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L’analisi-inchiesta

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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“The Federal Business Revolution”
Rita Martufi, Luciano Vasapollo

 

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“The Federal Business Revolution”

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Parte Seconda. Dal Terzo Settore al "Welfare dei Miserabili": gli altri strumenti della Grande Riforma della P.A.

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"La maggiore responsabilità a cui i singoli e gruppi sono chiamati non solo convive con, ma richiede maggiori libertà e, dunque, un Welfare delle opportunità, ma anche un Welfare delle libertà... Libertà strumentali (quantità di libertà per fare ciò che si vuole), libertà come valore intrinseco, libertà come autonomia e integrità della persona, libertà politiche. Molto di più e di meglio della difesa liberale classica che ha sempre finito col concepire la libertà come mera libertà di scelta nel mercato". [1]

La globalizzazione con la conseguente competitività sempre più radicale delle imprese rende sempre meno favorevole il rapporto tra occupazione e concorrenza del mercato; diventa quindi necessario strutturare un "nuovo Welfare" che sia in grado di trovare la soluzione ai problemi che l’ormai tradizionale Stato sociale non è più in grado di risolvere.

La situazione odierna rende, quindi, sempre più necessario l’adattamento dello Stato del benessere alle nuove esigenze; si tratta di cambiare l’attuale sistema con un nuovo e moderno Welfare capace di redistribuire ricchezza facendo fronte ai nuovi diritti di cittadinanza e non impostando uno Stato sociale di tipo residuale che si interessa solo delle fasce più povere e che si fa carico delle prestazioni minime per i più bisognosi, quello che a suo tempo, appunto, abbiamo definito "Welfare dei miserabili".

 

1.2. Alcuni dati sul Welfare

 

L’analisi del PIL pro-capite nei primi anni ’90 evidenzia come l’area centro-europea sia quella più ricca ed omogenea (ci si riferisce a paesi come la Germania, l’Austria, l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo e la Francia); anche l’area scandinava (Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia) si pone al di sopra della media europea, pur con qualche eccezione (ad es. La Finlandia). I paesi dell’area anglosassone (Regno Unito e Irlanda), invece, si pongono leggermente al di sotto della media europea. Vi è poi l’area sud-europea (Spagna, Portogallo, Grecia) che presenta un livello di ricchezza pro-capite molto al di sotto della media europea (di ben 12 punti percentuali); l’unica eccezione è rappresentata dall’Italia che presenta un indice superiore a quello della media europea.

Se, invece, si prende in esame la spesa pubblica (i dati si riferiscono ad uno degli ultimi anni in cui sono disponibili a livello omogeneo europeo, cioè il 1995) si può rilevare che i paesi appartenenti all’area anglosassone (Regno Unito e Irlanda) presentano dei valori percentuali sul PIL inferiori alla media europea (che è del 48,5%) rispettivamente con il 41,2% e il 40,9%; i paesi appartenenti all’area scendinava invece (es. Svezia, Danimarca, Finlandia) presentano valori molto al di sopra della media europea (rispettivamente il 65,1%, il 58,2% e il 50,6%). Tra i paesi appartenenti all’area continentale e mediterranea, con l’eccezione della Germania e del Lussemburgo che sono al di sotto della media europea di circa un punto percentuale, gli altri paesi dell’Europa centrale (Austria, Francia, Belgio, ecc.) hanno uno scarto positivo di circa due punti percentuali. Infine, i paesi dell’area mediterranea presentano valori inferiori alla media europea di circa 2 punti percentuali (Portogallo e Spagna); l’Italia raggiunge invece quasi la media europea con un valore del 48,2%.

Se si analizza invece la quota di PIL che i paesi destinano alla protezione sociale (sempre riferendosi all’anno 1995) si vede ad esempio che l’Italia presenta un valore inferiore a quello della media europea del 3,5%. Infatti a fronte di un valore medio dei dodici paesi allora appartenenti all’UE, del 28,1%, l’Italia registrava un livello della spesa sociale nel suo complesso pari al 24,6%, e la situazione del 2001 non si è modificata molto in termini percentuali. Anche il Portogallo e la Spagna registravano valori al di sotto della media europea (rispettivamente con il 20,7% e il 21,9%). I paesi appartenenti, invece, all’area scandinava, anglosassone e continentale (con l’eccezione dell’Irlanda e del Lussemburgo) presentano valori superiori alla media europea.

Se consideriamo le voci principali del Welfare, ossia malattia, invalidità e infortuni, vecchiaia e superstiti, maternità e famiglia, collocamento e disoccupazione, alloggio e spese relative all’esclusione sociale, si evidenzia come queste prestazioni assorbano la quasi totalità delle spese sociali con valori che vanno da un minimo dell’88,9% in Portogallo fino al massimo del 97,2% in Danimarca.

Se si analizza, poi, la spesa sociale globale, si evince che per il Belgio si è verificata dal 1990 un’alternanza di incrementi e decrementi; per l’Italia il decremento è uniforme dal 1992 in poi; anche per la Finlandia si è verificata un’alternanza di incrementi e decrementi anche se gli scarti tra i dati sono minori rispetto a quelli del Belgio; per i restanti paesi si è verificata costantemente una tendenza alla restrizione delle spese sociali e all’abbattimento del Welfare anche tramite intense politiche di privatizzazione dei servizi di prestazione sociale.

Va ricordato che le prestazioni sociali sono i trasferimenti in denaro o in natura effettuati dai regimi di protezione sociale a favore delle famiglie e dei singoli individui e finalizzati a permettere loro di far fronte a determinati eventi o di soddisfare particolari bisogni (associati alla vecchiaia, alla malattia, alla maternità e alla famiglia, all’invalidità, alla disoccupazione ecc.). I dati, però, sono eterogenei a causa delle diverse disposizioni nazionali. Tra i paesi che, ad esempio per gli assegni familiari, più contribuiscono a tale prestazione sociale c’è il Belgio con 65 ecu mensili per un figlio, 190 per due figli e 380 per tre figli; il Lussemburgo con 80 ecu mensili per un figlio, 235 per due figli e 425 per tre figli; la Finlandia con 92 ecu mensili per un figlio, 205 per due figli e 340 per tre figli; invece tra i paesi che contribuiscono di meno troviamo il Portogallo con 15 ecu mensili per un figlio, 25 per due figli, 40 per tre figli; la Spagna con 20 ecu mensili per un figlio, 35 per due figli e 55 per tre figli; la Grecia con 7 ecu mensili per un figlio, 15 per due figli e 40 per tre figli; l’Italia si colloca nella fascia medio-bassa. Per quanto concerne l’indennità di maternità va rilevato che confrontando i dati si trova un certo equilibrio tra i vari paesi, fatta eccezione per la Svezia che congeda le donne dopo il parto per ben 64 settimane; mediamente (tenendo conto che il dato della Svezia è un dato anomalo) i periodi di congedo sono 6,33 settimane prima del parto e 19,73 settimane dopo il parto. Va anche considerata l’indennità fornita durante il congedo di maternità; a questo proposito i paesi che mantengono invariata l’indennità di maternità rispetto alla retribuzione sono la Germania, la Danimarca, la Spagna, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, l’Austria e il Portogallo; per l’Italia l’indennità è dell’80%, per il Belgio è dell’82%, per la Grecia è del 50%, per la Francia è dell’84%, per l’Irlanda è del 70%, per la Finlandia è del 65%, per la Svezia è dell’80% e per il Regno Unito è del 90%. Ed ancora, sempre in riferimento all’anno 1995, nei paesi presi in considerazione, si rileva che la funzione vecchiaia e superstiti è la prima componente per importanza (in Belgio rappresenta l’11,8% in percentuale del PIL, in Danimarca il 12,5%, in Italia il 15,4%, in Olanda l’11,2%, in Spagna il 13%, ecc.).

Va sottolineato che il capitolo pensioni risulta essere molto delicato e oggetto di particolare attenzione da parte dei diversi organismi finanziari internazionali (OCSE,FMI, ecc.), tant’è che ogni volta che si discute dei piani di sviluppo dell’economia dell’area dell’euro, si pone l’accento sui tagli pensionistici e sulla riforma strutturale della spesa pensionistica, con l’unico obiettivo di accelerare i processi di privatizzazione a partire dal consolidamento dei Fondi Pensione privati. Negli anni ’90 in tutti i paesi dell’Unione Europea è infatti in atto un forte e continuo ridimensionamento della spesa previdenziale pubblica (a tal proposito si confronti: R. Martufi, L.Vasapollo, “Le pensioni a fondo”, Mediaprint, Roma, 2000).

Tra le prestazioni sociali assume un ruolo fondamentale anche la spesa sanitaria, poiché considerando che la sanità è uno degli aspetti più importanti per valutare il grado di sviluppo di un paese si ricorda che è grazie all’analisi della spesa sanitaria pubblica che si riesce a capire quanto un paese rivolge la sua politica verso il sociale [2].

Ricordando che i dati si riferiscono sempre al 1995, si rileva che la Spagna, la Grecia, il Lussemburgo ed il Portogallo sono i paesi che hanno incrementato di più la spesa sanitaria totale pro capite (cioè la somma della spesa pubblica e privata) nei primi anni ’90; tuttavia la Grecia è ancora lontana dai livelli degli altri paesi. Oltre la Germania anche il nostro Paese, la Francia e i Paesi Bassi presentano dati elevati anche relativamente alla quota del PIL destinata alla spesa sanitaria totale. Ricordando che la media dei paesi europei è il 7,62%, i dati evidenziano che la Francia risulta essere il paese che destina la quota più elevata del PIL alla spesa sanitaria totale (9,6% nel 1996); l’Italia e la Germania presentano quote sensibilmente più basse (7,6% e 7,5% rispettivamente nel 1996) della Francia ed entrambi i paesi, dopo aver aumentato tali quote nella prima metà degli anni novanta (con punte dell’8,6% nel 1993 per l’Italia e del 9,3% nel 1992 per la Germania), hanno subito un calo negli anni successivi tagliando fortemente sulla spesa sanitaria pubblica. Dati inferiori alla media sono quelli della Grecia e della Danimarca (5,9% e 6,4% rispettivamente nel 1996); dati superiori alla media sono quelli dell’Austria e dei Paesi Bassi (8,2% nel 1996 per la prima, 8,8% nel 1995 per la seconda).

Infine, si ricorda, che le spese per la disoccupazione raggiungono il massimo valore in Danimarca (il 4,9% in percentuale del PIL) ed il valore minimo in Italia (lo 0,5%), dove analizzando l’andamento del rapporto spesa sociale / PIL si evidenzia che le risorse destinate alla collettività (sanitarie, previdenziali e assistenziali) si sono mantenute tra il 18% e il 25% rispetto alle risorse prodotte in Italia e si sono stabilizzate fortemente al ribasso a partire dal 1990.

Nel 1995 la media EUR 12 ed EUR15 della spesa per prestazioni sociali sul PIL è di poco superiore al 28%, con l’Italia al 24,6%, con percentuali molto basse di Irlanda, Portogallo, Grecia e Spagna e con percentuali superiori al 30% di Francia, Olanda, Finlandia, Danimarca, Svezia. Questa tendenza, anche se diversificata, alla contrazione della spesa per protezione sociale si accompagna in tutti i paesi dell’UE a dinamiche occupazionali sempre molto inferiori alle variazioni percentuali del PIL. Tali differenze fra variazioni percentuali medie del PIL e dell’occupazione già significative negli anni ’90, anche perché nel periodo ’91 / ’97 la variazione percentuale media dell’occupazione assume in molti paesi valori negativi (Belgio, Danimarca, Germania, Francia, Portogallo, e in maniera più accentuata Italia e Svezia). Nonostante ciò, ad esempio, nel decennio 1985-1995 i livelli di spesa per il mercato del lavoro in percentuale del totale delle prestazioni sociali sono fortemente diminuiti in molti paesi dell’Unione Europea, si pensi, ad esempio, alla Spagna che passa dal 19,1% del 1985 al 14,3% del 1995, al Regno Unito che passa dal 10,8% al 5,9%, all’Olanda dall’11,6% al 10,1% (tutti paesi dove le statistiche ufficiali segnalano aumenti occupazionali senza evidenziare la flessibilità e precarietà del lavoro e i tagli, appunto, alle prestazioni sociali per il lavoro); infine, in Italia il già bassissimo livello di spesa per il mercato del lavoro con il 3,4% del 1985, passa alla metà (1,7%) nel 1990, per attestarsi al 2,2% nel 1995.


[1] L. Pennacchi, "Lo Stato sociale...", op. cit., pag. 145, 145.

[2] La spesa sanitaria totale comprende la spesa per l’assistenza sanitaria e le altre spese del settore (ad es., amministrazione e investimenti). La spesa sanitaria pubblica si riferisce all’assistenza prestata presso strutture di proprietà sia pubblica sia privata, finanziata dalle Amministrazioni centrali e locali, dagli enti preposti all’assistenza sanitaria e dagli istituti di assicurazione sociale.