Siccome le infrastrutture richiedono in genere un’alta
relazione tra capitale costante e capitale variabile, una relazione maggiore
della media, e siccome non vi è nessuna ragione di assumere un tasso medio di
plusvalore sufficientemente alto nel caso che quella relazione sia più bassa
della media, è del tutto improbabile che le politiche keynesiane riescano nel
loro intento di riportare il tasso medio di profitto al suo livello precedente.
Ma anche se vi riuscissero, un aumento dei profitti non si tradurrebbe in un
aumento degli investimenti produttivi (a differenza di quelli speculativi) a
meno che le possibilità di tali investimenti non siano emerse di nuovo, cioè a
meno che non vi sia stata una previa distruzione di capitale. Se l’economia
non è già in una fase di ripresa, l’effetto delle politiche keynesiane non
può che essere temporaneo.
Lo stesso vale se, a causa della situazione economica
sfavorevole dovuta ad un incremento della disoccupazione, i lavoratori aumentano
i loro risparmi. Questa è una caduta della domanda, cioè meno vendite, e
quindi una riduzione dei profitti per lo stesso ammontare. Il tasso medio di
profitto cade. Il valore risparmiato dai lavoratori è appropriato dallo Stato.
Con esso, lo Stato commissiona infrastrutture al capitale privato. Anche qui la
questione è quella della relazione tra capitale costante e capitale variabile
investiti nel settore delle infrastrutture e del tasso di plusvalore medio.
Naturalmente, questa opzione è preferita dal capitale perché sono i lavoratori
piuttosto che i capitalisti ad essere tassati.
Si è detto che lo Stato può appropriarsi del capitale
eccedente. Ciò significa un aggravamento del carico fiscale. Però, un aumento
fiscale potrebbe essere inadatto sia ideologicamente che politicamente durante
una recessione, quando il potere d’acquisto dei cittadini sta già calando.
Quindi, invece di tassare, lo Stato può ricorrere al prestito pubblico, cioè a
spese finanziate dal deficit [1]. Tuttavia, questo è solo un posticipo, non una soluzione, del
problema. Infatti, lo Stato deve o ripagare il debito o diventare inadempiente.
Se lo Stato lo ripaga, ciò può avvenire solo attraverso la tassazione. Se lo
Stato non può ripagarlo, diventa inadempiente e l’effetto finale è lo stesso
come se vi sia stata tassazione. Vi sono, tuttavia, sia vantaggi che svantaggi
per lo Stato. I vantaggi economici sono che lo Stato può effettuare il
pagamento, e quindi si appropria di un valore sia dai capitalisti che dai
lavoratori, in un maggior arco di tempo. Lo Stato spera di poter ripagare quando
la congiuntura è cambiata ed una maggior tassazione è possibile. Inoltre, il
valore ripagato può essere ridotto a causa dell’inflazione e quindi dell’ammontare
del valore reale del debito pubblico. Lo svantaggio è che il debito pubblico
implica il pagamento di interessi.
3. Inefficacia delle politiche keynesiane e loro popolarità
Se le politiche keynesiane sono inefficaci nel riportare il
tasso medio di profitto al suo livello di prima della caduta degli investimenti
e/o della domanda (al massimo possono migliorarlo senza riportarlo a quel
livello), a che cosa devono la loro popolarità? Si potrebbe osservare che un
miglioramento del tasso medio di profitto, anche se lieve, è sempre meglio che
niente. Questo è vero però né i governanti né i governati ragionano in
termini di tasso medio di profitto. La ragione si basa su una importante nozione
implicita in quanto detto più sopra e cioè che le politiche keynesiane possono
aumentare (temporaneamente) il PIL, l’occupazione, e i salari senza essere in
grado di prevenire la caduta del tasso medio di profitto. Incominciamo dal PIL.
Il capitale non usato e i risparmi dei lavoratori corrispondono a forza lavoro e
mezzi di produzione non venduti e quindi inattivi. Questi capitale e risparmi
sono appropriati dallo Stato per finanziare le infrastrutture. Con questo
capitale i produttori di infrastrutture comprano quella forza lavoro e mezzi di
produzione che sono rimasti inattivi [2]. Al limite, tutto il valore
prodotto è realizzato e il PIL sale di nuovo al livello precedente la caduta
della domanda e degli investimenti. Anche l’occupazione sale, a meno che gli
investimenti nelle infrastrutture siano completamente automatizzati (cioè il
capitale variabile è zero) e può risalire al livello di prima della caduta
negli investimenti e/o domanda. Anche i salari crescono nella misura in cui il
capitale impiegato nel settore delle infrastrutture è usato per comparare forza
lavoro. Conclusioni simili sono raggiunte se lo Stato si fa imprestare,
piuttosto che tassare, il capitale non usato e i risparmi dei lavoratori.
Si noti per inciso che alcuni di questi tre indicatori,
occupazione, Pil e salari, possono crescere ed altri cadere. Per esempio,
supponiamo che il settore privato aumenti i propri investimenti di 3 unità
(+2c, +1v). Se il tasso di plusvalore è di 100%, 1v genera 1s e il Pil aumenta
di 4 unità. Se, allo stesso tempo, gli investimenti indotti dallo Stato cadono
(per esempio a causa della paura dell’inflazione) di 2 unità (-0,5c, -1,5v),
l’effetto negativo sul Pil è di 2. In totale il Pil cresce di 4-2=2 e l’occupazione
cala di 1-1,5=-0,5. È quindi possibile che, a causa degli investimenti indotti,
il Pil cresca mentre l’occupazione cade (e lo stesso vale per i salari). È
ugualmente possibile che il Pil cada con una crescente occupazione. per esempio,
supponiamo che il capitale privato diminuisce gli investimenti di 4 unità (-3c,
1v)cosicché il Pil cade di 4 unità mentre lo Stato aumenta i suoi
investimenti di 2 unità (+0,5c, +1,5v). se il tasso di plusvalore è del 100%,
1,5v genera 1,5s e il Pil cresce di 0,5c+1,5v+1,5s=3,5. in totale il Pil
diminuisce di 0,5 unità mentre l’occupazione cresce di +1,5v-1v=+0,5v.
Quindi, inizialmente, come conseguenza delle politiche
keynesiane, il PIL, l’occupazione, e i salari possono salire e addirittura
risalire al loro livello precedente la crisi (cioè al livello precedente la
caduta degli investimenti e/o della domanda) e tuttavia la profittabilità
scende relativamente (cioè non risale) a quel livello perché in genere la
relazione tra capitale costante e capitale variabile nel settore delle
infrastrutture è maggiore della media e perché anche se fosse inferiore non vi
è nessuna garanzia che il tasso medio di plusvalore sarebbe sufficientemente
alto. Un miglioramento (o persino un ritorno al livello precedente) in
termini di PIL, occupazione, e salari può nascondere la marcia dell’economia
verso la depressione e le crisi. Altre cadute della domanda e degli
investimenti, dovuti in ultima istanza alla competizione tecnologica, e quindi
maggiori investimenti indotti dallo Stato, non possono che peggiorare la
profittabilità. Ad un certo punto, il PIL, l’occupazione e i salari
incominciano a cadere e continuano a cadere fino a quando ricomincia la fase
successiva del ciclo, cioè fino a quando il tasso medio di profitto ricomincia
a salire a causa della previa distruzione di capitale eccedente [3]. Tuttavia, per un po’ di tempo, le politiche keynesiane possono
essere usate per “comprare la pace sociale” (un incremento dell’occupazione
e della massa dei salari anche se al di sotto del livello precedente la crisi)
che è lo scopo politico ultimo di tali politiche. Quale di questi indicatori
cresca o cada, dipende dall’interazione delle diverse variabili.
In breve, in pratica, le politiche keynesiane non possono
evitare le crisi. I Keynesiani di sinistra sottolineano fondamentalmente due
limiti di tali politiche. Primo, tanto maggiori sono gli investimentiindotti
dallo Stato e la proprietà di Stato, tanto maggiore è la borghesia di Stato,
tanto maggiore è la resistenza del capitale privato verso un ulteriore
allargamento della borghesia di Stato attraverso le politiche keynesiane. Queste
politiche, quindi, non possono essere usate sufficientemente. Secondo, tanto
più l’economia si avvicina al pieno impiego attraverso le politiche
keynesiane, tanto maggiore diventa il pericolo (per il capitale) di aumenti
salariali. Questo è un altro motivo per cui tali politiche non possono essere
usate in pieno. Questi argomenti sono validi ma non vanno al cuore della
questione. L’essenza della difficoltà delle politiche keynesiane è che le
condizioni a cui tali politiche possono spingere il tasso medio di profitto al
suo livello precedente la crisi, e quindi a cui possono prevenire una sua
caduta, non sono in pratica realizzabili. Come già detto, la relazione tra
capitale costante e capitale variabile nel settore delle infrastrutture è in
genere ad alta intensità di capitale costante e se anche fosse più bassa della
media potrebbe essere insufficiente a generare il plusvalore necessario perché
il tasso di plusvalore potrebbe essere troppo basso. Il tasso medio di profitto
cade nonostante le politiche keynesiane. Il Pil, l’occupazione e i salari
possono aumentare, per un certo tempo, ma, finché questa crescita nasconde una
caduta della profittabilità, i capitalisti non aumenteranno i loro investimenti
e i lavoratori le loro spese, eccetto che a causa di investimenti indotti dallo
Stato. Anche se il tasso medio di profitto crescesse a causa di tali politiche,
finché una quantità sufficiente di capitale non è stata distrutta, gli
investimenti e la spesa privati non sono auto-propulsivi e il miglioramento del
tasso medio di profitto è solo temporaneo.
Per uscire dalla crisi, quindi, la questione non è quella di
rivitalizzare la domanda o di aumentare i salari o l’occupazione attraverso
una ridistribuzione a favore dei lavoratori, come nelle politiche e teoria
Keynesiana. Né si tratta di ridurre la produzione di plusvalore (attraverso la
disoccupazione) ridistribuendo allo stesso tempo questa minore quantità a
favore del capitale (come nelle politiche neo-liberali). Né l’una né l’altra
politica possono far uscire l’economia dalla crisi. Piuttosto, il punto è
se la quantità di capitale distrutto sia sufficiente affinché più valore e
plusvalore possano essere prodotti e se, allo stesso tempo, siano state create
le condizioni per la realizzazione di questa maggiore produzione.
Quanto detto presuppone che le politiche keynesiane attingano
solo al capitale eccedente in mano ai capitalisti e al valore risparmiato dai
lavoratori in quella nazione. A queste condizioni ben difficilmente la
profittabilità può essere riportata al suo livello di prima della crisi.
Ma le politiche keynesiane possono essere finanziate anche da
(plus)valore appropriato da altri paesi. Questo è il caso per quelle nazioni i
cui capitali (1) hanno un vantaggio tecnologico (2) si appropriano di plusvalore
internazionale (sia attraverso lo scambio ineguale derivante da quel vantaggio
sia attraverso il signoraggio, come per gli USA) e (3) possono finanziare le
politiche keynesiane attraverso questa appropriazione. Per loro, il successo
delle politiche keynesiane nel riportare il tasso medio di profitto al livello
di prima della caduta della domanda e degli investimenti (o nel farlo salire ad
un livello superiore) è dato dagli investimenti indotti dallo Stato di
questa appropriazione di plusvalore internazionale. Le politiche keynesiane
realizzano solo un canale per l’investimento di tale plusvalore. Questa non è
un’opzione aperta a quelle nazioni a cui manca capitale eccedente e che sono
soggette alla perdita di valore internazionale sia attraverso lo scambio
diseguale che attraverso altri meccanismi di appropriazione di valore
internazionale. Siccome le politiche keynesiane sono studiate nel contesto dei
paesi dominanti (che non solo generano capitale eccedente ma anche si
appropriano del plusvalore di altri paesi, quelli dominati) come se l’appropriazione
di plusvalore internazionale non esistesse, si pensa erroneamente che tali
politiche possano alzare il tasso medio di profitto al suo livello di prima
della crisi anche nei paesi dominati. L’attribuzione di una (erronea)
validità generale a politiche economiche (le politiche keynesiane) che possono
essere usate solo dai paesi dominanti è una delle spie che rivelano il contenuto
di classe di tale teoria.
4. Il cosiddetto effetto moltiplicatore
A questo punto dobbiamo introdurre il moltiplicatore
Keynesiano. Nella teoria economica Keynesiana, un incremento degli investimenti
iniziale produce un aumento maggiore (anche di alcune volte) della ricchezza e
del reddito. Il rapporto tra l’aumento della ricchezza e reddito da una parte
e l’aumento degli investimenti dall’altro è chiamato il moltiplicatore. Il
meccanismo è raffigurato come segue. Un investimento iniziale si traduce in un
uguale aumento della ricchezza e reddito. Una parte di questo aumento del
reddito è spesa, cioè consumata, e un’altra parte è risparmiata. Questi
maggiori spese e consumi, a loro volta, causano un aumento del reddito e della
ricchezza che conduce ad un altro circuito di consumi e di risparmi. In ciascun
circuito, la ricchezza prodotta e il reddito aumentano, anche se meno del
circuito precedente, dato che, in ciascun circuito, una parte del reddito non è
spesa, non è consumata, ma è risparmiata. Quindi, in questa teoria, il reddito
(e conseguentemente la ricchezza) aumentano a causa di gironi successivi di
spesa nell’assenza di investimenti tranne quello iniziale. Gli effetti
delle politiche keynesiane sul ciclo sono quindi amplificati. Ma tutto ciò è
erroneo.
È vero che un aumento iniziale delle spese può riverberarsi
in tutta l’economia. Ma, nell’assenza di ulteriori investimenti, e quindi
di un aumento della produzione, si possono acquistare soltanto quelle merci che
sono già state prodotte ma non ancora vendute. Le statistiche quindi non
indicano la misura in cui la ricchezza è aumentata (a parte il valore e
plusvalore che sono stati creati dalla prima iniezione di investimenti che, come
abbiamo visto, ben difficilmente può riportare il tasso medio di profitto al
suo livello precedente la crisi). Piuttosto, esse indicano la misura in cui le
merci che giacciono invendute sono state vendute, cioè la misura in cui il
valore precedentemente prodotto e che non era stato realizzato è ora
realizzato. A parte l’investimento iniziale indotto dallo Stato, non vi è
nessun aumento della ricchezza (valore) prodotta ma solo un aumento della
ricchezza (valore) realizzata. Invece di parlare del moltiplicatore
Keynesiano, si dovrebbe parlare della realizzazione (vendita) di merci
(includendo la forza lavoro) nel resto dell’economia in seguito agli
investimenti indotti dallo Stato nel settore delle infrastrutture, in breve di realizzazione
indotta.
La realizzazione indotta introduce un nuovo problema per il
sistema capitalistico. Se solo una parte del capitale eccedente deve essere
investita (tramite le politiche keynesiane) al fine di ritornare ad una
situazione di pieno impiego sia dei mezzi di produzione che della forza lavoro,
un investimento di tutto il capitale eccedente non può che provocare l’inflazione.
Il dilemma è quindi o la parziale utilizzazione del capitale eccedente (cioè
meno che pieno impiego) senza inflazione o piena occupazione con inflazione. Lo
stato di grazia del pieno impiego senza inflazione sfugge a coloro che detengono
le leve del potere economico non perché si commettono errori di valutazione
(che guarda caso sono sempre gli stessi). Esso è semplicemente impossibile.
È naturalmente possibile che la realizzazione indotta
stimoli nuovi investimenti. In questo caso, tuttavia, non si tratta più del
moltiplicatore Keynesiano (che ipotizza solo un investimento iniziale). Ma
tralasciamo questo punto e poniamoci la domanda: questi nuovi investimenti non
potrebbero essere la forza propulsiva di una nuova fase ascendente del ciclo? La
risposta è negativa. Se, a detta dei keynesiani, i ‘sentimenti’, o meglio
le aspettative, cioè la possibilità di profittabilità, sono bassi perché la
ripresa non è ancora incominciata, la realizzazione indotta dall’investimento
iniziale e l’investimento indotto da questa realizzazione possono essere bassi
o persino nulli: poco del maggior reddito generato dall’investimento iniziale
indotto dallo Stato è speso. Se le ‘aspettative’ sono alte, perché la
situazione economica ha già incominciato a migliorare, una quantità maggiore
può essere spesa. In breve, la realizzazione indotta dall’investimento
iniziale e i possibili investimenti indotti da essa hanno (maggior) effetto
quando l’economia si trova in una fase di ripresa (cioè quando sono meno
necessari perché le condizione per la profittabilità nel settore privato sono
già state ristabilite) che nel caso contrario, quando questo effetto è
maggiormente necessario. Tale realizzazione (chiamata erroneamente
moltiplicatore) e investimenti non possono causare la ripresa, essi possono solo
accelerarla dopo che essa è incominciata, cioè dopo che una quantità
sufficiente di capitale come relazioni sociali è stata distrutto.
Quanto detto in questa sezione è necessario per capire non
solo l’inevitabilità delle crisi e l’impotenza delle politiche Keynesiane
ma anche gli effetti delle crisi sui lavoratori. Quest’ultimo punto sarà al
centro della prossima sezione.
[4]
[1] Si noti, tuttavia, che in tempo di crisi
prolungata, i consumatori potrebbero già essere molto indebitati cosicché le
politiche keynesiane basate sul prestito dei risparmi dei lavoratori sono
limitate.
[2] Assumendo che, nel migliore dei casi, i
produttori di infrastrutture comprino esattamente la forza lavoro e mezzi di
produzione che erano rimasti invenduti. Se questo non è il caso, vi saranno
degli scompensi che però sono autocorrettivi.
[3] Durante il New
Deal, le spese statali per uso civile negli USA aumentarono da US$10.2 miliardi
nel 1929 a US$17.5 miliardi nel 1939. Tuttavia, nello stesso periodo, il PIL
cadde da US$104.4 miliardi a US$91.1 miliardi e la disoccupazione aumentò dal
3.2% al 17.2% della forza lavoro totale. Fu solo nel Dicembre del 1941, quando
gli Stati Uniti entrarono in guerra, che l’economia Americana uscì dalla
crisi (Giacchè, 2001, pp. 111-112). Come vedremo più sotto, contrariamente
alle politiche keynesiane, le guerre possono creare le condizioni per un
rilancio dell’economia a causa della massiccia distruzione del capitale come
merci.
[4] Continua nel prossimo numero; la bibliografia di riferimento
è alla fine della seconda sezione nel prossimo numero.