3. Il lavoro “tipicamente” atipico
Nel precedente numero di Proteo abbiamo iniziato una
analisi del lavoro atipico, precario, ecc. in Italia; vogliamo ora approfondire
alcuni aspetti di questo tema che ormai è entrato prepotentemente nella nostra
realtà quotidiana.
In questi ultimi anni, i processi di trasformazione economica
hanno interessato tutti i principali paesi industrializzati. In tutte le
economie si è assistito ad un ridimensionamento del peso dell’industria sull’occupazione
complessiva dei paesi, in particolare delle grandi imprese, a favore dell’area
dei servizi. In questo senso sono entrati a far parte del lessico comune i
termini quali società dei servizi, economie post-industriali, post- società
dell’informazione.
Questo calo dell’industria è dovuto soprattutto al
processo di esternazionalizzazione di funzioni precedentemente interne e di
carattere soprattutto di servizio all’industria (si pensi ai servizi legali,
statistici, commerciali, informatici, di ricerca, ecc.) ma anche a fasi intere
del ciclo produttivo.
La diminuzione dei posti fissi porta dunque non solo ad una maggiore
precarizzazione, ma anche all’affermarsi di attività che non dipendono più
dell’organizzazione classica aziendale [1].
Si sono così formate nuove tipologie di lavoro autonomo,
apparentemente indipendente, ma di fatto eterodiretto e comunque che
rappresentano la nuova frontiera del lavoro salariato postfordista.
Il mercato del lavoro è in veloce trasformazione, ai
cosiddetti lavoro standard si accompagnano nuove tipologie occupazionali che
quasi uniscono le caratteristiche di lavoro autonomo e lavoro dipendente. Quasi
il 50% della occupazione nel nostro Paese si inquadra nella posizione classica
di lavoro dipendente standard, mentre l’altra metà svolge un lavoro
variamente regolato e organizzato.
Nascono infatti tipologie di lavoro nuove che, con le parole
atipicità e parasubordinazione, riempiono un’area di lavoro nuova, non
coperte più dalle tradizionali categorie di “dipendenza” e “autonomia”.
La specializzazione flessibile o la produzione diversificata
di qualità introducono il concetto di consumo personalizzato, alimentato dall’affermarsi
di nuovi stili di vita. Si attuano così le intermittenze delle prestazioni, con
l’aumento di orari atipici, flessibili che configurano non solo le nuove
modalità del lavoro ma la precarizzazione dell’intero vivere sociale in un
contesto di dominio sociale flessibile.
Uno degli effetti di questi processi è dato da una sempre
più grande difficoltà a riportare l’efficacia di un pieno diritto del lavoro
alle nuove modalità di prestazione del lavoro. La liberalizzazione delle varie
forme di contratti di lavoro atipici ha portato anche ad una riduzione dei
sussidi sociali e delle integrazioni di reddito; l’introduzione della
mobilità, delle forme di lavoro flessibile, precario, del lavoro temporaneo,
interinale non sono supportate da alcun ammortizzatore sociale, cioè un reddito
sociale garantito non solo per i disoccupati ma per tutti i lavoratori precari
che interviene nei frequenti e lunghi periodi di interruzione della prestazione
lavorativa, in un’era in cui si ormai “tipicizzano” le varie forme di
lavoro intermittente e precario.
L’elemento che maggiormente si evidenzia è la tendenza a
svolgere attività lavorative atipiche soprattutto in settori come nelle
attività stagionali in agricoltura e turismo, nei trasporti e
telecomunicazioni, nei servizi in genere, ma non solo.
Non va infine dimenticata una forma tutta italiana di
esternalizzazione dei servizi: il subappalto a cooperative cosiddette sociali,
nelle quali i soci anche se fanno parte di una organizzazione più grande sono
inquadrati come lavoratori indipendenti ma sono sottoposti alle forme più dure
del lavoro dipendente precarizzato. Sono poi cresciute a dismisura le figure
professionali come quelle dei consulenti finanziari porta a porta, degli esperti
tecnici finanziari, dei progettisti di sistemi, tutte figure lavorative che
possono svolgere il proprio lavoro al di fuori dell’organizzazione
imprenditoriale classica e che configurano sempre più rapporti di dipendenza
personalizzati e ad alto contenuto di precarietà, contro una minoranza
privilegiata di lavoratori che rientra in un’area di “aristocrazia salariata”.
4. Governo Berlusconi: “stiamo realizzando il paese con il più alto
livello di flessibilità del lavoro”... e di precarietà e assenza di
diritti
Il Patto per l’Italia è la via alla distruzione del
diritto del lavoro attraverso l’attuazione, il più rapidamente possibile, del
disegno di legge di riforma del mercato del lavoro che è stata approvata
definitivamente dal Parlamento il 5 febbraio 2003 (Legge del 14 febbraio 2003,
n.30). È di recente approvazione il Decreto Legislativo (del 10 settembre 2003)
n. 276 (testo in vigore dal 24 ottobre 2003) riguardante l’attuazione delle
deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14
febbraio 2003, n. 30. (GU n. 235 del 9-10-2003- Suppl. Ordinario n.159).
Tra le principali novità va segnalato all’art.4 il ruolo
chiave attribuito alle agenzie per il lavoro; l’art. 4 recita infatti
“Presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è istituito un
apposito albo delle agenzie per il lavoro ai fini dello svolgimento delle
attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del
personale, supporto alla ricollocazione professionale. Il predetto albo è
articolato in cinque sezioni:
a) agenzie di somministrazione di lavoro abilitate allo
svolgimento di tutte le attività di cui all’articolo 20;
b) agenzie di somministrazione di lavoro a tempo
indeterminato abilitate a svolgere esclusivamente una delle attività
specifiche di cui all’articolo 20, comma 3, lettere da a) a h);
c) agenzie di intermediazione;
d) agenzie di ricerca e selezione del personale;
e) agenzie di supporto alla ricollocazione professionale”
[2].
Per quanto riguarda la somministrazione del lavoro è
previsto invece all’art. 20 “Il contratto di somministrazione di lavoro
può essere concluso a termine o a tempo indeterminato. La somministrazione di
lavoro a tempo indeterminato e’ ammessa:
a) per servizi di consulenza e assistenza nel settore
informatico, compresa la progettazione e manutenzione di reti intranet e
extranet, siti internet, sistemi informatici, sviluppo di software
applicativo, caricamento dati;
b) per servizi di pulizia, custodia, portineria;
c) per servizi, da e per lo stabilimento, di trasporto di
persone e di trasporto e movimentazione di macchinari e merci;
d) per la gestione di biblioteche, parchi, musei, archivi,
magazzini, nonché servizi di economato;
e) per attività di consulenza direzionale, assistenza alla
certificazione, programmazione delle risorse, sviluppo organizzativo e
cambiamento, gestione del personale, ricerca e selezione del personale;
f) per attività di marketing, analisi di mercato,
organizzazione della funzione commerciale;
g) per la gestione di call-center, nonché per l’avvio di
nuove iniziative imprenditoriali nelle aree Obiettivo 1 di cui al regolamento
(CE) n. 1260/1999 del Consiglio, del 21 giugno 1999, recante disposizioni
generali sui Fondi strutturali;
h) per costruzioni edilizie all’interno degli
stabilimenti, per installazioni o smontaggio di impianti e macchinari, per
particolari attività produttive, con specifico riferimento all’edilizia e
alla cantieristica navale, le quali richiedano più fasi successive di
lavorazione, l’impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella
normalmente impiegata nell’impresa;
i) in tutti gli altri casi previsti dai contratti
collettivi di lavoro nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei
datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative”.
Ed all’art. 21 si specifica che “Il contratto di somministrazione di
manodopera e’ stipulato in forma scritta e contiene i seguenti elementi:
a) gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al
somministratore;
b) il numero dei lavoratori da somministrare;
c) i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo di cui ai commi 3 e 4 dell’articolo 20;
d) l’indicazione della presenza di eventuali rischi per l’integrità
e la salute del lavoratore e delle misure di prevenzione adottate;
e) la data di inizio e la durata prevista del contratto di
somministrazione;
f) le mansioni alle quali saranno adibiti i lavoratori e il
loro inquadramento;
g) il luogo, l’orario e il trattamento economico e
normativo delle prestazioni lavorative;
h) assunzione da parte del somministratore della
obbligazione del pagamento diretto al lavoratore del trattamento economico,
nonché del versamento dei contributi previdenziali;
i) assunzione dell’obbligo dell’utilizzatore di
rimborsare al somministratore gli oneri retributivi e previdenziali da questa
effettivamente sostenuti in favore dei prestatori di lavoro;
j) assunzione dell’obbligo dell’utilizzatore di
comunicare al somministratore i trattamenti retributivi applicabili ai
lavoratori comparabili;
k) assunzione da parte dell’utilizzatore, in caso di
inadempimento del somministratore, dell’obbligo del pagamento diretto al
lavoratore del trattamento economico nonché del versamento dei contributi
previdenziali, fatto salvo il diritto di rivalsa verso il somministratore.
4. In mancanza di forma scritta, con indicazione degli
elementi di cui alle lettere a), b), c), d) ed e) del comma 1, il contratto di
somministrazione e’ nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti
alle dipendenze dell’utilizzatore.” [3]
Per quanto riguarda il lavoro intermittente l’art.
33 cita: “Il contratto di lavoro intermittente e’ il contratto mediante
il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può
utilizzare la prestazione lavorativa nei limiti di cui all’articolo 34. ...Il
contratto di lavoro intermittente può essere stipulato anche a tempo
determinato. Vi è poi la figura del lavoro ripartito (art.41) ossia “uno
speciale contratto di lavoro mediante il quale due lavoratori assumono in solido
l’adempimento di una unica e identica obbligazione lavorativa” [4].
Si tratta anche dell’apprendistato (art.47)
affermando che “il contratto di apprendistato e’ definito secondo le
seguenti tipologie:
a) contratto di apprendistato per l’espletamento del
diritto-dovere di istruzione e formazione;
b) contratto di apprendistato professionalizzante per il
conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e un
apprendimento tecnico-professionale;
c) contratto di apprendistato per l’acquisizione di un
diploma o per percorsi di alta formazione.”
Il numero complessivo di apprendisti che un datore di lavoro
può assumere con contratto di apprendistato non può superare il 100 per cento
delle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso il datore di
lavoro stesso.
Inoltre il Decreto Legislativo 276 stabilisce che il periodo
di apprendistato sia strutturato in una fase di formazione da attuare in una
struttura formativa, e in altre fasi di lavoro alternate a momenti di
formazione; sono previste agevolazioni contributive, le assunzioni sono per
giovani di età tra i 16 e i 24 anni (a parte eccezioni per i portatori di
handicap e alcuni residenti in determinati comuni): le ore di formazione devono
essere almeno 120.
L’art 54 tratta poi del Contratto di inserimento
ossia di “un contratto di lavoro diretto a realizzare, mediante un progetto
individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore a un
determinato contesto lavorativo, l’inserimento ovvero il reinserimento nel
mercato del lavoro delle seguenti categorie di persone:
a) soggetti di età compresa tra i diciotto e i ventinove
anni;
b) disoccupati di lunga durata da ventinove fino a
trentadue anni;
c) lavoratori con più di cinquanta anni di età che siano
privi di un posto di lavoro;
d) lavoratori che desiderino riprendere una attività
lavorativa e che non abbiano lavorato per almeno due anni;
e) donne di qualsiasi età residenti in una area geografica
in cui il tasso di occupazione femminile..... sia inferiore almeno del 20 per
cento di quello maschile o in cui il tasso di disoccupazione femminile superi
del 10 per cento quello maschile;
f) persone riconosciute affette, ai sensi della normativa
vigente, da un grave handicap fisico, mentale o psichico.
2. I contratti di inserimento possono essere stipulati da:
a) enti pubblici economici, imprese e loro consorzi;
b) gruppi di imprese;
c) associazioni professionali, socio-culturali, sportive;
d) fondazioni; e) enti di ricerca, pubblici e privati;
f) organizzazioni e associazioni di categoria.
L’art. 69 invece descrive i rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa sostenendo che se “instaurati senza l’individuazione
di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’articolo
61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo
indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto” [5].
Si tratta di un contratto stipulato di solito con una
scrittura privata, che instaura un rapporto di lavoro parasubordinato. Il
lavoratore, da un punto di vista legale-regolamentativo, offre la propria
prestazione in modo continuativo ed in modo coordinato e svolge il proprio
lavoro in piena autonomia, non dovendo essere sottoposto alle direttive del
committente. Il lavoratore non è obbligato ad avere la partita IVA.
Con il lavoro interinale inoltre le imprese possono
redigere un contratto di fornitura di manodopera con agenzie specializzate, che
forniscono loro in tempo reale e solo per il periodo necessario le
professionalità richieste. Di solito si tratta di un contratto a termine,
che offre un lavoro limitato nel tempo, per delle qualifiche a volte molto
elevate e che configura e istituzionalizza il “precariato a vita” come forma
“tipica” del lavoro. “l lavoro temporaneo è previsto in casi ben
precisi, stabiliti dalla legge. Secondo la normativa vigente, il lavoro
temporaneo deve avere le seguenti: caratteristiche: Il tipo di prestazione
professionale richiesta al lavoratore è determinata nel tempo, poiché in un’azienda
si sono verificate delle condizioni di eccezionalità, che non possono essere
altrimenti fronteggiate, ricorrendo al personale e alle professionalità
presenti nell’assetto e nell’organizzazione dell’azienda stessa. Tali
situazioni, però, non sono destinate a durare nel tempo. Pertanto il lavoratore
è chiamato a fornire la propria prestazione fin tanto che i caratteri di
urgenza ed eccezionalità perdurano. I casi, che potrebbero richiedere questo
tipo di prestazione sono diversi. Eccone alcuni esempi:
• Intensi livelli di produzione legati a periodi o
stagioni dell’anno;
• Introduzione di nuove tecnologie (nuovi programmi di
gestione aziendale, aggiornamento del software, utilizzo di nuove macchine);
• Lancio di nuovi prodotti;
• Acquisizione di settori diversi;
• Sostituzione del personale, temporaneamente assente
(escluso il personale assente per motivi di sciopero, o perché licenziato
entro i 12 mesi precedenti l’assunzione del lavoratore temporaneo), che ha
diritto alla conservazione del posto (malattia, maternità, aspettativa,
incarichi esterni alla sede dell’azienda).
La professionalità richiesta al lavoratore temporaneo è di
alta qualità e diversa da quelle presenti nell’azienda o nel mercato del
lavoro locale.
Di conseguenza, è escluso il ricorso al lavoro interinale
per i lavoratori, che non possiedono queste caratteristiche.
I diritti del lavoratore temporaneo: sebbene il lavoratore
temporaneo presti la sua professionalità in condizioni diverse da quelle degli
altri impiegati dell’azienda, egli ha comunque diritto ad una serie di
garanzie che il datore di lavoro deve assicurargli.
1. La retribuzione del lavoratore temporaneo è eguale a
quella degli altri dipendenti di pari livello dell’azienda che lo ha
assunto;
2. Le imprese utilizzatrici del lavoro temporaneo sono
chiamate a versare il 5% come contributo al finanziamento delle iniziative di
formazione professionale dei lavoratori temporanei;
3. Le imprese utilizzatrici devono assicurare il
mantenimento dei livelli di sicurezza sul lavoro, secondo la normativa
vigente, anche ai lavoratori temporanei;
I prestatori di lavoro temporaneo hanno diritto alla
fruizione dei servizi sociali e assistenziali di cui godono i dipendenti dell’impresa
utilizzatrice (ad eccezioni di quei servizi che sono legati all’anzianità di
servizio o all’iscrizione ad associazioni e/o società cooperative”
[6];
Sono previste inoltre, altre forme di lavoro atipico; si
pensi che ormai il lavoro a tempo pieno e indeterminato è solo uno tra le 44
tipologie di impiego. Tra le cosiddette forme atipiche si ricordano inoltre la prestazione
d’opera occasionale, cioè una forma contrattuale nella quale il
lavoratore realizza verso un committente un’opera o un servizio, di natura
autonoma e/o libero professionale, senza nessun tipo di vincolo di
subordinazione, e soprattutto in completa autonomia organizzativa ed operativa.
In questo tipo di contratto non è richiesta l’iscrizione all’INPS.
Il contratto di associazione in partecipazione in cui
il collaboratore che lavora, può partecipare come associato agli utili dell’impresa,
dando il proprio apporto lavorativo all’impresa stessa. Lo “stipendio”
ricevuto diventa quindi una sorta di anticipo sugli eventuali utili netti
conseguiti dall’impresa. Va ricordato però che se alla chiusura dell’anno
non vi sono utili d’impresa il lavoratore può trovarsi nella posizione di
dover restituire i compensi avuti.
Vi sono poi i procacciatori d’affari, cioè un tipo
di lavoratore che sostiene, per conto di un’impresa, la vendita dei suoi beni
e servizi ricevendo una provvigione elargita in percentuale di quanto venduto. I
procacciatori d’affari non sono obbligati a versare i contributi
previdenziali.
È previsto, poi, il Job-sharing, ossia il “lavoro
condiviso”, o “lavoro a coppia” o “lavoro a staffetta”, istituisce un
contratto di lavoro subordinato in cui il quale un posto di lavoro viene
condiviso da due lavoratori che si ripartiscono lavoro, orario e turni.
Con il contratto di formazione e lavoro ci si rivolge
ai giovani in età compresa tra i 16 ed i 32 anni; si tratta di un contratto si
dice che in cui coesistono lavoro e formazione, ma soprattutto instabilità e
insicurezza.
In pratica con l’introduzione delle ultime novità
legislative in materia di lavoro, cioè con decreti attuativi della cosiddetta
“Legge Biagi” ci troviamo sempre di più in una situazione in cui è
presente una forte frammentazione del lavoro produttivo, una parcellizzazione
dei ruoli, una situazione in cui vi è una forte responsabilità e rischio per
tutti, anche per coloro che non vorrebbero essere “imprenditore di se stessi”.
Ma i decreti attuativi della cosiddetta “Legge Biagi”
sanciscono definitivamente il passaggio dal diritto del lavoro al lavoro
societario e commerciale, in quanto si tratta il lavoro come una qualsiasi merce
che deve sottostare alle più crudeli regole del mercato selvaggio in uno
scambio fra ineguali.
In questi anni l’occupazione e della stabilità del
rapporto di lavoro continua ad essere il principale problema del nostro Paese,
altro che vanto il fatto che l’Italia sia diventato il paese più flessibile d’Europa.
La disciplina rigida è sostituita ormai dalla “flessibilità” d’impresa
che si sviluppa in modo disordinato, segmentato e senza regole, tagliando il
costo del lavoro e le garanzie. [7]
Al voluto intenso, traumatico sviluppo in chiave di efficienza aziendalistica
dei lavori atipici non ha corrisposto una altrettanto rapida legislazione, in
quanto si è in presenza di una difficoltà, sicuramente voluta, nella
collocazione e monitoraggio del lavoro atipico; anzi con vari decreti attuativi
si è causata una drammatica e violenta destrutturazione del lavoro, nella forma
e nella sostanza dell’incremento di sfruttamento. Il rischio molto più alto
di incidenti sul lavoro e di malattie professionali per i lavoratori atipici non
è tutelato in modo sufficiente.
5. Ancora alcuni dati [8]
Va considerato che in 10 anni il lavoro atipico sul totale del lavoro
dipendente e’ passato da una percentuale del 9,1% del 1993 ad una del 16,2%
del 2002 [9].
Le donne rappresentano la percentuale più alta di lavoro
atipico (63,4%).
L’incidenza del lavoro atipico sul lavoro dipendente per
area geografica nel 1993 e nel 2002: Nord-Ovest 7,4%, 14,5%; Nord-Est 10,4%,
18,6%; Centro 8,2%, 14,9%; Sud e isole 11,1%, 17,1% [10].
A gennaio del 2002, l’indice grezzo degli occupati alle
dipendenze delle grandi imprese nell’industria [11] è stato dell’84,6%, mentre quello
degli occupati alle dipendenze delle grandi imprese nei servizi è
risultato del 95,9% al lordo e al 95,8% al netto dei dipendenti.
Analizziamo poi i dipendenti per sesso, età, ripartizione
geografica e settore.
La stessa analisi è interessante per il lavoro a tempo
parziale
Ed è interessante anche analizzare l’indagine svolta dal
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sul Monitoraggio delle politiche
occupazionali e del lavoro, nell’Allegato statistico dell’aprile 2003
riportato e rielaborato nelle tabelle seguenti. Le tabelle mostrano per l’anno
2002 il tasso di occupazione di disoccupazione e l’incidenza del lavoro
atipico distinto sia per regione sia per sesso.
6. I dati del 2003
Se si analizza la rilevazione trimestrale dell’ISTAT del
luglio 2003 si rileva che il numero di occupati a luglio 2003 è di 22.215.000
unità. Si è avuto un ulteriore calo degli occupati nell’agricoltura e uno
sviluppo minimo nell’industria. Il Nord ha registrato un aumento maggiore di
occupati rispetto al Sud. Sempre secondo la rilevazione effettuata dall’ISTAT
il tasso di disoccupazione è stato dell’8,3 % rispetto all’8,7 % del luglio
2002. (Cfr. Tabb.seguenti)
Nel mese di aprile 2003, rispetto allo stesso periodo dell’anno
precedente, si è avuta una crescita di 300.000 unità lavorative ( 1,4 %);
questo aumento si è avuto pur in presenza di una minima crescita economica; il
reddito infatti è cresciuto solo dello 0,8 per cento. Questo potrebbe avere
significati diversi: basti pensare che l’occupazione “buona” è diminuita
(infatti se si lavora di più senza che aumenti il reddito può significare che
l’occupazione è sovrastimata). Il tasso di disoccupazione è sceso ad aprile
dal 9,2% dello scorso anno nello stesso mese all’8,9%. Questo dato non deve
però far intendere di essere in presenza di una reale diminuzione della
disoccupazione perché la “flessibilità” porta ad una misurazione degli
occupati molto “strana” in quanto vengono considerati come occupati anche
coloro che in realtà lavorano solo poche ore a settimana. A ciò va aggiunto il
fatto che la “nuova occupazione” ha coinvolto soprattutto il Centro-Nord e
non ha toccato quasi per niente il Mezzogiorno (lo 0,1 per cento.)
Se si analizzano gli occupati suddivisi per classi di età
risulta che nel Mezzogiorno i disoccupati nella fascia di età tra i 15 e i 24
è di circa il 50 per cento e nella fascia di età compresa tra i 25 ed i 34
anni, il tasso di disoccupazione è del 25 %; invece nella fascia di età
superiore il tasso di disoccupazione è intorno al 13%.
Se si analizza il lavoro part-time va rilevato che nel
Centro-Nord interessa il 9% degli occupati mentre nel Mezzogiorno arriva al 7%.
Nel mese di luglio 2003 l’ISTAT ha rilevato un
rallentamento del movimento occupazionale con una crescita dell’occupazione
femminile lievemente superiore a quella maschile (si parla di un +1,5% e di uno
+0,8%). Il settore agricolo continua ad avere meno occupati e anche l’industria
rileva uno sviluppo minimo mentre continuano a crescere i servizi. Il lavoro
dipendente è cresciuto dell’1,1% mentre il lavoro atipico (ossia a tempo
determinato o a tempo parziale) è cresciuto dell’+1,8%.
Per le tabelle seguenti si è consultato il Notiziario
Trimestrale del CNEL n.4 dell’ottobre 2003
Dalle tabelle si nota come, analizzando gli occupati in
complesso, la percentuale degli occupati a tempo parziale in Italia sia
diminuita da luglio 2002 a luglio 2003 (passando dall’8,7 al 6,6%); i dati
dell’occupazione temporanea tra gli occupati dipendenti si mantiene invece a
luglio 2003 come nel luglio 2002 al 10,5%.
Se si guarda il Centro-Nord i dati mostrano che la
percentuale degli occupati a tempo parziale sono aumentati dal 9,2 al 9,6 (ci si
riferisce sempre agli occupati in complesso e si confrontano i mesi luglio 2002
e luglio 2003); un aumento si registra anche nell’occupazione temporanea (si
passa dall’8,7% al 9,1%).
Nel Mezzogiorno invece i dati sono diversi perché il lavoro
parziale scende da una percentuale del 7,6% sul totale ad una del 6,7%; una
diminuzione si riscontra anche nell’occupazione temporanea che scende dal
15,2% al 14%.
Dai grafici seguenti si evince che mentre il trend dell’occupazione
permanente risulta essere abbastanza costante avendo solo una leggera crescita,
l’occupazione temporanea alterna dei periodi di crescita (anche se misurata) a
periodi di calo.
Anche dal grafico si evince che l’occupazione part-time è
in crescita al Centro-Nord mentre è in diminuzione nel Mezzogiorno.
Questi dati mostrano che il lavoro temporaneo cresce dove è
meno diffuso (cioè nel centro-nord) mentre diminuisce dove è più diffuso
(ossia nel Mezzogiorno).
7. Conclusioni
Il sistema economico fordista era indirizzato ad un azione
pubblica rivolta sia al sostegno della domanda aggregata sia all’ampliamento
degli interventi di welfare. Nell’attuale società postfordista, vi è l’esigenza
per i lavoratori del più alto livello formativo possibile; oltre ciò la
crescente atipicità e precarietà dei rapporti di lavoro richiede un
miglioramento degli istituti di tipo generale oltre che una più attenta
dinamica della contrattazione sindacale.
Inoltre considerato che nell’attuale società postfordista
si sono accentuate le disparità sociali vanno ancora più garantite le
coperture sociali di bisogni sempre più pressanti quali la salute, la pensione,
il reddito sociale garantito, ecc. Il postfordismo invece ha porta al declino
del welfare e dei salari; si riaffacciano forme di lavoro servili simili alla
schiavitù, determinati spesso su basi etniche.
In questo contesto la generalizzazione e globalizzazione del
capitalismo selvaggio hanno accentuato “l’incremento dei movimenti
internazionali della popolazione. Essi riflettono gli squilibri economici e
demografici tra i paesi del Sud e del nord del mondo: i primi con tassi di
incremento demografico superiori al 65% e i secondi con tassi inferiori al 10%.
I movimenti avvengono in un quadro di sostanziale chiusura delle frontiere, per
cui una quota significativa di immigrati lavora in condizioni di informalità.
Ma quest’ultimo dato va visto anche in rapporto ai più generali processi di
informalizzazione dell’economia, a loro volta legati ai fenomeni di
deindustrializzazione, di decentramento produttivo e di terziarizzazione dell’economia
...la flessibilizzazionee la crescente eterogeneità delle forme di lavoro
dipendente mettono in discussione il quadro normativo esistente, fatto di
protezioni forti a favore dei lavoratori dipendenti con contratti a tempo
indeterminato nelle imprese medie e grandi (i cosiddetti insiders), mentre non
emergono proposte capaci di consentire una grande varietà di esperienze
lavorative differenti accompagnate a garanzie di sicurezza e di servizi
garantiti a tutti i residenti come diritti di cittadinanza” [12].
E se si analizza la disoccupazione e in particolare quella
femminile si può ancora dire “ Si parla di flessibilità e lavoro atipico
come carta vincente per combattere la disoccupazione femminile. Ma, non è
così, non solo per i motivi sopra elencati.
Attraverso il ricorso a queste forme contrattuali, le donne
continuano ad essere una presenza evanescente nel mercato occupazionale, lontana
dai luoghi di decisione e dalle “alte sfere”. All’interno di una famiglia,
la donna è colei che più frequentemente ricorre al lavoro atipico per poter
dedicare più tempo al lavoro di cura (figli, marito e anziani), sminuendo così
la propria capacità professionale, rinunciando alle proprie aspirazioni,
riducendo il proprio contributo economico e di conseguenza la propria
indipendenza. Insomma, nella nostra società, la flessibilità piuttosto che
favorire l’occupazione femminile, rafforza la divisione dei ruoli secondo l’appartenenza
di genere e continua ad allontanare le donne dalla “sfera pubblica”, perché
svolgano a tempo pieno il “lavoro” di mamma e moglie.
Un controsenso questo anche più evidente se si considera che
le donne italiane sono più istruite e più competenti, sono anche più
disoccupate ed assenti quasi in totale dai luoghi decisionali. Per concludere,
ben venga la possibilità di lavorare in modo diverso....purché di lavoro si
tratti! [13]
Le nuove forme del lavoro sono precarie, senza garanzia
istituzionale e protezione sociale; ci troviamo in una situazione in cui il
disagio del lavoro cresce e nel quale la rappresentanza non risponde in modo
efficace alle esigenze sempre più pressanti.
A ciò si aggiunge la quasi del tutto assente
sindacalizzazione dei nuovi lavoratori che necessitano di essere rappresentati e
di avere tutele contrattuali in una nuova frontiera di un sindacalismo
conflittuale di base che opera oltre che sui posti di lavoro nel sociale e nel
territorio e che ha fino ad oggi lavorato sulle contrattazioni collettive. Il
sindacato si trova a dover fare i conti con nuove figure di lavoratori che
devono essere rappresentati e difesi. I sindacati concertativi per la quasi
totalità hanno avallato e voluto un progetto consociativo che si è risolto
come un gran regalo alla Confindustria, ai governi di centro-sinistra prima e di
destra poi; i sindacati consociativi sono certo responsabili di aver appoggiato
l’attuazione del progetto ideologico del padronato e governativo che ha
introdotto i nuovi rapporti di lavoro, uno più precario dell’altro
distruggendo la libertà e la dignità del lavoratore.
In conclusione le novità del mondo del lavoro, la sua
trasformazione rendono sempre più rilevanti e fondamentali la realizzazione
delle lotte per i diritti, per la dignità, per i contratti di lavoro e
soprattutto per la qualità del lavoro oltre che naturalmente per lo sviluppo
della solidarietà internazionale e di classe.
[1] Il Codice Civile prevede due tipi di
attività lavorative: rapporto di lavoro subordinato o rapporto di lavoro
autonomo. Nel caso del lavoratore subordinato sarà considerato prestatore di
lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa,
lavorando alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. Nel caso del
lavoratore autonomo vi sarà un contratto d’opera in cui una persona di
obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro
prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del
committente; di solito questo tipo di lavoratore è detentore di partita IVA con
pagamento a fattura.
È chiaro che gli imprenditori sono sempre più spesso
portati ad utilizzare questa seconda tipologia di lavoratori perché costano
meno (non hanno oneri previdenziali, di maternità, malattia ecc.) e sono
utilizzabili solo nel caso di necessità effettiva.
[2] Cfr. Decreto Legislativo del 10 settembre 2003 n.276.
[3] Decreto Legislativo del 10
settembre 2003 n.276
[4] Decreto
Legislativo del 10 settembre 2003 n.276
[5] Decreto
Legislativo del 10 settembre 2003 n.276
[6] Cfr. http://www.italiadonna.it/public/percorsi/13009/13009003.htm
[7] È importante fare una distinzione tra
flessibilità dell’occupazione e flessibilità del lavoro; infatti “Flessibilizzare
un’occupazione significa, in sintesi renderne variabili le caratteristiche: i
tempi di lavoro che ad essa sono associati, i luoghi e le condizioni del suo
esercizio, i suoi elementi statutari e giuridici. “Flessibilizzare” il
lavoro e, per contro, assicurare che l’attività umana specifica (cioè il
fattore produttivo lavoro) divenga malleabile ed adattabile alle diverse
congiunture della produzione. La conseguenza immediata della flessibilità dell’occupazione
è la messa in discussione degli elementi di garanzia e di sicurezza che la
caratterizzano. Al contrario flessibilizzare il lavoro non comporta in sé,
alcuna conseguenza di questo tipo... la flessibilità del lavoro e dell’occupazione
è quindi un concetto contraddittorio e sfaccettato, le cui conseguenze non sono
univoche, né socialmente, né economicamente.” Cfr. J. C. Barbier, H.Nadel, La
flessibilità del lavoro e dell’occupazione, Donzelli Editore, 2002,
Roma,pag.17.
[8] Per approfondimenti consultare in particolare “Le
rilevazioni trimestrali” pubblicate dall’Istat.
[9] La definizione dell’ISTAT (2001) di lavoro atipico avviene
attraverso quattro variabili:
1) il tempo della prestazione (se è temporaneo o permanente)
2) il tempo di lavoro (durata, se è lavoro a tempo pieno o part-time)
3) la presenza di diritti previdenziali (se presenti e in che misura)
4) il tipo di atipicità ossia se si tratta di contratti di
lavoro atipico per intero o di contratti parzialmente atipici.
[10] ANSAweb - ROMA, 18 MAR 03
[11] Per approfondimenti
consultare il documento “Scenari di sviluppo delle economie locali”
pubblicato sul sito www.istat.it.
[12] Cfr.
Mingione E, Pugliese E., Il lavoro; Carocci editore,Roma, marzo 2002, pag.131 e
135.
[13] http://www.italiadonna.it/public/percorsi/13009/13009007.htm