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Stato sociale e transizione difficile

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Michele Loporcaro
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Professore all’Università di Zurigo (Svizzera)

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Una buona scuola o la società dello spettacolo: da che parte stanno i progressisti italiani?
Michele Loporcaro

 

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Una buona scuola o la società dello spettacolo: da che parte stanno i progressisti italiani?

Michele Loporcaro

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Si noti, di passaggio, che in altri sistemi europei la redazione in proprio di lavori scritti punteggia l’intero corso di studi. In Italia questo mancava, fino alla tesi: che adesso per andare a insegnare non è più necessaria. Certo, le tesi erano spesso mal fatte e mal dirette: esattamente come il tema d’italiano. Ma non c’è nulla che non si possa migliorare, e nulla, certo, si può migliorare... eliminandolo.

Altra vittima della riforma universitaria è lo studio autonomo, o lo studio tout court, inteso come attività intellettuale; resta lo studio come etichetta burocratica («faccio i miei “studi” a Roma»). Anche lo studio, nella prima accezione, è stato per anni criticato da sinistra come vessatorio e classista: «abbasso i carichi di studio», era uno degli slogan delle occupazioni scolastiche del Settantasette. Oggi, lo studio universitario non esiste più, o quasi, e per principio, in quanto tutta l’attività degli «studi» deve svolgersi, idealmente, nelle aule: si lavora con lo studente, per professionalizzarlo, e quel che poi deve leggere per prepararsi agli esami (altra istituzione odiosamente vessatoria, ricordate?) tende progressivamente allo zero. Un esempio fra mille, puramente quantitativo. Nel 1993 un editore accademico proponeva un manuale di glottologia dal titolo Le lingue indoeuropee: 546 pagine. Nel 2002 esce, da un editore concorrente, un manualetto post-riforma dallo stesso titolo: 143 pagine, e di formato più ridotto. [1] Nel frattempo, imperversano parole d’ordine come e-learning, mentre l’apprendimento sui libri si riduce, ideologicamente e materialmente.

Tiriamo le somme. Per l’università, della politica culturale di cui abbiamo ricostruito le linee principali cominciano a vedersi già i primi frutti, e sempre più risulterà evidente, negli anni a venire, il suo impatto sociale. Per la scuola, i risultati di questa politica sono da tempo sotto gli occhi di tutti: prima della «democratizzazione» la scuola escludeva e respingeva (ingiustamente e odiosamente) i più socialmente deboli. È stata cambiata e democratizzata, in base ai principi che la contestazione ha dettato. Ne rivendica il merito Tullio De Mauro, quando nel 1996 scrive che:

«le Dieci tesi riescono a tradursi in libri, come il bel Libro di italiano di Raffaele Simone, primo di una varia e feconda serie, in ricerche specialistiche [...], in proposte didattiche circostanziate che, a partire dai programmi della media obbligatoria del 1979-1980, cominciano a essere fatte proprie dalla legislazione scolastica media, poi elementare, poi medio-superiore». [2]

Ora, dopo la «democratizzazione», anche coloro che la nuova scuola ha «formato» sono rimasti in larghissima proporzione (semi)analfabeti. Sono dei dati di fatto, e un osservatore marziano potrebbe pensare che, rendendosene conto, qualcuno sia spinto ad un’autocritica, ad un’assunzione di responsabilità. Macché, l’autocritica è pratica scarsamente italiana, e soprattutto scarsamente corrente nella società dello spettacolo, per motivi che diremo subito oltre (primo fra tutti, la scomparsa del senso della storia). E infatti su questi dati, sul (semi)analfabetismo degli scolarizzati nell’Italia del Duemila ha riferito con toni allarmati sempre De Mauro in una conferenza tenuta a Roma, nell’aula magna della Sapienza, il 13 ottobre 2003. Una conferenza nell’ambito di una manifestazione in cui molti personaggi di spicco dell’università italiana protestavano, sacrosantamente, contro la politica di strangolamento finanziario dell’università messa in atto dal governo Berlusconi II.

Ma, come ho detto in apertura, chi ha in mente una società totalitaria, in cui lo spazio del dibattito dev’essere programmaticamente annullato, fa benissimo, dal suo punto di vista, a tagliare i fondi all’università, e fa benissimo a introdurre il video al posto del libro, l’inglese anziché tutto il resto (greco, latino, italiano, storia), l’impresa anziché la cultura. È chi ha un’altra idea, un altro ideale di società che deve opporsi. Questo, in Italia, non succede per un difetto grave di consapevolezza dello schieramento progressista, che infatti ha collaborato allegramente, al grido di «il computer a scuola», alla virata in direzione utilitaristico-aziendalista che ora il governo attuale vuol giustamente, dal suo punto di vista, completare.

Allora, è necessario prima di tutto che lo schieramento progressista acquisti consapevolezza, riflettendo su quanto si è detto, scritto e poi fatto negli ultimi quattro decenni, all’insegna di ottime intenzioni, con risultati catastrofici. La china del gioco a somma zero per le materie da insegnare, giocato con l’argomento dell’utilità pratica (via il vecchiume, avanti qualcosa di più utile), porta direttamente agli esiti attuali: alle «tre i», all’insegnamento dell’educazione stradale gestito dalle autoscuole in orario scolastico e a spese del contribuente (lo annuncia festante al tg serale il Ministro Moratti nell’autunno 2003). Tutto questo bel «nuovo» è venuto prima a spese di materie che la demagogia nuovista bollò come vecchie, classiste o inutili (prima il latino, poi tocca alla storia), infine - si vede ora - anche a spese di una formazione di base in materie come l’italiano o la matematica.

Naturalmente, tutti i discorsi che sin qui abbiamo svolto - o di cui abbiamo riferito - non sono stati svolti qui per la prima volta. All’origine della cultura che diciamo umanistica sta, nella Grecia antica, quella che si chiama mentalità «antibanausica»: per vivere serve l’attività economica, ma l’affrancamento da essa è necessario all’uomo e alla società. Un discorso controverso, nei secoli: quando l’attuale presidente del consiglio invita gli Istituti italiani di cultura all’estero a smetterla con Manzoni e reclamizzare invece il made in Italy, nega il fondamento stesso della mentalità antibanausica. Da destra. D’altro canto, anche Lukács criticava Goethe e Schiller: la loro «fuga nell’estetica» non è che una rinuncia all’azione. Solo la deutsche Misere, la «miseria tedesca», ossia la frammentazione politica e l’arretratezza sociale della Germania dell’epoca, «li ha costretti a condurre la vita di puri letterati». [3] In realtà, l’ideale esposto da Schiller nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795) è ben altro: la produzione del bello, in quanto forma di distacco dalla vita ordinaria, consente all’individuo di sviluppare una razionalità complessa e di acquisire una coscienza critica nei confronti del presente immediato. Questa è per Schiller la base dell’agire politico. È dunque una visione umanistica della formazione dell’individuo, mentre dietro la critica di Lukács sta, per questo aspetto, l’ideologia del socialismo reale, che ha puntato tutto sulla prevalenza assoluta dell’istruzione e dell’ideologia tecnologica, coi risultati storici che si son visti.

Su questa stessa linea è la critica alla glottologia e al «glottodidascalo», o meglio l’utilizzo della figura di questo - attraverso la suggestione connotativa dell’etichetta grecizzante - come mise en abîme della cultura umanistica, non orientata alla prassi e dunque socialmente inutile, tesa soltanto alla perpetuazione di un potere di casta. Quell’argomento, per i modi in cui è sviluppato e per il pulpito da cui proviene (quello d’un intellettuale che gestisce perfettamente la complessità, ma predica intanto «cose semplici per il popolo»), si presta alla stessa critica che Fichte, nella quinta delle lezioni jenesi Sulla missione del dotto (1794), rivolge alla condanna della cultura da parte di Jean-Jacques Rousseau:

«Io ho posto la finalità umana nel progresso costante della cultura e nello sviluppo armonico e continuo di tutte le nostre attitudini e di tutti i nostri bisogni; ed ho assegnato un posto assai onorevole nella società a quella classe di uomini che ha per missione di vegliare sul progresso e sull’uniformità di tale sviluppo.

Nessuno ha mai contraddetto a questa verità in modo più deciso, con ragioni più persuasive in apparenza e con più gagliarda eloquenza, di quanto abbia fatto il Rousseau. Per lui il progresso della cultura è l’unica causa di ogni pervertimento dell’uomo. Secondo lui non v’è salute per l’uomo all’infuori dello stato di natura e - conseguenza logica dei suoi principi - quella classe di uomini che promuove maggiormente il progresso della civiltà, la classe dei dotti, è la fonte e il focolare di ogni miseria e di ogni corruzione.

Questa dottrina è proclamata da un uomo che aveva sviluppate le proprie facoltà intellettuali ad un altissimo grado. Egli si vale di tutta la superiorità che gli viene da questa sua eccellente cultura, per persuadere, se possibile, l’umanità tutta intiera della giustezza della sua asserzione». [4]

Bisogna dunque che chi si riconosce nella parte politica che definiamo «progressista» scelga, nell’Italia di oggi, da che parte stare. Bisogna che sia tolto ogni spazio a chi, per decenni, ha lavorato attivamente allo snaturamento e all’affossamento della cultura umanistica in Italia. Urge un cambiamento radicale, la rifondazione di una politica dell’istruzione realmente e consapevolmente progressista, che deve avere nei confronti delle discipline umanistiche e di taglio storico, nelle quali risiede la specificità della nostra cultura, un atteggiamento diametralmente opposto.

Abbiamo aperto chiedendo «a chi giova», e dopo la discussione che abbiamo condotto possiamo dirlo con nettezza. L’attacco alla competenza (corsi abilitanti e immissione in ruolo di precari, anziché esami e concorsi; niente temi d’italiano, niente tesi di laurea per insegnare); la subordinazione diretta di ogni forma d’istruzione all’utilità pratica (e dunque poco o niente materie umanistiche, non direttamente utili); e, di conseguenza, la depressione di ogni coscienza storica: sono questi i tre pilastri di quella che Guy Debord ha battezzato la «società dello spettacolo». Fra collasso della competenza e cancellazione della storia c’è un legame strettissimo:

«Il governo dello spettacolo, che attualmente detiene tutti i mezzi per falsificare l’insieme della produzione nonché della percezione, è padrone assoluto dei ricordi e padrone incontrollato dei progetti che plasmano l’avvenire più lontano. [...] In tali condizioni possiamo vedere scatenarsi all’improvviso, con un tripudio carnevalesco, una fine parodistica della divisione del lavoro; tanto più tempestiva in quanto coincide col movimento generale di scomparsa di ogni autentica competenza. Un finanziere canta, un avvocato diventa informatore della polizia, un fornaio espone le sue preferenze letterarie, un attore governa». [5]

Ed ecco perché eliminare la storia:

«Il campo della storia era il memorabile, la totalità degli avvenimenti le cui conseguenze si sarebbero manifestate a lungo. Inseparabilmente, la conoscenza avrebbe dovuto durare, e aiutare a comprendere almeno in parte ciò che sarebbe successo di nuovo: “un’acquisizione per sempre”, dice Tucidide. In tal modo la storia era la misura di un’autentica novità; e chi vende la novità ha tutto l’interesse a far sparire il modo di misurarla». [i]

Che la destra italiana lavori coerentemente per favorire questi esiti è ovvio. Corrisponde alla strategia che Silvio Berlusconi raccomanda ai piazzisti elettorali di Forza Italia: ricordate, quando vi rivolgete a un elettore, che parlate con una persona che ha il livello intellettuale d’uno scolaro di seconda media, neppure tra i più bravi. Ma che lo schieramento progressista proponga, ai suoi massimi livelli, un’ideologia e una prassi oggettivamente in linea con questi stessi principi, è parte integrante del problema centrale della politica italiana contemporanea: l’indistinzione degli schieramenti e la mancanza di una reale alternativa. Alla demolizione dello stato sociale, alla deregulation e al prevalere del capitalismo selvaggio si lavora concordemente, da destra come da «sinistra». E così alla sostituzione del libro con lo spettacolo.

La conclusione politica è obbligata. A chi per decenni, da sinistra, ha fatto - e continua a fare - un discorso sbagliato si attagliano perfettamente le battute che pronuncia Corrado Guzzanti quando impersona Francesco Rutelli che, alla vigilia delle elezioni politiche del maggio 2001, si lamenta per l’ingratitudine di colui per i cui interessi lavora - così la finzione satirica - lo schieramento di centrosinistra al governo: [i]

«Berlusconi, ma co’ chi ce l’hai? So’ cinque anni che te portamo l’acqua colle ’recchie! [...] ma che voi de più, ahò! Sei n’ingrato!».

Quanto alla politica dell’istruzione e alle sue ripercussioni sociali, l’abbiamo dimostrato, il lavoro della sinistra italiana oggettivamente a favore di approdi berlusconiani è durato ben più di un lustro. È ora di voltare pagina.


[1] Si tratta, rispettivamente, di Paolo Ramat e Anna Giacalone Ramat, Le lingue indoeuropee, Bologna, Il Mulino 1993 e di Paolo Milizia, Le lingue indoeuropee, Roma, Carocci 2002.

[2] Tullio De Mauro, La questione della lingua, cit., p. 438. Raffaele Simone è autore non solo del citato Libro d’italiano ma anche di un volume recente sui «saperi che stiamo perdendo», in primis la capacità di lettura. Nel frattempo, anima a Roma 3 un corso di laurea in cui le discipline linguistiche formano alla Comunicazione nella società della globalizzazione.

[3] György Lukács, Skizze einer Geschichte der neueren deutschen Literatur, Berlino, Aufbau-Verlag, trad. it. Breve storia della letteratura tedesca. Dal Settecento ad oggi, Torino, Einaudi 1956, p. 42.

[4] Johann Gottlieb Fichte, Über die Bestimmung des Gelehrten, 1794, trad. it. Sulla missione del dotto, Lanciano, Carabba 1938, pp. 106-7.

[5] Guy Debord, Commentaires sur la societé du spectacle, Parigi, Gallimard 1992, trad. it. in Id., La società dello spettacolo, Milano, Baldini & Castoldi 1997, p. 195.

[i] Ivi, p. 198.

[i] L’ottavo nano, Rai 3 (2001). Il testo è pubblicato in Corrado Guzzanti, Imbuti, Milano, Mondadori 2002, pp. 79-84.