Contratto di lavoro, regimi di proprietà e governo dell’accumulazione: verso una teoria generale del capitalismo (II)
Ernesto Screpanti
Questo saggio viene presentato in due parti; la prima qui di seguito, mentre la seconda parte sarà pubblicata sul prossimo numero di Proteo |
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Alienazione, feticismo e ideologia del lavoro-merce [1]
“L’economia politica - scrive Marx nei Manoscritti
economico-filosofici (1968, p.196) - occulta l’alienazione che è nell’essenza
del lavoro per questo: che essa non considera l’immediato rapporto fra l’operaio
(il lavoro) e la produzione”. Esiste un’ideologia che domina il pensiero
economico moderno sin dai tempi di Adam Smith e da cui non è andato esente
nemmeno il pensiero socialista: l’ideologia del lavoro-merce. [2] È basata sull’idea che il
lavoratore sia un soggetto dotato di un “capitale umano”, una determinata
capacità lavorativa, del quale possa vendere dei flussi in cambio di un reddito
che se ne configura come il prezzo. Tale deformazione ideologica viene
perpetrata in virtù di una confusione teorica cui si è già accennato, quella
del contratto di lavoro col contratto di compravendita di una merce; o meglio,
in forza del tentativo di interpretare il contratto di lavoro come una forma
complessa e incompleta del contratto d’opera o del contratto di mandato. Come
se ne spiega la potenza e la pervasività?
Per capire l’ideologia del lavoro-merce bisogna capire l’alienazione
del lavoro. E per capire l’alienazione bisogna partire dal significato
giuridico del concetto: alienazione come atto di trasferimento di un diritto a
titolo oneroso. Ma solo se si riflette sul fatto che col contratto di lavoro il
lavoratore vende, non una merce, bensì la propria libertà, si può capire
anche il senso in cui quel termine viene usato nelle scienze sociali e nel
linguaggio politico. Alienazione nel lavoro vuol dire perdita della libertà.
E vuol dire innanzitutto che il prodotto del lavoro, l’oggetto
dell’attività lavorativa, sorge di fronte al lavoratore come una potenza da
lui indipendente. Dunque vuol dire “espropriazione”: non tanto che il
prodotto del lavoro diventa un oggetto, quanto che si presenta al lavoratore
come un’entità che è a lui estranea, indipendente da lui, e insomma che essa
non è cosa sua, e appartiene a un altro. Ciò accade perché, visto che col
contratto di lavoro il capitalista acquista la prerogativa del comando sull’attività
del lavoratore, questa diventa nel processo lavorativo una manifestazione della
sua volontà. L’attività lavorativa, che è azione fisica e mentale del
lavoratore, si trasforma in azione economica del datore di lavoro. I prodotti da
essa creati appartengono dunque a quest’ultimo, non al lavoratore.
Ma come potrebbe il lavoratore rapportarsi come un estraneo
al prodotto della propria attività, se non fosse estraniato da se stesso
proprio nell’attività? Il prodotto non è che il risultato dell’azione
lavorativa. E se si presenta anche come risultato dell’espropriazione del
lavoro, ciò accade solo perché la stessa attività lavorativa è
espropriazione, espropriazione in atto. Dal punto di vista del datore di lavoro
l’attività lavorativa è una sua proprietà. Dal punto di vista del
lavoratore, reciprocamente, è proprietà di un estraneo. Così alienazione vuol
dire anche “estraniazione dall’attività lavorativa”. Nel processo
produttivo in cui il lavoratore entra in forza di un contratto di lavoro l’attività
lavorativa stessa non gli appartiene: in essa egli non svolge alcuna libera
energia, non prende alcuna libera decisione. La sua attività non è volontaria,
è forzata, è lavoro costrittivo, ed egli è propriamente in sé, è sé
stesso, soltanto al di fuori del lavoro. In questo senso alienazione significa
che il lavoratore si rapporta alla propria attività come a un’attività non
libera, un’attività svolta sotto il comando, la costrizione e il giogo di un
altro soggetto. Lavoro salariato vuol dire lavoro alienato. E se non piace Marx,
lo si dirà ancora con le parole di Cicerone (1962, p. 266): “sordida è l’occupazione
in cui si trovano gli operai, poiché nulla di veramente libero si può trovare
in un opificio”.
L’arcano del contratto di lavoro risiede nel fatto che esso
induce il lavoratore a sentirsi diverso da ciò che è. Ed è un arcano che
sorge da una sorta di contraddizione esistenziale, poiché il lavoratore entra
in un contratto di lavoro liberamente, come soggetto autonomo e dotato di
completa capacità decisionale. Si verifica l’apparente assurdità di
un soggetto che rinuncia liberamente alla propria libertà. Che fare per
sostenere il peso di questa vergogna? La via d’uscita più semplice è di
abolire, nella coscienza del fatto, uno dei due corni del dilemma. Ed è forse
un’inalienabile aspirazione alla dignità umana che induce il lavoratore ad
abolire quello più vergognoso: poiché si sente un essere umano, vuole
considerarsi libero. Dunque per lui il proprio lavoro deve essere una
manifestazione di libertà. Egli ha accettato il contratto liberamente e, per
non sentirsi servo di un altro, sia pure solo pro tempore, si convince di
aver venduto alla controparte, non un certo numero di ore della propria
libertà, della propria vita, ma soltanto una merce. Il soggetto che gli si
contrappone, ovviamente, che si sente tutto meno che uno schiavista - e anzi,
come datore di lavoro, si sente un benefattore dell’umanità - non ha nulla da
ridire su quella convinzione. È così che si instaura il luogo comune, e dunque
l’ideologia, del lavoro-merce. Deve essere chiaro però che le radici di
questa ideologia affondano nella falsa coscienza dei lavoratori. È sui prodotti
di questa falsa coscienza che lavoreranno poi gli economisti.
Nella elaborazione dell’ideologia del lavoro-merce i
soggetti economici sono aiutati dal fatto che lo stesso prodotto del lavoro, il
risultato della produzione, si presenta come merce. Ebbene se le merci vengono
prodotte per mezzo di merci, allora l’attività di produrre merci può
apparire naturalmente come una merce essa stessa. È il carattere di merce del
prodotto del lavoro che consente quel salto mortale della coscienza mediante cui
il lavoratore allontana da sé la consapevolezza della propria alienazione. Esso
rende possibile trasformare un’alienazione reale in una estraniazione della
coscienza, in un allontanamento della coscienza da sé stessa.
Si è prima accennato all’apparente assurdità di una
libera rinuncia alla libertà. In realtà non c’è nulla di strano nell’essere
liberi al tavolo delle trattative e soggiogati in fabbrica. L’apparenza di
quella stranezza è prodotta dalla difficoltà della coscienza umana di vivere
come normale la propria divisione. Cosicché è solo per allontanare da sé l’infelicità
di una coscienza divisa che sorge la fuga del lavoratore nella falsa coscienza
del lavoro-merce.
È interessante notare che l’estraniazione della coscienza
con cui il lavoratore cerca di fronteggiare la propria condizione di alienazione
sta alla base di una forma particolare di feticismo, cioè delfeticismo del
lavoro considerato come merce. Il rapporto sociale che si costituisce col
contratto di lavoro è un rapporto di potere, ma per non essere percepito come
tale dal lavoratore, cioè come condizione della perdita della libertà, viene
interpretato come un rapporto di scambio di merci. Il lavoratore crede di
instaurare un rapporto da pari a pari con il datore di lavoro, almeno
giuridicamente, proprio in quanto crede di vendergli solo una merce; ma in tal
modo giunge a percepire la relazione sociale che così genera come una relazione
tra cose, tra merci, invece che come un rapporto tra uomini.
Accade di peggio però. Poiché la “merce” lavoro che
sembra essere fatta oggetto di scambio si configura come l’uso di un flusso di
attività nel tempo, essa appare originare da uno stock, un fondo di
valori d’uso, cioè di capacità di lavoro usabili produttivamente, che assume
il significato di un bene capitale. Da qui origina il concetto di “capitale
umano”. Marx usava l’espressione “capacità lavorative” per definire
questa grandezza.
Nasce su tale base una particolare forma di feticismo che si
potrebbe propriamente definire “feticismo del capitale”. Poiché crede di
vendere un flusso di merce-lavoro, e poiché crede che questo scaturisce da un
fondo di “capitale umano”, il lavoratore si convince di essere proprietario
di tale bene, di un capitale, e anche per questa via arriva a credere che non
esiste nessuna differenza sociale sostanziale tra lui e il datore di lavoro:
entrambi sono capitalisti; e si scambiano flussi di merci, salario e
forza-lavoro, il valore dei quali dipende dall’investimento che entrambi, come
proprietari, hanno fatto nel proprio capitale.
Ma se è una finzione giuridica e un inganno ideologico il
concetto di “lavoro-merce”, di lavoro come merce, ancor più lo è quello di
“capitale umano”, di capacità lavorativa come capitale. Infatti il corpo
del lavoratore, “il cervello, i muscoli e i nervi”, non può essere fatto
oggetto di proprietà in un sistema sociale che proibisce la schiavitù. Ce lo
spiega bene Commons (1981, p. 364):
In questa nuova definizione di lavoro come proprietà e
libertà non è ben chiaro che cosa si intenda con ‘lavoro’. Non sta ad
indicare, evidentemente, il corpo di chi lavora. In un significato molto
impreciso il corpo è proprietà, dal momento che era di questo genere la
proprietà di chi possedeva schiavi. Però non è possibile, giuridicamente,
trasferire la proprietà del proprio corpo, né esso può essere venduto: quindi
non è un bene economico e non ha alcun valore di scambio [...] Ma il lavoratore
non può nemmeno vendere l’uso del proprio corpo [...] Quello che egli vende,
perciò, è la disponibilità ad usare le sue facoltà in maniera conforme ad
uno scopo che gli è stato indicato: vende la sua promessa di obbedire a degli
ordini.
Il feticismo del capitale è la radice di ogni ideologia
capitalistica del rapporto di lavoro e, oserei dire, dell’essenza umana. Il
“capitale umano” è la vera e propria ontologia dell’essere sociale dal
punto di vista del capitale. In un sistema sociale in cui le fondamentali
relazioni sociali tra persone assumono la forma di relazioni tra stock di
capitale, la stessa concezione della libertà personale, la postulazione dell’esistenza
di persone dotate di diritti inalienabili di libertà, assume la forma della
definizione di un rapporto di proprietà, e precisamente di un rapporto di
proprietà in cui l’individuo si trova con se stesso. Da qui nasce il concetto
di “proprietà di se stessi” come fondamento della libertà. Ecco come la
mette Genovesi (1977, I, pp. 12-3):
Chiamo qui diritto la facoltà morale di servirci liberamente
di quel che ci appartiene in proprietà. Questa facoltà, dataci da Dio
naturalmente, costituisce i nostri diritti primitivi; per conoscere i quali
ragioneremo così. Noi siamo di quella natura forniti, e di quelle forze, che
sopra si è veduto [cioè d’ingegno e di corpo]. E benché le une e le altre
siano in molte maniere modificabili e variabili, pur nondimeno non si possono da
noi separare. Ora tutto quel che appartiene alla mia natura, e che non è da me
separabile, è così mio per natura, che non potrebbe essere d’altrui senza
che due persone fossero la medesima; dunque è in mia naturale proprietà; e
perciò è di mio diritto naturale.
Così sembra che si abbiano dei diritti in quanto si ha una
proprietà, dei diritti di libertà in quanto si ha la proprietà di se stessi.
Ma la proprietà di se stessi è un’impossibilità giuridica in un sistema in
cui gli individui sono dotati di inalienabili diritti di libertà.
Infatti, se nessuno può possedere un’altra persona, nessuna persona può
essere venduta o acquistata. Perciò nessuno può vendere se stesso o il proprio
“capitale umano”. Però una proprietà che è limitata dal divieto di
vendita non è una proprietà vera e propria. Al più è un possesso.
Ora, un lavoratore ha il diritto di usare se stesso come
vuole e, in un sistema capitalistico, ha il diritto di vendere l’uso di se
stesso, appunto assumendo un obbligo all’obbedienza con un contratto di
lavoro. Ma non ha il diritto di vendere se stesso. Non c’è nulla nel proprio
stato patrimoniale che possa essere considerato propriamente un “capitale”
umano. Ma l’ideologia capitalistica del lavoro-merce lo convince proprio del
contrario, nello stesso modo in cui lo convince che è dotato di diritti di
libertà in quanto è dotato di proprietà di se stesso. Lo convince del fatto
che la relazione di comando-subordinazione che instaura con il datore di lavoro
è una relazione di scambio di merci, e uno scambio tra individui uguali e
ugualmente liberi. Uguali perché sono entrambi capitalisti, lavoratore e datore
di lavoro. Liberi perché ciò che è venduto non è un certo numero di ore di
libertà, ma una semplice merce.
Tuttavia per la stessa ragione per cui è contraddittorio
fondare un diritto inalienabile di libertà sulla proprietà di un bene non
alienabile, cioè di un bene che non si ha il diritto di vendere, è
contraddittoria anche l’ideologia del lavoro come flusso di merci e delle
capacità lavorative come fondo di ricchezza economica. Con il feticismo del
capitale il lavoratore si convince di essere un capitalista proprio come il suo
datore di lavoro, in quanto è dotato di diritti di libertà proprio come lui.
Ma se il concetto di “proprietà di se stessi” è contraddittorio, quello di
“capitale umano” è il prodotto di una falsa coscienza.
E l’economia politica, nell’elevare tale prodotto della
falsa coscienza a categoria teorica, non fa che il proprio mestiere: dare
dignità di scienza alle forme dei luoghi comuni. Per dirlo con le parole di
Marx (1964, I, 108): “Tali forme costituiscono appunto le categorie dell’economia
borghese. Sono forme di pensiero socialmente valide, quindi oggettive, per i
rapporti di produzione di questo modo di produzione sociale storicamente
determinato, della produzione di merci”. Ma sia chiaro che si tratta di un’oggettività
di “forme di pensiero”, di un’oggettività dei prodotti della coscienza. E
tuttavia un’oggettività che produce effetti oggettivi, ad esempio il
pagamento di diritti d’autore sulle opere dell’ingegno, o il pagamento di
salari differenziati per lavoratori di diversa qualificazione. Il feticismo del
capitale pertiene a “esseri umani le cui capacità sono oggettificate”
(Ashton e Green, 1996, p.18), o meglio, a esseri umani le cui capacità sono
assimilate a un’attività patrimoniale.
[1] La prima parte di
questo paragrafo è ispirata alla sezione dei Manoscritti
economico-filosofici (Marx, 1968) dedicata al lavoro alienato, ed è
anzi scritta per ampie parafrasi di quel testo. Ma l’interpretazione della
teoria dell’alienazione qui proposta non è del tutto canonica, così come non
lo è quella della teoria del feticismo avanzata nella seconda parte del
paragrafo.
[2] Marx stesso
restò almeno in parte prigioniero dell’ideologia del lavoro merce, non
riuscendo a cogliere la differenza sostanziale che c’è tra un contratto di
lavoro e un contratto di compravendita di una merce; e benché avesse sempre
avuto ben chiaro in mente che “il salario viene determinato attraverso
la lotta ostile fra capitalista e lavoratore” (1968, p. 155), tuttavia ha
sempre continuato, sulla scia di Smith e Ricardo, a usare la metafora del
mercato per dar conto della determinazione del salario. Marx aveva capito che il
“lavoro” non è una merce e che non ha senso parlare di “scambio di lavoro”.
Tuttavia avendo posto la “forma-merce” alla base dell’analisi del capitale
e il lavoro alla base dell’analisi del processo di valorizzazione, si trovò
poi costretto a introdurre il concetto di “forza-lavoro” per dar conto del
rapporto di lavoro come basato sulla compravendita di una merce: il
lavoratore vende la forza-lavoro e ne riceve in cambio il salario, che è il suo
valore di scambio; il capitalista acquista il valore d’uso della forza-lavoro,
che consiste nella capacita di creare valore.