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Trasformazioni sociali e diritto

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Arturo Salerni
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Associazione Progetto Diritti; Membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo

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Rappresentanza sindacale. La legge che non c’è

Arturo Salerni

I percorsi normativi nel pubblico e nel privato

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1. Libertà ed attività sindacale

Ai sensi dell’articolo 39 della Costituzione repubblicana “l’organizzazione sindacale è libera”. L’art. 14 dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n.300) recita: “Il diritto di costituire organizzazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro”. Quindi nessuna forma particolare è prevista per la costituzione di organizzazioni sindacali, siano esse associazioni articolate in un solo posto di lavoro o che riguardino una sola figura professionale, nè sono previste forme particolari per associazioni di lavoratori appartenenti ad una determinata categoria o che siano addirittura inseriti in diversi settori produttivi o lavorativi. Inoltre va ricordato che, aldilà della previsione di alcune forme specifiche di tutela del dirigente delle rappresentanze sindacali aziendali previste dall’art. 22 dello Statuto, l’art. 15 della legge 300/70 considera nullo qualsiasi patto od atto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte. E’ considerato affetto da nullità radicale licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero, o comunque per fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso. L’art. 17 dello Statuto fa inoltre divieto ai datori di lavoro ed alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere associazioni sindacali di lavoro (cosiddetti sindacati di comodo).

2. Repressione

dell’attività antisindacale

Lo Statuto dei Lavoratori prevede all’art. 28 uno speciale procedimento mirante alla repressione della condotta antisindacale. Infatti qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale o del diritto di sciopero è possibile chiedere al Pretore di dichiarare l’antisindacalità del comportamento e di ordinare con decreto al datore di lavoro la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti di esso. Tale speciale procedura giudiziale può essere esperita soltanto dagli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali. Quindi, il ricorso previsto dall’art. 28 non può essere proposto dal rappresentante sindacale aziendale ma deve essere proposto dal rappresentante locale (regionale, provinciale, cittadino) dell’organizzazione sindacale (si intende qui generalmente l’organizzazione di categoria). Tale organizzazione deve però possedere il requisito della nazionalità (e non necessariamente della maggiore rappresentatività), cioè deve essere diretta a svolgere la propria attività in gran parte del territorio nazionale. Qualora il datore di lavoro non ottemperi all’ordine del Pretore può essere avviato nei suoi confronti procedimento penale.

La legge 146/90 (ovvero la legge sull’esercizio del diritto di sciopero) ha esteso l’applicabilità della procedura di repressione della condotta antisindacale a tutte le amministrazioni pubbliche. Questa legge ha attribuito la competenza a conoscere la questione al Pretore, nel caso in cui sia leso il diritto della sola organizzazione sindacale (ad esempio mancata concessione del locale per lo svolgimento dell’attività sindacale) ed al Tribunale Amministrativo Regionale qualora si intenda rimuovere il comportamento antisindacale lesivo, oltre che delle prerogative del sindacato, anche di situazioni giuridiche soggettive inerenti al rapporto di pubblico impiego (si pensi al trasferimento per motivi sindacali del dirigente sindacale). La competenza del T.A.R., peraltro, viene oggi messa in discussione dallo spostamento di competenze in materia di pubblico impiego dal giudice amministrativo al Pretore del Lavoro.

3. Associazione e diritti sindacali

Ma nonostante tale espressa indicazione normativa, ed innanzitutto costituzionale, che garantisce ad ogni associazione sindacale la possibilità di esistere, di svolgere attività di proselitismo dentro e fuori i posti di lavoro, di aprire e condurre vertenze, di promuovere azioni di sciopero (salvo i rilevantissimi limiti posti nell’ambito dei servizi pubblici dalla legge 146/90, di cui ci occuperemo in un futuro numero della rivista), non tutte le associazioni hanno gli stessi diritti.

Le regole dettate per il riconoscimento dei diritti sindacali variano a seconda che ci si trovi nel settore privato (o regolato da norme di tipo privatistico) o che ci si muova nell’ambito del pubblico impiego.

4. L’art. 19 dello Statuto dei lavoratori

Il titolo III della legge 300 del 1970 riconosce - nell’ambito del settore privato - la titolarità di alcuni diritti (assemblea, referendum, tutela dei dirigenti sindacali, permessi, affissioni, locali per lo svolgimento delle attività sindacali) alle rappresentanze sindacali aziendali. Prima dello svolgimento dei referendum abrogativi del giugno 1995, ai sensi dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, rappresentanze sindacali aziendali potevano essere costituite, in ogni unità produttiva, “a) nell’ambito di associazioni sindacali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” o “b) nell’ambito delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva”.

La giurisprudenza di merito (Pretori e Tribunali) e di legittimità (Corte di Cassazione) aveva, sotto la variegata spinta delle diverse aggregazioni nate nel mondo del lavoro a partire dalla fine degli anni settanta intorno alla “rottura del monopolio della rappresentanza sindacale”, enucleato nel tempo alcuni criteri per individuare quali fossero da considerare le confederazioni sindacali dotate del requisito della maggiore rappresentatività sul piano nazionale. Tali criteri venivano rintracciati nel numero degli aderenti, nella diffusione a livello territoriale, nella diffusione intercategoriale, nella capacità di autotutela (e cioè di promuovere iniziative di lotta e di partecipare alla contrattazione collettiva). I criteri ritenuti più probanti dalla giurisprudenza largamente prevalente erano quelli della diffusione territoriale e categoriale.

La giurisprudenza affermava ormai concordemente che il termine “maggiormente rappresentativo” non doveva implicare in alcun modo un giudizio di comparazione tra le diverse organizzazioni sindacali. Per fare un esempio: negli ultimi anni, ed anche nel periodo a cavallo dei referendum del 1995, diverse pronunzie dei Pretori e dei Tribunali del lavoro (in aggiunta ad un decreto del Ministro della Funzione Pubblica) riconoscevano il requisito della maggiore rappresentatività sul piano nazionale in capo alla Confederazione Unitaria di Base, una confederazione relativamente giovane, con diverse decine di migliaia di iscritti, presente soprattutto nel pubblico impiego, nel settore dei trasporti e nel settore metalmeccanico, confederazione che ha messo insieme le forze di diverse organizzazioni di categoria ed intercategoriali (tra le quali le Rappresentanze Sindacali di Base e la F.L.M.U.), e che è attiva su gran parte del territorio nazionale.