Sindacati, fondi pensione e mercati finanziari: bilancio e limiti delle strategie nord-americane. Quale valore d’esempio per i sindacati in Europa?
Catherine Sauviat
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3.3. Dai comitati di gruppi mondiali... ad un coordinamento internazionale
della militanza azionista sindacale sotto l’egida dell’AFL-CIO
La globalizzazione del capitale sottopone costantemente il
sindacalismo a nuove sfide. Costituiti negli Stati-Nazione i sindacati restano
ancorati ad un sistema giuridico, regolamentare e contrattuale ancora
essenzialmente nazionale (diritto al lavoro; etc.).
Dagli anni ‘60, la fase di internazionalizzazione del
capitale ha portato alcuni segretariati professionali internazionali a prendere
l’iniziativa di creare dei consigli di gruppo mondiali per sviluppare una
negoziazione collettiva su scala internazionale e contrastare il potere delle
aziende multinazionali, allora in piena espansione nei settori di punta in
materia internazionale (automobili, metallurgia e chimica). Il fallimento di
questi tentativi è il risultato in parte dei conflitti ideologici in seno al
sindacalismo internazionale dell’epoca, ma anche della crisi economica che ha
favorito dei riflessi di “ripiego nazionale” (Rehfeldt, 1993). Queste
esperienze si sono scontrate con l’ostilità talvolta molto forte dei datori
di lavoro. Un tentativo di rilancio di questo genere è stato orchestrato nel
quadro della costruzione europea, tanto dalla Commissione con i suoi differenti
progetti di direzione che dal movimento sindacale europeo. Queste iniziative
raccolgono oggi un bilancio limitato: se la direttiva del 1994 ha dato il via
alla costituzione di 600 comitati di gruppo europei, questi ultimi hanno
problemi a giocare un ruolo di contro-potere nelle operazioni di
ristrutturazione dei gruppi (decentramento, chiusura dei siti, etc.) malgrado la
diversità delle esperienze in materia, il loro bilancio appare finora limitato
(Rehfeldt, 2001).
Oggi nella nuova fase di globalizzazione del capitale,
caratterizzata dal ruolo centrale della finanza del mercato l’ AFL-CIO tenta
di riprendere l’iniziativa sul terreno della militanza azionista. Si cerca di
fare dei “soldi dei lavoratori” una leva d’azione su scala internazionale,
coinvolgendo le organizzazioni sindacali di altri paesi europei. Recentemente ha
preso iniziative per coordinare le politiche dei FP sia nel quadro degli
incontri bilaterali con il sindacato canadese CTC, sia con organizzazioni
sindacali internazionali come la CISL che ha tenuto molte riunioni sulla
necessità di una cooperazione internazionale a proposito degli investimenti dei
FP (segnatamente dei FP sindacali), della loro politica di voto, della scelta
dei money managers, etc.
Queste differenti iniziative sindacali, d’origine
nordamericana, s’inscrivono oggi in una tendenza più generale, che esprime la
volontà comune a più sindacati europei, di esercitare un’azione d’apertura
internazionale a partire dal potenziale potere che conferisce l’arma dei “soldi
dei lavoratori” accumulati nei fondi pensione. Da questo punto di vista il
sindacato americano AFL-CIO ha giocato un ruolo leader al fianco del TUC
britannico e del LO svedese per costituire, in seno alla CISL, un comitato
incaricato di esaminare la questione dell’investimento internazionale delle
casse pensionistiche. Nel 1999 si è tenuta a Stoccolma una conferenza sotto l’egida
delle principali federazioni nazionali affiliate e interessate, dei segretariati
nazionali di settore e della commissione sindacale consultiva presso l’OCDE,
la Trade Union Advisor Comittee (TUAC).
Partendo dalla constatazione di una necessità di
cooperazione sindacale internazionale sul risparmio pensionistico dei lavoratori
come mezzo per far fronte alla globalizzazione finanziaria, i responsabili
presenti si sono messi d’accordo su un obiettivo di scambio delle loro
esperienze su queste questioni. Suggerimenti differenti sono stati proposti in
questo senso: la costituzione di data-base e di informazioni sui
protagonisti della pension industry (i FP, la loro politica d’investimento
e quella dei gestori dei fondi, le politiche di voto su questi ultimi); lo
sviluppo delle raccomandazioni di voto basate sul rispetto minimo degli standard
del BIT in materia di norme sul lavoro e di principi di corporate governance
stabiliti dall’OCSE; l’esame degli “investimenti economicamente mirati”;
la formazione di amministratori sindacali delle casse pensioni e la creazione di
una rete di esperti sindacali su queste questioni. Se i sindacati nordamericani
appaiono molto attivi in questo contesto (AFL-CIO, CTC e FTQ) al fianco del TUC
britannico, alcuni sindacati europei cominciano a riflettere sul ruolo che
potrebbero avere in materia.
Infine, l’Internazionale dei Servizi Pubblici (IPS) è
stata al centro di un incontro che ha riunito nel gennaio 2001 i sindacati del
settore pubblico presenti nei FP dei loro rispettivi paesi e parte pregnante
della loro gestione. Seguendo i sindacati americani e canadesi più che la CISL,
questa federazione internazionale cercava a sua volta di mobilitare i propri
membri, molto potenti finanziariamente, e a indirizzarli verso una forma di
cooperazione internazionale sulla questione dell’implicazione nella gestione
dei FP, delle sue forme e del suo contenuto (scambio d’informazioni, di
dibattiti e di esperienze, sviluppo di strumenti finanziari alternativi in grado
di finanziare le infrastrutture, etc.) (Concialdi, 2001).
In questo nuovo contesto, una delle prime azioni concrete di
apertura è stata la campagna condotta a partire dal 1997 da una coalizione
formata da organismi sindacali americani, britannici e australiani al fianco
della federazione internazionale della Chimica, dell’Energia e delle Miniere
(ICEM) contro Rio Tinto, una delle più grandi multinazionali mondiali nel
settore minerario. Questi sindacati (AFL-CIO e IFCEMGWU per gli Stati Uniti, TUC
per il Regno Unito, Australian Council of Trade Unions et
Construction Forestry, Mining&Energy Union per l’AUstralia) attraverso
i loro FP hanno ingaggiato una battaglia sulle risoluzioni e sull’azionariato
di questa società (nelle filiali britanniche e australiane) partendo da due
punti: la nomina di un amministratore indipendente e la messa in atto di un
codice di buona condotta in materia di gestione sociale sul luogo di lavoro
(riconoscimento della rappresentanza sindacale e della negoziazione collettiva,
rispetto delle norme stabilite dal BIT). Avendo raccolto tra il 17 e il 20% dei
suffragi nell’assemblea generale, pur essendo lontani dall’essere la
maggioranza, hanno costituito un’opposizione al gruppo dirigente della
multinazionale che ha dovuto rivedere (in parte) la sua politica anti-sindacale.
L’altro esempio, più recente, è quello della proposta di
aiuto formulata dall’AFL-CIO all’IG Metall al momento dell’OPA
ostile lanciata dal gruppo Vodafone sul gruppo tedesco Mannessman nel
2000. Il sindacato americano aveva effettivamente domandato ai gestori dei FP
americani azionisti (sindacali, ma soprattutto pubblici) dell’impresa tedesca
di rifiutare l’offerta di Vodafone, quindi di conservare i loro titoli
rinunciando ad intascare la plusvalenza finanziaria risultante dalla differenza
tra il prezzo proposto dall’OPA e il valore di mercato dell’azione Mannesmann.
Lo scioglimento “amichevole” dell’operazione ha impedito di testare la
reale capacità di influenza dell’AFL-CIO. Il gestore di hedge fund,
Guy Wiser-Pratte, parte determinante e protagonista chiave di questo tentativo
non amichevole di presa di controllo, aveva già coinvolto il Ministero del
Lavoro americano ed era fermamente deciso ad attaccare i gestori del fondo che
avessero eventualmente seguito l’appello lanciato da John Sweeney per la
violazione dei loro doveri fiduciari.
3.4. L’ambivalenza di questa nuova strategia
I risultati di questo nuovo “attivismo” sindacale sono
quanto meno ambivalenti. Sul terreno dell’impresa e della corporate
governance, i sindacati sono arrivati a far sentire la loro voce nella
ristretta cerchia degli investitori istituzionali e a guadagnare legittimità in
quanto tali. Questa strategia ha un costo: l’allineamento dei loro
comportamenti e dei loro voti su quello degli altri azionisti, in particolare la
rivendicazione della massimizzazione del valore azionario. I FP sindacali hanno
in effetti bisogno di alleanze per far realizzare le loro risoluzioni, tenuto
conto del loro peso marginale nel capitale delle imprese: questa posizione
subordinata li costringe a restare nel binario delle rivendicazioni degli altri
azionisti come i FP del settore pubblico o altri minoritari. Questo spiega come
le risoluzioni dei FP sindacali sottoposte al voto siano praticamente di tutto
punto conformi a quelle degli altri azionisti. L’eliminazione dei dispositivi
anti-OPA, l’indipendenza dei consigli di amministrazione e la limitazione
delle remunerazioni dei dirigenti sono in effetti il loro bersaglio principale.
Le rivendicazioni più propriamente salariali non sono legittimate, nel quadro
strettamente giuridico definito dalla corporate governance o dalle corporate
laws, ugualmente restrittive negli Stati Uniti e in Canada.
Questa forma d’attivismo sindacale porta i rappresentanti
dei lavoratori ad allinearsi sugli interessi degli azionisti e non l’inverso,
a tener conto degli interessi di altre parti dell’impresa, come quella dei
lavoratori. Quest’ultima problematica rimanda ad una concezione dell’impresa
come insieme d’interessi. Una economista della Brookigs Institution,
Margaret Blair, ha cercato recentemente di rilanciare il dibattito sulla nozione
di stakeholder. Questo dibattito, iniziato negli anni ‘80 negli Stati
Uniti, è totalmente dominato al giorno d’oggi dall’idea che l’obiettivo
esclusivo dell’impresa sia la massimizzazione del valore delle azioni. Questa
attuale credenza si fonda su tre argomenti: a) gli azionisti- i “capitalisti”
devono avere il controllo dell’impresa perché ne sono proprietari; b) i
dirigenti - i loro “agenti” - devono rispondere delle loro azioni agli
azionisti e non ad altri protagonisti, perché l’effetto sarebbe di diminuire
le loro responsabilità; c) gli azionisti sono gli ultimi beneficiari dell’impresa
perché ne sopportano il rischio residuale.
Contestando la pertinenza di questi argomenti, Margaret Blair
(1995) sviluppa l’idea contraria che i rischi residuali sono supportati e
condivisi da ben altri protagonisti dell’impresa, dai lavoranti le cui
competenze e conoscenze accumulate sono integrate con l’organizzazione dell’impresa
e messe al servizio della sua clientela. Questi stakeholders come
contribuenti agli inputs molto specializzati dell’impresa hanno, in
questo modo, un rischio d’investimento. Pertanto i loro diritti ed obblighi
come “proprietari” dovrebbero essere altrettanto riconosciuti di quelli
degli azionisti; potrebbero anche essere formalizzati attraverso lo sviluppo di
forma di remunerazione specifiche che diano loro diritto alla divisione dei
profitti (azionariato salariale o interessamento).
Nel contesto americano attuale questo argomento può essere
considerato “progressista”, permettendo la legittimità di altri interessi,
oltre a quelli esclusivi degli azionisti. Ma non vedendo altro che alcune forme
di remunerazione proprie degli azionisti come mezzo di riconoscimento degli
interessi degli stakeholders, limita questi a non avere nulla
oltre le loro stesse rivendicazioni. Così facendo, Margeret Blair
sostiene l’idea che il potere e la remunerazione degli azionisti siano
legittimi e da questo punto di vista, la sua critica è debole e molto indietro
rispetto a quanto detto da Adolf Berle, in un’epoca nella quale la finanza non
aveva conquistato questa importanza nella sfera economica e in quella del
pensiero.
“...L’acquirente di azioni non contribuisce all’aumento
di stock di risparmio d’impresa, quindi al finanziamento di nuovi
investimenti. Non rischia un nuovo investimento. Non fa altro che valutare le
possibilità dell’azione di una certa impresa di aumentare. Così facendo,
contribuisce a mantenere la liquidità del mercato permettendo ad altri
azionisti di convertire le loro azioni in denaro. Chiaramente non può né vuole
contribuire all’attività dell’impresa...”.
L’argomento di Margeret Blair conforta e legittima i
comportamenti dei FP sindacali e la strategia messa in atto dall’AFL-CIO:
giocare fino in fondo la logica dei mercati finanziari e quella del valore
azionario per ottenere il più elevato guadagno dagli investimenti; servirsene
come leva per ottenere il riconoscimento sindacale nell’impresa da parte
patronale. Alcuni possono pensare che questa strategia abbia il merito di far
sentire la voce dei lavoratori e di diffondere l’idea che i loro interessi
siano meglio tutelati a lungo termine. Mantiene aperto il dibattito all’interno
del movimento sindacale americano e canadese sui rischi inerenti questo tipo di
strategia, sul rinforzamento del potere degli azionisti a scapito dei
lavoratori.
Negli Stati Uniti, questa strategia comincia ad essere
criticata anche dall’interno dei ranghi sindacali che l’hanno sperimentata:
è tacciata di essere a corto raggio. I sindacati delle costruzioni insistono
sull’idea che queste nuove forme d’attivismo, li abbiano portati a spingere
le imprese ad avere politiche di breve periodo. Alcuni responsabili sindacali
hanno messo in guardia contro le false speranze che nascondono un’implicazione
spinta nelle alleanze dei stakeholders .L’impegno dell’AFL-CIO nelle
reti nazionali o internazionali come il Council of Institutional Investors
negli Stati Uniti e ancora di più l’International Corporate Governance
Network è spesso interpretato, da questo punto di vista, come una
concessione eccessiva al primato della logica finanziaria e degli attori
principali dei mercati finanziari, col diritto esclusivo degli azionisti di
determinare le finalità dell’impresa. In Canada, l’opposizione all’implicazione
nella gestione dell’investimento delle casse pensione è tradizionalmente
forte nel sindacato dell’automobile (Canadian Auto Workers).
L’altra ambiguità risiede nel conflitto d’interessi che
può manifestarsi. In effetti l’antagonismo consustanziale al rapporto
capitale-lavoro nelle economie capitaliste, fondate sulla proprietà privata
degli strumenti di produzione, si manifesta nella divisione per forza
conflittuale del valore aggiunto: l’aumento dei salari si traduce
automaticamente nella diminuzione dei profitti e viceversa. Ciò è stato
dimostrato nel conflitto che ha opposto, qualche anno fa, gli azionisti del
primo FP pubblico canadese, quelli degli insegnanti dell’Ontario (Ontario
Teachers’ pension plan) e i loro sindacati. Questo fondo era un
importante azionista del gruppo agro-alimentare Maple Leafe Foods. Nel
1995, insieme ad altri azionisti, ha sollecitato il riacquisto di quest’ultimo
da parte di un altro gruppo (McCain) per raddrizzare i costi e il
rendimento. Quest’obiettivo ha portato la nuova direzione del gruppo a mettere
in atto nel 1998 una politica ferocemente anti-sindacale, esigendo drastiche
concessioni salariali al momento del rinnovo della convenzione collettiva dopo
un lock out di risposta ad uno sciopero dei lavoratori. Questa logica
dell’azionariato è venuta a scontrarsi con gli interessi dei lavoratori del
gruppo industriale in questione e del sindacato che li rappresenta (UFCW) e
questo nonostante le veementi proteste e la mobilitazione del sindacato degli
insegnanti dell’Ontario, che non ha potuto impedirlo.
La strategia di sviluppo della militanza dell’azionariato
sindacale, come quelle che soggiacciono agli investimenti etici o socialmente
utili esaltate dai sindacati nordamericani o europei, poggia per di più su un
argomento implicito in parte erroneo: quello che pretende che i mercati
borsistici contribuiscano al finanziamento delle imprese e degli investimenti.
In generale, le emissioni nette di azioni non hanno mai rappresentato una
risorsa di finanziamento importante per le imprese (non finanziarie in
particolare), le quali finanziano i loro investimenti sia con la parte dei
profitti che non viene distribuita sia con indebitamento bancario o
obbligazionario. Questo vale in particolar modo per la situazione americana.
Negli Stati Uniti i mercati finanziari hanno giocato un ruolo iniziale, ma è il
debito pubblico più che il finanziamento delle imprese che è stato di leva per
il loro sviluppo. E a dispetto della forte mediaticità dei mercati borsistici,
l’emissione di azioni conta oggi solo in parte per il finanziamento delle
imprese, meno dell’emissione delle obbligazioni.
Ugualmente l’affermazione corrente secondo la quale i
principali paesi sarebbero passati da una “economia d’indebitamento” ad
una “economia di fondi propri” merita riflessione: significa certamente che
i mercati finanziari hanno acquistato un peso importante nell’economia (ciò
che traduce l’aumento del rapporto capitalizzazione borsistica/PIB). Ma questo
peso è più legato alla moltiplicazione delle transazioni sui titoli (mercato
secondario) che all’emissione di titoli nuovi (mercato primario), dal momento
che la finalità degli operatori su questo mercato secondario è la ricerca di
plusvalore finanziario e non il finanziamento di nuovi investimenti. E da questo
punto di vista, lo slittamento semantico che consiste nell’appellare gli
azionisti (minoritari) degli investitori (fossero istituzionali) è sbagliato ed
è fonte di confusione: lascia intendere che questi attori investano e si
sobbarchino il rischio d’impresa. In realtà, non è così. Non fanno che
comportarsi come acquirenti di titoli che rappresentano una parte del capitale
sociale delle imprese, contribuendo così a mantenere la liquidità del mercato.
Da questo punto di vista, è chiaro che gli investitori istituzionali, se s’interessano
all’attività delle imprese, non lo fanno per altro che per valutarne le
possibilità di plusvalore finanziario e non per un interesse specifico al
progetto imprenditoriale e alla gestione in quanto tale (Montagne e Sauviat,
2001).