Per nuove conquiste del movimento dei lavoratori. Democrazia economica, una strategia possibile?
Armando Fernández Steinko
|
Stampa |
5. Strategia con futuro o discorso stantio?
Anche se la democrazia economica fa parte della conquista
ideologica della socialdemocrazia, e anche se nel congresso del SPD celebrato
nel 1989 essa era ancora compresa nel suo programma politico, è certo che dall’inizio
della “Seconda Guerra fredda” se ne parla sempre meno negli ambienti
socialdemocrati. Negli anni Ottanta, la socialdemocrazia ha dedicato le sue
forze a strappare gli spazi politici di centro per attirare elettorato delle
classi medie, più che ad adattare e difendere le conquiste degli anni Sessanta.
Dal canto loro, i partiti socialisti di sinistra e comunisti, ma soprattutto i
sindacati, hanno concentrato i loro sforzi nella difesa delle conquiste sociali
e nella lotta contro la disoccupazione utilizzando vecchi procedimenti
minimalisti, anzichè ravvivare i vecchi obbiettivi di autogestione e di
democrazia nell’impresa, di radice massimalista. Negli anni Novanta la
socialdemocrazia della “terza via” e del nuovo laburismo inglese,
seppellirono definitivamente lo spirito della democrazia che aveva anuto un auge
negli anni Settanta (Legge di Codeterminazione tedesca del 1976, Rapporto
Bullock presentato nel 1978). Nella Germania Federale è stato sostuituito da
una nuova concezione di codeterminazione intesa come parte del così detto “corporativismo
per la competitività”(W.Streeck). All’interno di questa strategia, che oggi
condividono alcuni settori di centro-destra, la partecipazione nel lavoro viene
ridotta a uno strumento per stimolare la flessibilità e l’efficienza delle
imprese con l’obbiettivo di renderle più competitive a livello
internazionale. È un tentativo di incorporare i sindacati nelle strategie
competitive delle imprese, delle regioni e delle nazioni (rottura dell’autonomia
sindacale), in cambio di una vaga promessa - quasi sempre non mantenuta - di
crezione (o consolidamento) di posti di lavoro.
Però si sente anche parlare di nuovo di “democrazia
economica” come strategia alternativa a quella del “neocorporativismo per la
competività” [1]. A differenza di quest’ultimo, che non si pone mai l’obbiettivo di
ridistribuire il potere di decisione nelle imprese e nell’economia, la “democrazia
economica” può oggi servire proprio per porre sul tavolo questo obbiettivo,
sempre però a condizione che scelga di inserirsi in culture a partecipazione
massimalista. Il suo obbiettivo non è altro che a piena “cittadinanza” la
vita sociale, cioè, anche della vita lavorativa e della vita economica
in generale. “Cittadinizzare” significa in questo caso non solo
applicare politiche economiche che soddisfino i bisogni sociali e ambientali
della maggioranza del pianeta, ma significa anche sottomettere le decisioni d’impresa
alla volontà non di coloro che possiedono la maggioranza delle azioni di un’impresa
o quella dei suoi rappresentanti, ma alla maggioranza di coloro che lavorano
nelle imprese e ai settori sociali interessati da queste attività e strategie.
Il sistema economico e d’impresa non deve essere orientato in base all’obbiettivo
unilaterale della massimizzazione dei benefici espressi in termini monetari, ma
alla massimizzazione dei benefici espressi in termini plurali, cioè
anche in termini sociali, di qualità della vita, in termini ambientali,
culturali, ecc... I modi della proprietà, i contenuti tecnici della produzione
(valori d’uso), la combinazione tra mercato e pianificazione restano qui
subordinati a questo insieme di logiche, di necessità; insieme che non si trova
scritto in un manuale o nei codici cifrati di uno o di un altro teorico, ma che
deve essere definito e approvato continuamente in un processo discorsivo e
aperto, a cui partecipa il maggior numero di cittadini, lavoratori e organismi
possibili. Oggi come oggi queste necessità potranno essere soddisfatte solo con
una profonda riconversione sociale, lavorativa e ambientale nella quale il
lavoro dovrà recuperare una posizione strategica e dovrà essere regolato in
modo diverso. La ricchezza sociale non solo dovrà essere distribuita in modo
diverso, ma anche prodotta, generata in modo diverso, il rapporto tra società e
biosfera dovrà essere radicalmente ridefinito all’interno di questo nuovo
ordine economico e impresariale, così come il rapporto tra i sessi e il legame
tra lavoro renumerato e lavoro non renumerato dovranno subire cambiamenti
importanti. Così come stanno le cose, considerando la complessità dei fattori,
dei problemi tecnici, sociali e umani che dovrà affrontare questa riconversione
globale a livello planetario, non ho alcun dubbio che il modo migliore di farla
è mobilitando il potenziale di creatività, di iniziativa e di organizzazione
di settori molto ampli della popolazione mondiale, cioè, farlo in modo
democratico e massimalista. Esporrò alcune ragioni per provare a
dimostarlo. Per finire, accennerò ad alcune questioni dalle quali spero si
possa cocludere che la democrazia economica non solo è una necessità tecnica e
politica, ma, inoltre, è una possibilità diciamo “storica” considerando
gli attuali livelli di sviluppo sociale e tecnologico.
6. Il percorso più breve
La democrazia economica è il percorso più breve verso la
riconversione (con tutte le sue ramificazioni), almeno, per le seguenti ragioni.
1.) La concentrazione d’impresa è un fatto evidente. Però
la concetrazione genera, intrinsecamente, ombre e abusi di potere.
Democratizzare l’economia significa oggi che la società abbia maggiore
capacità di intervenire nell’attività, la contabilità ed anche nella
definizione delle strategie delle grandi imprese. I casi dei conti truccati di
Enron e World Com, si sarebbero evitati se i governi eletti conservassero una
maggiore capacità di intervento nei fino ad ora sacrosanti spazi “privati”
delle imprese. Ma non solo loro. Se anche i lavoratori avessero avuto
accesso ai conti economici di queste imprese, si sarebbero potute evitare questi
sottrazioni, di cui essi sono coloro che ne risentono maggiormente. Con l’attuale
livello di socializzazione e interdipendenza della vita economica, l’unico
modo per evitare quello che è successo è sottomettere le imprese ad un
maggiore controllo sociale. Se consideriamo che i dipendenti delle imprese
conoscono molto meglio di chiunque altro i particolari delle loro attività, e
che sono loro i primi interessati ad evitare situazioni di indebita sottrazione,
perdita di credibilità e di capitale, sarebbe una prova di realismo dare loro l’informazione
e il potere sufficiente perché possano intervenire, non solo nel miglioramento
delle condizioni di lavoro come fino ad ora, ma anche nella definizione delle
grandi strategie e conti impresariali.
2.) La riconversione ambientale possiede una complessità
tecnica che aumenta di anno in anno con l’uso dei materiali chimici, con la
svincolazione tra le cause e effetti conosciuti di un determinato materiale,
prodotto o anche di una determinata organizzazione o strategia sociale e
economica. La partecipazione dei dipendenti nella definizione dei valori d’uso
prodotti o prestati, il loro inserimento nella definizione di strategie
tecnologiche, politiche e processi di salute lavorativa, orientamenti
commerciali ecc. avrebbe il vantaggio di rendere sfruttabili un’infinità di
conoscenze di tutti i tipi, che i produttori conservano oggi per loro perché
non hanno nessun motivo per condividerle con altri (anzi: l’insicurezza
lavorativa spinge soprattutto a un comportamento cauto quando si devono
condividere conoscenze). Inoltre servirebbe a coinvolgere i lavoratori non solo
in quanto produttori, ma anche come consumatori, cittadini relazionati con il
contesto in cui vivono, permetterebbe di adattare la produzione di valori d’uso
(prodotti e procedimenti) alla loro sostenibilità ambientale e sociale, alle
necessità del consumo sostenibile. Nessuna strategia tecnocratica può
competere per efficienza con questo meccanismo, né dal punto di vista
democratico, ma nemmeno dal punto di vista tecnico-funzionale. Molte imprese
hanno capito benissimo tutto questo e cercano di mobilitare tutto quel
potenziale di creatività “addormentato” nelle teste dei loro dipendenti,
motivo per cui ampliano i loro spazi di autonomia lavorativa (soppressione di
gerarchie, di comandi intermedi). Ma in nessun caso danno loro potere di
decisione, in nessun caso democratizzano la gestione d’impresa, fatto che sta
portando ad un aumento del costo della salute lavorativa (autosfruttamento) ed
ad un allungamento brutale delle giornate di lavoro.
3.) Democratizzare la vita d’impresa costituirebbe una
soluzione realista per la complessità e diversità delle forme di vita e di
lavoro di un numero sempre più ampio di persone. Questa diversità non è
prodotto solo della mancanza di regole a livello economico, ma anche dei
cambiamenti nei modi di vita e nelle mentalità, dell’inserimento della donna
nel mercato del lavoro e degli stessi cambiamenti all’interno del modello di
produzione e di consumo (post)fordisti. L’autogestione del tempo non può
ridursi a organizzarsi in modo autodeterminato il tempo libero, per esempio, a
partire dagli spazi che concede un sistema di lavoro organizzato in modo
autocratico, ma deve invece nascere nel proprio spazio impresariale. Lì, nelle
imprese, è dove bisogna mettersi d’accordo con altri compagni di lavoro per
stabilire orari o i tempi di entrata e di uscita. Però, perché i ritmi
produttivi non si vedano drammaticamente alterati dall’adattamento dell’attività
impresariale all’attività umana, i dipendenti e lavoratori devono anche avere
la possibilità di intervenire nell’organizzazione dell’impresa e non
solamente del proprio piccolo spazio lavorativo, ma di spazi più ampi
(dipartimento della impresa, filiale o addirittura della impresa nel suo
insieme). Il drammmatico calo del tasso di natalità in paesi come Spagna e
Italia, il freno all’inserimento della donna nel mercato del lavoro o l’aumento
drammatico del costo della salute lavorativa, specialmente della salute
psichica, sono solamente alcuni dei costi che oggi stiamo pagando per le
pratiche unilaterali di gestione che non si adattano alla pluralità delle forme
di vita ma le sfruttano e strumentalizzano.
4.) Lasciare che i dipendenti co-organizzino le imprese
significa, inoltre, promuovere una cultura d’impresa sostenibile a livello
territoriale e urbanistico. Attualmente l’imprenditore impone le sue
condizioni unilateralmente, fonda o amplia centri produttivi in funzione delle
proprie decisioni di investire qui o lì, e senza considerare il mezzo ambiente
sociale e naturale che lo circonda. I comuni sono poi coloro che adattano le
infrastrutture alle loro preferenze, fatto che non solo manda in tilt i costi
della pianificazione urbanistica, ma genera anche un collasso del modello di
trasporto e una confusione della organizzazione urbana e territoriale. Se i
dipendenti e i cittadini, attraverso i consigli economici locali e territoriali,
potessero esprimere la propria opinione in merito a queste questioni,
sicuramente farebbero risparmiare ai comuni molti rompimenti di testa e nello
stesso tempo migliorerebbe la qualità della vita nelle città e nei paesi. L’avvicinamento
dei centri produttivi ai centri residenziali sarebbe un fatto, il risparmio
energetico e il freno al riscaldamento del pianeta sarebbero più facili da
ottenere. Il contesto dell’impresa contribuirebbe non a generare
destrutturazione sociale e spaziale, ma a crearla. Le imprese diventerebbero
parte di un sottosistema locale e regionale, una fonte di qualità della vita.
Le imprese smetterebbero di contribuire alla deterritorializzazione dei flussi
economici e servirebbero a ricomporre coerenze spaziali, sociali e naturali che
oggi stanno venendo brutalmente alterate dalle legtgi imposte dalla politica
della globalizzazione finanziaria.
5.) I bisogni sociali e ambientali stanno crescendo più
rapidamente delle risorse economiche destinate a soddisfarli. Si tratta,
soprattutto, di un problema di mancanza di progressività fiscale, di mancanza
di ordine finanziario e di proliferazione del lavoro sommerso, ma non solo.
Durante il fordismo si riscuoteva di più perché tutti avevano un lavoro, ma
anche perché si cresceva molto, a tassi impossibili da ripetere ancora a causa
di ragioni legate al carattere finito della biosfera e per le stesse leggi
generali dell’accumulazione (composizione organica del capitale, ecc.). Il
modo migliore di ottenere il massimo rendimento dagli investimenti pubblici,
dalla spesa pubblica in generale, è organizzare la società in modo che i suoi
stessi destinatari, ossia, i cittadini siano coinvolti nel disegno e nella
valutazione delle preferenze. Il caso dei presupposti partecipativi di Porto
Alegre è diventato famoso a livello mondiale perché infrange uno dei grandi
tabù delle tecnostrutture e dei professonisti della amministrazione educati in
una cultura minimalista: che la partecipazione cittadina e l’uso efficace
delle risorse economiche sono due cose opposte. La partecipazione e l’efficienza
intesa in termini plurali- non si adattano automaticamente l’una all’altra,
ma devono verificarsi alcune condizioni (conoscenze, culture, contesto politico
e economico) perché ciò avvenga. Però una volta compiute queste condizioni,
la partecipazione, intesa nella sua versione massimalista, può dare delle
autentiche sorprese, anche sorprese in termini di efficacia.
6.) Lo schema della proprietà privata, e l’etica del
singolo imprenditore basata su di essa, - entrambi vecchi come il capitalismo -
sono troppo rigide, troppo matematiche e formali per poter fare fronte alla
complessità della vita sociale e economica del presente e, ancora di più, di
quella futura. Da un lato, esistono sempre più ambiti e zone della convivenza
che le persone, le culture ed i paesi deovo condividere, però molti di essi non
sono già più sostituibili. Quando mancano non si possono più cercare
alternative in spazi vergini, colonie o paesi che possano essere invasi. Il “capitalista
imprenditore” non solo riesce ad avere successo grazie alla “sua” abilità
o alla “sua” capacità di rischiare, ma sempre più grazie alla “sua
capacità” di ipersfruttare risorse umane, naturali e sociali, alla “sua”
capacità di appropriarsi di cose che sanno gli altri senza condividere con gli
altri i loro frutti. Il consumo di ciò che è di tutti - che “l’intrepido
imprenditore” considera di nessuno- è superiore alla sua rintegrazione, dal
momento che non vi sono né denaro, né sistemi fiscali né mezzi tecnici
sufficenti per farlo. Però dal momento che questi spazi rimangono fuori dalla
proprietà privata tutti hanno carta bianca per distruggerli, e quando qualcuno
li compra succede esattamente la stessa cosa. Qui bisogna menzionare non solo la
biosfera, l’aria, i territori formalmente “privati” ma che non per questo
smettono di essere il luogo dove passano gli uccelli, dove vi sono fiumi, monti
e spiagge ecc... Inolte bisogna parlare del patrimonio culturale, umano e
strorico che, essendo di tutti, è utilizzato o “consumato” molte volte da
imprese e da interessi privati senza che questo si rifletta in un’infrazione,
o in un bilancio. Però una casa costruita su suolo privato può rovinare un
intero paesaggio, tutto un patrimonio, tutta una “proprietà” di tutti. Un’attuazione
urbanistica può spezzre un contesto monumentale, un affare, come quello
televisivo, può generare comportamenti e culture aggressive irreversibili tra i
giovani. Dove inizia ciò che è mio, dove inizia ciò che è di tutti? Oggi, le
imprese non solo utilizzano mezzi (“fattori produttivi”) che pagano, ma
sempre più cose che non pagano, che pagano tutti al loro posto, incluse le
generazioni future. La subcontrattazione e sub-subcontrattazione d’impresa
serve a ridurre i costi. Però questi costi non spariscono, solamente che ora
deve pagarli la collettività, sia sottoforma di tasse, sia sopportando il
rumore dei camion che non smettono ddi trasoprtare mercanzie, sia dovendo
prescindere da un patrimonio storico-artistico che le appartiene. Come fare
bilanci sociali e economici realisti in questo contesto, se nemmeno è chiaro
cosa bisogna inlcudere tra i vantaggi e cosa tra le spese perchè non abbiamo
nemmeno una nozione realista di “proprietà” sulla quale basare i nostri
diritti? Qui, sottoscrivo pienamente una frase del professore della Università
del Sussex Kees Van der Pijl e che nasce da questo carattere povero e
sempliciotto della proprietà che vige attualmente: “il processo di
socializzazione del lavoro, che sta creando nella società un tessuto sempre
più complesso di interdipendenze, tende a diffondere l’etica del
singolo-imprenditore, che rappresenta uno dei fondamenti della società
capitalista” [2].
7. Il desiderabile è possibile
Esistono molti esempi di questo tipo che potrebbero essere
citati ed uno dei compiti delle scienze sociali critiche è esplorare i punti di
incontro tra partecipazione, efficienza sociale e riconversione intesa come
rinnovo della struttura fisica, biologica e sociale della vita sul pianeta.
Però, non si tratta solo di un’utopia campata in aria, solo di bei desideri?
Secondo la mia opinione, ci sono oggi delle circostanze che non solo rendono
desiderabile una “cittadinizzazione” della vita economica e impresariale, ma
che, inoltre, la rendono possibile. Questo non significa che essa si
verrà a creare da sola, semplicemente diffondendo questa bella idea, come hanno
preteso Naphtali ed i suoi collaboratori. Anzi, fino a quando non si recupererà
una cultura massimalista della partecipazione, l’’attuale contesto
ultracompetitivo esaurirà tutte le possibilità di emancipazione sociale e
lavorativa create dalla crisi del fordismo, risolverà questa crisi in un senso
socialdarwinista e tendenzialmente autoritario. Lo sviluppo sociale ha avuto
sempre un carattere aperto (non esistono teologie nella storia) e la
mobilitazione sociale è stata sempre quella che ha provocato cambiamenti
democratici in situazioni di crisi e rotture strutturali che le hanno rese “tecniche”
(solo tecnicamente) possibili. Le possibilità che offre l’attuale congiuntura
capitalista per avanzare in direzione di una democrazia economica di segno
massimalista sono, tra le altre, le seguenti:
1) Non è mai esistita una popolazione con i livelli di
istruzione e informazione come gli attuali. Questo continua ad essere vero anche
ammettendo l’aumento del costo della qualità dell’insegnamento e la
sottocultura di una parte della popolazione a causa dei mezzi di comunicazione.
Molti degli insuccessi e dei risultati reazionari del passato sono stati dovuti
e sono stati possibili in parte perché la incultura della gente ha chiuso le
porte allo sviluppo democratico, dal momento che una parte della popolazione era
molto vulnerabile ai discorsi autoritari anche a causa dell’alta
concentrazione delle conoscenze nelle mani di pochi e perché, anche se si
voleva organizzare la vita economica e d’impresa in modo più democratico, non
avevano i mezzi, le conoscenze necessarie per farlo. Oggi succede esattamente l’opposto.
Il problema oggi è che la gente sa molte più cose di quelle che può applicare
sul lavoro e nella vita sociale, non ci sono canali, non c’è un’organizzazione
sociale e lavorativa adatta a questa specie di “eccesso di offerta” (detto
con parole che a me non piacciono affatto). I conservatori cercano di ridurre
questi “eccessi” riducendo la qualità dell’insegnamento e dualizzando il
mercato del lavoro, ma questo non è così semplice da fare dal momento che ci
sono anche delle evidenti tendenze che obbligano i governi a continuare a
occuparsi seriamente dell’educazione delle sue popolazioni.
2) Le imprese postfordiste, che sono sempre di più
nonostante il ritorno ad alcune forme di lavoro tipicamente fordiste in alcuni
centri produttivi, hanno ridotto drasticamente i livelli di supervisione e
controllo. Il caposquadra è sempre più inutile. Primo, perché costa molto, e
secondo perché demotiva e perché il suo lavoro è, semplicemente, tecnicamente
inutile. Questo fatto apre spazi di autonomia che mai si erano visti all’interno
dell’impresa. Il lavoro si soggettivizza, i lavoratori devono
autocontrollarsi, avere il senso della responsabilità, prendere inizativa e
tutto ciò esonera i livelli di comando intermedi da molti compiti di
supervisione tradizionali. A causa dell’attuale ordine economico, questo sta
portando ad una dinamica di autosfruttamento, di lavoro senza fine, che sta
costando caro alla salute psichica di molte persone, mangiandosi il loro tempo
libero, la loro possibilità di partecipare alla società. Però la possibilità
tecnica di lavorare senza strutture di controllo è già una realtà (una
necessità per molte imprese) e inoltre, non dimentichiamolo, è sempre stato
uno dei grandi obbiettivi del movimento operaio.
3) Non è vero che le persone non cercano una realizzazione
personale nel lavoro, come suggeriscono alcuni sociologi che teorizzano la “fine
della società del lavoro!”. Quello che succede è che le persone cercano un
equilibrio razionale tra lavoro e non lavoro. Il lavoro come spazio per la
proiezione del proprio Io, del proprio sapere, del proprio impegno, è
desiderato, cercato e rimpianto, soprattutto - almeno in Spagna- da parte delle
donne e dei giovani. La soggettivazione del lavoro apre la possibilità di
introdurre forme di partecipazione massimaliste che possono funzionare in modo
molto sorprendente come le esperienze di Porto Alegre. La gente non vede il
lavoro come un castigo divino, ma vede così la sua attuale organzizzazione. Dal
momento che essa è sempre più chiaramente e direttamente dovuta ad una
determinata organizzazione dell’economia neoglobale (ultracompetitività
internazionale), qui ci sono possibilità che le persone incomincino a
politicizzare il proprio destino individuale e la propria esperienza lavorativa.
4) La socializzazione della proprietà ha raggiunto livelli
incredibili. Oggi questa socializzazione non si traduce in libertà di
disposizione collettiva sul capitale e la gestione, ma esiste una specie di
base, di struttura latente, che rende questo possibile. Ovviamente, bisognerebbe
cambiare le leggi, le regole che regolamentano le giunte degli azionisti,
bisognerebbe socializzare l’informazione e non solo la proprietà. Soprattutto
bisognerebbe cambiare il funzionamento dell’economia internazionale, che dà
la priorità al settore finanziario rispetto a quello produttivo, che frantuma
letteralmente i ritmi e gli spazi lavorativi, le forme di vita sostenibili,
poiché ha bisogno che i vantaggi economici siano evidenti in poco tempo, non
importa a quale prezzo. Però non bisogna perdere di vista tutto ciò che, in
termini democratici, si può evincere da questa socializzazione di fatto della
proprietà azionaria. Il controllo che oggi esercitano i cartelli di azionisti
sui managers, controllo che dieci anni fa era esttamente opposto, potrebbe
essere un segnale di ciò che può accadere in futuro se l’attuale
socializzazione della proprietà si trasforma in socializzazione della
possibilità di disporre sulla proprietà, che è il dato rilevante dal punto di
vista democratico.
8. Democrazia economica e suffragio universale
Democrazia economica come strategia possibile, come concetto operativo? Io
penso di sì, soprattutto se si ha la pazienza di vedere con una certa
prospettiva storica. La democrazia politica basata sul suffragio universle si è
imposta intorno al 1920 sulla democrazia di impronta liberale che predominava
nel XIX secolo in quelle nazioni che si denominavano “democratiche”, e dopo
più di un secolo di lotte politiche. La democrazia liberale legava il diritto
al voto a determinati livelli di rendita (régime censitaire), al non
esercizio di alcune professioni (i soldati non potevano votare, ad esempio),
alla non appartenenza al sesso femminile (nemmeno le donne avevano diritto al
voto), o ad una determinata istruzione (régime capacitaire). Questo
significava che, come massimo, il 30% della popolazione adulta poteva esercitare
il suo diritto di voto nelle democrazie maggiormente di segno liberale. C’era
la “democrazia”, ma non c’era il suffragio universale, c’era democrazia
solo a metà.
L’esercizio della piena cittadinanza di tipo massimalista -
ammesso che questo è ciò che per me significa la democrazia economica -, il
diritto a partecipare anche nella gestione dell’economia e delle imprese, il
fatto che questo diritto smetta di essere proporzionale alla proprietà o al
potere di qualsiasi altro tipo, può essere paragonato al suffragio universale
che è consistito anch’esso a suo tempo nell’eliminare il legame tra diritto
di voto e sesso, professione, le proprietà o l’istruzione. Questa
eliminazione di vincoli è ciò che ha tolto le virgolette alla “democrazia
politica”, che le ha tolto il suo vestito liberale. In questo senso, la
democrazia economica è il fratello gemello del suffragio universale, è l’unico
modo di prendersi davvero la propria democrazia politica, di stabilire l’ordine
democratico nel suo insieme. Il trionfo del suffragio universale intorno al 1920
in una parte consistente dell’Europa, ha costituito il trionfo della
cittadinanza, ma solo della cittadinanza-a-metà, dato che le fabbriche ne
rimanevo escluse. Tuttavia vi era un tale bisogno, una tale forza, tale
legittimità per imporlo che esso divenne la porta d’accesso al XX secolo.
Dopo molto poco tempo dalla sua nascita fu soppresso in quasi tutta Europa,
però intorno 1945 è ritornato, per non andarsene più (almeno fino ad oggi).
Si tratta di un diritto così elementare che in una società tanto complessa e
interdipendente come quella del XX secolo è diventato semplicemente impossibile
continuare a negarlo alle maggioranze. Adesso tocca alla “piena cittadinanza”,
che potrebbe diventare il programma politico del XXI secolo così come il
suffragio uiversale lo è stato nel XX. E non perché io creda in una specie di
determinismo storico, ma perché esiste un rapporto causale tra l’accumulo di
problemi e il tentativo di dare loro una soluzione minimamente stabile. I
problemi accumulati nel XX secolo dovranno trovare qualche soluzione minimamente
stabile e “maneggiabile”, così come quelli del XIX la trovarono nonostante
la fortissima opposizione dei nemici del suffragio, che, non dimentichiamolo, in
alcuni paesi europei erano maggioritari.
La rottura del ghiaccio della proporzionalità tra proprietà
e diritti economici e d’impresa, ghiaccio che si è creato durante il XIX
secolo e che si è riuscito a rompere solo per brevi periodi di tempo durante il
XX secolo, come il suffragio universale si è ottenuto solo per alcuni mesi
durante il XIX, può scaturire solamente da un accordo politico. La creazione di
uno Stato minimamente equidistante tra capitale e lavoro, di uno Stato che
ridistribuisce e crea infrastrutture sanitarie, educative per la maggioranza è
stato un risultato di un contratto sociale che, con i campi di battaglia ancora
fumanti, hanno firmato (alla fine) le nazioni europee dopo della Seconda Guerra
Mondiale, contratto che includeva il suffragio universale [3].
Un accordo politico globale, un contratto sociale simile sarà necessario
affinchè la democrazia economica non solo trionfi, ma anche, perduri nel tempo
e si sappia difendere di fronte ai suoi nemici. Il fatto di chiamare questo “socialismo”
o in un altro modo, non è per me fondamentale. A me interessa di più il costo
che la umanità deve pagare per ottenerlo. Il costo del suffragio universale
furono due guerre mondiali e moltissima sofferenza collettiva; quale sarà il
costo della democrazia economica? E soprattutto, che cosa possiamo fare per
minimizzarlo?
Bibliografia
Bieling, H.J. (y otros): Flexibler Kapitalismus. VSA,
Hamburgo 2001
Deppe, F.: Fin de siècle. Am Übergang ins 21.
Jahrhundert. PapyRossa Colonia 1997.
Fernández Steinko, A.: Democracia en la empresa. HOAC,
Madrid 2000.
Fernández Steinko, A.: Experiencias participativas en
economía y empresa. Tres ciclos para domesticar un siglo. Siglo XXI, Madrid
2002.
Fernández Steinko, A./Lacalle, D.: Sobre la democracia
económica (2 tomos). El Viejo Topo, Barcelona 2001.
Gavron, D.: The kibbutz : awakening from Utopia. Rowman
& Littlefield, Lanham 2000.
Hecker, W.:”Wirtschaftsdemokratie. Eine Kollage” en
Bieling, H.J./Dörre, K./Steinhilber, J./Urban, H.J. (editores): Flexibler
Kapitalismus. VSA, Hamburgo 2001.
Hobsbawm, E.: The Age of Empire 1875-1914. Penguin Books,
Londres 1987 (hay traducción en Ed. Labor).
Michels, R: Los partidos políticos. Un estudio
sociológico de las tendencias oligárquicas de la democracia modernas. 2
Tomos. Amorrortu, Buenos Aires 1991.
Naphtali, F.: Wirtschaftsdemokratie. Europäische
Verlagsanstalt, Francfort/M. 1977.
Van der Pijl, K.:”Die nationalen Grenzen der
transnationalen Bougeoisie”, en Bieling y otros (2001)
Werner, H.: Wirtschaftdemokratie. Eine alte Antwort neu
befragt. Podium-Progressiv, Bonn 1994.
[1] Soprattutto nella Germania Federale. I fuochi teorici del
riinnovamento della strategia della democrazia economica sono Harald Werner,
della direzione del PDS (Werner 1994), la rivista “Sozialismus” e gli
intellettuali che hanno collaborato nel libro omaggio al professore di scienza
politica dell’università di Marburgo Frank Deppe (ved. Bieling e altri (eds.)
2001). Anche in Spagna abbiamo promosso una discussione aperta sulla democrazia
economica (Fernández Steinko/Lacalle (eds.) 2001 e Fernández Steinko (2000 y
2002).
[2] Van der Pijl (2001:128).
[3] Vedi Deppe (1997).