La riforma del trasporto pubblico locale
Giuseppe Baldassarri
La spinta riformista nel comparto del trasporto pubblico
locale ha radici molto profonde nella tradizione normativa del nostro Paese ed
è sintomatica di una evoluzione quasi biologica dei fondamenti
costituzionali [1] e delle intuizioni programmatiche delle politiche governative.
Questa nuova e moderna impostazione si realizza snellendo la
procedura normativa: la delega [2] che il Parlamento consegna al Governo, implica il
trasferimento di poteri amministrativi, patrimoniali e di programmazione [3] alle Regioni ampliandone le
attribuzioni costituzionali [4] e coinvolgendole
direttamente nei processi decisionali. |
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In Germania a metà degli anni ‘60 si è aperto un
dibattito sui trasporti urbani che ha portato alla elaborazione di due leggi
fondamentali: una legge per il finanziamento dei trasporti pubblici comunali
attraverso un’apposita tassa sugli oli minerali ed una seconda legge per l’istituzione
e la disciplina dei consorzi pubblici di trasporto.
In Gran Bretagna il “Transport act” del 1968 permette di
far fronte agli investimenti necessari per le infrastrutture di trasporto.
In Francia, con legge del giugno 1972, viene istituito un
contributo a favore dei servizi di trasporto a carico delle imprese produttive
operanti nelle città con oltre 100.000 abitanti; in questo modo le comunità
locali acquisiscono risorse per finanziare sia gli investimenti sia le spese
correnti del settore. Occorre precisare che con la “Loi d’orientation des
Transports Interieurs” tale contributo viene esteso alle città con più di
30000 abitanti.
Tornando in Italia il quadro che appare alla fine degli anni
‘70 è quello di un ciclo vizioso: tariffe basse, servizio scadente, scarsi
investimenti, deficit di gestione crescenti, diminuzione di domanda, aumento del
traffico privato, aumento della congestione, decadimento della qualità del
servizio pubblico, tariffe decrescenti in termini reali. In questo contesto
viene approvata la Legge 151/81 “ Legge quadro per l’orientamento, la
ristrutturazione ed il potenziamento dei trasporti pubblici locali. Istituzione
del Fondo Nazionale per il ripiano dei disavanzi di esercizio e per gli
investimenti nel settore”.
c) Dalla legge quadro 151/81 alla riforma Bassanini-Burlando.
Agli inizi degli anni 1980 tutti i paesi europei hanno
iniziato una fase di totale rinnovamento del contesto istituzionale ed
organizzativo del trasporto pubblico locale.
In Italia tale momento è coinciso con la legge quadro nº
151 del 10 aprile 1981, legge con cui il legislatore intendeva finalmente
regolare la materia del trasporto pubblico locale in maniera completa ed
organica, prevedendo competenze, responsabilità, procedure nonchè modalità ed
entità dei finanziamenti statali per l’esercizio e per gli investimenti.
Obiettivo centrale era comunque il rilancio del trasporto pubblico attraverso il
risanamento delle aziende ed il superamento della stagione dei deficit crescenti
e dei ripiani a “piè di lista”.
La necessità di un cambiamento si è imposta per far fronte
alle crescenti difficoltà da parte degli enti locali, proprietari delle aziende
di trasporto pubblico locale, di coprire i deficit di esercizio accumulati a
causa degli elevati costi di gestione. La causa di questo grave degrado è da
ricercarsi nel processo di pubblicizzazione dei servizi iniziato alla metà
degli anni ‘60, quando alle imprese di pubblica utilità veniva richiesto di
farsi carico di responsabilità sociali (non ultimi problemi occupazionali che
si determinarono a seguito di esigenze di ristrutturazione del settore
industriale).
Il risultato di queste scelte è facile desumerlo dai
consuntivi: mentre agli inizi degli anni ‘60 i ricavi delle imprese di
trasporto pubblico coprivano l’80% dei costi di gestione, nel 1982 la
percentuale di copertura dei costi con i ricavi del traffico era scesa a poco
più del 20%. Il deficit era comunque ripianato totalmente e non esisteva alcun
incentivo all’efficentamento della gestione poiché la missione dell’impresa
era quella di assicurare comunque il servizio.
E’ a questa situazione che con la legge 151/81 il
legislatore voleva porre riparo. Senza voler passare in rassegna ciascun
articolo ci soffermiamo un attimo sull’art. 6 che è dedicato alla erogazione
dei contributi di esercizio, secondo principi e procedure stabiliti con legge
regionale; contributi assegnati “con l’obiettivo di conseguire l’equilibrio
economico dei bilanci” delleaziende di trasporto.
Per conseguire tale equlibriola legge introducevaquattro
parametriche, a giudizio della maggior parte degli esperti, apparivano essere
una delle parti più innovative della legge medesima:
• il costo economico standardizzato;
• le tariffe minime;
• i ricavi del traffico presunti ;
• la percentuale minima di copertura dei costi
effettivi del servizio con i ricavi.
I limiti di questa legge, che pur innovava profondamente e
regolava una materia che fino a quel momento era priva di un preciso e
coordinato riferimento normativo, apparvero subito evidenti a studiosi ed
operatori del settore; è bene precisare comunque che buona parte del parziale
fallimento di questa riforma sia imputabile alla sua incompleta e non puntuale
applicazione.
• l’utilizzo della spesa storica per la ripartizione
del Fondo Nazionale Trasporti (FNT) fra le Regioni
Il tentativo effettuato con le leggi finanziarie del 1983 e
del 1984 di riservare un 10% del FNT per premiare quelle imprese che avessero
conseguito un miglioramento nella produttività fallì perchè fu facile da
parte di alcuni operatoridimostraredimostrareche in questo modo si rischiava di
premiare le inefficienze del passato. Nel 1985 si torna alla valutazione del
1983, (spesa storica) e fra il 1986 ed il 1992 la ripartizione rimane la
stessa del 1985.
• L’eterogeneità delle soluzioni individuate dalle
Regioni nella determinazione del costo standard
La legge nell’introdurre questo criterio intendeva riferire
lo standard di costo alla gestione efficiente dei singoli servizi pur tenendo
conto delle condizioni ambientali e della qualità del servizio offerto. Il
costo standard non poteva dunque essere calcolato sulle medie dei costi storici
ma andava interpretato come modello di efficienza cui raffrontare i costi
consuntivi reali.
Le differenziazioni del costo standard, riscontrate nelle
diverse norme regionali di attuazione della 151/81, erano dovute essenzialmente
alla necessità di tener conto delle condizioni ambientali e della qualità del
servizio.
Si è avvertita così, soprattutto da parte degli operatori
del settore, la necessità di avere indicazioni a livello nazionale sui criteri
cui le Regioni avrebbero dovuto uniformarsi per la determinazione dei costi
standard.
Il DL n° 77 / 89, convertito nella legge 160/89, con l’art.
1 comma 2 dava una risposta puntuale a questa esigenza : “...le Regioni
determinano la ripartizione dei contributi statali loro assegnati sulla base di
una metodologia e di criteri generali stabiliti analiticamente con decreto del
Ministro dei trasporti......I criteri generali devono tener conto della domanda
e dell’offerta sulle singole linee misurate rispettivamente in termini di
passeggeri per km e vetture per km. E con il comma 3 del medesimo articolo
la norma così precisa: “Per l’anno 1989 il Ministro dei trasporti
determina ....il rapporto minimo di copertura del costo standardizzato rispetto
ai ricavi del traffico per le varie condizioni ambientali e socio-economiche
omogenee, nonchè il coefficiente minimo di utilizzazione per la istituzione o
il mantenimento delle linee di trasporto pubblico locale sulla base delle
elaborazioni predisposte per il conto nazionale dei trasporti di intesa con gli
assessorati regionali ai trasporti”. Ma il decreto non è mai stato
emanato e la norma è rimasta inapplicata.
• Commistione di ruoli fra ente di governo e aziende di
gestione
Un fattore determinante del mancato recupero di efficienza
nelle aziende del TPL e quindi del fallimento della 151/81 è certamente da
riscontrarsi nella mancanza di una separazione di ruoli tra ente di governo, cui
spetta la programmazione ed il controllo, ed azienda di gestione, il cui compito
è quello di produrre servizi in condizioni di efficienza.
Per contro si è determinata una situazione nella quale le
aziende di trasporto hanno di fatto assunto tra i loro compiti, specialmente
nelle grandi città, quello di definire la politica dei trasporti; questo è
potuto accadere proprio perchè l’Ente Locale esercitava un diretto controllo
sulle aziende.
Si tratta di individuare forme di gestione e strumenti più
adatti a garantire agli Enti Locali la programmazione dei servizi di TPL a
partire dalle risorse economico-sociali del proprio territorio, e non basandosi
sulle risorse delle aziende controllate; alle aziende per contro debbono essere
garantite le condizioni per una gestione efficiente nella certezza dei mezzi
finanziari e nella disponibilità di un sistema infrastrutturale in grado di
sopportare la quantità di servizi richiesta dallo stesso ente pubblico.
Si apre su questi temi un ampio dibattito sulla “privatizzazione”
delle “public utilities” che, per quanto concerne il TPL, sfocerà nella
legge Bassanini e nel decreto legilativo 422/97 (decreto Burlando).
Lo strumento con cui gli enti locali e le imprese cominciano
a misurarsi per efficientare il sistema e responsabilizzare i diversi attori è
il contratto di servizio. Si tratta peraltro di uno strumento previsto
dalla regolamentazione comunitaria ( Reg. CEE 1893/91) che lo definisce come “un
contratto concluso tra le autorità competenti di uno Stato membro e un’impresa
di trasporto allo scopo di fornire alla collettività servizi di trasporto
sufficienti”.
[1] L’articolo 16 della Costituzione sancendo che «Ogni
cittadino può circolare ...liberamente in qualsiasi parte del territorio
nazionale...», salvo deroga imputabile a motivi di sanità e sicurezza,
configura il diritto di mobilità, che se pur generico, pone a carico dello
Stato l’onere di costituire le condizioni di diritto e di fatto ad esso
conseguenti.
[2] Vd. art. 4 co. 4 della legge 59/97, (nota come
legge Bassanini).
[3] Vd.
art. 6 dlgs 422/97, (noto come decreto Burlando).
[4] L’articolo 5 della Costituzione sancisce che: «La
Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; ampia
nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento
amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle
esigenze dell’autonomia e del decentramento».