I casi Parmalat e Cirio come esemplificazione dell’attuale crisi dei mercati finanziari
Federico Merola
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6. Il dibattito sui Bond tra falsi problemi e apparenti soluzioni
I casi Cirio e Parmalat hanno sollevato un enorme dibattito
che, comprensibilmente, ha in gran parte riguardato i Bond. Spesso, tuttavia,
questo dibattito si è polarizzato su valutazioni eccessivamente drastiche e
radicali oppure, al contrario, su affermazioni vacuamente rassicuranti,
accompagnante da soluzioni di mera facciata.
Certamente radicale è la critica indiscriminata alle
obbligazioni come strumento finanziario, senza capacità di discernere tra gli
utilizzi più o meno virtuosi di questa preziosa forma di indebitamento. Come
eccessive sembrano le critiche verso paesi quali l’Olanda e il Lussemburgo,
pienamente inseriti nell’Unione Europea ma spesso confusi con i numerosi
paradisi fiscali sparsi per il mondo.
Per contro, non si può neanche far finta che tutto vada bene
così. Abbiamo detto che il mercato dei Bond è essenziale per lo sviluppo
economico. Tuttavia, nelle sue attuali condizioni questo mercato pone
oggettivamente il rischio sistemico di un’allocazione inefficace del
risparmio, dato che le banche sono motivate esclusivamente dalle commissioni
percepite anziché da valutazioni del merito di credito dell’emittente. E
quindi non svolgono in modo efficace la loro funzione di intermediazione, che
non può essere totalmente demandata ad un “non investitore” come le agenzie
di rating.
Per questo sono pericolose le soluzioni di mera facciata.
Come il “Bollino Blu” dell’ABI, per esempio, una sorta di “rating”
istituzionale attribuito da un’associazione di categoria secondo criteri
ampiamente discutibili. Un’iniziativa, peraltro, che rischia di penalizzare
ingiustamente i titoli esclusi e, anche per questo, sembra destinata ad
esaurirsi molto presto.
Insufficienti, però, potrebbero essere anche proposte più
sostanziali e coraggiose, se non inserite in un contesto organico e articolato
di riforma del settore. Come quella di obbligare le banche, in determinate
circostanze, a detenere per almeno un anno i titoli dei quali curano l’emissione,
prima di poterli eventualmente collocare ai piccoli risparmiatori. Si tratta di
una soluzione mutuata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, che potrebbe
rivelarsi inutilmente penalizzante, se applicata in maniera indiscriminata, o
poco incisiva, se applicata in presenza di gravi conflitti d’interesse.
Perché il problema, in quest’ultimo caso, verrebbe solo rinviato e non
risolto.
Parziale è anche la proposta, formulata dopo il crack della
Cirio, di vietare il collocamento ai piccoli risparmiatori dei Bond senza
rating, quantomeno se all’emissione sono riservati ad investitori
istituzionali. A ben vedere, l’attribuzione di un rating non è un argomento
risolutivo. Parmalat, ad esempio, aveva un rating e l’agenzia di rating non ha
brillato per prontezza di riflessi. Certo, nel caso Cirio l’assenza di rating
sui Bond è un’aggravante, perché le emissioni sono state utilizzate per
rimborsare le banche che ne curavano il collocamento. Con tutti i suoi limiti, e
non sono pochi, in questo caso il rating avrebbe indubbiamente costituito un
momento di controllo indipendente a favore del mercato. Ma non sarebbe stato un
elemento decisivo, perché un rating probabilmente sarebbe stato comunque
assegnato a quei Bond. Concedere un rating, infatti, fa guadagnare le agenzie
specializzate, che si coprono sempre dietro i limiti oggettivi delle loro
valutazioni, strettamente circoscritte alla presunta solvibilità dell’emittente
valutata in base alle informazioni rese disponibili. Anzi, la presenza di un
rating potrebbe addirittura risultare pericolosa laddove fosse percepita dai
risparmiatori come un’indicazione oggettiva di solvibilità, senza in effetti
esserlo. Anche quella del rating, quindi, è un’ipotesi da valutare sempre
nell’ambito di un più ampio ed organico progetto di riforma del settore.
Peraltro, come abbiamo ampiamente evidenziato, il fatto più
grave del caso Cirio è stato un altro: e cioè la circostanza che dei titoli
riservati a investitori istituzionali siano stati sistematicamente collocati a
piccoli risparmiatori. Intendiamoci, com’è stato sottolineato anche dalla
Banca d’Italia, se questo collocamento è effettivamente avvenuto senza alcuna
attività di sollecitazione al pubblico risparmio, non c’erano divieti formali
ad impedirlo. Ma, appunto, è grave proprio il fatto che non ci fossero divieti
espliciti o anche solo indicazioni di “moral suasion” - come avviene
in Germania e Gran Bretagna per casi analoghi - che superando gli aspetti
formali in qualche modo subordinassero queste operazioni ad una maggiore
corresponsabilizzazione delle banche. Perché è proprio la
corresponsabilizzazione il perno centrale di qualsiasi efficace proposta di
cambiamento.
7. Alcune proposte in materia di Bond
Le soluzioni per limitare la deresponsabilizzazione delle
banche sulle emissioni di Bond possono essere numerose, anche se vanno
attentamente modulate in base all’effettiva gravità delle diverse
fattispecie. Distinguendo, peraltro, tra operazioni sul mercato primario (nuove
emissioni) e operazioni sul mercato secondario (cessione di titoli già emessi
nella disponibilità della banca o di suoi altri clienti). Con il duplice
obiettivo di accrescere i profili di tutela sostanziale dei risparmiatori senza
al contempo penalizzare lo sviluppo di un mercato necessario al buon andamento
dell’economia. In linea estremamente sintetica, possiamo limitarci alle
seguenti considerazioni:
• I divieti perentori di collocare o vendere Bond
dovrebbero essere circoscritti a casi estremi, ma non possono essere del tutto
esclusi (come ad esempio nel caso in cui nuove emissioni di obbligazioni
fossero destinate a rimborsare finanziamenti bancari, in presenza di incerte
prospettive di solvibilità dell’emittente);
• In assenza di veri e propri divieti, si potrebbe
prevedere in particolari situazioni la garanzia di solvibilità obbligatoria
da parte delle banche responsabili dei collocamenti. Si tratta di un’ipotesi
già adottata da tempo in altri paesi e recentemente valorizzata anche dal
nostro nuovo diritto societario, sebbene limitatamente alle Srl e alle
emissioni di Bond da parte di Società per Azioni, per importi che eccedono il
doppio del loro patrimonio. È, però, ancora una volta una soluzione estrema,
che dovrebbe essere applicata solo in casi limite. Perché è una soluzione
che ha il problema sistemico di far gravare sul patrimonio della banca il peso
della garanzia, togliendo al Bond proprio la sua principale utilità: quella
cioè di moltiplicare le potenzialità del sistema di finanziare le imprese;
• In presenza di rilevanti conflitti di interesse
(partecipazioni incrociate; rapporti consolidati; passaggio dal finanziamento
bancario al debito cartolare, ecc.), potrebbe essere prevista l’obbligatorietà
di un rating all’emissione oppure, in aggiunta o in alternativa a seconda
dei casi, l’obbligo per le banche responsabili del collocamento di mantenere
in portafoglio una certa percentuale dell’emissione per tutta la durata del
prestito. In questo modo si attenuerebbe in modo permanente il conflitto di
interesse con il cliente risparmiatore e si responsabilizzerebbe la banca a
svolgere la sua preziosa opera di selezione delle imprese in base al merito di
credito;
• Un’altra soluzione da non sottovalutare è quella di
prevedere in particolari circostanze, l’obbligo di collocamenti ripartiti
tra piccoli risparmiatori e investitori qualificati, diversi e indipendenti
dalle banche che effettuano il collocamento. Troppo spesso si vedono sul
mercato prodotti destinati esclusivamente all’una o all’altra categoria di
sottoscrittori, sulla base della retorica che le rispettive esigenze sarebbero
inconciliabilmente diverse. L’esperienza dimostra, invece, che la principale
differenza risiede soprattutto nella diversa capacità di valutare la
struttura e l’equità commerciale dei prodotti sottoscritti. Non di rado sui
mercati azionari sono proprio gli investitori istituzionali indipendenti il
vero “cane da guardia” del piccolo risparmiatore retail. Perché i
piccoli risparmiatori che si recano allo sportello non fanno il mercato ma, in
un certo qual modo, lo subiscono. È per questo, del resto, che un obbligo del
genere è stato recentemente introdotto, sia pure in forma blanda, per i
collocamenti e le quotazioni di società sul Nuovo Mercato di Borsa;
• Una strada da intraprendere sicuramente è quella che,
eloquentemente, viene sempre più spesso indicata come “trasparenza
sostanziale”, in contrapposizione alla trasparenza solo formale attualmente
prevalente sul mercato. In questo ambito dovrebbero diventare obbligatorie,
chiare e, entro certi limiti, responsabilizzanti alcune informazioni
essenziali come quelle relative ai conflitti di interesse della banca con l’emittente;
alle motivazioni per le quali viene effettuata la nuova emissione di Bond o
ceduto il titolo in precedenza detenuto dalla banca o da un terzo cliente; al
livello di compartecipazione al rischio da parte della banca stessa e alla
valutazione della situazione economico-finanziaria del debitore;
• In un contesto come quello italiano - nell’ambito del
quale cioè la gestione del risparmio viene effettuata in prevalenza da
società appartenenti a gruppi bancari - dovrebbero inoltre essere introdotte
delle norme più restrittive in relazione ai collocamenti intragruppo di
prodotti finanziari, attualmente possibili fino al 60% della quota da
collocare a disposizione di ogni singola banca. Questo al fine di impedire che
i piccoli risparmiatori si trovino a sottoscrivere prodotti indesiderati senza
neanche saperlo, attraverso i propri fondi comuni di investimento.
Infine, c’è un principio generale che potrebbe trovare
cittadinanza anche in Italia, come del resto già accade nei paesi di stampo
anglosassone: in casi di oggettivo e grave conflitto d’interesse nei confronti
della clientela, dovrebbe entrare in gioco l’inversione dell’onere della
prova. Sarebbe cioè la banca a dover dimostrare che nonostante il conflitto di
interesse ha sostanzialmente e formalmente rispettato le regole e fatto tutto
quanto avrebbe dovuto a tutela del piccolo risparmiatore. Unitamente alla “class
action”, cioè alla possibilità di effettuare azioni di ricorso
collettivo, sarebbe un elemento importante per conciliare le esigenze di
sviluppo dei mercati con quelle di tutela dei piccoli risparmiatori.
Per il momento, in attesa che la fiducia dei risparmiatori
possa essere rassicurata da nuovi provvedimenti, è sicuramente positiva la
scelta di quasi tutte le principali banche coinvolte nei casi Cirio e Parmalat
di procedere ad un rimborso totale o parziale dei Bond collocati ai propri
clienti, sia pure con valutazione caso per caso. Una decisione che va nella
giusta direzione della responsabilizzazione del sistema bancario e che, al di
là delle dichiarazioni ufficiali, ha tutta l’aria di essere un’ammissione
di responsabilità, quantomeno oggettiva se non proprio giudiziaria.
8. Il problema della vigilanza
La gravità degli eventi ha sollevato il tema dell’eventuale
responsabilità delle autorità di vigilanza.
Innanzitutto perché non avrebbero saputo impedire il
verificarsi di episodi indubbiamente incresciosi. La Consob è sicuramente
intervenuta su Parmalat, ma lo ha fatto con molto ritardo. E non sembra essere
stata particolarmente efficace nel controllo delle emissioni di Bond da parte
della Cirio. In generale, peraltro, il suo “track record” non è
particolarmente positivo e la sua indipendenza dalla politica un aspetto
ampiamente migliorabile. La Banca d’Italia, da parte sua, ha negato qualsiasi
responsabilità formale, difendendo al contempo - forse persino più di quanto
abbia fatto la stessa ABI - la solidità e la correttezza del sistema bancario.
Eppure si è trattato di episodi troppo visibili per non essere stati colti e
debitamente interpretati dal principale organismo di vigilanza sul sistema
bancario. Che a dirla tutta, ha troppi obiettivi spesso in contraddizione tra
loro, come la tutela della stabilità, la salvaguardia dei risparmiatori e il
governo del settore. Nell’ambito di assetto proprietario non alieno da
peculiari e pericolosi conflitti di interesse, peraltro aggravati dalla
compartecipazione, diretta o mediata dal proprio fondo pensioni, al capitale di
numerose imprese del settore. Senza considerare, infine, che pur essendo
indipendente dalla politica, la Banca d’Italia si presenta eccessivamente
teocratica ed autoreferenziale, il “peccato” opposto della subordinazione.
In realtà, di fronte ai numerosi scandali finanziari degli
ultimi anni e alla dimensione di quanto è successo, è difficile per le
autorità di vigilanza chiamarsi fuori.
Un secondo profilo di responsabilità da parte delle
autorità di vigilanza riguarda l’attenzione prestata alla tutela del
risparmio. Prima, con l’emanazione di adeguate regole o indicazioni di moral
suasion, e successivamente, di fronte cioè al manifestarsi dei primi
allarmanti episodi, con l’adozione di vigorose azioni ispettive e efficaci
interventi sanzionatori. Su questo aspetto, l’impressione è che gli organismi
di vigilanza abbiano dimostrato più attenzione e sensibilità verso il governo,
la stabilità e la salvaguardia della credibilità dei mercati e degli operatori
che non verso la tutela del risparmio, lasciata di fatto alla competenza
esclusiva dell’autorità giudiziaria e delle associazioni di tutela dei
risparmiatori. È vero che, come quella della stabilità, anche la tutela del
risparmio passa anche per messaggi rassicuranti. Perché il panico è
autolesionista, tende cioè a produrre proprio quegli effetti negativi dai quali
si intende fuggire. Ma quando i risparmiatori incappati in spiacevoli incidenti
superano le 500.000 unità, il problema è endemico e il silenzio delle
autorità di vigilanza, così come la loro reale o apparente inerzia, diventa
preoccupante, perché finisce col sortire l’effetto opposto.
Anche in questo caso, dunque, la vigilanza non si può
appellare a fatti formali. La stabilità del sistema non è stata salvaguardata,
il risparmio è stato mal tutelato e la trasparenza resta ancora un fatto troppo
formale e poco sostanziale. Gli strumenti d’intervento c’erano, perché la
vigilanza non è solo ispettiva ed anzi, quando funziona bene, è soprattutto
preventiva, attraverso l’azione regolamentare o la cosiddetta “moral
suasion”.
Proprio quest’ultima considerazione ci introduce alla
terza, e forse più grave critica, che potrebbe essere rivolta al sistema di
vigilanza. Quella che riguarda l’efficacia con la quale le autorità di
controllo hanno saputo interpretare, almeno negli ultimi due anni, il loro ruolo
di regulator del settore, per correggere con nuove disposizioni di
vigilanza regolamentare - rapidamente ed efficacemente - le numerose lacune
evidenziate dalla lunga catena di gravi episodi verificatisi in questo periodo,
tanto in Italia quanto in altri paesi.
La sensazione è che più di ogni altro sia mancato appunto
questo particolare intervento nel nostro sistema. E, a prescindere da
valutazioni di opportunità politica, è proprio il dubbio che sia stata svolta
in modo adeguato quest’ultima funzione ad attribuire alla riforma del sistema
di vigilanza una valenza prioritaria. Per evitare in futuro nuove criticità
endemiche.
Certamente, nell’attuale contesto italiano non si può
sottovalutare il timore che molte critiche abbiano un significato squisitamente
politico e che la soluzione che sarà prospettata possa essere peggiore del
male. Purtroppo il dibattito sulla riforma della vigilanza, di per se doveroso
ed opportuno in un paese moderno, è finito per degenerare in una deteriore
polemica personale e istituzionale, che non prelude a nulla di buono.
Nonostante ciò, per diverse ragioni è positivo il fatto che
si sia finalmente aperto in Italia un dibattito del genere. Il tabù su questo
argomento, legato ai noti e spiacevoli episodi della fine degli anni ’70, è
caduto. Dopo il trasferimento del controllo sulla base monetaria alla Banca
Centrale Europea e la creazione dell’Antitrust, era arrivato il momento di
affrontare il tema di una modernizzazione dell’intera struttura di vigilanza
sui mercati e gli operatori. Inoltre, i numerosi scandali finanziari degli
ultimi anni hanno posto un rilevante problema di internazionalizzazione dei
controlli. L’esigenza di una riforma era ormai già da tempo condivisa da
molti.
Il che ci conduce ad una rapida analisi del sistema di
vigilanza in Italia, che in linea di principio è attualmente tripartito, con
una distinzione per finalità nell’ambito della quale la Consob tutela la
trasparenza delle imprese, la Banca d’Italia tutela la stabilità degli
intermediari creditizi e dei mercati e ha le competenze in materia di
concorrenza nel settore creditizio mentre l’Antitrust tutela la concorrenza,
con esclusione del sistema bancario.
Non mancano, tuttavia, alcune anomalie, tra le quali ad
esempio:
• La presenza di autorità competenti per specifici
settori, come la Covip per i fondi pensione e l’Isvap per le assicurazioni
(con il rischio di un’eccessiva comprensione delle ragioni delle imprese che
dovrebbero controllare);
• La sottrazione all’Antitrust delle competenze in
materia di concorrenza del settore creditizio;
• La non sempre chiara ripartizione di competenze tra
Banca d’Italia e Consob su alcuni profili di vigilanza, trasparenza e tutela
dei risparmiatori.
Se questo è il sistema attuale, la sua riforma richiede
innanzitutto la scelta chiara di un modello. Quelli più diffusi sono ad
autorità unica o tripartita per finalità (simili quindi al modello italiano).
Uno sguardo agli altri paesi mostra che non esiste una soluzione prevalente. In
Europa entrambe le soluzioni sono ampiamente adottate, in modo quasi equamente
suddiviso. Anche l’analisi teorica non fornisce risposte univoche. Peraltro l’autorità
unica è un modello di recente applicazione, sul quale manca quindi la
possibilità di una valutazione empirica.
Volendo optare pragmaticamente per una soluzione a tre
autorità, coerente con l’attuale assetto italiano e con il potenziale
beneficio di una certa dialettica tra organismi di controllo, i principi sui
quali si potrebbe realizzare un miglioramento dell’attuale sistema sono i
seguenti:
• Mantenere la vigilanza per finalità, riducendo a tre
il numero di autorità, e nel contempo:
• Potenziare la Consob, che oggettivamente ha competenze
estremamente ampie e articolate;
• Assegnare la tutela della concorrenza bancaria all’Antitrust;
• Eliminare le attuali aree di sovrapposizione o
incertezza nelle rispettive competenze delle diverse autorità;
• Garantire la massima autonomia e indipendenza dalla
politica a tutte le autorità di controllo;
• Responsabilizzare l’attività di vigilanza
(accountability) verso il Parlamento e la società civile (non verso il
Governo);
• Eliminare particolari situazioni di conflitto di
interesse (come ad esempio, nel particolare caso della Banca d’Italia,
quelli associati alla struttura del suo capitale sociale oppure derivanti
dalle partecipazioni conseguite attraverso l’impiego di liquidità o del
patrimonio del fondo pensione dei dipendenti);
• Potenziare il coordinamento internazionale dell’attività
di vigilanza, a cominciare da quello Europeo nell’ambito della BCE.
In ogni caso, un tema come quello della vigilanza dovrebbe
avere una valenza di ampio respiro parlamentare, alla stregua delle norme di
carattere costituzionale. L’augurio è che eventuali revisioni dell’attuale
assetto dei controlli siano realizzate con larghe intese. Non si può pensare di
cambiare sistema o modalità di vigilanza ogni volta che cambia un Governo.