Ma oggigiorno anche l’opposto è vero. Anche i capitali
delle altre nazioni imperialiste penetrano i capitali statunitensi. Questo vale
non solo per il capitale produttivo (il centro dell’attenzione di Poulantzas)
ma anche, e ancor di più, per il capitale finanziario e speculativo. Il ruolo
dominante del capitale (e della borghesia) statunitense, quindi, non si basa su
una riproduzione a senso unico del capitale USA all’interno di altre realtà
socio-economiche (con le conseguenze politiche e ideologiche che ne conseguono).
Anzi, la tesi di questo scritto è che la riproduzione di un capitale nazionale
all’interno di un’altra nazione è solo un aspetto delle questione della
dominazione di classe a livello internazionale. Come implicito nella sezione
precedente, tale dominazione si basa non tanto sul peso relativo della reciproca
interpenetrazione dei capitali quanto sulle ragioni menzionate nella sezione
precedente e cioè sulla appropriazione da parte degli USA del plusvalore degli
altri paesi imperialisti e sulla imposizione su questi paesi delle condizioni
economiche e non-economiche per la continuazione di questa appropriazione. Nella
fase in cui la UE sta emergendo come un temibile concorrente degli USA sul piano
economico, tale imposizione si basa sempre più sullo strapotere militare USA.
Per di più, Poulantzas nega troppo facilmente quei capitali che continuano ad
avere solamente o principalmente una base nazionale per il loro processo di
accumulazione. Ne consegue che la borghesia nazionale è composta sia da
quegli agenti che rappresentano capitali con base nazionale sia da quegli
agenti che rappresentano il risultato della mutua interpenetrazione dei capitali
nazionali. Sono gli interessi di queste due frazioni delle borghesie
internazionali (nella loro interrelazione) che sono trasformati dalle
istituzioni internazionali negli interessi comuni della borghesia mondiale nei
confronti di altre classi (nazioni) e sotto l’egemonia della borghesia
statunitense.
In secondo luogo, oggigiorno si sostiene di sovente che il
capitale finanziario è dominante nei confronti del capitale industriale e più
in generale del capitale produttivo. Anche questo punto deve essere chiarito.
Dato che il capitale finanziario vive a spese del plusvalore prodotto dal
capitale produttivo, è il secondo che è la condizione di esistenza (il fattore
determinante) del primo. Il capitale finanziario, a sua volta, è la condizione
di riproduzione del (è determinato dal) capitale industriale. [1] Questo è un esempio di una relazione dialettica.
Questo può significare che il capitale finanziario pone le
sue proprie regole, che possono comprendere la distruzione di unità di capitale
industriale, al fine di assicurare la riproduzione di quest’ultimo e quindi
del sistema nel suo insieme. Il modo appariscente in cui il capitale finanziario
adempie a questo compito viene percepito erroneamente come la sua dominazione
sul capitale industriale. L’enorme dimensione dei capitali finanziari e
speculativi che si muovono giornalmente sui mercati mondiali rafforza
ulteriormente questa illusione. Tuttavia, la frazione dominante all’interno
della borghesia mondiale è quella produttiva (che include anche quella
industriale) anche se in certe circostanze può delegare il compito di
assicurare la propria riproduzione (e quella del sistema) ad altre frazioni.
In terzo luogo, gli stati nazionali assicurano la
riproduzione (anche su scala allargata) degli oligopoli a base nazionale
attraverso politiche economiche e di altra natura che sono in definitiva nell’interesse
del settore oligopolistico. Questo è valido sia che l’oligopolio abbia la
propria base in una nazione (la regola) che in più di una (l’eccezione).
Quindi, la frazione dominante all’interno della borghesia internazionale è
quella oligopolistica mentre le borghesie nazionali, includendo le elite
politiche nazionali, rendono la sua riproduzione possibile. Sulla base di quanto
detto nella sezione precedente, all’interno della borghesia mondiale è ancora
la borghesia statunitense che è dominante. In breve, la frazione dominante all’interno
della borghesia mondiale è quella dei capitalisti oligopolistici del settore
produttivo statunitense.
Ma stiamo assistendo all’emergere anche di una borghesia
Europea. Essa è composta delle varie borghesie nazionali europee nella
misura in cui esse hanno interessi comuni, sono coscienti di tali interessi, e
hanno a loro disposizione (si danno) strumenti comuni per perseguire tali
interessi. Di massima importanza per esprimere questi interessi sono i Summit
Europei, il Consiglio dei Ministri, la Commissione Europea, il Parlamento
Europeo, e la Banca Centrale Europea. [2] Queste istituzioni sono
gli strumenti attraverso cui si manifesta la borghesia Europea. Essi sono anche
l’arena in cui si promuovono interessi puramente nazionali (e quindi opposti)
e interessi sopranazionali (e quindi comuni). Talvolta la differenza è
puramente analitica ma talvolta le differenze sono molto chiare. Se si pone l’accento
solo sulla mediazione degli interessi nazionali, si nega la dimensione Europea
della borghesia. La specificità di queste istituzioni, in relazione a quelle a
disposizione della borghesia mondiale, è che esse formulano politiche in un
modo relativamente autonomo dato che alcune aree decisionali sono state
trasferite ad esse dagli stati nazionali. La borghesia Europea è quindi una
formazione di classe più unificata della borghesia mondiale, a causa delle
istituzione che rendono possibile alla prima di perseguire le sue politiche di
classe, ma è meno unificata delle borghesie nazionali. L’emergere di classi
(sopranazionali) è un processo graduale. All’interno della borghesia Europea
le frazioni dominanti sono gli oligopoli industriali tedeschi seguiti da quelli
Francesi e Inglesi. Quindi, queste sono le frazioni che hanno un accesso
privilegiato ai centri decisionali Europei.
La borghesia Europea si trova in una fase in cui, pur non
potendo rimpiazzare quella statunitense come classe egemone mondiale, ha
incominciato a gettare le basi per tale sfida. La sfida è principalmente sul
terreno economico, commerciale e, dall’avvento dell’Euro, finanziario. Ma il
tallone di Achille della UE è il piano militare, su cui gli USA dominano
incontrastati. Ed è attraverso il loro strapotere militare che gli USA possono
assicurarsi la condizione per la sistematica appropriazione di plusvalore
internazionale, non tanto dagli altri paesi imperialisti che sono già i molti
campi temibili concorrenti, quanto dai paesi del Terzo Mondo (ricchi di materie
prime), a scapito degli altri paesi imperialisti (UE inclusa). Proprio come l’emergere
di una classe (transnazionale) è un processo graduale ma grandemente
contraddittorio e conflittuale, così lo è l’emergere di una classe egemone o
il rimpiazzo di una classe egemone da un’altra.
La situazione è notevolmente meno favorevole per il
proletariato e le classi lavoratrici Europee, per non menzionare il proletariato
e le classi lavoratrici mondiali.
Mentre è chiaro che vi sono interessi comuni [3], i lavoratori Europei non ne sono coscienti.
Ovviamente, non ci si riferisce a individui singoli ma ad una coscienza
collettiva capace di individuare ed elaborare tali interessi e di darsi gli
strumenti per perseguirli. In genere, nella misura in cui i proletariati
nazionali difendono i propri interessi sul piano internazionale, lo fanno solo
come classi nazionali e quindi in reciproca opposizione. Le ragioni di tale
debolezza sono molte, sia congiunturale che non. Qui se ne possono considerare
solo tre.
Primo, una classe emerge come un agente attivo di lotta di
classe nella misura in cui sia aggrega attraverso e attorno ai suoi mezzi, sia
istituzionali che non, di dominazione su altre classi. [4] I mezzi di
dominazione della borghesia Europea (che includono le istituzioni Europee) sono
allo stesso tempo i mezzi attraverso cui si impedisce l’emergere delle classi
lavoratrici Europee come agenti attivi della lotta di classe (o attraverso cui
si promuove la loro disgregazione) attraverso il ricatto, la cooptazione
individuale, il fuoco di fila ideologico, e la creazione di divisioni tra di
loro e all’interno di ciascuna di loro. Per esempio, l’influenza degli
oligopoli europei, attraverso i loro gruppi di pressione, come la Tavola Rotonda
degli Industriali, sulle istituzioni europee è molto maggiore di quella delle
altre classi. [5] Ma la questione non è soltanto del come queste istituzioni sono
usate e da chi. È la loro stessa natura che è inerentemente anti-lavoro. Come
sottolinea Accattatis, esse hanno preso come modello istituzionale quello
Francese, Bonapartista, che è caratterizzato dalla concentrazione del potere
nell’esecutivo, da una democrazia passiva, e da un attivo paternalismo, tutti
elementi il cui scopo è quello di favorire gli interessi degli entrepreneur.
[6] Le classi lavoratrici europee non solo non hanno le loro
proprie istituzioni che permetterebbero loro di unificarsi e emergere come un
agente attivo. A loro è anche negata una influenza significativa nelle
istituzioni esistenti.
Secondo, per quanto riguarda il proletariato, le nuove
tecnologie causano una tendenza verso la proletarizzazione e dequalificazione (e
una contro-tendenza nella direzione opposta).
Mentre verso la fine degli anni ’70, a causa di un
movimento dei lavoratori molto forte, una ricomposizione dei compiti in nuove
mansioni in genere indicava una riqualificazione della mansione (imposta dai
lavoratori), questo non è più il caso oggigiorno. Oggigiorno, a causa delle
debolezza del movimento operaio, il capitale, specialmente nei settori
tecnologicamente dinamici, può imporre la ‘flessibilità’ ai lavoratori,
che passano da una mansione dequalificata ad un’altra mansione dequalificata,
e un riassemblaggio di compiti dequalificati che sfocia non in nuove mansioni
riqualificate ma nel loro opposto (nonostante le versioni ufficiali promosse dal
capitale, dai sociologi del lavoro, ecc. che mantengono la tesi esattamente
contraria). Per di più, queste nuove mansioni possono contenere, di nuovo,
aspetti della funzione del capitale (che spesso e volentieri viene confusa con
un elemento della funzione del lavoro, la coordinazione del processo
lavorativo). Nell’attuale congiuntura ideologica, e in parte a causa della
reintroduzione della funzione del capitale in molte mansioni, ‘flessibilità’
e dequalificazione possono essere contrabbandate nella coscienza dei lavoratori
come riqualificazione, maggiore responsabilità, indipendenza, opportunità per
la crescita personale, e infine come la ‘fuga’ dalla condizione proletaria.
Un ruolo importante qui è giocato dall’uso del computer e tecnologie connesse
per compiti che, anche se dequalificati, sono considerati, proprio a causa del
suo uso, come qualificati. Tanto maggiore è questa mistificazione, tanto minore
è la coscienza di classe del lavoratore collettivo.
L’imperialismo rafforza questa falsa percezione, e quindi
la debolezza del proletariato europeo, in almeno tre modi. Primo, in termini
molto generali validi per localizzare una tendenza, nella misura in cui i
processi lavorativi materiali vengono esportati nei paesi dipendenti e i
processi lavorativi mentali rimangono nei paesi tecnologicamente avanzati,
imperialisti, si crea la percezione che la condizione operaia sia esportata in
quei paesi. Ciò è falso sia perché i processi lavorativi mentali possono
implicare, e in genere implicano, lavoro mentale dequalificato, sia perché la
identificazione delle classi dipende da criteri diversi dal lavoro mentale o
materiale, siano essi qualificati o non. [7] Secondo, questa mistificazione si basa
su una ridistribuzione di una parte del plusvalore dai paesi dipendenti ai
lavoratori dei paesi imperialisti. Questi alti standard di vita (alti cioè
relativamente a quelli dei lavoratori dei paesi dipendenti) causa la percezione
sbagliata (abilmente coltivata dal capitale) che i lavoratori non sono più
lavoratori ma ‘classi medie’. Ciò, assieme alla debolezza politica della
Sinistra (la Sinistra basa la sua strategia su questa fesseria, sul “siamo
tutti classi medie”, il che spiega almeno parzialmente la sua predisposizione
a scimmiottare la politica della Destra e quindi la propria debolezza) spiega in
buona parte la caduta della coscienza di classe dei lavoratori negli anni 1990.
Il terzo fattore che spiega questa debolezza è il ricatto a
cui sono soggette le classi lavoratrici europee, e cioè la grande mobilità del
capitale e quindi la minaccia di trasferimento delle attività produttive in
caso le domande dei lavoratori diventino ‘eccessive’. Allo stesso tempo, l’afflusso
di lavoratori ‘stranieri’ nei paesi imperialisti della UE è usato per
diminuire i salari e per minacciare con serrate. Mentre è vero che il
lavoratore collettivo Europeo ‘si approfitta’ delle briciole dell’imperialismo
(la ridistribuzione di valore sopramenzionata) è anche vero che molti settori
sono soggetti ad una pauperizzazione crescente (in relazione al livello di vita
europeo socialmente determinato). Una volta di più l’insicurezza per quanto
riguarda il lavoro e il salario è un potente alleato del capitale.
Per di più, vengono anche creati falsi conflitti di
interesse tra lavoratori autoctoni e lavoratori stranieri. Gli ideologi del
capitale giocano un ruolo importante in questo caso. Se, come sostengono gli
economisti neo-classici, la riduzione dei salari fosse la via per uscire dalla
crisi e quindi per aumentare l’occupazione, avrebbe senso espellere i
lavoratori stranieri al fine di ridurre il salario ‘sociale’ (pensioni di
anzianità, spese per la salute, per l’educazione, ecc.) e quindi per
aumentare i profitti che, investiti, daranno un nuovo impulso all’economia.
Se, come sostengono gli economisti Keynesiani, si dovrebbero aumentare i salari
al fine di uscire dalla crisi e quindi per aumentare l’occupazione (maggiori
salari implicano un maggior potere d’acquisto da parte dei lavoratori e quindi
una maggior produzione per far fronte alla maggiore domanda), avrebbe senso
aumentare i salari attraverso un maggior potere contrattuale derivante dall’espulsione
dei lavoratori stranieri. Ma entrambe queste vedute sono anti-lavoro ed entrambe
sono sbagliate.
Le crisi e la disoccupazione non sono causate né da salari
troppo alti né da salari troppo bassi. È vero che salari più bassi aumentano
subito i profitti ma essi aumentano susseguentemente le difficoltà di
realizzazione (cioè di vendere i prodotti) a causa del minore potere d’acquisto.
Maggiori salari riducono le difficoltà di realizzazione ma allo stesso tempo
diminuiscono i profitti. Il livello salariale può modificare la forma del
ciclo, ma non può eliminarlo. Se questo è il caso, una politica di porte
chiuse può avere solo un effetto temporaneo e marginale sulla disoccupazione.
Non esistono interessi economici inerentemente contradditori tra questi due
settori del lavoratore collettivo Europeo. Questa contraddizione emerge solo se
il lavoro è visto come un costo invece di una delle due fonti di ricchezza
(assieme alla natura). Ma questo è il punto di vista del capitale, non del
lavoro. E questa è una reale debolezza delle classi lavoratrici europee, la
tendenza dei suoi leader ad accettare il punto di vista del nemico di classe.
Come sempre, la Destra vince non perché la Destra è forte ma perché la
Sinistra è debole.
Bibliografia
ACCATTATIS, V. (2000), Quale Europa?, Edizioni Punto
Rosso, Milano
CARCHEDI, G. (1977), On The Economic Identification Of
Social Classes, Routledge and Kegan Paul, London
CARCHEDI, G. (1983), Problems In Class Analysis.
Production, Knowledge And The Function Of Capital, Routledge and Kegan
Paul, London
CARCHEDI, G. (1991), Frontiers of Political Economy,
Verso, London
CARCHEDI, G. (2000), Imperialism, dollarization and the
Euro, The Socialist Register, 2002
CARCHEDI, G. (2001), For Another Europe. A Class
Analysis of European Economic Integration, Verso, London
EMMANUEL, A. (1972), Unequal Exchange, Monthly
Review Press
KWAN, C.H. (1999), ’A Yen Bloc in Asia?’, Euro,
46, p. 64.
POULANTZAS, N. (1974), Les Classes Sociales dans le
Capitalisme Aujourd’hui, Éditions du Seuil, Paris, ch. 1, part II.
SABHASRI, C. (1999), ’Euro and Asia: Hope and Fear’, Euro,
46, p. 58
[1] Ciò deriva da
una nozione di relazione dialettica sviluppata in altra sede: (Carchedi, 1991,
Appendix). Marx, come si sa, non ha mai scritto un trattato sulla dialettica e
tanto meno sulla dialettica come metodo di ricerca nelle scienze sociali. La mia
tesi è che la nozione qui sopra è implicita nelle opere di Marx da cui è
stata estratta.
[2] Per una discussione del processo
decisionale (la cui complessità aumenta nella misura che aumenta l’importanza
delle decisioni) si veda Carchedi, 1991, capitolo 1.
[3] Si veda
Carchedi, 2001, capitolo 8.
[4] In questo contesto, la
differenza tra classe in sé e classe per sé è insufficiente.
[5] La Tavola Rotonda Europea degli Industriali fu fondata nel 1983
da Umberto Agnelli della Fiat, Wisse Dekker della Philips, e Pehr Gyllenhammer
della Volvo.
[6] Accattatis, 2000.
[7] Per una teoria del lavoro mentale e
materiale si veda Carchedi, 1983, 1991.