra area dollaro ed area euro (vedi Gran Bretagna). Se questo è vero, esiste una frazione significativa del capitale europeo che vede maggiori vantaggi in un coordinamento delle politiche piuttosto che nel mix, tendenzialmente incontrollabile e centrifugo, di politica monetaria unificata e politiche economiche rinazionalizzate.

E poi ci sono i lavoratori. Per quanto riguarda le organizzazioni dei lavoratori, è risaputo che la sfida europea è assai improba: si tratta di costruire un fronte comune tra organizzazioni diverse per cultura, tradizioni, indirizzi; e di rompere con pratiche diplomatico-lobbistiche che - se potevano avere un senso nelle prime fasi dell’integrazione europea - oggi hanno perso ogni efficacia e ragion d’essere.

Il punto da cui partire è questo: l’orizzonte europeo non è una dimensione che si può scegliere o meno; è un contesto necessario e quindi anche un nuovo campo di possibilità. Questo contesto crea innanzitutto le premesse materiali per un’unificazione della classe operaia su una base diversa e più ampia che in passato (con un salto di qualità simile, per intendersi, a quello prodottosi nell’Italia e nella Germania del secondo Ottocento con la creazione degli Stati nazionali). Quando si dice che “l’esistenza di una unità monetaria permette l’omogeneizzazione del processo di valorizzazione del lavoro sociale”, si dice anche questo.

In definitiva, “la moneta unica apre nuovi spazi di intervento politico ed esige un adeguamento delle proposte programmatiche alla nuova articolazione degli ambiti istituzionali e di potere”. [12] In un contesto che, a differenza di quanto spesso si ritiene, è fatto anche di elementi positivi. Ad esempio, nella zona euro è oggi molto più difficile (se non impossibile) porre in essere quel ricatto valutario (fuga di capitali e svalutazione) che in Italia - sin dai primi anni Sessanta - molto spesso è stato giocato contro le rivendicazioni salariali. [13] Quanto al contenuto di queste rivendicazioni, è destinata ad emergere molto presto l’insostenibilità dei cospicui differenziali retributivi oggi esistenti, a parità di mansioni, tra i diversi Paesi dell’Unione Europea (anche se la rivendicazione di “salari europei in tutta Europa” sarà resa più ardua, oltreché dall’ingresso dei nuovi Paesi membri, anche dalle barriere linguistiche alla mobilità lavorativa). [14]

Al tempo stesso, la moneta unica chiude - almeno tendenzialmente - lo spazio nazionale come orizzonte strategico dell’azione sindacale e politica. Questo significa che non esiste oggi alcuno spazio per un ritorno alla “sovranità perduta”, ossia non c’è alcuna possibilità di successo per chi si rinchiuda in un orizzonte politico e rivendicativo nazionale. È quindi corretto affermare - come fanno Arriola e Vasapollo - che oggi “la mobilitazione sociale richiede un lavoro politico nell’ambito locale, ma l’agenda economica deve essere pensata nella dimensione globale dell’Unione”.

A questo riguardo è decisivo che le organizzazioni dei lavoratori sappiano assumere forme organizzative adeguate al nuovo contesto, ossia molto più “flessibili” e “articolate internazionalmente” delle attuali. Esse dovranno porsi l’obiettivo di attuare una ricomposizione su scala continentale - in termini di coscienza di classe e di organizzazione delle lotte - della classe operaia: ossia dei “soggetti del lavoro, del non lavoro, del lavoro negato”. [15]

Soltanto così sarà possibile modificare in senso positivo, dopo decenni di arretramenti, i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Soltanto così sarà possibile dare finalmente vita a quell’”Europa del lavoro e dei popoli” che oggi ancora non c’è.


[1] Gli articoli della Carta Costituzionale che rilevano a tale proposito sono l’art. 3 (comma 2), l’art. 41 e l’art. 46.

[2] P. Alliès, “Constitution post-libérale”, in le Monde, 3 luglio 2003.

[3] R. Rossanda, “L’Europa sulla Carta”, il manifesto, 4 giugno 2003.

[4] P. Alliès, “Constitution post-libérale”, cit.

[5] Maggio 2004.

[6] E. Gabaglio, “L’Europa sociale nella Convenzione europea”, in Quaderni di rassegna sindacale, 2004, pp. 68-69.

[7] A questo riguardo è significativo che, nell’attaccare la proposta franco-tedesca di stabilire un livello di tassazione minima per le imprese su scala europea, il Financial Times abbia scritto testualmente che “corporation tax is a dying tax” (“Ripe for rejection”, 14 maggio 2004).

[8] Il motivo generalmente addotto per questa limitazione (che in concreto rappresenta il rifiuto di applicare rispetto ai nuovi Paesi una delle “libertà” previste dal Trattato di Roma) è la possibilità di forti flussi migratori da questi Paesi verso i Paesi della “vecchia Europa”. Ma questi rischi sono stati smentiti da rilevazioni della stessa Unione Europea. L’insussistenza di tale ipotesi è stata dimostrata sulla base di considerazioni anche di carattere demografico: v. M. Livi Bacci, “L’invasione fantasma dell’Europa a 25”, la Repubblica, 23 aprile 2004.

[9] Per le caratteristiche dell’allargamento dell’Unione Europea si veda l’ottimo volume di J. Arriola, L. Vasapollo, La dolce maschera dell’Europa. Per una critica delle politiche economiche neoliberiste, Milano, Jaca Book, 2004, ed in particolare le pp. 47-108.

[10] Ossia: liberalizzazioni, “maggiore flessibilità del lavoro”, eliminazione della “regolamentazione non necessaria”: vedi G. Brown, N. Sarkozy, H. Eichel, “Europe must reform if it wants to speed up growth”, Financial Times, 21 maggio 2004.

[11] “La storia ci suggerisce che problemi fiscali asimmetrici possono minare le unioni monetarie” (cit. in C. Baum, “Pensioni, l’Europa peggio degli Usa”, Bloomberg Investimenti, 29 novembre 2003).

[12] Ivi, p. 116.

[13] A questo riguardo si veda lo stimolante articolo di E. Brancaccio, R. Realfonzo, “I redditi senza politica”, il manifesto, 22 febbraio 2004. Del resto, non è fuori luogo ricordare che anche in Francia la fine della politica delle nazionalizzazioni, portata avanti dal primo governo Mitterrand, fu decretata da fughe di capitali e da un attacco speculativo al franco.

[14] J. Arriola, L. Vasapollo, La dolce maschera dell’Europa, cit., p. 117 e 121-125.

[15] J. Arriola, L. Vasapollo, La dolce maschera dell’Europa, cit., passim.