Rubrica
Eurobang - Il capitalismo italiano

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Federico Merola
Articoli pubblicati
per Proteo (6)

Esperto di finanza strutturata internazionale e docente di Statistica Economica alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università delle Tuscia di Viterbo

Argomenti correlati

Capitalismo italiano

Finanziarizzazione dell’economia

Nella stessa rubrica

Riforma dei mercati finanziari e crisi industriale permanente
Federico Merola

 

Tutti gli articoli della rubrica "Eurobang"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Riforma dei mercati finanziari e crisi industriale permanente

Federico Merola

Formato per la stampa
Stampa

Abbiamo detto la volta scorsa, e ci sembra giusto ribadire, che un tema come quello della vigilanza dovrebbe avere una valenza di ampio respiro parlamentare, alla stregua delle norme di carattere costituzionale. L’augurio è che eventuali revisioni dell’attuale assetto dei controlli siano realizzate con larghe intese. Non si può pensare di cambiare sistema o modalità di vigilanza ogni volta che cambia un Governo.

 

4. La tutela del risparmiatore

Oltre ad una vigilanza potenziata e razionalizzata, il disegno di legge in Parlamento propone anche nuove forme di tutela diretta del risparmio, attraverso limitazioni all’operatività delle banche e nuovi e più efficaci strumenti di ricorso a disposizione dei cittadini. In particolare, sono quattro le possibili aree di intervento in materia:

• Specifiche limitazioni all’emissione di obbligazioni in presenza di conflitti di interesse (è previsto un periodo di detenzione obbligatoria dei titoli a carico delle banche di almeno un anno, la garanzia di solvibilità in certe condizioni e un potere di decisione in materia di quotazione dei titoli attribuita all’Amef);

• Più efficaci strumenti di difesa dei risparmiatori rispetto ad eventuali comportamenti scorretti da parte di emittenti e intermediari finanziari (in particolare con l’introduzione dell’azione giudiziaria collettiva o Class Action);

• L’introduzione di un fondo speciale di indennizzo e garanzia a beneficio dei risparmiatori eventualmente incappati in gravi ed ampi dissesti finanziari;

• L’approvazione rapida della direttiva UE in materia di abusi di mercato (“market abuse”).

Salvo sull’ultimo di questi quattro punti, per altro ampiamente dovuto, le principali associazioni di categoria si sono rivelate apertamente contrarie a tutti gli altri provvedimenti, giudicandoli poco efficaci per i risparmiatori e troppo penalizzanti per banche e imprese.

Per quanto ci riguarda, invece, si tratta di provvedimenti da tempo invocati che in molti casi, come ad esempio nell’ipotesi di Class Action (che in breve consiste nella possibilità da parte di un risparmiatore di far valere le proprie ragioni in sede di giudizio unitamente agli altri o anche separatamente, ma beneficiando di sentenze relativa a casi simili), si limiterebbero semplicemente a colmare un’inspiegabile lacuna con mercati più evoluti del nostro.

In particolare, affrontare in modo responsabile i rischi posti da operazioni effettuate in conflitto di interesse ci sembra una priorità indispensabile per la crescita di un paese che sta già pagando cara, e ai massimi livelli di governo, la propria tradizionale indifferenza al problema. Ricordiamo in proposito come il giudice americano Elliot Spitzer abbia portato le principali banche del suo paese a rimborsare 1,4 miliardi di dollari ai piccoli risparmiatori truffati grazie ad una legge del 1921, il Martin Act, che inverte l’onere della prova spostandolo dai cittadini o dal procuratore alle banche. In pratica il procuratore non deve dimostrare la volontà degli imputati di frodare il pubblico: è sufficiente produrre in aula i documenti con i quali si prova che si è verificato uno scambio di “favori” tra soggetti che dovrebbero agire come controparti. In pratica, basta dimostrare la presenza di conflitti di interesse.

 

5. Il falso in bilancio

Imbarazzante a dirsi, ma l’ipotesi di reintrodurre il reato penale di falso in bilancio è forse la proposta che raccoglie il più ampio consenso da parte delle associazioni di categoria, Abi e Confindustria in primo luogo. Così uno dei primi e più urgenti provvedimenti adottati dal Governo in carica, in evidente conflitto di interessi con la posizione processuale dell’attuale Presidente del Consiglio, viene di fatto considerato a gran voce un passo indietro per il corretto ed efficace funzionamento di un mercato finanziario moderno. Sarà anche vero che il falso in bilancio perpetrato da Parmalat si è verificato prima di questa modifica normativa, ma certamente non è la depenalizzazione del reato la strada più adatta a scoraggiare pratiche truffaldine di questo tipo. Peraltro, in controtendenza rispetto a quanto è stato fatto in altri paesi, a cominciare dagli Stati Uniti d’America che hanno elevato le pene fino ad oltre 20 anni di carcere, riconoscendo la potenziale gravità del reato per i suoi diffusi effetti negativi a livello di sistema.

 

6. La corporate governance e il problema degli incroci azionari tra banche e imprese

Il dibattito forse più deludente però è stato quello che ha riguardato le regole di governo societario (corporate governance). Su questo fronte i temi di particolare rilevanza sono principalmente tre:

• Le forme di tutela delle minoranze nell’ambito di società ad ampia diffusione azionaria;

• La disciplina delle società estere, soprattutto se operanti in paradisi fiscali;

• Le soluzioni volte a contenere i conflitti di interessi nell’intreccio tra finanza e industria.

Sul primo aspetto, l’unica rilevante forma di tutela delle minoranze che sembra emergere dal dibattito parlamentare è quella della nomina di un numero adeguato di consiglieri indipendenti nei CdA delle società quotate. A parte il fatto che si tratta di una soluzione in qualche modo già prevista e attuata da molte di queste società, che ratifica più un’inutile situazione di fatto piuttosto che introdurre effettivi cambiamenti, l’esperienza storica dimostra che l’indipendenza è un requisito difficile da conseguire allorché la nomina degli amministratori avviene da parte dei soci di maggioranza della società.

Con riferimento al delicato aspetto delle società estere, possiamo dire che la giusta diffidenza per le società offshore va sicuramente affrontata in un contesto di coordinamento internazionale. Farlo nell’ambito di un provvedimento nazionale potrebbe essere inefficace e facilmente aggirabile.

Più grave e delicato è, per molti versi, il terzo ed ultimo aspetto. Quello cioè che affrontando gli intrecci societari tra banche e imprese, arrivando ad uno snodo fondamentale della struttura “consociativa” del capitalismo italiano.

Com’è noto, nell’ambito del processo di privatizzazione e trasformazione del sistema bancario italiano - che ha avuto luogo nel corso degli anni ‘90 - è stato consentito alle imprese non finanziarie di entrare nel capitale delle banche. In base all’articolo 19, Capo III, del Testo Unico delle leggi in materia Bancaria e Creditizia (di seguito “TUB”):

• La Banca d’Italia autorizza preventivamente l’acquisizione di azioni o quote di banche da chiunque effettuata quando comporta una partecipazione superiore al 5% del capitale della banca e, indipendentemente da tale limite, quando comporta il controllo della banca stessa. L’autorizzazione è rilasciata quando ricorrono le condizioni atte a garantire una gestione sana e prudente della banca;

• I soggetti che svolgono in misura rilevante attività d’impresa in settori non bancari né finanziari non possono essere autorizzati ad acquisire azioni o quote che comportano una partecipazione superiore al 15 per cento del capitale di una banca rappresentato da azioni o quote con diritto di voto o, comunque, il controllo della banca stessa;

La Banca d’Italia nega o revoca l’autorizzazione in presenza di accordi, in qualsiasi forma conclusi, da cui derivi durevolmente, in capo ai soggetti indicati nel comma precedente, una rilevante concentrazione di potere per la nomina o la revoca della maggioranza degli amministratori della banca, tale da pregiudicare la gestione sana e prudente della banca stessa.

La possibilità di partecipazione delle imprese non finanziarie al capitale delle banche è stata quindi variamente limitata. Se, per molti versi può essere prematuro mettere in discussione la possibilità di questa partecipazione, non si può tuttavia disconoscere, anche alla luce delle prime esperienze, che essa presenta numerosi inconvenienti.

Innanzitutto l’esperienza empirica dimostra che difficilmente le imprese partecipano al capitale sociale delle banche per svilupparne l’attività e la redditività. Il loro interesse strategico è invece funzionale al proprio sviluppo industriale, attraverso l’ingresso in quelli che in Italia rappresentano importanti centri di potere. In questo modo le imprese si garantiscono il finanziamento della propria attività tipica al di fuori di un’effettiva selezione meritocratica da parte della banca.

Una circostanza già grave di per se ma che evidentemente si arricchisce di ulteriori preoccupanti contenuti in caso di crisi aziendale dell’impresa partecipante o se si fa riferimento non solo al tipico finanziamento bancario, quanto piuttosto all’intera attività di intermediazione finanziaria svolta dalla banca stessa, che include collocamenti azionari e obbligazionari. O, ancora, se si fa riferimento anche all’attività di gestione collettiva del risparmio che, in Italia, è ancora fortemente concentrata nell’ambito dei gruppi bancari.

La possibilità che la banca possa trasferire al “mercato” buona parte del rischio di esposizione - direttamente o attraverso i propri fondi comuni di investimento - è evidente, come anche la grave inefficienza macroeconomica che ne deriva in termini di selezione delle imprese sulla base del relativo merito di credito. Il tutto, peraltro, a fronte di commissioni negoziate “in casa” e quindi di una redditività che può trasferirsi sul mercato generando un aumento dei costi di intermediazione.

Per non parlare, poi, del potere e del vantaggio competitivo che un imprenditore viene ad assumere rispetto ai suoi concorrenti non rappresentati nel Cda di alcuna banca.

Di fronte all’evidenza di questa situazione, occorre valutare da un lato l’efficacia delle attuali forme di tutela del risparmio e della stabilità delle banche e dall’altro la possibilità di introdurre correttivi realistici che, senza penalizzare lo sviluppo futuro del settore, possano anzi rafforzarne l’efficienza, la solidità e la credibilità. Attualmente le principali forme di tutela previste dal TUB e dalla normativa correlata, emanata soprattutto dalla Banca d’Italia, risiedono soprattutto sui seguenti principi:

• Impossibilità del controllo;

• Requisiti di professionalità ed onorabilità;

• Limiti quantitativi ai finanziamenti;

• Vigilanza della Banca d’Italia sul merito della condotta aziendale.

Queste forme di tutela hanno mostrato la loro inefficacia ed anzi, la loro pericolosità, nella misura in cui possono lasciar credere di essere sufficienti senza invece esserlo effettivamente.

La mancanza di un controllo totale della banca non impedisce alla società partecipante di esercitare una sostanziale influenza su eventuali decisioni che la riguardano. Né si può pensare che l’uscita dell’imprenditore dal Cda nel momento in cui viene presa una decisione che lo riguarda possa seriamente costituire una forma di tutela.

I requisiti di professionalità sono stati di fatto applicati con una valenza “universale”, nel senso che un elevato grado di responsabilità nella gestione di impresa è stata ritenuta titolo equivalente ai cinque anni di esperienza diretta in materia “bancaria, finanziaria o assicurativa” richiesti per la partecipazione al Cda di una banca.

In quanto ai limiti quantitativi ai finanziamenti, per le imprese non finanziarie partecipanti al capitale delle banche valgono quelli previsti per qualsiasi altro cliente. Non sono stati introdotti vincoli più restrittivi da parte del Cicr o dalla stessa Banca d’Italia.

Mantenendo un approccio al tempo stesso realista, gradualista e meno dirigista possibile, si può escludere nel breve e medio periodo l’ipotesi estrema di vietare la partecipazione di società non finanziarie nel capitale delle banche. Però, a fronte di queste considerazioni, occorre quantomeno verificare se sono possibili altre soluzioni che, pur essendo in qualche modo sub-ottimali, possano sostanzialmente mettere sotto controllo pericoli degenerativi e evitare che la partecipazione di imprese non finanziarie al capitale delle banche avvenga in contraddizione con gli obiettivi macroeconomici di sviluppo del sistema. Da questo punto di vista può essere utile e necessaria l’introduzione di maggiori e più efficaci forme di tutela nonché specifiche forme di vigilanza, tali da impedire o penalizzare quelle partecipazioni che non fossero in linea con lo sviluppo strategico della banca. Limitatamente ai finanziamenti diretti della banca al proprio socio industriale di minoranza, alcune ipotesi da approfondire potrebbero essere le seguenti:

• Obblighi specifici di comunicazione alle autorità e di trasparenza verso i mercati con riferimento alle operazioni effettuate dalla banca con i propri soci non finanziari (direttamente e indirettamente), all’esposizione complessiva e alle principali condizioni applicate;

• Maggiori vincoli di corporate governance in caso di operazioni di questo tipo, come ad esempio una maggioranza di consiglieri indipendenti nel Cda o anche in Comitati di controllo (caratterizzati da requisiti di professionalità più stringenti e selettivi rispetto a quelli attuali e procedimenti di nomina credibili) o maggioranze qualificate (se non addirittura l’unanimità di consensi) per l’approvazione degli affidamenti ai soci industriali della banca e tutte le operazioni a loro riferibili (collocamenti azionari e obbligazionari, ecc.);

• Limiti quantitativi agli affidamenti diretti e anche alle operazioni complessive che una banca può effettuare (soprattutto verso i propri clienti retail) a beneficio dei propri soci-clienti-imprenditori;

• Maggiore impatto dei finanziamenti a soci non finanziari sui coefficienti patrimoniali delle banche, subordinatamente all’eventuale compatibilità di questa disposizione con gli accordi generali conclusi a livello internazionale.

Resterebbe ancora irrisolto il principale problema distorsivo che deriva dalla partecipazione di soci non finanziari al capitale delle banche: quello di una forte asimmetria concorrenziale sul mercato delle imprese, con soggetti che non solo potrebbero avere più facilità di accesso al credito a prescindere dalla rispettiva redditività, ma che addirittura possono controllare e determinare l’accesso al credito di quelli che, di volta in volta, sono i propri concorrenti.

Evidentemente, la soluzione di questo problema passerebbe esclusivamente per il divieto di partecipazione al capitale delle banche da parte soci industriali o, ad esempio, per soluzioni intermedie come l’obbligo di assumere una posizione subordinata come quella degli azionisti di risparmio o altre figure del cosiddetto “quasi-equity”.

Da un punto di vista generale, non meno intricato e pernicioso è il caso opposto, cioè quello di partecipazione delle banche al capitale di aziende non finanziarie. In Italia, sono previsti limiti estremamente più stringenti di quelli autorizzati dalla normativa UE, per cui quando questa partecipazione non è fatta nell’ambito di logiche di Private Equity, solitamente deriva da casi di crisi aziendale. Nel nostro paese, insomma, la partecipazione delle banche al capitale sociale delle imprese avviene per lo più come conseguenza della conversione in azioni di prestiti che l’azienda non è in grado di rimborsare.

A fronte di ciò, non si possono però ignorare i rischi di pericolose inefficienze sistemiche che, anche al cospetto dei benefici di un salvataggio industriale, dovrebbero essere accuratamente evitate. In particolare, in un contesto di banca universale, l’imparzialità di una banca nell’erogare finanziamenti ad una partecipata industriale, soprattutto se in crisi, è fortemente minacciata dall’obiettivo di evitare perdite. Il che, notoriamente, potrebbe produrne delle altre oppure essere scaricata, attraverso altri meccanismi, sul piccolo risparmiatore. Anche in questo caso, insomma, la banca rischia di perdere quella funzione nobile di selezione degli affidamenti in base al relativo merito di credito degli affidati.

La situazione potrebbe essere persino più grave di quella relativa alla partecipazione delle imprese nel capitale delle banche. Perché in questo caso il pericolo concreto è che la banca possa scaricare grandi rischi sul mercato dei piccoli risparmiatori. Eloquenti, in proposito, sono alcuni recenti fatti emersi alle cronache del nostro paese.

Ancora una volta sarebbe necessario introdurre provvedimenti di salvaguardia volti ad evitare effetti degenerativi. Ma il Parlamento su questo particolare aspetto non sembra avviato ad approvare provvedimenti particolarmente innovativi. Le associazioni di categoria, Abi e Confindustria in particolare, si sono già schierate a difesa dello status quo.

Per capire meglio il perché, è a questo punto indispensabile allargare il ragionamento alla struttura del capitalismo italiano e alle sue attuali caratteristiche. Un argomento del quale ci occuperemo sul prossimo numero di Proteo.