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Osservatorio meridionale

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Mauro Fotia
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Professore di Sociologia Politica. Fac. Scienze statistiche nell’Università di Roma “La Sapienza”

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La cultura politica meridionale

Mauro Fotia

Dal clientelismo trasformistico di Giolitti al doroteismo subliminale di Berlusconi

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Una delle tante verifiche storiche di ciò si ha nel fatto che quando nel novembre 1969 il correntone doroteo si scinde, dando vita ad Iniziativa Popolare di Rumor e Piccoli e ad Impegno Democratico di Andreotti e Colombo, Andreotti si reca a Palermo, dove era già sceso alla vigilia delle elezioni del 19 aprile 1968. Quivi il contesto è chiaro: sono in auge i fanfaniani guidati da Giovanni Gioia parlamentare e da Salvo Lima sindaco. L’emarginazione del primo e l’acquisizione alla corrente appena formata del secondo, assai più saldamente legato agli ambienti mafiosi e padrone di un consistente pacchetto di voti, rappresenteranno per Andreotti uno dei fattori principali dell’affermazione della corrente stessa [i].

Un ruolo particolarmente significativo nella gestione dorotea della società e della politica meridionali, peraltro, viene svolto da leader, che pure, nel momento in cui giungono alla guida della Dc, sembrano con sincero convincimento perseguire una nuova identità politica e culturale ad elevato profilo morale e con più forte motivazione sociale, come sono Moro e De Mita.

Tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà dei Sessanta, e cioè, nella stagione che porta a maturazione l’esperienza del centro-sinistra, Moro, che di questa sarà uno dei più convinti ispiratori e realizzatori, appare altresì come colui che prepara ed anticipa la concezione e la pratica dorotea della politica. È pur vero che il gruppo doroteo vero e proprio, nasce dalla rivolta contro Fanfani, nel momento in cui la sua occupazione dei principali apparati dello Stato e degli enti pubblici ed economici, operata in nome della razionalizzazione del potere e della sua emancipazione dalle pressioni di taluni settori della gerarchia cattolica, risulta già consolidata. Ma il 14 marzo 1959, vale a dire, il giorno dopo la costituzione in corrente degli uomini della rivolta, segretario del partito, in sostituzione di Fanfani viene eletto Moro, con il vincolo, tra l’altro, di appoggiare il governo Segni, che, pur sorretto dai voti liberali, monarchici e missini, dovrebbe proseguire nell’attuazione del programma del precedente governo Fanfani: programma tra i cui punti caratterizzanti vi sono obiettivi di grande portata e significato, come l’attuazione dell’ordinamento regionale, il varo di una legge sindacale, la disciplina del referendum.

Oltretutto, non va dimenticato che la sconfitta di Fanfani deve farsi risalire alle preoccupazioni che fra molti leader democristiani desta la sua politica conflittuale con la Confindustria, nel perseguimento del progetto di sviluppare l’autonomia del partito, irrobustendo l’iniziativa dell’industria pubblica e, in particolare, appoggiando l’azione del presidente dell’Eni Enrico Mattei. Nè va sottovalutata l’irritazione dei nuovi notabili meridionali del partito, i quali, pur essendo stati immessi nel potere dalla gestione fanfaniana, non tollerano l’intromissione e la forte mano dirigistica del segretario nazionale.

Moro esordisce, dunque, all’insegna del trasformismo e sotto questa insegna prosegue, in particolare, coi governi di centro-sinistra da lui presieduti, finendo col dare vita a quella forma raffinata di doroteismo, che va sotto il nome appunto di moroteismo. Fornisce, in altre parole, ai dorotei “classici” più alti e articolati moduli operativi che solo la sua intelligenza può concepire ed elaborare.

Questi trovano la loro premessa teorica in una concezione dello Stato che ha una palese ispirazione meridionalistica. Lo Stato, scrive Moro è “...uno nato dal molteplice e che nel molteplice ancora si risolve, in quanto del tutto coerente all’essenza...della vita sociale...” [1]. Il Mezzogiorno è parte di questo molteplice che va ricondotto all’unità dello Stato; è, cioè, un assieme di problemi e di interessi particolari da integrare in uno Stato uno, ma al contempo plurale, come mostra la sua articolazione in autonomie locali. “Va sottolineata, dice sempre Moro, l’analogia che esiste fra le comunità locali e la realtà del Mezzogiorno; in tutti e due i casi si tratta di comunità particolari e di interessi particolari, che naturalmente si inseriscono nella comunità nazionale e nello Stato democratico. Come le comunità particolari fanno da sé tutto quello che possono per integrarsi nella più vasta comunità nazionale, così la comunità meridionale storicamente definita utilizza le proprie energie per la sua elevazione, ma conta per questo nell’impegno unitario e responsabile dello Stato democratico” [2].

Continuare dunque a pensare il Mezzogiorno soltanto come espressione di squilibri economici, da risolvere con gli schemi mutuati dalle teoriche delle aree depresse (che pure, sino alla metà degli anni Cinquanta, costituiscono il patrimonio più rilevante della Dc) è riduttivo e distorcente.

Ciò, d’altro canto, comporta: 1) l’ammissione che il processo integrativo del Mezzogiorno nello Stato diviene più completo quanto più è rapida e forte l’espansione dell’economia nazionale; 2) il mantenimento e la valorizzazione dei connotati capitalistici di tale espansione, pur guidata dal ruolo interventista e ridistributivo dello Stato; 3) l’abbandono della concezione del partito quale istituzione idonea a rappresentare gli interessi generali della società e a proporsi esso stesso come nuovo modello di Stato; 4) la sostituzione della centralità del partito con la centralità dello Stato; 5) la consapevolezza che quest’ultima tuttavia non implica la disomogeneità del partito rispetto agli orientamenti e alle scelte statuali e che, alla fine, è ad esso che bisogna garantire la possibilità di gestire i flussi di risorse erogati dallo Stato [i].

Il che altro non significa che far rientrare dalla finestra quell’identificazione tra Stato e partito che era uscita dalla porta, e che sta all’origine di tutte le pratiche spartitorie, clientelari, trasformistiche caratterizzanti la vecchia società meridionale che si vorrebbe cambiare e modernizzare.

Da una tale ottica, comunque, appare essenziale accelerare il processo di ricambio dei gruppi dirigenti democristiani e preparare quell’assunzione della guida dei centri e dei meccanismi, soprattutto locali, di direzione e controllo sociale, nonché del ruolo mediativo nella distribuzione delle risorse fra centro e periferia.

Laboratorio di sperimentazione di questa visione politica è la Puglia. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta e per molto tempo in avanti, morotei sono, ad esempio, non soltanto il segretario provinciale della Dc di Bari, presidente altresì della Coldiretti e il segretario provinciale di Taranto, poi presidente dell’Asi, ma anche il presidente della Regione, alla guida della prima giunta di centro - sinistra, già sindaco di Bari, e il presidente dell’acquedotto pugliese.

La proposta morotea si annoda attorno alla formula del centro-sinistra e rappresenta come una scommessa per un effettivo spostamento dell’iniziativa politica su un terreno di autentico riformismo. Ma tale formula non supera i limiti di una democrazia bloccata, annoso problema della politica italiana, né amplia gli spazi della partecipazione. Non avendo, in più, affrontato seriamente il problema della programmazione,va incontro al fallimento del cosiddetto “piano a componente meridionalistica” e alla conseguente capillarizzazione nelle regioni del Sud delle spinte assistenzialistiche e clientelari [/i].

È questo il quadro nel quale si collocano i parametri politici generali dell’azione morotea e le sue negative conseguenze testè accennate. Ad esse vanno aggiunte la mortificazione del ruolo politico e progettuale delle federazioni provinciali, con ovvi riflessi anche negli altri partiti del centro-sinistra,in particolare nel Psi, che avvia nel Mezzogiorno, come, peraltro, nel resto d’Italia, quel processo pervasivo di malcostume e di corruzione che lo travolgerà.

Ulteriori processi di adattamento e di mimetizzazione trasformistica conosciuti dalle regioni meridionali sono quelli avviati negli anni Ottanta dalla lunga segreteria politica (1982-1989) di De Mita. Inizialmente non gradito alle grandi famiglie industriali, il leader della sinistra Dc viene in seguito accettato, sulla base di talune garanzie di fondo fornite in ordine alla prosecuzione della politica moderata praticata sino allora dalla Dc ed al rispetto della pregiudiziale conventio ad excludendum nei confronti del Pci. La sua elezione vede così allineati i dorotei dell’uscente segretario Piccoli - il quale peraltro viene collocato alla presidenza del partito -, gli andreottiani, un gruppo di seguaci di Fanfani e la cosiddetta “area Zaccagnini” [i]. Realizza, in altri termini, una ridislocazione delle alleanze classicamente trasformistica.

Con questa premessa, i propositi di rinnovamento del partito, in rispondenza ai mutamenti sociali e culturali subiti dal Paese ed alla ricomposizione del mondo cattolico intorno alla Dc avvenuta dopo la sconfitta subita nel referendum sull’aborto, non possono essere che di breve durata. Non appena il leader della “Base” manifesta le sue prime intenzioni nel merito, i notabili dorotei meridionali dispiegano una tenace resistenza, sotto la leadership di Antonio Gava, il quale, ingombrante e disinvolto, si avvale della copertura derivantegli dall’essere alleato della prima ora, per dispiegare un’azione tendente, in un primo tempo, a condizionare pesantemente l’azione del segretario e successivamente a rovesciarlo, perpetuando così il dominio doroteo in Campania e nell’intero Mezzogiorno. “Che cosa dire?”, esclama in quegli anni, il deputato democristiano Ugo Grippo, commissario presso la federazione Dc di Napoli. “Che mi ritrovo dopo anni di lavoro, con Gava vero e proprio proconsole in Campania. Lui ministro e noi rinnovatori (...). Mi pare, ormai ci sia poco da fare; le correnti si riorganizzano, i vecchi gruppi si ritrovano, è tutto uno sferragliar d’armi in vista del congresso. Quella che voi chiamate “corrente del Golfo”, quella di Gava (...) appunto, è già fortissima. Forse tanto da condizionare persino il segretario”. Del resto, già nel 1980, all’indomani dell’assassinio del presidente della Regione siciliana Sante Mattarella, prestigioso sostenitore della politica demitiana, Andreotti incontra i boss di Cosa Nostra Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo.

I limiti più profondi dell’azione politica demitiana provengono tuttavia da più lontano, sono intrinseci, anzi, alla stessa impostazione ideale e programmatica che vi sta dietro. In una serata di presentazione della candidatura alla segreteria, nel corso della quale, presenti uomini vicini alla Fiat e ad altri grandi gruppi industriali, viene fuori il problema del taglio della scala mobile, De Mita superando le tergiversazioni di coloro i quali temono d’essere classificati di destra, dichiara con accento deciso: “ Se per salvare il Paese bisogna essere di destra, ebbene, dobbiamo essere pronti ad andare a destra” [/i]. Così la segreteria De Mita si schiera a favore della posizione della Confindustria che denuncia l’accordo sulla scala mobile, manifesta il suo appoggio al piano di riduzione del costo del lavoro, si pronuncia a sostegno della tesi della necessità di ridurre l’intervento pubblico, senza suggerire alternative convincenti. Il suo progetto sociale, dopotutto, si ispira ad un moderno conservatorismo medioborghese [3].

Ma v’è di più. Il partito viene posto nelle mani di una oligarchia dal piglio decisionista ed intollerante. In un momento in cui vengono toccati i punti più alti della corruzione politica con l’intensificazione della pratica delle tangenti, della concussione, dell’estorsione, dei ricatti, della concessione in uso abitativo con canoni irrisori di immobili urbani di pregio a dirigenti partitici e sindacali, a ministri e parlamentari, a giornalisti e magistrati di tutti gli schieramenti politici, la segreteria De Mita, in conflitto con i suoi propositi iniziali di arrestare il trend della laicizzazione del partito e di riaccostarlo ai valori e alle istanze del mondo cattolico, scagliona nelle regioni del Sud, in particolare in Irpinia, in Calabria ed in Sicilia un drappello di dirigenti ambiziosi e spregiudicati, cui affida la guida delle segreterie provinciali e regionali del partito e il governo delle amministrazioni regionali e comunali. Al contempo, insedia la sua partnership di corrente, ovvero i suoi uomini più fidati, ai vertici degli enti di Stato dei settori forti dell’economia pubblica e delle reti finanziarie private. Ricalca e sottolinea, insomma, le vecchie pratiche lottizzatorie, aggiungendovi, nel quadro di una degenerazione partitocratrica divenuta ormai inarrestabile, un paradossale principio di legittimazione, per il quale il privilegiamento nella lottizzazione inter e intrapartitica non soltanto del partito egemone, ma anche delle sue correnti che riescono ad eleggere il segretario politico pone il fondamento per una responsabilità maggiore nella conduzione degli enti pubblici e privati assegnati dai partiti. E tanto fa, si badi, in un quadro programmatico che pone alla sua base il radicale assetto politico e morale del partito da perseguire attraverso a) l’abolizione delle correnti, b) la lotta alla corruzione.

In conclusione, se il moroteismo, con il suo spessore dottrinale e ideologico, la sua impegnata riflessione sulla questione meridionale, la consapevolezza delle sue incoerenze e dei suoi limiti, risulta una forma superiore di doroteismo, il trasformismo del leader della “Base”, invece, o demitismo, appesantito com’è oltretutto, dal coinvolgimento di numerosi suoi esponenti di prima linea in processi per corruzione o per mafia o per facile ingiustificata fruizione di privilegi di ogni genere, rivela un volto rozzo ed è accompagnato da un rigoglio di presunzione che non ha precedenti nella storia del partito.

11. Il consociativismo

Ma la punta più alta del divenire trasformistico viene toccata dal Mezzogiorno, in conseguenza dell’esplodere delle sue contraddizioni e del generale deperimento sociale e politico verificatosi a livello nazionale, dopo le elezioni del 1976.

Negli anni che precedono tali consultazioni, nel più ampio quadro dell’eurocomunismo, dentro al quale viene a definirsi la nuova identità occidentale di non pochi partiti comunisti europei, primo fra tutti quello italiano, in seno alle due maggiori soggettività popolari, la Dc e il Pci, matura la convinzione che sia ormai giunto il momento di dar corso alla “terza fase” (come la chiamò Moro) del dinamismo socio-politico del sistema scaturito dalla Costituzione del 1948. Quella rappresentata dal cosiddetto “compromesso storico”, cioè, dall’incontro appunto tra le due soggettività politiche, interpreti delle istanze di costruzione di un nuovo Stato, nella cui moderna funzionalità democratica possa rispecchiarsi una reale apertura alle aspettative dei larghi strati popolari.

Fonda una tale convinzione la graduale accettazione del principio che le ideologie non possono più essere un ostacolo all’unità dei lavoratori e alla collaborazione tra il movimento cattolico, che ne rappresenta, sia pure non classisticamente, una piccola parte e il partito storico della classe operaia. Né la democrazia può essere più assunta come momento di transizione al socialismo, poiché essa è da vedere ormai come un valore permanente da realizzare nel socialismo [4]. Le gravi involuzioni partitocratiche ed il conseguente degrado morale della vita politica costituiscono, poi, un ulteriore stimolo e cemento di questo comune sentire, che da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, prestigiosi leader dei due partiti, con non poca fatica, viene trasmesso ai loro gruppi dirigenti.

Siffatte idee divengono prassi nei governi Andreotti, che si succedono tra il 1976 e il 1979. Nel primo, detto “delle astensioni” o della “non sfiducia”, per la prima volta, nel voto di fiducia ad un governo democristiano, il Pci si astiene. Nel secondo, varato il giorno stesso del rapimento di Moro (massicciamente utilizzato dal “governo invisibile” operante nel Paese, a fini di stabilizzazione) [5], e perciò prontamente trasformato da governo a maggioranza “programmatica parlamentare” in governo di “solidarietà nazionale”, il Pci vota a favore.

Se accettiamo il principio della metodologia politologica, in base al quale solo attraverso la ripetizione dei comportamenti è possibile individuare le costanti, ci accorgiamo subito che, in fondo, tale approdo del Pci è scritto nel suo destino [6].

Per la Dc, invece, la stagione della solidarietà, almeno ufficialmente, rappresenta solo il primo tempo della “terza fase”. Il secondo, nell’interpretazione di uno studioso assai sensibile alle elaborazioni teoriche morotee, qual è Roberto Ruffilli, avrebbe dovuto condurre alla democrazia dell’alternanza tra i due partiti maggiori. Senonchè, Moro non parla mai di alternanza in questo senso.

Il che sospinge a precisare come, già sul piano concettuale, contrariamente a quanto in modo dichiarato o allusivo scrivono taluni politologi [7], la consociazione, così com’è intesa in Italia, si ritrovi solo per alcune componenti nel modello di democrazia consociativa tratteggiato da Arendt Lijphart alla fine degli anni Sessanta. Senza dire che il nuovo modello di “democrazia consensuale” dallo stesso Lijphart proposto in un noto volume del 1984 contiene, come egli stesso precisa, “fondamentali differenze” rispetto al primo [i]. Così pure la consociazione, a meno di violente forzature, peraltro compiute da taluni politologi e giuspubblicisti, non può essere vista come il frutto maturo di una Costituzione, che, in attuazione del sostanziale compromesso di cui è espressione, divide il potere fra una pluralità di istituzioni bilanciate fra di loro e ricollegate alle forze politiche di maggior peso, quale che sia la loro ideologia. Poiché il sistema politico architettato dai costituenti è ispirato ad un ideale di democrazia consensuale nel senso più generale del termine, ma si astiene assolutamente dal definire il tipo o i tipi di consenso che possono essere perseguiti e quelli che devono essere banditi.


[i] G. Galli, Il prezzo della democrazia. La carriera politica di Giulio Andreotii, Kaos, Milano, 2003, pp. 73-93.

[1] A. Moro, Lo Stato 1946-47, Bari, 1978, p. 151.

[2] Idem, Discorso conclusivo al convegno DC sul Mezzogiorno, in G. Di Capua-D. Poli, Il meridionalismo di A. Moro, Roma, 1978.

[i] L. Musella, La difficile costruzione di una identità (1880-1980), in L. Musella - B. Salvemini, (a cura di), La Puglia, Einaudi, Torino, 1998, pp. 239-264.

[/i] Sul punto v. M. Fotia, Il territorio politico, Spazio, Società, Stato nel Mezzogiorno d’Italia, 3ª ed., Esi, Napoli, 1994, pp. 201-223.

[i] G. Galli, I partiti politici italiani 1943-1991. Dalla Resistenza all’Europa integrata, Rizzoli, Milano, 1991, p. 215. Ma si veda ancora S. Vassallo, Il governo di partito in Italia (1943-1993), cit., pp. 240-255.

[/i] “l’Unità”, 5/8/1987.

[3] Cfr. G. Galli, op. cit., p. 224. Ma v. anche J. Chubb, La Democrazia Cristiana: rinascita e sopravvivenza, in P. Corbetta- R Leonardi (a cura di), Politica in Italia. I fatti del giorno e le interpretazioni, edizione 1986, Il Mulino, Bologna, 1986 e A. Giovagnoli, Il Partito italiano. La Democrazia Cristiana dal 1942 al 1994, Laterza, Bari-Roma, 1996.

[4] P. Scoppola, La repubblica del partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Il Mulino, Bologna, 1991, p. 366.

[5] G. Galli, op. cit., p. 188.

[6] G. Galli, Dal bipartitismo imperfetto alla possibile alternativa, Il Mulino, Bologna 1975, pp. 161-162.

[7] Cfr. G. Pasquino, Introduzione a G. Pasquino - A. Martinelli (a cura di), La politica nell’Italia che cambia, Feltrinelli, Milano, 1978; L. Graziano, Compromesso storico e democrazia consociativa verso una nuova democrazia, in L. Graziano - S. Tarow (a cura di), La crisi italiana, Einaudi, Torino, 1979, vol. II; A. Pizzorno, Dopo il consociativismo, “Micromega”, 1995 (secondo Pizzorno DC e Pci si accordarono segretamente per contenere il conflitto e far funzionare il sistema). Singolare sul tema appare la posizione di A. Mastropaolo, La repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquan’anni di democrazia in Italia, La Nuova Italia, Firenze, 1996: dopo aver sostenuto che ciascuno dei due partiti si preoccupò di sopravvivere per proprio conto, consentendo inconsapevolmente al sistema di funzionare, e che la loro contrapposizione diede vita ad “una vera e propria divisione del lavoro” (p. 15), rivelatasi decisiva perché i benefici dello sviluppo fossero ridistribuiti ed estesi, l’a. conclude affermando: “Il consociativismo è stato (...) più mistificazione che pratica” (p. 23).

[i] A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 7.